2000 d.C.
Il senso di una data attesa
L'inizio del terzo millennio dell'era cristiana
di Pietro Dominici
1° gennaio 2000
Il passaggio dall'anno 1999 all'anno 2000 è stato salutato in tutto il mondo con festeggiamenti spettacolari, come se il 1° gennaio 2000 coincidesse con l'inizio di una nuova era. In realtà, la vistosa sostituzione del 2000 al 1900 nella denominazione degli anni correnti ha portato ad attribuire a questo passaggio una valenza differente da quella effettivamente indicata dalla cronologia storica, secondo la quale l'inizio del 3° millennio e, insieme, del 21° secolo dell'era cristiana cade nel 2001.
Le ere cronologiche
La cronologia storica è la disciplina della scienza storica che si occupa di dare agli anni una connotazione che consenta di riconoscerli singolarmente nel loro susseguirsi con il trascorrere del tempo. I vari tipi con cui questa connotazione si presenta si possono ridurre sostanzialmente a due: la connotazione simbolica e quella numerica. La prima associa ogni anno a un personaggio (detto con termine greco eponimo), come usò, per es., presso i greci e i romani, ove dava il suo nome all'anno in corso un importante sacerdote (per es., ad Argo la sacerdotessa principale di Era) oppure, più spesso, chi governava la città o lo Stato (gli arconti ad Atene, gli efori o i re a Sparta, i due consoli a Roma), oppure a un ente (per es., un animale, un dio oppure un concetto, quale 'pace', 'giustizia' e simili). La connotazione numerica, invece, associa ogni anno semplicemente a un numero di una serie ordinata.
In un caso e nell'altro gli anni, con il passare del tempo, vengono a costituire una loro serie ordinata che si chiama normalmente era cronologica (se la durata è relativamente piccola, si parla anche di ciclo cronologico o di periodo cronologico); ogni era, a sua volta, prende una sua denominazione, che in genere deriva dall'avvenimento che ha caratterizzato l'anno con cui essa è iniziata o in cui è stata istituita (anno iniziale o anno primo dell'era): per es., la fondazione della città eponima di uno Stato (come nell'era ab Urbe condita dei romani, dalla fondazione di Roma), l'assunzione al trono di un regnante (era di principato), la nomina di un papa (era di pontificato). In qualche caso l'anno iniziale ha carattere mitico e non storico, e allora, quando si può, lo si precisa mediante un raccordo convenzionale con un'altra era meglio definita. È questo, per es., il caso dell'appena citata fondazione di Roma, che a partire dal 6° secolo d.C. fu datata in via puramente convenzionale al 21 aprile dell'anno 753 a.C. Carattere convenzionale ha anche la data dell'anno iniziale dell'era attualmente di uso generale, cosiddetta era cristiana, cioè dell'anno della nascita di Gesù Cristo.
Altri esempi di ere con inizio convenzionale sono le varie ere del mondo, computate a partire dall'anno in cui, nell'ambito di una certa mitologia o anche di una certa religione, si pensa che sia stato creato il mondo. Tra esse, sono state in uso fino a tempi recenti o lo sono tuttora l'era bizantina o era greca (Bisanzio, 7°-15° secolo; in uso nella Chiesa ortodossa russa ancora nel 18° secolo), con la creazione del mondo posta nell'anno 5508 a.C., e l'era ebraica, in uso documentato presso gli ebrei almeno dal 9° secolo d.C. (attualmente impiegata soltanto nell'ambito religioso), con la creazione del mondo nel 3760 a.C.
Il problema dell'attendibilità dell'anno 1° non si pone, naturalmente, per le ere recenti, tra le quali ricordiamo l'era della Repubblica francese, a partire dal 22 settembre 1792, giorno da cui ebbe inizio il governo della Convenzione nazionale (nella quale furono modificati anche i mesi dell'anno, sia come nome sia come giorno iniziale), abolita poi da Napoleone il 31 dicembre 1802, e l'era fascista, obbligatoria in Italia dal 29 ottobre 1927 al 25 luglio 1943 (alla fine di aprile 1945 nel territorio della Repubblica sociale italiana), che ebbe come suo anno 1° quello che va dal 28 ottobre 1922, data della cosiddetta Marcia su Roma dei fascisti, al 27 ottobre 1923.
In nessuna era figura un anno zero (da ricordare, per inciso, che il concetto aritmetico di zero come assenza era del tutto sconosciuto agli antichi; in particolare, ai popoli del Mediterraneo esso arrivò soltanto nel 12°-14° secolo, portatovi dagli arabi, che lo avevano mutuato dagli indiani); poiché secolo e millennio significano, rispettivamente, periodo di cento anni e periodo di mille anni, il 1° secolo e il 1° millennio di un'era comprendono, rispettivamente, i cento anni da 1 a 100 e i mille anni da 1 a 1000 - sempre partendo dall'avvenimento iniziale come anno 1° ed estremi compresi -, il 2° secolo e il 2° millennio gli anni da 101 a 200 e da 1001 a 2000 e così via: in particolare, il 20° secolo include gli anni da 1901 a 2000, sempre estremi compresi. Vale la pena di osservare che i termini Novecento e simili non si identificano con i secoli corrispondenti: il Novecento ha compreso gli anni che avevano in comune il componente denominativo 'millenovecento' e quindi i 100 anni dal 1900 al 1999, che, chiaramente, non coincidono con gli appena ricordati anni del 20° secolo. In conclusione, il 20° secolo include l'anno 2000 e si conclude con esso, il quale, analogamente, conclude il 2° millennio.
Quando è caduto l'anno 1° della vigente era cristiana?
Si è accennato poco sopra alla convenzionalità, per non dire miticità, dell'anno iniziale dell'era cristiana, ossia dell'anno della nascita di Gesù Cristo: si badi bene che ci riferiamo soltanto alla data, e non alla storicità del fondatore del cristianesimo.
I riferimenti storici principali per la data della nascita di Gesù sono stati individuati e accettati concordemente dagli storici, anche non cristiani, in passi dei Vangeli cosiddetti sinottici (Luca, Marco e Matteo), mentre altri riferimenti - compreso uno, assai noto, dello storico giudeo Flavio Giuseppe (37-100) - sono ritenuti tarde interpolazioni cristiane. Da questi passi si deduce che la nascita di Gesù avvenne al tempo di un censimento ordinato da Augusto ed effettuato nel 6 a.C. dal suo funzionario Publio Sulpicio Quirinio, che poi divenne legato di Giudea nel 6 d.C. (data che ha indotto notevole confusione, in quanto all'incirca in quel periodo si svolse un altro censimento in Giudea); la strage degli innocenti, ordinata poco dopo la nascita di Gesù dal re dei Giudei Erode (che morì nel 4 a.C.) riguardava i bambini da due anni in giù, e quindi sposta la nascita al 4-6 a.C.; nel ricevere il battesimo da Giovanni Battista, che iniziò a predicare nel 14° anno dell'imperatore Tiberio (agosto 28-agosto 29 d.C.), Gesù, come precisa Luca, aveva circa 30 anni, il che portebbe la sua nascita a prima, anche se di non molto, del 3-2 a.C.; aveva circa 33 anni quando subì il processo e il martirio essendo legato della Giudea Ponzio Pilato, che tenne questa carica tra il 26 e il 36 d.C. Questi dati, e altri di minore rilevanza, hanno indotto gli studiosi a ritenere che Gesù Cristo sia nato tra gli anni 7 e 2 (più probabilmente il 5 o il 4) prima dell'anno 1 dell'era cristiana.
Se la determinazione della data effettiva della nascita di Cristo costituisce ancora un importante tema di ricerca storica, in particolare di storia del cristianesimo, essa non ha più rilevanza cronologica da quando Dionigi detto il Piccolo, un colto canonista e calendarista di nazione scita vissuto a Roma nel 6° secolo d.C., determinò la data suddetta come 25 dicembre dell'anno di Roma 753 (la scelta del 25 dicembre, giorno quasi coincidente col solstizio d'inverno, costituisce la cristianizzazione di quella che presso tutti i popoli antichi era una grande festività per celebrare, appunto al solstizio d'inverno, la 'morte e risurrezione' del Sole - la ripresa dei valori della sua altezza massima sull'orizzonte, dopo che questa aveva toccato il suo minimo nel solstizio -, che i Romani chiamavano Dies natalis Solis invicti, "giorno di [ri]nascita del Sole mai sconfitto"): così, Dionigi stabilì la corrispondenza dell'anno 753 di Roma con l'anno 1° dalla nascita di Cristo, iniziale dell'era cristiana, e tale corrispondenza, che anche allora poggiava su una mera supposizione - i calcoli di Dionigi si dimostrarono poi non corretti - fu mantenuta in seguito quando i cristiani riportarono l'inizio di questo primo anno della loro era dal 25 dicembre al 1° gennaio del 753 di Roma, secondo l'uso romano. Alcuni studiosi hanno sostenuto e sostengono che tale slittamento di inizio dell'era sia stato fatto non all'indietro, nell'anno corrente, come vorrebbe la logica, ma in avanti, cioè dal 25 dicembre 753 di Roma al successivo 1° gennaio 754 di Roma; ciò spiega l'ambigua indicazione '753 o 754 a.C.' per la fondazione di Roma che appare in alcune opere. Sembra poco opportuno modificare soltanto per questo motivo tutta la cronologia romana. Analogamente si avrebbe la stessa situazione inutilmente confusa se si spostasse la data della nascita di Cristo dal 753 di Roma a un qualche anno anteriore in rapporto ai risultati periodicamente ottenuti per vie indiziarie dai vari ricercatori e si mutasse in conseguenza tutta la cronologia consolidata nella quale ora ci si muove. Universalmente si conviene sulla convenzionalità delle date iniziali degli anni di Roma e di quelli di Cristo e, ciò posto, non v'è al momento alcun giustificato vantaggio - contro gravissimi inconvenienti - per modificarle e per modificare la tradizionale equivalenza: anno 1° di Cristo = anno 753 di Roma, anno 1° di Roma = anno 753 a.C.
Va ricordato che l'uso dell'era cristiana fu per molto tempo assai limitato, anche quando il cristianesimo non soltanto era stato riconosciuto (con l'editto dell'imperatore Costantino del 313) ma era diventato la religione più importante dell'Impero romano, sia d'Occidente sia d'Oriente, e poi la religione dominante nelle entità statali nate dalla dissoluzione dell'Impero d'Occidente e in gran parte riaggregatesi nel Sacro Romano Impero (che durò effettivamente dal Natale 799 alla Riforma luterana del 16° secolo e, formalmente, fino al 1806). La prima datazione in 'anni di Cristo' è soltanto dell'840 in un documento imperiale e per l'uso generale in documenti sia pubblici sia privati occorre giungere all'11° secolo, con l'imperatore Enrico IV, dopo di che l'era cristiana non fu più abbandonata sia in sedi nazionali sia in sede internazionale. Negli atti pontifici questo tipo di datazione iniziò nel 968, con il papa Giovanni XIII.
Gli elementi della data: i mesi degli anni, i giorni dei mesi, le ore del giorno
Finora abbiamo parlato di anni come se l'anno fosse qualcosa di ben definito e universalmente noto: non è proprio così, come dimostra ampiamente la storia della calendaristica, la disciplina dei modi di definire l'anno e poi di suddividerlo in entità minori identificabili, cioè i mesi dell'anno, i giorni dei mesi e, infine, le ore del giorno, con le loro frazioni dei minuti e dei secondi.
L'anno e queste sue partizioni sono sempre stati legati, nella storia, anche antichissima, di tutti i popoli, ai movimenti dei tre astri che influenzano direttamente la vita dell'uomo e, in generale, l'ambiente terrestre in tutte le sue componenti: il movimento di rotazione della Terra su sé stessa, che determina l'alternarsi della luminosità diurna e dell'oscurità notturna nel corso dei giorni; il movimento di rivoluzione della Luna intorno alla Terra, che determina le varie apparenze della Luna sulla volta celeste nel corso del mese (termine che è intrinsecamente 'lunare', derivando dal greco méne, "Luna"), equivalente, almeno nominalmente, alla nostra 'lunazione', dal plenilunio (presenza piena notturna) al novilunio (assenza piena notturna); e, infine, il movimento di rivoluzione della Terra intorno al Sole, che, combinato con l'inclinazione dell'asse terrestre sul piano dell'eclittica e con l'eccentricità dell'orbita, determina l'alternarsi delle stagioni durante l'anno (giova ricordare che quest'ultimo termine ha la stessa radice di anello, con riferimento alla traiettoria chiusa che gli antichi erroneamente pensavano descritta dal Sole intorno alla Terra). Le tre alternazioni - l'ultima delle stagioni e le precedenti delle lunazioni e dalla luminosità diurna all'oscurità notturna - hanno una determinante influenza su tutti i cicli vitali degli esseri terrestri, dai vegetali agli animali e all'uomo, oltreché sulla Terra nel suo insieme di corpo astrale, in virtù dei potenti campi attrattivi e radiativi che promanano verso la Terra dal Sole e dalla Luna (effetti di marea sulle masse oceaniche e terrestri, irraggiamento elettromagnetico e corpuscolare).
L'esistenza dei citati movimenti del Sole e della Luna rispetto alla Terra - sia pure modellati fino al 16° secolo, epoca della riforma astronomica eliocentrica di Copernico (affermatasi in realtà circa due secoli dopo), in maniera non conforme al vero, con la Terra immobile al centro dell'Universo - fu ben presente anche agli uomini primitivi. Questi percepirono assai presto la necessità di organizzare il trascorrere naturale dei giorni (il giorno apparve subito come l'unità di riferimento per lo scorrere del tempo) in un modo che consentisse di individuare e di prevedere le epoche giuste per certe operazioni di agricoltura, di caccia e di pesca: tutte attività di basilare importanza per la stessa sopravvivenza umana e strettamente legate alle fasi (dal greco phàsis, "modo di apparire") della Luna e alle stagioni governate dal Sole. Si formarono così liste ordinate di giorni raggruppati in mesi, e poi di mesi raggruppati in anni, secondo criteri sempre più razionali: quelli che oggi chiamiamo calendari (termine che deriva dal latino Kalendae, denominazione data dai romani al primo giorno di ogni mese).
Si può notare che la difficoltà maggiore incontrata dai vari popoli nel formare i loro calendari è sempre stata quella di mettere d'accordo la durata dell'anno solare (per l'esattezza, quello che gli astronomi chiamano anno tropico solare, cioè il periodo di tempo in cui il Sole descrive la sua traiettoria apparente annuale sulla sfera celeste, lungo le costellazioni dello Zodiaco) e quella della lunazione (per gli astronomi il mese sinodico, cioè il tempo impiegato dalla Luna per ritornare in una medesima posizione relativa rispetto alla Terra e al Sole): l'anno solare misura circa 365 giorni e un quarto (più precisamente 365,24219 giorni) e la lunazione circa 29 giorni e mezzo (29,53058 giorni); queste due durate non possono essere espresse l'una verso l'altra con rapporti razionali. A un osservatore moderno, condizionato dal fatto di usare un calendario civile che non è rigorosamente lunare, la soluzione più semplice per l'adattamento di calendari lunari e solari apparirebbe quella di prescindere dalle lunazioni e di realizzare un calendario puramente solare, per es., composto di 13 mesi della durata di 28 giorni l'uno (fra l'altro si avrebbe così il vantaggio di avere a date fisse gli stessi giorni della settimana, prezioso ciclo che non è mai stato alterato nelle varie riforme calendaristiche che si sono avute nel corso dei millenni), per un totale di 364 giorni, sistemando poi in qualche modo il giorno e un quarto che resterebbe, per es. intercalando un giorno 'neutro', poniamo dedicato alla pace e, per il quarto di giorno, adottando un meccanismo simile a quello degli anni bisestili della riforma gregoriana. Effettivamente, una proposta in questo senso è stata avanzata in sede ONU da tempo. Allo stato attuale, comunque, il fatto storico incontestabile è che tutti i calendari sono nati sulla base delle lunazioni e che poi sono stati adattati in un'infinità di modi all'anno solare tropico.
Il motivo per cui gli antichi non vollero mai rinunciare ai mesi lunari è che essi - per la massima parte agricoltori, cacciatori, pescatori e marinai - sapevano (come del resto sanno anche gli uomini moderni che si dedicano a queste attività) che dalle fasi della Luna dipendono, oltre che il ritmo e l'ampiezza delle maree, anche la buona riuscita di alcune operazioni agricole (per es., certe semine) e financo quella di alcune manipolazioni di prodotti della terra (per es., travasare il vino da un recipiente più grande a uno più piccolo). Era quindi importante ancorare alle lunazioni il trascorrere dei giorni: il calendario veniva così a costituire un comodo promemoria non soltanto per festività religiose e altre ricorrenze ma anche per attività pratiche di primaria importanza.
Gli antichi crearono, dunque, i loro calendari sulla base di mesi della durata media di una lunazione (circa 29,5 giorni) e a questo scopo bastava alternare, in un numero pari, mesi di 29 e di 30 giorni. Tuttavia, come abbiamo detto, occorreva anche ottenere nel complesso un anno di calendario o anno civile la cui durata si avvicinasse il più possibile a quella dell'anno solare (circa 365,25 giorni, che diviso per i 29,5 della lunazione fa lo scomodo numero 12,38). La tecnica messa in atto è stata, ovunque e in ogni tempo, quella di definire un calendario di mesi lunari (dato l'appena citato risultato numerico, il numero di mesi che appariva più opportuno era 12) e di aggiungere in esso un certo numero di giorni, secondo regole che sono state diverse in ogni calendario, in modo da approssimare al meglio l'anno solare.
Non è il caso di ricordare, sia pure sommariamente, le caratteristiche fondamentali di questi calendari lunari corretti o, come più spesso si dice, 'lunisolari', in un ambito spaziotemporale che abbraccia tutti i continenti e tutte le epoche storiche. Appare invece utile riferire brevemente le vicende che dal calendario dei romani hanno portato al calendario cosiddetto gregoriano ora in uso in tutto il mondo. Per il periodo precedente grosso modo l'inizio dell'era cristiana, queste vicende furono sostanzialmente simili, e in qualche caso identiche, per tutti i popoli dell'area mediterranea centrorientale e del Vicino Oriente, quali gli egizi, i fenici, gli assiro-babilonesi e, infine, i greci. I patrimoni culturali di questi popoli, compresa la calendaristica, interagirono fortemente sia tra loro sia con quelli dei vicini popoli dell'India e, per loro tramite, con quelli dell'Estremo Oriente, finendo poi per essere assimilati in quella che si chiamò civiltà grecoromana e che si trasferì poi a tutte le comunità statali nate in Europa dopo il dissolvimento dell'Impero Romano.
Vi sono vari accenni a un calendario con l'anno di 10 mesi lunari attribuito al mitico fondatore di Roma, Romolo, che sarebbe stato riformato in un calendario di 12 mesi dall'altrettanto mitico secondo re di Roma, Numa Pompilio; queste attribuzioni hanno soltanto il valore di indicare che i latini stanziati nell'area del basso Tevere avevano un calendario già dall'8° secolo a.C. Il calendario numano restò in uso per vari secoli, sino alla riforma di Giulio Cesare del 46 a.C. Si trattava di un calendario di 12 mesi lunari (la durata media del mese era di circa 29,6 giorni: il primo, il terzo, il quinto e l'ottavo contavano 31 giorni; il secondo, il quarto, il sesto, il settimo, il nono, il decimo e l'undicesimo 29 giorni; il dodicesimo 28 giorni), con inizio all'incirca dall'equinozio di primavera (odierno 21 marzo), per un totale di 355 giorni. I mesi erano denominati in riferimento a divinità o a entità, oppure semplicemente all'ordinale di successione: Martius, dal dio Marte; Aprilis (29 giorni), da aperire, "aprire [l'anno]"; Maius, dalla dea Maia; Iunius, dalla dea Giunone; Quinctilis; Sextilis; September; October; November; December; Ianuarius, dal dio Giano; Februarius, dalla festa di purificazione chiamata Februa. L'adattamento di questo calendario civile all'anno solare di 365,24219 giorni (necessario per avere una costante ricorrenza di date per le stagioni, cosa importantissima, per es., per la vita dei campi) era ottenuto inserendo ogni tanto un mese intercalare di 22 giorni, denominato Mercedonius (mercedonio, cioè "relativo alla mercede, alla paga"), dopo il 23 febbraio, del quale mese assorbiva gli ultimi cinque giorni (per un totale, dunque, di 27 giorni); si aveva così un anno di 372 giorni, eccedente l'anno solare di circa 6 giorni e tre quarti. Lo stabilire in quale anno Mercedonius dovesse essere intercalato, e ogni non si sa quanti anni normali, era cosa piuttosto delicata e di essa assunsero l'incarico i pontefici. Le intercalazioni dei mercedoni non furono però fatte con la dovuta cura, tanto che all'epoca di Cesare (circa a metà del 1° secolo a.C.) l'anno civile anticipava quello solare, e quindi le stagioni, di una novantina di giorni.
Nel 46 a.C. Giulio Cesare, giunto al suo terzo consolato, operò una drastica riforma, suggerita dall'astronomo alessandrino Sosigene, secondo la quale l'anno risultava composto dai precedenti 12 mesi, con inizio da Ianuarius (circa a metà del 2° secolo a.C. l'inizio dell'anno era stato portato al solstizio d'inverno, 21 dicembre, assunto per questioni legate a feste religiose al 1° gennaio) e con la stessa durata in giorni dei mesi che hanno i mesi omonimi del calendario attuale, per un totale di 365 giorni. Il quarto di giorno mancante per uguagliare all'incirca l'anno solare fu realizzato inserendo in un anno ogni quattro un giorno là dove fino ad allora s'intercalava il mercedonio, cioè tra il 23 e il 24 febbraio (bis sexto kalendas Martias, "doppio sesto [giorno] prima delle calende [il 1°] di marzo", donde la qualifica di bisestile data da allora all'anno intercalato e rimasta in uso anche quando, successivamente, il giorno fu intercalato come 29 febbraio, immediatamente prima, e non sei giorni prima, delle calende di marzo). Alcuni mesi mutarono la loro denominazione: Quinctilis e Sextilis si chiamarono, in onore rispettivamente di Giulio Cesare e di Augusto, Iulius (luglio) e Augustus (agosto).
Quello che oggi chiamiamo calendario giuliano entrò in vigore nel febbraio dell'anno 46 a.C. (707 ab Urbe condita), nel momento in cui Cesare ordinò d'intercalare dopo il 23 di quel mese il mercedonio, al quale fece aggiungere, ripartiti tra novembre e dicembre, i circa 90 giorni (le fonti danno tre cifre differenti) accumulatisi nel frattempo come differenza tra anni civili e anni solari (quell'anno, giustamente detto poi 'anno della confusione', contò 15 mesi di 29-31 giorni, per un numero totale di giorni pari, a seconda delle dette fonti, a 443, 444 o 445) e di intercalare poi un solo giorno ogni quattro anni. I pontefici, che seguitarono a essere incaricati dell'intercalazione, compresero male l'ordine di Cesare, che morì quasi subito, nel 44 a.C., e intercalarono il giorno ogni tre anni, anziché ogni quattro; Augusto, succeduto a Cesare, nel 34 a.C. provvide a rimediare all'errore, riportando la situazione a quanto previsto dalla riforma giuliana.
Si può osservare che dal punto di vista della logica aritmetica i calendari greci erano migliori di quello numano prima e giuliano poi per quanto concerne sia l'accuratezza del riferimento alle lunazioni sia l'accuratezza e l'automaticità delle intercalazioni: essi avevano 12 mesi alternativamente di 30 e di 29 giorni (per totali 354 giorni), tra il 6° e il 7° dei quali era intercalato, a distanza di un opportuno intervallo di anni, un mese di 30 giorni (embolimòs), ottenendo quindi un anno di 384 giorni; l'intercalazione consentiva di raggiungere in media la durata dell'anno solare tropico. Ad Atene, dove era in uso il cosiddetto anno attico, dal 6° secolo a.C. erano fatte sistematicamente tre intercalazioni equidistanti in un ciclo di 8 anni (detto octaetèrides), avendosi così un ottennio di 2922 giorni e una durata media dell'anno di 365,25 giorni, molto vicina, quindi, a quella dell'anno solare tropico; più tardi (432-31 a.C.) si ebbe un ulteriore miglioramento con intercalazioni fatte su un ciclo di 19 anni, il cosiddetto ciclo di Metone, dal nome dell'astronomo ateniese che lo propose. I calendari in uso nelle varie pòleis ed entità statali greche differivano appunto per le modalità dell'intercalazione dell'embolimòs e per la data d'inizio dell'anno: per es., l'anno ateniese iniziava intorno al solstizio d'estate (fine giugno), mentre quello macedonico intorno all'equinozio di primavera (fine marzo). I giorni di ogni mese erano denominati con il numero ordinale loro competente in ognuna delle tre decadi in cui essi erano divisi (la terza decade scempia, di 9 giorni, nei mesi di 29 giorni).
Il modo usato dai romani per denominare i giorni dei vari mesi dell'anno numano e poi giuliano era simile, anche se non altrettanto lineare, a quello dei greci appena ricordato: la denominazione era numerica ordinale, contando all'indietro a partire dalle Kalendae (giorno 1° di tutti i mesi), dalle Nonae (giorno 7° per i mesi di 31 giorni o 5° per gli altri) e dalle Idus (giorno 15° o 13°); quest'uso fu originale ed esclusivo dei romani, e dava luogo a scritture piuttosto complesse: per es., il 20 gennaio era denominato dies tertius decimus ante Kalendas Februarias oppure, più frequentemente, ante diem tertium decimum Kalendas Februarias (abbreviato in a. d. XIII Kal. Feb. o semplicemente XIII Kal. Feb.); analogamente, l'8 giugno era denominato die sexto ante Idus Iunias oppure ante diem sextum Idus Iunias (a.d. sextum Idus Iunias o VI Id. Iun.).
Il calendario giuliano ebbe corso per lungo tempo, sino alla cosiddetta riforma gregoriana del 1582, quando, essendo stato accertato che l'anno giuliano era leggermente più lungo di quello solare ed essendo diventato nel frattempo rilevante il numero dei giorni di differenza accumulatisi (esattamente 10), il papa Gregorio XIII ordinò, accogliendo le proposte formulate da una commissione formata dai migliori astronomi e matematici europei di allora, che si cancellassero questi giorni in eccesso passando dal giovedì 4 ottobre al venerdì 15 ottobre 1582 (dunque senza alterare la sequenza settimanale) e si riducesse l'entità media dell'intercalazione con l'escludere gli anni secolari che non fossero multipli di 400, cioè togliendo tre giorni ogni 400 anni (per es., non sono stati bisestili gli anni 1700, 1800 e 1900, mentre lo sono stati il 1600 e il 2000), il che non renderà necessaria alcuna altra correzione per almeno altri 4000 anni circa, quando si dovrà togliere una tantum un altro giorno bisestile.
L'adozione del calendario gregoriano non fu né istantanea né universale, in quanto vi si opposero anche questioni religiose: per es., la Gran Bretagna lo adottò soltanto nel 1752 (si passò dal 2 al 14 settembre) e la Russia soltanto nel 1918, subito dopo la vittoria della Rivoluzione bolscevica (si passò dal 31 gennaio al 14 febbraio), con l'eccezione della Chiesa ortodossa, che usa tuttora in gran parte il calendario giuliano. È comunque importante ricordare che il calendario giuliano, con la cronologia a esso associata, è tuttora in uso nell'ambito astronomico, e ciò perché gli astronomi, giustamente, non hanno voluto interrompere la continuità con il periodo antecedente il 1582 in termini di date, di computi di giorni intercorsi tra eventi (un altro uso degli astronomi è di numerare con lo zero l'anno 1° a.C. e poi d'indicare con -1, -2 ecc. i precedenti anni a.C., e ciò per facilitare calcoli di periodi di tempo in cui compaiano insieme anni d.C. e anni a.C.).
Se è vero che quasi ovunque finì per entrare in uso abbastanza presto il calendario giuliano e poi, anche se in tempi diversi nei vari luoghi, quello gregoriano, è altrettanto vero che persistettero a lungo, anche ufficialmente, usanze locali relative all'inizio dell'anno. Rimanendo nell'ambito italiano, di queste usanze, denominate 'stili dell'anno', sono da ricordare, per la loro importanza storica: 1) lo stile della Natività, con inizio dell'anno al 25 dicembre e in anticipo quindi sull'anno normale di 6 giorni, di larga diffusione per tutto il Medioevo, indicato nelle datazioni dell'epoca come Anno Domini, "nell'anno del Signore"; la sigla A.D. è poi rimasta nell'uso, anche attuale, per indicare genericamente gli anni dell'era cristiana, anche se iniziano con il 1° gennaio; 2) lo stile veneto, con inizio al 1° marzo, come il calendario di Numa Pompilio, e così detto perché usato ufficialmente nella Repubblica di Venezia (i primi documenti sono precedenti il 1000) fino alla sua caduta (1797); 3) lo stile dell'Incarnazione, usato, nel periodo dal 10° al 17° secolo, abbastanza spesso in Toscana e in regioni limitrofe e sporadicamente in Europa, da distinguersi nello 'stile fiorentino' (Firenze, Cremona, Piacenza ecc.), con inizio al 25 marzo (supposta data del concepimento di Gesù) e quindi ritardato di circa tre mesi sull'anno normale in corso, e nello 'stile pisano' (praticamente, soltanto Pisa e il suo contado), con inizio al 25 marzo dell'anno precedente quello in corso, ritardante quindi per circa nove mesi su quest'ultimo; lo stile fiorentino fu usato anche nella cancelleria papale, specialmente nei secoli 10°-13°. L'anno che abbiamo qualificato come normale, cioè l'anno prima giuliano e poi gregoriano con inizio il 1° gennaio, che finì per diventare prima prevalente e poi unico, era anche ascritto allo stile della Circoncisione, poiché in quella data si immaginava che fosse stato circonciso il neonato Gesù (in realtà, si trattò della cristianizzazione del vecchio inizio pagano dell'anno, equiparato all'inizio della vita di Gesù come credente ebreo). L'ultimo elemento della data, che la completa portandola alla precisazione di qualcosa più puntuale, ossia dell''istante', è l'ora del giorno. Anche in questo caso, più che tentare di tracciare un panorama in un contesto spaziotemporale ampio e complicato, sceglieremo di riferirci ai modi per indicare le ore che sono stati seguiti prima dai romani e poi dagli italiani, e ciò sia perché, da una parte, dagli usi romani sono sostanzialmente derivati quelli moderni, sia perché, dall'altra parte, in Italia per lungo tempo si è seguito un costume del tutto particolare, che pone il nostro paese in una posizione singolare rispetto a tutti gli altri paesi europei nel Basso Medioevo, nel Rinascimento e nell'Età moderna.
Per la divisione del giorno in parti (horae) i romani seguivano il criterio generalizzatosi nel bacino centrorientale del Mediterraneo (egizi, assiro-babilonesi, greci), cioè la netta distinzione tra giorno e notte, e la suddivisione in intervalli uguali di queste due parti. Esattamente, essi chiamavano nox l'intervallo di tempo dal tramonto del Sole all'alba successiva, caratterizzato dalla mancanza della luce solare, e dies naturalis, o, in situazioni inequivoche, dies per antonomasia, l'intervallo di tempo dal sorgere del Sole al tramonto. Seguendo specificamente l'aritmetica babilonese con base 12 (duodecimale), dividevano poi sia la nox sia il dies naturalis in 12 parti, appunto le horae, a loro volta divise, sempre duodecimalmente, ciascuna in 60 minuti, ciascuno dei quali diviso in 60 secondi. Queste 12 ore erano di uguale durata in uno stesso dies naturalis o in una stessa nox, ma erano di durata differente sia fra notte e giorno consecutivi sia fra giorno e giorno, o notte e notte, nel corso dell'anno (più lunghe le ore diurne di quelle notturne nei mesi estivi, e il contrario nei mesi invernali), e ciò in maniera tanto più spiccata quanto maggiore era la latitudine geografica del luogo. Per la dipendenza di queste ore dalla stagione (il 'tempo dell'anno') esse erano chiamate horae temporariae, distinguendole così dalle horae aequales che si usavano, per es., per misurare il tempo assegnato ai peroratori delle cause nei tribunali ed erano indicate dalle clessidre a sabbia o da altri simili misuratori fisici dello scorrere del tempo; per regolare queste ore uguali su quelle solari diurne e notturne si profittava del fatto che negli equinozi (21 marzo e 23 settembre), i quali da ciò traggono la loro denominazione, le ore diurne e quelle notturne erano uguali fra loro.
Le ore diurne erano numerate da I a XII ed erano nominate singolarmente (per es., la hora I era mane, il mattino; la VI, meridies, il mezzogiorno; la XII, vesper, il vespro), mentre le ore notturne erano raggruppate in quattro vigiliae di tre ore l'una; alla fine della II vigilia o intempestum ("mancanza di tempo [per fare alcunché]"), come dire all'inizio della III vigilia o gallicinium ("quando cantano i galli"), cadeva la media nox ("mezzanotte"), istante in cui i romani ponevano l'inizio del dies legitimus o dies civilis, l'insieme di una nox e del dies naturalis successivo, e in cui cambiava quindi la data del giorno. In quest'ultimo costume essi si differenziavano nettamente dagli egizi e dai popoli del Vicino Oriente, che invece identificavano l'inizio del giorno nell'istante del tramonto del Sole (uso seguito ancora oggi - sia pure in ambito religioso - dalle popolazioni mediorientali) oppure, ma più raramente, in quello del sorgere del Sole (per es., presso gli iranici e, in altro ambito geografico, i celti).
L'uso di far iniziare il giorno civile al tramonto del Sole e non alla mezzanotte era presente da tempo a Roma nelle comunità mediorientali, ma con carattere assolutamente familiare; esso acquistò peraltro un carattere comunitario e importanza crescente da quando, intorno alla metà del 1° secolo d.C., cominciarono a costituirsi a Roma e poi anche altrove le prime comunità cristiane, i cui nuclei iniziali furono formati da ebrei convertitisi al cristianesimo venuti dalla Palestina; presumibilmente, il far iniziare il giorno al tramonto del Sole apparve a questi paleocristiani - ebrei o latini che fossero - come un'orgogliosa manifestazione della loro specificità nell'ambito persecutorio dell'Impero pagano. Quest'uso giudaico fu mantenuto nelle comunità cristiane anche dopo che la nascente Chiesa aveva ottenuto, con il ricordato editto dell'imperatore Costantino del 313, piena libertà di culto; esso si diffuse poi rapidamente, accanto a quello romano ufficiale, quando, nel 4° secolo, le chiese e i conventi cristiani cominciarono a segnalare il momento di determinate preghiere mediante il suono di campane, con ciò diffondendo le informazioni orarie in un ampio ambito spaziale: una tecnica assolutamente nuova e straordinariamente efficace. Nel costante intento di cristianizzare per quanto possibile tutto ciò che costituiva la romanità, la Chiesa associò determinate preghiere e determinate celebrazioni alle ore temporarie romane: per es., l'ora terza (agli equinozi, le nostre ore 9) fu cristianizzata associandola alla discesa dello Spirito Santo sugli Apostoli, l'ora sesta (mezzogiorno) alla crocifissione di Gesù e l'ora nona (agli equinozi, le nostre ore 15) alla sua morte. Particolare fortuna nella vita comune ebbe la preghiera detta 'dell'Avemaria della sera', da recitarsi mezzora dopo il tramonto del Sole (per gli astronomi, alla fine del crepuscolo della sera, quando questa cede alla notte piena): apparve naturale spostare dal tramonto a questo istante, ben indicato dalle campane delle città e dei borghi ove fosse una chiesa o un convento, la fine del giorno e l'inizio, con la sua notte, del giorno seguente. Le prime misure orarie documentate con tale sistema risalgono all'anno 801. Quest'uso si consolidò quando, agli inizi del 14° secolo, i campanili delle chiese e poi le torri civiche furono dotati di orologi meccanici a peso che azionavano campane per 'battere' le ore: ovviamente, non più le ore romane di durata variabile con la stagione, ma le ore uguali, indicate da quegli orologi e coprenti in una serie di 24 la durata del giorno civile, e ciò sempre con inizio all'Avemaria della sera, anche quando la Chiesa cristiana, che da tempo perseguiva l'intento di conservare nelle sue strutture la parte accettabile della romanità, era tornata (13° secolo) all'uso romano di far iniziare il giorno alla mezzanotte (una notevole parte in questo affermarsi del consolidato uso civile sul rinnovato uso ecclesiastico ebbe presumibilmente il prevalere delle fazioni ghibelline e dei liberi Comuni su quelle guelfe nelle contese che agitarono le genti italiche in quel periodo). La maniera di contare le ore del giorno nel modo descritto si estese rapidamente a tutta l'Italia e poi all'intera Europa, dato che l'Italia di allora - anche se inesistente come entità politica nazionale - aveva una presenza dominante nei campi dell'arte, delle finanze (i banchieri toscani) e dei commerci con l'Oriente (i commercianti e i marinai genovesi prima e veneziani poi). Molti monumenti e vari documenti testimoniano l'uso di queste 'ore italiane' o 'ore all'italiana', come erano chiamate fuori d'Italia, nell'Europa dei secoli 14°-16°. Successivamente, nelle varie nazioni tornarono a diventare esclusivi i sistemi orari locali, che si ispiravano tutti al sistema romano dalla mezzanotte, ma stavolta con le ore uguali degli orologi pubblici e con qualche particolarità locale. Si possono ricordare, per es., l'uso francese di dividere le 24 ore del giorno in 12 ore dalla mezzanotte al mezzogiorno (ore antimeridiane) e 12 ore dal mezzogiorno alla mezzanotte (ore pomeridiane), tuttora abituale ovunque nella vita comune, oppure quello in vigore nei paesi tedeschi di indicare le frazioni di ora non a partire da un'ora conclusa (sistema della hora completa), come è ora uso generale, ma con riferimento all'ora appena iniziata (hora incipia): per es., la scrittura 'ore 9 1/2', da noi interpretata come 'mezzora dopo le nove', cioè come ore 9.30, in un paese tedesco significa 'mezzora della nona ora', come dire 'mezzora alle nove' cioè ore 8.30 (si usa anche la forma 'ore 1/2 9', che è meno ambigua di quella precedente).
L'uso delle ore italiane subì in Italia varie vicissitudini, alcune di natura politica, quale la forzata convivenza con le francesi ore antipomeridiane e pomeridiane nel 1797-1814, durante il periodo di dominazione francese, e altre di natura astronomica, come il passaggio, avvenuto formalmente intorno al 1816, dal tempo solare vero (quello controllabile con le meridiane) al tempo solare medio (riferito a un Sole fittizio che descrive il suo cammino apparente sulla volta celeste in modo più regolare del Sole vero e costituisce quindi un 'orologio' più accurato di questo). Le ore italiane presentavano una caratteristica che ai nostri occhi appare decisamente scomoda, e cioè il fatto che mentre la mezzanotte solare, inizio del giorno romano, è, in un dato luogo, immutabile (come anche il mezzogiorno), l'Avemaria della sera, inizio del 'giorno italiano', si sposta durante l'anno: cade alle nostre ore 18.30 circa agli equinozi, variando poi, nell'Italia centrale, tra le ore 17 circa d'inverno pieno e le ore 20 circa d'estate piena. Occorreva pertanto che qualcuno - per gli orologi pubblici un apposito impiegato, chiamato in certe città 'temperatore degli orioli' - provvedesse ogni giorno, o almeno ogni pochi giorni, a rimettere gli orologi in modo che al mezzogiorno (l'ora più facilmente controllabile con una semplice meridiana ad asticciola verticale) indicassero l'ora segnata per quel giorno e per quel luogo da apposite tavole fornite dal più vicino Osservatorio astronomico. Un'altra caratteristica scomoda, che però sarebbe stata propria anche delle ore romane di allora, era costituita dal fatto che si trattava di ore locali, cioè variabili, a parità di situazione astronomica, da luogo a luogo; tuttavia, questo inconveniente non aveva peso, in quanto la vita si svolgeva in ambito locale e le comunicazioni tra luoghi distanti in longitudine, e quindi con sensibile scarto orario, erano rare e lente; la necessità di avere una stessa indicazione oraria per tutta una nazione, o almeno per grandi regioni, si fece sentire soltanto intorno alla metà dell'Ottocento, con la creazione di reti ferroviarie interregionali e internazionali, quando era già a disposizione il mezzo per 'distribuire' e controllare l'ora del giorno uniforme in vasti distretti, vale a dire il telegrafo elettrico.
Le ore italiane - dapprima di tempo solare, poi, come si è accennato, di tempo solare medio - restarono in uso sia popolare sia ufficiale dal Basso Medioevo fino a gran parte del 19° secolo, vale a dire anche nei primi anni del Regno d'Italia. Questo lungo periodo di vigenza - oltre sei secoli - va tenuto ben presente nell'interpretare correttamente le date e le indicazioni orarie presenti nelle cronache e nella letteratura: posto che all'Avemaria della sera si passava alla data del giorno successivo, tutte le date tra questa Avemaria (mezzora dopo il locale tramonto del Sole) e la mezzanotte successiva sono difformi non soltanto rispetto all'uso attuale, ma anche rispetto all'uso di allora in altri paesi europei; di questa differenza si deve tener conto nel paragonare date di quel periodo ma di ambienti diversi. Il r.d. 22 settembre 1866, nr. 3224 sostituì le molte ore italiane delle varie località delle province continentali del giovane Regno d'Italia con il tempo medio del meridiano di Roma, espresso in ore antimeridiane e pomeridiane (la Sicilia e la Sardegna, per le quali non c'erano allora problemi di orari nazionali per i servizi di collegamento, furono uniformate sui tempi solari medi, rispettivamente, di Palermo e di Cagliari) con cambiamento della data del giorno alla mezzanotte. Successivamente, con r.d. 10 agosto 1893, nr. 490, dal 1° novembre 1893, fu adottato per tutto il territorio nazionale il tempo del fuso orario -1, cioè, con riferimento alla suddivisione della superficie terrestre in 24 fusi sferici per meridiano, ognuno ampio 15°- o, se si vuole, un'ora - in longitudine, il tempo solare medio del fuso orario centrato sul meridiano 15° E, il cosiddetto tempo medio dell'Europa centrale, di un'ora esatta in anticipo sul tempo medio del meridiano di Greenwich, che era allora il tempo universale di riferimento per l'intera superficie terrestre. Le ore italiane restarono comunque in uso locale e popolare per vari anni dopo il primo dei due decreti appena ricordati e, sia pure in piccola parte, anche dopo il secondo e definitivo: per es., come si deduce da studi storici di sismologia - scienza geofisica per la quale le misure orarie locali dei fenomeni hanno importanza capitale - dell'epoca, ancora nel 1875 marciavano a ore italiane di tempo solare medio gli orologi pubblici di Camerino, Moncalieri, Udine e addirittura a ore di tempo solare vero gli orologi di Acqualagna, Cagli e altre cittadine. A riprova - di tutt'altra natura - del perdurare del costume di quelle ore nel sentire corrente, si può ricordare che nel prologo di una fortunata opera musicale del 1892, I pagliacci di Ruggero Leoncavallo, la cui vicenda si svolge in un borgo rurale del profondo Sud, si dà appuntamento alla gente per la recita 'a ventitré ore', da intendersi, all'uso vecchio, come una mezzora prima del tramonto del Sole, ora quanto mai adatta a gente che ha lavorato per l'intera giornata, e non, secondo l'uso nuovo, come le undici della notte.
Il concetto di tempo
Il concetto di tempo ha svolto un ruolo importante nella storia del pensiero, come dimostrano i miti e le religioni delle civiltà antiche. I greci specularono per primi sulla natura del tempo: i pitagorici lo identificarono con il moto stesso degli astri e Zenone di Elea, nel 5o secolo a.C., sollevò, con i suoi celebri paradossi, la questione della continuità del tempo. Spinto dall'idea che il tempo si presenta sempre, nell'esperienza, come attributo del cambiamento o del moto, Aristotele (384-322 a.C.) lo definì 'la misura' o 'il numero del moto' e attribuì dunque al moto, anziché al tempo, la priorità ontologica e logica. La teoria secondo la quale il tempo è un attributo del moto è stata prevalente nel pensiero filosofico occidentale, attraverso il Medioevo, sino al 16o secolo. Le questioni principali discusse dai filosofi aristotelici e scolastici a proposito del tempo riguardavano la sua realtà e la sua unità o unicità; si trattava, cioè, del quesito se il tempo esista soltanto nella mente di chi osserva o valuta il moto, o se, invece, sia un elemento oggettivamente dato del processo del moto. Nel 17o secolo il matematico teologo I. Barrow e I. Newton, suo allievo, stabilirono la teoria del tempo assoluto, secondo la quale esso "vero e matematico, in sé e per sua propria natura senza relazione ad alcunché di esterno, scorre in modo uniforme".
Il tempo fisico
Per quanto riguarda la fisica, la teoria newtoniana del tempo assoluto rimase in vigore sino alla fine del 19o secolo, quando fu posta in crisi da E. Mach il quale affermò che, essendo il tempo assoluto un concetto al quale non corrisponde alcunché di percettivo, dev'essere eliminato dalla fisica, che è una scienza empirica. Il programma di Mach venne messo in atto nel più drastico dei modi da A. Einstein nel 1905 con la teoria della relatività. Posto di fronte al problema di conciliare il principio, empiricamente ben fondato, dell'invarianza della velocità della luce in tutti i sistemi inerziali con l'altro, egualmente ben fondato, secondo il quale tutte le leggi della fisica sono le stesse in questi sistemi, Einstein riconobbe che la nozione generalmente accettata di un tempo universale doveva essere abbandonata. Il primo passo per la costruzione di una nozione riveduta della coordinata tempo è stato, per Einstein, la definizione della simultaneità di eventi separati nello spazio o, equivalentemente, la sincronizzazione di orologi separati spazialmente. La sincronizzazione che viene coerentemente stabilita rende possibile definire il tempo o la coordinata temporale in un dato sistema inerziale come l'insieme delle letture di orologi sincronizzati inviando opportuni segnali elettromagnetici da un punto: il tempo di un evento è ciò che un orologio indica nell'immediata vicinanza dell'evento stesso quando esso accade, e due eventi sono simultanei se avvengono nello stesso tempo.
Scale dei tempi e unità di misura
La scelta di una scala temporale e, in questa, dell'origine in particolare, è puramente arbitraria, diversamente dal caso di altre grandezze fisiche, per es. la temperatura, in cui l'origine ha un ben preciso significato fisico. La scelta dell'origine (nascita di Cristo, levare eliaco di Sirio, inizio dell'anno geofisico internazionale, rispettivamente usati dal calendario civile, dal calendario egiziano antico, dalla scala di tempo atomico) è pertanto del tutto convenzionale, ma deve rispondere a requisiti di universalità.
Per quanto riguarda la scelta dell'unità, si presuppone, sulla base dell'esperienza, che esistano in natura fenomeni che si ripetono un gran numero di volte e nei quali si possa identificare una durata, da chiamarsi periodo, dopo la quale il fenomeno si replica in maniera assolutamente identica. Nel caso in cui per questo fenomeno si consideri il moto di rotazione o di rivoluzione della Terra, la scala si dice rotazionale.
Secondo il SI (Sistema internazionale di unità di misura), il secondo solare medio era definito fino al 1967 come la frazione 1/86.400 del giorno solare medio, dell'intervallo, cioè, mediato sull'arco di un anno, tra due transiti del Sole per il meridiano di Greenwich. Con l'invenzione di orologi sempre più accurati, tuttavia, ci si è resi conto che non si può prendere la rotazione della Terra quale fenomeno base per un cronometro sufficientemente accurato: la lunghezza del giorno tende ad aumentare di circa 1,5 ms/anno per la perdita di energia meccanica dovuta all'attrito delle maree e la durata del giorno solare fluttua per effetto di perturbazioni esterne di vario tipo. Nel 1967 il SI ha adottato per l'unità di tempo il secondo atomico, definito come il multiplo 9.192.631.770 del periodo della radiazione emessa dall'isotopo 133 del cesio nella transizione tra due specifici livelli iperfini.
A tale definizione si affianca la scelta dell'ora zero del 1° gennaio 1958 per stabilire la scala del TAI (dal francese Temps atomique international), o Tempo atomico internazionale.
Il tempo nel processo evolutivo dell'Universo
La stima più attendibile per l'età dell'Universo (circa 14,5 miliardi di anni) si basa sulla misurazione della cosiddetta costante di Hubble, pari al rapporto tra la velocità di allontanamento reciproca tra due corpi nell'Universo e la loro distanza, e l'ipotesi di espansione a partire da un istante iniziale, quello del cosiddetto big-bang. L'evoluzione dell'Universo, da quell'istante, è passata per gradi via via più differenziati, dove si sono successivamente separati e distinti tra loro, per rottura di simmetria, enti e grandezze fisiche, oggi ben distinguibili, come per es. i vari tipi di forze fondamentali: gravitazionali, nucleari deboli, elettromagnetiche e nucleari forti. La nascita delle diverse particelle, la costituzione dei nuclei degli atomi più leggeri e poi dei più pesanti, la costituzione degli ammassi, la genesi delle singole stelle e il raffreddamento dei pianeti, con la possibile origine della vita, sono gli eventi che scandiscono in modo naturale l'evoluzione dell'Universo, secondo una scala dei tempi tanto più ricca di eventi, quanto più si è vicini al momento della nascita. Questo porta in modo naturale a costruire una scala logaritmica del tempo per la descrizione dei fenomeni (fig. 2).
La datazione
La datazione è in generale l'assegnazione o l'accertamento della data in cui si è prodotto un evento e, come tale, costituisce l'atto iniziale di ogni indagine di natura storiografica. Prescindendo dagli eventi per i quali vi è una memoria umana, e la cui datazione diviene quindi un processo di accertamento storico, per gli altri ci si affida a fenomeni obiettivi che siano tempo-dipendenti e che si possano in qualche modo mettere in correlazione con gli eventi da datare.
In geologia, la datazione stabilisce l'età assoluta delle formazioni rocciose e la durata delle ere geologiche. Per le datazioni più recenti, il metodo delle varve, ovvero dei depositi argillosi prodotti dalle acque di fusione dei ghiacciai sul fondo dei laghi temporanei che si formano sul fronte di questi, consiste nel conteggio delle alternanze, una per anno, di strati chiari di sabbia, depositati d'estate, e strati più scuri di argilla, depositati d'inverno. Il metodo della variazione della radiazione solare, basato sull'ipotesi di una sostanziale costanza nel tempo del flusso termico solare, correla nel tempo le periodiche successioni dei fenomeni geologici e paleoclimatici (periodi glaciali e interglaciali) con i cambiamenti del flusso di radiazione dovuti alle variazioni dell'inclinazione del piano equatoriale terrestre rispetto al piano dell'orbita, dell'orientamento dell'asse, dell'eccentricità dell'orbita, che sono tutti fenomeni periodici di periodo noto. Di uso più diffuso e generalizzato sono i vari metodi radioattivi di datazione, tutti sostanzialmente basati sulla misura del rapporto dell'abbondanza tra un elemento radioattivo capostipite e il suo elemento terminale all'interno di un determinato materiale. Nel caso di un minerale contenente A atomi di un isotopo radioattivo e B atomi dell'isotopo stabile finale della disintegrazione, quanto più è lungo l'intervallo di tempo T intercorso a partire dalla formazione del minerale, tanto maggiore è il rapporto B/A, secondo la legge T=ln(1+B/A)t1/2, in cui t1/2 è il tempo di vita medio o il periodo di dimezzamento dell'isotopo radioattivo. Poiché t1/2 dev'essere dell'ordine di grandezza dell'intervallo di tempo della datazione, gli isotopi che interessano la geocronologia devono avere tempi di dimezzamento compresi tra un migliaio e centinaia di milioni di anni. Tra gli isotopi più usati vi sono 238U, che con 235U e 232Th è impiegato nel metodo dell'uranio-piombo, e 14C (metodo del carbonio 14). Nel primo caso, ciascuno dei tre isotopi radioattivi indicati decade in uno specifico isotopo stabile del piombo, attraverso la produzione di diversi isotopi radioattivi intermedi, i cui tempi di dimezzamento sono assai più brevi di quelli dei capistipite, così da non pregiudicare il metodo. La presenza dei tre canali, invece, fornisce dei criteri incrociati di controllo sui risultati ottenuti. Nel caso del carbonio, il metodo si basa essenzialmente sulla constatazione che un organismo vivente differisce per attività in 14C da un organismo che è stato allontanato dal ciclo vitale. L'isotopo radioattivo del carbonio si forma nell'alta atmosfera per reazione dell'azoto atmosferico con i neutroni prodotti dalla radiazione cosmica primaria. Esso decade successivamente in azoto e rimane per breve tempo allo stato atomico; viene, quindi, ossidato dall'ossigeno atmosferico dando luogo a CO2 radioattiva che si mescola a quella ordinaria e con questa entra a far parte delle sostanze organiche attraverso la fotosintesi clorofilliana. Finché un organismo è vivente, esiste uno scambio continuo tra di esso e l'atmosfera, così che il 14C permane in equilibrio tra atmosfera e organismo. Alla morte dell'organismo, però, lo scambio con la CO2 atmosferica si arresta e cessa conseguentemente il rifornimento in 14C. Dal momento della morte, quindi, il tenore in 14C nell'organismo comincia a decrescere ed è così possibile ricavare l'età dei resti di organismi confrontando l'attività in 14C dei resti con quella di organismi attualmente viventi. Con tale metodo si possono eseguire datazioni di resti sino a un massimo di 50.000-100.000 anni dal presente.
La misura del tempo e il problema della longitudine
La durata di un fenomeno che si ripeta ciclicamente in condizioni fisiche identiche appare costante, affermazione avallata dalla considerazione che fenomeni ben diversi tra loro definiscono durate che si mantengono nel tempo reciprocamente in rapporto fisso. Se si sceglie come periodo di riferimento costante un evento astronomico, qual è la durata del giorno solare medio, gli strumenti di misura del tempo possono o, meglio, potevano essere calibrati e corretti direttamente in rapporto a tale durata. Poiché la durata del giorno solare è l'intervallo che intercorre tra due passaggi consecutivi del Sole per il meridiano del luogo, è facile giustificare la diffusione che un tempo avevano nelle piazze delle città gli obelischi e le meridiane, che segnavano il mezzogiorno locale con il passaggio dell'ombra dell'estremità superiore per una linea meridiana tracciata sul suolo. Ogni congegno meccanico basato su fenomeni ciclici per il conteggio del tempo poteva quindi essere calibrato o ritarato facendo riferimento all'orologio solare, o meridiana, e, in modo reciproco, l'uso di un congegno meccanico tarato poteva essere utilizzato per conoscere la differenza temporale tra il mezzogiorno solare di un luogo e quello di un altro e, quindi, per conoscere la longitudine di un luogo. Il problema della conoscenza della longitudine, oggi facilmente risolto con il riferimento a sofisticati strumenti elettronici (localizzatori satellitari), è stata una questione di enorme importanza nel passato, in particolar modo per viaggiatori e navigatori, banalmente legata all'indisponibilità di orologi di precisione.
Gli strumenti di misura
Clessidre
I primi strumenti in uso per la misura del tempo furono, oltre la meridiana, la cui funzione di traguardo giornaliero è stata descritta sopra, le clessidre. Erano, queste, orologi costituiti essenzialmente da un vaso, contenente acqua o sabbia, che poteva gradatamente vuotarsi dal fondo, riversando il contenuto in un altro vaso di forma analoga. La valutazione del tempo trascorso veniva ricavata dalla quantità di liquido o di sabbia affluita, oppure dall'abbassarsi del livello superiore, in un'ipotesi, peraltro di non rigorosa veridicità, che il flusso si mantenesse costante nel tempo. Ancora oggi le clessidre sono adoperate per misurare grossolanamente brevi intervalli di tempo: in questo caso esse hanno assunto la forma caratteristica di due ampolle (con sezione verticale a 8) comunicanti fra loro mediante un sottile orifizio attraverso il quale fluisce la sabbia oppure l'acqua; la misurazione dell'intervallo di tempo può essere rinnovata, rovesciando la clessidra.
Un altro modo di misurare il tempo, concettualmente analogo a quello della clessidra in quanto fondato sul flusso di materia, fu quello escogitato dai bizantini, che calcolavano le durate temporali in base al consumo di materia dovuto a combustione (di olio, ceri, candele).
Orologi solari
Anche l'ombra estrema di una colonna o di uno stilo può essere impiegata per stabilire l'ora del giorno: in tal caso, lo strumento viene detto gnomone e la variazione della posizione dell'ombra a una medesima ora, ma in giorni dell'anno diversi, dovuta alla diversa posizione relativa del Sole in un medesimo luogo rispetto alla verticale, è causa di una ricca e diversificata iconografia di tracce e linee sul suolo atte a una propria lettura dell'ora. Gli orologi solari assumono qualifiche diverse, a seconda della giacitura del piano su cui si osserva l'ombra dello stilo: sono detti equatoriali se il piano è parallelo al piano equatoriale terrestre, orizzontali se esso è orizzontale e verticali se è verticale. Il tipo più conveniente è quello verticale orientato in direzione E-O.
Gli orologi solari furono portati a un alto grado di perfezione tecnica e di precisione dagli arabi, che usavano anche clessidre meccaniche, rese automatiche con un sistema di pesi e contrappesi.
Orologi meccanici ed elettrici
Storia. Un'indicazione di particolare interesse del modo in cui l'invenzione dell'orologio meccanico influenzò il pensiero si trova in un trattato di N. Oresme (1323-1382) a proposito della questione se i movimenti dei corpi celesti fossero commensurabili; egli sosteneva che la loro eventuale incommensurabilità avrebbe diminuito l'armonia dell'Universo: "Se infatti qualcuno potesse costruire un orologio materiale, non farebbe tutti i movimenti e gli ingranaggi il più possibile commensurabili?". Questa affermazione manifesta chiaramente l'interpretazione di un Universo dotato di un meccanismo a orologeria.
Una delle prime notizie di orologi a ruotismi risale a Dante (Par. 10, 139 segg.; 24, 13-15). Ai primi del Trecento alcune chiese di Milano recavano orologi di questo tipo sui campanili. Nel 15° secolo esistevano orologi portatili, da viaggio (horologia viatoria) e tascabili (horologia pensilia), di forma, materia e decorazione svariatissime, e nella seconda metà del secolo si conosceva l'orologio sveglia. A circa il 1495 risale il disegno di un bariletto d'orologio tratto dai codici leonardeschi conservati presso la Biblioteca Nacional di Madrid. Agli inizi del 16° secolo apparve l'orologio propriamente detto e si svilupparono quelli da tavolo (di origine tedesca), che assunsero l'aspetto di oggetti d'arte. La diffusione degli orologi, dapprima privilegio degli alti dignitari ecclesiastici, delle chiese e degli edifici pubblici, fu agevolata soprattutto dallo sviluppo dell'industria impiantata in Svizzera a partire dal 16° secolo a opera di francesi, fiamminghi e italiani ivi rifugiatisi a causa delle persecuzioni religiose; la fabbricazione degli orologi da tasca, iniziata nella regione del Giura, si diffuse ben presto in altri cantoni della Svizzera (nel Vaud, nella regione di Neuchâtel, a Basilea ecc.), quindi in Francia, Gran Bretagna e Germania. Nel 17° secolo l'industria degli orologi fu rivoluzionata da due innovazioni: l'applicazione del pendolo, effettuata da G. Galilei e da Ch. Huygens nel 1656, e quella, a opera dello stesso Huygens (1674), del bilanciere con molla a spirale agli orologi da tasca. Questi miglioramenti e anche altri, quali lo scappamento ad ancora per orologio da tasca (inventato da T.B. Madge nel 1665, ma praticamente sviluppato nel 1826 da Leschot) e quello per orologio a pendolo inventato da G. Graham nel 1710, nonché la riduzione del costo, determinata dai progressi della tecnica, generalizzarono ulteriormente l'uso degli orologi. La produzione industriale iniziò nel 18° secolo in Germania (Foresta Nera), per estendersi successivamente agli Stati Uniti e al Giappone. La lavorazione era eseguita quasi esclusivamente a mano, con carattere artigianale e artistico. Solo agli inizi del 20° secolo si può parlare di produzione in serie, con precisione di lavorazione fino a 1 µm. Agli orologi meccanici si sono aggiunti, in tempi successivi, gli orologi elettrici, fra cui, particolarmente precisi, gli orologi piezoelettrici, anche di uso corrente.
Tecnica. Gli elementi essenziali che costituiscono schematicamente un moderno orologio sono: il motore, per la fornitura dell'energia necessaria al funzionamento; l'oscillatore, per ottenere un movimento periodico o un segnale elettrico alternato; l'indicatore, per la misura del tempo. Stante la gamma larghissima di tipi diversi di orologi, dal punto di vista sia del funzionamento sia dell'uso cui sono destinati sia delle dimensioni, è praticamente impossibile una classificazione completa; qui basti ricordarne una piuttosto elementare di orologi meccanici ed elettrici, basata sulla natura dell'energia utilizzata dall'oscillatore. Gli orologi elettrici, a loro volta, sono divisi in elettromeccanici e in elettronici.
Nei primi orologi meccanici, a discesa, l'energia meccanica per il funzionamento era data dal lavoro fatto dalla forza peso per far discendere di un certo tratto un'opportuna massa. Successivamente i meccanismi si andarono via via perfezionando con l'aggiunta di un bilancere orizzontale e della suoneria e complicando con l'aggiunta, in qualche esemplare, di indicazioni riferentisi al giorno, alla settimana, al mese ecc. Gli orologi a molle comparvero dopo il 1500: in essi l'energia era fornita da molle di vario tipo, deformate opportunamente per caricarle dell'energia elastica, successivamente rilasciata poco per volta per il necessario funzionamento dei ruotismi. Mancava però ancora in questi apparecchi un regolatore del meccanismo dell'orologio, un organo cioè che con la sua sincronicità fosse in grado di imprimere un movimento regolare a tutto lo strumento. Un primo regolatore fu trovato nel pendolo, un secondo nella molla elicoidale di Huygens: nel primo, le oscillazioni del pendolo, per valori non grandi dell'ampiezza, sono approssimativamente isocrone, così come lo sono nel secondo quelle del bilanciere, mosso dalle pulsazioni della molla. Il primo è adatto per orologi stabilmente posizionati in un luogo fisso, il secondo per quelli da trasportarsi. In entrambi i tipi l'energia di carica viene trasmessa al sistema oscillante, mediante impulsi isocroni con quelli dell'oscillazione, attraverso un meccanismo di scappamento, il più usato dei quali è quello ad ancora. Questo è costituito da una sorta di forchetta (ancora), che, messa in oscillazione per mezzo di un braccio, arresta a intervalli regolari il moto della ruota cui sono collegati i ruotismi delle lancette (ruota di scappamento), così da trasformarlo in moto intermittente. Quando un estremo dell'ancora si svincola da un dente dello scappamento ne riceve un breve impulso che serve a mantenere costante l'ampiezza delle oscillazioni; lo scappamento ruota di un piccolo angolo e l'altro estremo dell'ancora va a inserirsi tra due denti, mentre l'oscillatore è libero di muoversi senza perturbazioni. Per ogni oscillazione completa lo scappamento effettua una rotazione corrispondente a un passo della sua dentatura. Conseguentemente la forza motrice (sviluppata, come s'è detto, dalla molla del motore) si trasmette, mediante lo scappamento, all'oscillatore e, regolata da quest'ultimo, mediante ruotismi, alle lancette. Con l'applicazione del pendolo e della spirale di Huygens come regolatori della durata, con l'impiego della forza motrice del peso o della molla, nasce l'orologeria moderna come arte meccanica.
Per quanto riguarda gli orologi elettrici, l'origine di quelli al quarzo risale al 1900 e alla scoperta fatta da P. Curie di come una piastrina di cristallo al quarzo, inserita in un campo elettrico alternato, vibri con la frequenza costante di quello. Negli anni Sessanta si sono conseguiti tali perfezionamenti nel controllo delle vibrazioni dei cristalli di quarzo, da consentirne la miniaturizzazione e l'utilizzazione negli orologi da polso. L'orologio piezoelettrico è costituito da un oscillatore piezoelettrico, di norma un cristallo di quarzo tagliato a forma di diapason negli orologi da polso e a forma di sbarretta negli altri, la cui frequenza sia compresa fra qualche kHz e qualche MHz; l'oscillazione del quarzo viene demoltiplicata in frequenza mediante una catena di divisori elettronici di frequenza; a questa segue un dispositivo integratore e indicatore, od orologio propriamente detto, che generalmente è un motorino elettrico sincrono che aziona, attraverso adatti ruotismi, lancette indicatrici; sono anche usati dispositivi integratori e indicatori numerici di tipo elettronico. La precisione, a costi irrisori, di questi orologi, grazie soprattutto alla tecnologia giapponese, ha sconvolto il mercato, ed è parso compromesso il futuro dei modelli meccanici, la cui produzione si è rivolta a quelli di qualità particolarmente elevata, spesso accompagnata da preziosità decorative. La massiccia presenza giapponese sul mercato internazionale è stata contrastata, a partire dagli anni Ottanta del 20° secolo, dall'industria svizzera con la commercializzazione di un particolare modello di orologio al quarzo, caratterizzato dall'attenzione al design, che ha ben presto trasformato l'orologio in un oggetto di consumo. Un'ulteriore innovazione è rappresentata dalla realizzazione di orologi piezoelettrici, che, mediante un'antenna incorporata, possono collegarsi periodicamente via radio con un orologio atomico, situato nei pressi di Francoforte, per la rimessa all'ora e il cambio dell'ora legale, assicurando una precisione elevatissima (errore di 1 secondo in 1 milione di anni) per tutta la durata della vita dell'orologio.
Orologi atomici
Orologio atomico è la denominazione corrente data a campioni primari di tempo (propriamente, di frequenza). Il principio di funzionamento di tali orologi consiste nell'osservazione di un campo di microonde oscillante a una frequenza fissata e nel collegamento di tale campo a un regolatore di frequenza, che genera gli impulsi di temporizzazione. La stabilità della frequenza del campo è controllata dal numero di atomi che, sottoposti al campo di microonde, cambiano di livello energetico, tenuto conto del fatto che tale numero è massimo allorquando la frequenza di eccitazione del campo è pari alla frequenza di risonanza degli atomi. Questi orologi utilizzano atomi di cesio la cui frequenza di risonanza è relativamente alta, 9192 MHz, e la cui dispersione attorno a tale frequenza è relativamente bassa.