di Andrea Locatelli
Entro la fine del 2014, dopo circa tredici anni di occupazione, i contingenti militari occidentali impegnati nella missione ISAF (International Security Assistance Force) lasceranno l’Afghanistan. Alle operazioni, che dall’agosto del 2003 sono state condotte in ambito NATO, hanno partecipato formalmente 49 paesi. Il contributo di gran lunga più rilevante in termini di uomini, mezzi e costi, tuttavia, rimane quello fornito dagli Stati Uniti: nel 2011, ad esempio, la spesa autorizzata dal Congresso per le operazioni in Afghanistan ha toccato i 120 miliardi di dollari e, ancora alla fine del 2013, 60.000 sui circa 84.000 soldati presenti nel paese erano americani. Non stupisce quindi che sia stata in primis l’amministrazione Obama a caldeggiare l’idea di un ritiro massiccio dal paese.
Questa scelta si inserisce nella strategia di più lungo periodo volta ad assicurare che le Forze di sicurezza nazionali afghane fossero in grado di gestire in autonomia l’ordine interno al paese. A tal fine, nel 2009 fu avviata una profonda revisione strategica volta a eliminare le principali roccaforti dei talebani. Tale nuova strategia si basava su quattro punti:
1 La strategia Af-Pak, ovvero l’allargamento del teatro delle operazioni oltre il suolo afghano per includere il Pakistan.
2 L’adozione della strategia di contro-insorgenza, così come codificata nel 2006 dal generale Petraeus e sperimentata in Iraq dal 2007.
3 Un contributo significativo all’addestramento delle Forze di sicurezza nazionali afghane e un loro maggiore coinvolgimento nelle operazioni contro i talebani.
4 Il surge, ovvero l’incremento nel numero di soldati americani, che a metà 2011 ha raggiunto la significativa cifra di 100.000 uomini.
I successi non sono stati pari alle aspettative: per quanto il nuovo approccio abbia permesso di conseguire alcuni innegabili risultati, soprattutto a livello tattico, nel contesto più ampio della guerra contro i talebani rimane difficile sostenere che abbia portato gli insorgenti a un passo dalla resa, così come si sperava inizialmente. Al contrario, come testimoniato dal trend nel numero di attacchi perpetrati nel periodo 2009-12, non si è assistito ad alcuna significativa riduzione nella capacità offensiva (né tantomeno nella volontà di combattere) dei talebani. Questo rende il ritiro molto più rischioso e problematico di quanto non fosse stato previsto. In particolare, le Forze di sicurezza nazionali afghane si troveranno a dover superare due ordini di problemi.
Il primo è costituito dal fronte interno: per quanto le forze afghane nel complesso possano contare circa 187.000 soldati, le loro capacità rimangono limitate (in parte per mancanza di mezzi ed addestramento, ma anche per problemi di inefficienza e corruzione). Senza il supporto di una massiccia campagna di contro-insorgenza come quella condotta dalle forze ISAF, si stima che al massimo potranno controllare le aree già stabilizzate, senza riuscire a penetrare le regioni contese o ancora sotto controllo talebano.
Il secondo fronte è costituito dai talebani stessi: l’attuale ritirata è certamente il frutto della maggior pressione esercitata dalle forze ISAF, ma può essere letta altrettanto realisticamente come una scelta strategica in attesa dell’abbandono delle forze occupanti nel 2014: infatti, sebbene le province occidentali e le aree vicine a Kabul siano tendenzialmente stabilizzate, le regioni meridionali (Helmand e Kandahar) e quelle orientali (Konar, Laghman, Nangarhar) rimangono per i talebani una roccaforte sicura.
Se si vorrà evitare una situazione di stallo, sarà quindi necessario che la comunità internazionale mantenga un impegno a tempo indefinito e con funzioni ben più ampie rispetto al semplice addestramento. Apparentemente consapevole di queste circostanze, la NATO ha già dichiarato che il suo ruolo nella stabilizzazione dell’Afghanistan si protrarrà ben oltre la conclusione di ISAF, con l’istituzione della Resolute Support Mission, il cui obiettivo sarà di compensare tutte le carenze delle forze afghane – sostenibilità finanziaria, equipaggiamento, supporto aereo, intelligence.
Se si considera che il bilancio delle Forze di sicurezza nazionali afghane (pari a quasi 6 miliardi di dollari) è grosso modo il doppio rispetto alle entrate complessive dello stato, non è azzardato prevedere che l’onere che i paesi NATO dovranno accollarsi si aggirerà sui 5 miliardi di dollari (a cui dovranno aggiungersene altrettanti o più per l’addestramento e l’assistenza).
Anche senza impegnarsi in funzioni di combattimento, dunque, gli Stati Uniti e i loro alleati continueranno a giocare un ruolo chiave nella difficile partita tra forze governative e insorgenti.
Sarà probabilmente un ruolo meno visibile, meno oneroso in termini di perdite e di bilancio, e forse più sostenibile nel lungo periodo. Rispetto all’obiettivo ultimo – portare ordine e sicurezza in un paese devastato dalla guerra – non sarà comunque più semplice di quanto sia stato fino a ora.