Le elezioni generali tenutesi in Myanmar l’8 novembre 2015 hanno rappresentato una svolta epocale per il paese essendo le prime consultazioni libere dall’avvio, nel 2011, del processo di transizione politica top-down verso un sistema democratico che aveva posto fine a quasi cinque decadi di monopolio del potere da parte dei militari. La Lega nazionale per la democrazia (Nld) guidata da Aung San Suu Kyi è uscita vincitrice dal confronto con il Partito dell’unione dello sviluppo e della solidarietà (Usdp) del presidente Thein Sein con una vittoria oltre le aspettative. La Nld si è aggiudicata, infatti, circa il 60% dei 664 seggi che costituiscono le due camere del parlamento e, considerando che il 25% dei seggi rimane prerogativa dei militari, si evince che la percentuale di seggi conquistati supera l’80%. Dato, questo, che fornisce un’immagine inequivocabile della schiacciante vittoria della Nld, capace di raccogliere consensi oltre che nelle aree a maggioranza Bamar anche tra le minoranze residenti nelle regioni periferiche. Avendo superato la soglia dei 2/3 dei seggi contesi, la Nld si è così assicurata il diritto di formare il nuovo governo e la sua leader proprio in virtù di una così ampia maggioranza ha potuto apertamente dichiarare che, pur non potendo ambire alla presidenza a causa dei vincoli imposti dalla costituzione, sarà lei a governare de facto il paese. Tuttavia, al successo elettorale della formazione di Aung San Suu Kyi fa naturalmente da contraltare una debacle altrettanto marcata da parte dell’ex partito di governo (appoggiato dall’esercito) che ha perso circa 300 parlamentari. Appare significativo sottolineare la dimensione quantitativa dell’avvicendamento parlamentare perché anche alla luce di tale dato la pronta ammissione della sconfitta da parte dell’Usdp all’indomani del voto assume tutta la sua rilevanza. In altre parole, il riconoscimento della vittoria dell’avversario da parte dell’élite che ha governato il paese dal 1962 a oggi ha sancito la solidità del processo di transizione democratica sgombrando l’orizzonte dal rischio di un colpo di coda reazionario dell’esercito. Il comportamento dei vertici dell’Usdp ha quindi dato ragione a quegli osservatori che negli ultimi anni avevano definito irreversibile il processo di transizione in atto nel paese adducendo come motivazione del loro ottimismo gli innegabili benefici economici che il paese ha tratto dall’apertura diplomatica così come dalla liberalizzazione politico-economica. Del resto si può affermare che il Myanmar, paese dalle enormi potenzialità grazie soprattutto alle risorse naturali di cui dispone, si sia fermato per mezzo secolo: tra gli stati più ricchi della regione ad inizio anni Sessanta con un pil pro capite comparabile a quello di Thailandia e Indonesia, oggi registra un tasso rispettivamente tre e sei volte inferiore. Tuttavia la liberalizzazione interna unita alla rimozione delle sanzioni e al flusso di investimenti riversatosi nel paese negli ultimi anni hanno portato il Myanmar nel 2014 ad essere lo stato con il più alto tasso di crescita (+8,5%) dell’intero Sud Est asiatico. Sembra perciò che il successo economico praticamente immediato delle riforme abbia convinto larga parte del Tatmadaw a non compromettere il processo di transizione.
Se dunque le elezioni dell’8 novembre si inseriscono in questo contesto andando a costituire un altro passaggio fondamentale verso un regime pluralistico e democratico, va tuttavia sottolineato che a causa del potere di veto in materia di riforma costituzionale garantito all’esercito dal controllo del 25% dei parlamentari e del diritto del capo dell’esercito di nominare i ministri della Difesa, dell’Interno e degli Affari di Confine, il Myanmar non è ancora una democrazia compiuta, piuttosto sembra più opportuno adottare la definizione di democrazia disciplinata. In conclusione, se le ultime elezioni possono essere considerate un successo e un momento cruciale della transizione birmana verso la democrazia, è altrettanto vero che la responsabilità politica grava ora su Aung San Suu Kyi e sui neo-parlamentari della Nld, per lo più alla loro prima esperienza. Se a ciò si combinano le complesse sfide che attendono il nuovo governo, dalle trattative per il cessate il fuoco con le minoranze etniche, all’emergenza dei rohingya (taciuta in campagna elettorale), allora emerge chiaramente quanto l’8 novembre 2015 non sia tanto un punto d’arrivo quanto un potenziale trampolino di (ri)lancio.