a capo [prontuario]
L’a capo (o accapo, nome maschile invariabile) si ha quando in un testo scritto la frase è seguita da uno spazio bianco fino alla fine della riga. Spesso, ma non necessariamente, la riga di testo successiva che segue l’a capo comincia con un rientro tipografico.
Sinonimo di a capo è capoverso, talvolta confuso con paragrafo (per via dell’inglese paragraph): questo termine, oltre che il segno grafico, indica invece una sezione, preceduta da una riga bianca e spesso numerata e/o titolata, di cui si compone il capitolo. Con accezione estensiva, si intende con capoverso anche la porzione di testo compresa tra due a capo.
L’a capo può dunque essere considerato un ‘superpunto’, ovvero un segno paragrafematico (➔ paragrafematici, segni) che svolge la stessa funzione del ➔ punto per porzioni di testo più ampie della frase e del periodo, secondo quanto riconosciuto già dai primi grammatici dell’italiano (Serianni 2007: 56-60). Nel suo trattato grammaticale intitolato Avvertimenti della lingua italiana sopra ’l Decamerone (1584) il fiorentino ➔ Lionardo Salviati distingue, ad es., vari tipi di punto, e il più forte, detto punto trafermissimo, viene contrassegnato dalla maiuscola e per l’appunto dal capoverso.
La prospettiva ‘testuale’ introdotta da Salviati è ripresa dai trattatisti dei secoli successivi, tra i quali Daniello Bartoli. Chiudendo il trattato Dell’Ortografia italiana (1674) con un paragrafo dedicato al capoverso (termine che, come nota l’autore, era allora un tecnicismo della tipografia: «Così chiamo con gli stampatori il tornar la scrittura da capo»), il Bartoli osserva che gli antichi non usavano l’a capo e che, viceversa, alcune lettere commerciali d’ambito tecnico ne abusano, riducendo «in minuzzoli la scrittura» (cit. da Marazzini 2008: 143-144).
Di là dai benefici risvolti pratici (la pagina risulta visivamente più leggera e dunque meno faticosa per la vista), l’espediente grafico dell’a capo riflette la struttura del discorso, evidenziando un momento di passaggio dall’argomento che ha dominato il capoverso precedente a un argomento diverso. La progressione del discorso segnata dall’a capo è particolarmente evidente quando la nuova porzione di testo è accompagnata da ➔ connettivi testuali e da ➔ incapsulatori, che trovano nell’a capo uno dei luoghi deputati.
L’uso dell’a capo è oggi rispettato in tutta l’editoria a stampa, nei testi argomentativi (saggistica), narrativi (romanzi) e informativi-descrittivi (guide, testi scolastici) (➔ testo, tipi di). Svolge una funzione tecnica nei testi legislativi, dove, insieme ad altri segnali (il rientro iniziale e il punto fermo finale) individua il comma.
L’a capo è frequente anche nella stampa giornalistica, sebbene ragioni di editing, ovvero di segmentazione materiale del testo, possano a volte condizionarne l’uso, soprattutto nei quotidiani, più di quanto non facciano le motivazioni sintattico-testuali.
L’esigenza di rendere più agevole la lettura è particolarmente sentita nell’editoria web, dove l’allestimento della pagina deve tenere conto del maggiore affaticamento visivo che provoca la lettura allo schermo: insieme a frequenti a capo (nell’editing web perlopiù senza rientro) si ha dunque molto spesso anche il paragrafo (Gualdo 2007: 62). Talvolta, come ad es. nei siti dei maggiori quotidiani nazionali, le prime parole del capoverso possono essere evidenziate dal grassetto.
Fuori dall’editoria a stampa o web, il capoverso è importante in qualsiasi tipo di scrittura attenta alla forma, oltre che naturalmente in alcune tipologie testuali standardizzate (tipicamente la lettera, dove figura dopo l’allocuzione iniziale e prima del commiato, e alcune scritture burocratiche: cfr. Cortelazzo & Pellegrino 2003: 52-55; Del Fiorentino 2003: 161-166; Raso 2005: 64 e 106-111; ➔ lettere e epistolografia; ➔ burocratese; ► stile epistolare).
L’uso dell’a capo ha una buona tenuta anche nelle lettere formali o mediamente formali della posta elettronica (➔ posta elettronica, lingua della); è invece più raro l’uso del rientro dopo l’a capo che segue l’allocuzione iniziale.
Da ricordare, tra gli ambiti tecnici, quello letterario e, nella fattispecie, poetico (➔ lingua letteraria; ➔ lingua poetica). Nella poesia italiana tra secondo Ottocento e primo Novecento, ma anche successivamente, viene meno il tradizionale contrassegno del testo poetico − il verso metricamente e ritmicamente codificato racchiuso in definiti schemi strofici e rimici (➔ versificazione) − e a contraddistinguere formalmente la poesia rimane spesso il solo a capo (o il ➔ ritmo) interno del verso, con valore «di sottolineatura di uno scarto sintattico, di balzo logico, di caduta o impennata, comunque di stacco tonale ecc.» (Menichetti 1993: 454). È quanto accade, ad es., in «che funghisce su sé [...] – / Il vento del giorno» (Eugenio Montale, “Voce giunta con le folaghe”, in La Bufera). L’a capo è sfruttato come risorsa stilistica anche da alcuni prosatori tra Ottocento e Novecento (Federigo Tozzi nelle novelle, Scipio Slataper in Il mio Carso, Silvio D’Arzo in Casa d’altri; cfr. Mengaldo 2003: 41 e Tonani 2008: 33-34).
Infine, si può notare che quando l’a capo non è una scelta dello scrivente − che, come è stato detto fin qui, passa alla riga successiva per ragioni sintattico-testuali o di allestimento della pagina stampata, come avviene anche negli elaborati scolastici più accurati − ma è reso necessario perché la scrittura è giunta alla fine del rigo, si ha la tendenza a evitare la divisione in sillabe della parola (► sillabe, divisione in). Ciò accade sia nella scrittura a penna (forse anche, nelle scuole superiori, per una competenza non sempre sicura delle regole di scansione sillabica: Serianni & Benedetti 2009: 166), sia nella scrittura al computer, i cui programmi di scrittura privilegiano l’integrità della parola spaziando diversamente le lettere e le parole che compongono la riga. Si noti tuttavia che un testo videoscritto così composto viene spesso rielaborato nel passaggio alla carta stampata: l’editoria a stampa (libri, riviste, quotidiani) tende infatti a rispettare, tradizionalmente, la divisione interna in sillabe.