ABATE, ABADESSA (anche abbate e abbadessa o badessa)
Il nome (greco ἀββάς, lat. abbas) viene dall'aramaico ᾿abbâ "padre": nome con cui in origine (sec. IV-V) furono chiamati, in Egitto e in Oriente, i monaci più anziani dai loro discepoli, e tutti i monaci dai laici.
S. Girolamo, tuttavia (In Epist. ad Gal., IV, 6), protestava contro quest'uso, fondandosi appunto su quel passo di S. Paolo, secondo il quale l'appellativo di "padre" va dato a Dio. Del resto, il capo di un monastero era detto per lo più egùmeno (secondo la pronuncia recente, igùmeno, ἡγούμενος, participio presente di ἡγέομαι "sono guida, son capo") o archimandrita (ἀρχιμανδρίτης, da ἄρχω, e μάνδρα, secondo ogni probabilità già nel senso di "gregge": cfr. l'ital. mandra). Questi termini prevalsero nei monasteri greci, mentre in occidente il nome praepositus (parallelo al greco προεστώς pure usato in epoca antica), attestato nel sec. V (Cassiano), cedette il luogo ad abate, per influenza della regola benedettina, nella quale appunto il praepositus era secondo dopo l'abate, che è il capo di una comunità di almeno dodici monaci. Nella Francia merovingica si estese il titolo di abbas ai preti secolari preposti ad una chiesa, e si ebbero l'abbas palatinus (cappellano di corte) e l'abbas castrensis.
Oltre i monaci basiliani e i benedettini, hanno l'abate anche i canonici regolari e gli eremiti di S. Girolamo. Nei tempi più antichi, né il capo né i membri della comunità ricevevano il presbiterato; anzi il papa S. Gregorio Magno (590-604), già egli stesso monaco, volendo assicurare la perfetta attuazione pratica della regola benedettina, non solo fissò rigidamente i limiti della giurisdizione episcopale, ma giunse a vietare ai chierici regolari la direzione dei monasteri, e a proibire, nella diocesi di Ravenna, che abati e monaci ricevessero gli ordini sacri. Tuttavia l'uso, d'origine orientale, di conseguire gli ordini maggiori si estese sempre più, ed il concilio romano dell'826 impose il sacerdozio come il primo dei requisiti per l'abate. Varî abati furono anche vescovi, specialmente in Inghilterra, dove la missione di S. Agostino di Canterbury, fedele alle istruzioni impartite da Gregorio Magno, impresse a tutta la chiesa un carattere nettamente monastico. Fino alla soppressione degli ordini religiosi, effetto della Riforma del sec. XVI, nove cattedrali furono servite dai benedettini, e ancor oggi membri della congregazione inglese portano i titoli di priori cattedrali di queste sedi, mentre allo stesso ordine fu assegnata, in perpetuo, la sede di Newport, eretta nel 1850.
L'abate è il capo naturale del monastero da lui fondato: secondo la lettera e lo spirito della regola benedettina, egli è il signore assoluto del monastero. Ciascun monastero è indipendente. Tranne alcuni rari casi, in cui l'abate designa il proprio successore, questo è eletto dai monaci (così secondo la regola di S. Benedetto), salvo talvolta il diritto dei vescovi e dei fedeli di opporsi a nomine scandalose. Inoltre, già nell'epoca carolingica, specialmente pel diritto di patronato, la nomina degli abati fu fatta da principi e feudatarî. Ciò condusse a quella feudalizzazione delle abbazie, contro la quale reagì in primo luogo la riforma che prende il nome dall'abbazia di Cluny che se ne fece iniziatrice; quantunque precisamente il primo abate di Cluny, Bernone, fosse eletto direttamente dal fondatore di quell'abbazia, Guglielmo I il Pio, duca d'Aquitania. In questi abusi è l'origine remota delle mensae, commendae, ecc. Ma appunto la riforma del sec. XI restituì ai monaci il diritto d'elezione degli abati, facendolo riconoscere e confermare da papi, imperatori e re.
Eletto dai monaci, l'abate, nei tempi più antichi, veniva confermato dal vescovo. La cerimonia, che riceve talvolta, per estensione, il nome di ordinazione (Reg. bened., c. 64, de ordinando abbate), non era, nei tempi più antichi, uniforme; divenne una funzione solenne, che ha molta somiglianza con la consacrazione episcopale, a partire dal sec. XIII, cioè da quando si generalizzò a tutti gli abati il privilegio delle insegne episcopali. Questi onori, che da principio parvero ai vescovi un'usurpazione, e contro i quali protestò debolmente il concilio lateranense del 1123, furono tuttavia concessi, a quanto pare, per la prima volta, nel 970, dal papa Giovanni VIII all'abate di S. Vincenzo di Metz, poi da Leone IX a quello di Montecassino (1050) e da Alessandro II (1067) a quello di S. Agostino di Canterbury. Tuttavia, teologicamente, la benedizione dell'abate si distingue sempre dalla consacrazione: essa è un semplice sacramentale, mezzo d'impetrare una grazia che rende l'eletto pari alla sua nuova dignità. Solo dopo aver ricevuto la benedizione, l'abate può conferire gli ordini minori e la tonsura ai suoi sudditi (Conc. Trident., sess. XXIII, De ref., c. X). Questo diritto, limitato alla tonsura e al lettorato dal secondo concilio di Nicea (787), fu poi esteso fino al diaconato da Innocenzo IV.
Quello di abate è dunque ora nome di ufficio, segno di onore, e dignità maggiore nella chiesa. Nella gerarchia ecclesiastica, gli abati vengono dopo i vescovi e nei loro monasteri hanno piena giurisdizione sui proprî sudditi. Quando nel Medioevo le grandi abbazie acquistarono vaste possessioni, molti abati ottennero dai papi l'esenzione dalla giurisdizione episcopale e la giurisdizione non solo sui monaci, ma anche sui fedeli che dimoravano nelle loro terre. Si ritiene da alcuni storici che tale privilegio fosse concesso per la prima volta da S. Gregorio Magno all'abate di S. Cassiano di Marsiglia, e a quello dell'Ospedale di Autun: certo numerose sono le formule del Liber diurnus che accordano tali esenzioni; un altro esempio di grande importanza fu dato dal fondatore di Cluny, che volle porre l'abbazia alle dipendenze dirette della Santa Sede.
La giurisdizione degli abati è però considerata sempre, come appare dal nome, quale un'eccezione; essa è propriamente un'esenzione dalla potestà episcopale. Si distinguono pertanto gli abati in tre gradi: a) quelli che esercitano la giurisdizione soltanto sulle persone, ecclesiastiche o laiche, dipendenti dal monastero, e cioè godono della semplice esenzione passiva; b) quelli che godono di una esenzione attiva, nel senso che la loro autorità si estende anche ad una parte del territorio della diocesi in cui l'abbazia è situata; c) e finalmente gli abati la cui giurisdizione si estende sopra un territorio che non è propriamente una diocesi a sé, ma non fa parte di nessuna diocesi, in modo che, ad eccezione di alcuni uffici che possono solo essere esercitati dai vescovi, cioè l'ordinazione dei chierici negli ordini maggiori e la consacrazione degli olî santi, questi abati (detti appunto nullius dioeceseos o semplicemente nullius) hanno autorità e diritti (e obblighi) pari a quelli dei vescovi. Del resto, le abbazie nullius sono, in tutto il mondo cattolico, una ventina: segnaliamo, in Italia, quelle di Montecassino, Cava, S. Barbara di Mantova, Montevergine presso Avellino, Monte Oliveto maggiore presso Siena, S. Lucia del Mela (Sicilia), Nonantola (sempre unita all'arcivescovado di Modena), Subiaco, S. Paolo fuori le mura di Roma, S. Martino sul M. Cimino. Queste abbazie (Codex iuris canonici, c. 319), ove constino di almeno tre parrocchie, sono governate in modo analogo alle diocesi; se no, con norme speciali. Del resto, a proposito delle abbazie nullius, è chiaro che non si può parlare neppure di esenzione in senso proprio, essendo la giurisdizione di questi abati extraterritoriale.
Fin da un'epoca molto antica relativamente alle origini del monachismo cristiano, gli abati, in ragione dell'importanza sempre maggiore acquistata dagli ordini religiosi, ebbero posto nei concilî, sia generali, sia particolari. Storicamente basterà ricordare la parte ch'essi ebbero in alcuni concilî, come in quello di Costantinopoli del 448, al quale assistettero ventitré archimandriti, che firmarono, insieme con i trenta vescovi, la condanna di Eutiche. In Occidente, parecchi assistettero ai concilî francesi e spagnoli, ma la loro presenza, in quanto abati, e senza delegazione dei vescovi, divenne regolare solo con l'ottavo concilio di Toledo, del 653.
Sull'origine e il carattere di questo diritto si discusse; l'opinione più probabile è ch'esso spetti agli abati in virtù della loro potestà di giurisdizione, non di una potestas ordinis che non hanno. La commissione preparatoria del concilio vaticano ammise a parteciparvi gli abati nullius, gli abati generali delle congregazioni monastiche di tipo corporativo, i superiori generali degli ordini religiosi. Gli abati con giurisdizione extraterritoriale (exemptio activa) possono prendere parte ai sinodi provinciali; il concilio tridentino impose loro, come ai vescovi non suffraganei, di scegliere un metropolitano che li convochi. Gli abati con esenzione semplice (giurisdizione intra-territoriale) vi possono avere tutt'al più voto consultivo. Gli abati nullius possono convocare i sinodi diocesani, ma solo dove esista una tradizione in questo senso.
Secondo la regola di S. Benedetto, come s'è detto, ogni abbazia è indipendente. In Oriente invece, mentre S. Basilio raccomandava agli archimandriti di consultarsi spesso, in talune diocesi si giunse ad avere una specie di federazione degli abati, sottoposti ad un archimandrita dei monasteri (o esarca dei monaci) nominato dal vescovo. Nella Francia merovingica si ebbero riunioni del genere, sotto la presidenza dei vescovi. Ma la centralizzazione non andò oltre; ed ebbe carattere assolutamente eccezionale, come fu cosa effimera l'autorità sulle abbazie imperiali di cui Ludovico il Pio investì S. Benedetto d'Aniano. Ma la riforma di Cluny, con la creazione di nuove abbazie, l'incorporazione di altre, giunse alla costituzione di una formidabile congregazione, che sottoponeva più di trecento monasteri direttamente all'abate di Cluny; e qualche cosa di simile, sebbene la centralizzazione fosse meno spinta, si verificò con la riforma cisterciense, che sottopose tutte le case (indipendenti l'una dall'altra) al capitolo generale degli abati, che si radunava a Cîteaux sotto la presidenza di quell'abate. La centralizzazione, tuttavia, nell'ordine benedettino non fece ulteriormente grandi progressi: benché, aggruppatisi i monasteri in varie congregazioni, secondo le costituzioni di Benedetto XII 1334-42), ne risultasse di conseguenza in tutte la preponderanza dell'abate della casa principale, detto arciabbate, o abate generale o presidente. Ai nostri giorni, riunite in federazione per opera del papa Leone XIII le varie congregazioni, il capo di tale federazione fu detto abate primate (quello dei benedettini neri risiede in S. Anselmo di Roma dal 1893). I trappisti, d'origine benedettina, hanno anch'essi, dal 1892, un abate generale.
Nei secoli XIV e XV, specialmente, venuto meno o ridotto assai il numero dei monaci in molte abbazie, le principali furono affidate, o commendate, come benefìci, a vescovi e cardinali, detti perciò abati commendatarî; le secondarie a capitoli, canonici, e semplici preti; e si ebbero così gli abati secolari, in contrapposizione ai regolari, cioè veri superiori di ordini religiosi. In Francia specialmente, dove per il concordato tra Leone X e Francesco I quasi tutte le abbazie erano conferite dal re, quasi ogni sacerdote ne ebbe in beneficio una: onde l'estensione del vocabolo abbé ad ogni ecclesiastico (cfr. anche l'uso dell'italiano abatino).
Il nome di abbadessa (abbatissa) fu dato, per analogia, alle preposte a monasteri femminili di monache benedettine. Anch'esso è relativamente recente (lo si trova nell'iscrizione di Serena, in S. Agnese fuori le mura, a Roma, che ha la data consolare del 514). Prima, gli appellativi più comuni erano quelli di mater o praeposita (paralleli ad abbas e praepositus). Anch'esse ebbero pieni diritti sulle loro suddite, e acquistarono nel corso dei secoli varî privilegi e gli onori di una speciale solenne benedizione impartita dal vescovo. Talvolta, ma questi casi furono sempre considerati come abusi, e repressi, tentarono altresì di usurpare autorità e funzioni di carattere sacerdotale. Oltre le monache benedettine e le canonichesse, hanno l'abbadessa anche le francescane, o clarisse, e le domenicane.
Bibl.: Regula S. Benedicti; Mabillon, Annales Ord. S. Benedicti, Lucca 1739; Molitor, Iuris regularis capita selecta, Roma 1909; Codex iuris canonici, Roma 1918; J. M. Besse in Dictionn. d'archéol. chrét. et de liturgie, Parigi 1924, I, i, s. v.; P. De Langogne in Dictionn. de Théologie catholique, 3ª ed., Parigi 1923, I, i, s. v.; L. Ferraris, Prompta bibliothecea canonica, Roma 1885; Sagmüller, Lehrbuch des katholischen Kirchenrechts, Friburgo in Brisgovia 1904; J. Chapman, in Hastings, Encycl. of Religion and Ethics, Edimburgo 1925, I, s. v.; U. Berlière, L'Ordine monastico, trad. ital. di M. Zappalà, Bari 1928.