ABARBANEL, Giuda, detto Leone Ebreo
Nacque a Lisbona fra il 1460 e il 1465, da Isacco, studioso del pensiero religioso ebraico, delle dottrine talmudiche e dei segreti della Cabala, divenuto, per le sue attitudini di amministratore, tesoriere e ministro di re Alfonso V l'Africano, sotto il cui regno il Portogallo godé di un periodo di floridezza economica e di gloria militare, di tolleranza religiosa e di rinascita nelle scienze, nelle lettere e nelle arti. Con la guida del padre, e forse di Giovanni Sezira, il giovane fu avviato agli studi.
Caduto in disgrazia Isacco sotto il regno di Giovanni II, il figlio nel 1484 lo segui nell'esilio a Siviglia, ove esercitò con plauso la medicina, fino a diventare medico personale, a quanto pare, di Ferdinando il Cattolico e di Isabella di Castiglia. Scoppiata nel 1492 la persecuzione contro gli Ebrei, il padre dovette prendere la fuga per Napoli. Il re avrebbe voluto trattenere Leone, come ormai l'A. si faceva chiamare, ma a condizione ch'egli lasciasse battezzare il figlioletto Isacco, in cui si ripeteva il nome del nonno. L'A. rifiutò e, trafugato il piccolo in Portogallo, raggiunse il padre a Napoli. Ma il figlioletto, prima imprigionato, fu sottoposto a battesimo forzato, per decreto del re portoghese e affidato, per l'educazione cristiana, ai frati domenicani. Il padre non lo rivide più, e le notizie che n'ebbe amareggiarono tutta la sua vita.
A Napoli trovò ben maggiore tolleranza e poté dedicarsi all'esercizio della medicina e agli studi della filosofia, stringendo relazioni con correligionari e con cristiani, protetto, lui e i suoi, da Ferdinando II d'Aragona. È verosimile che conoscesse Giovanni Pico della Mirandola e che per suggerimento di lui scrivesse il De caeli harmonia, oggi perduto.
Per fuggire i Francesi entrati in Napoli il 21 febbr. 1495, si recò a Genova ove pose mano ai Dialoghi d'Amore. Ma nella primavera del 1501 improvvise leggi contro gli Ebrei lo costrinsero ad abbandonare Genova e a raggiungere il padre a Barletta, ove doveva trovarsi il 10 maggio, quando Federico d'Aragona invitò l'uno e l'altro a ritornare a Napoli ai suoi servizi. L'A. accolse l'invito, mentre Isacco si stabili a Venezia, ove, pochi anni dopo, il figlio si recò a visitarlo ed ove compose l'appassionata Elegia sopra il Destino, ispirata al ricordo doloroso delle sue sventure.
Fugati gli Aragonesi, dopo la sconfitta del Garigliano, l'A. ebbe nel grande Gonzalo de Córdoba un liberale protettore che lo nominò suo medico. Ma caduto questo in disgrazia, temendo la vendetta di Ferdinando il Cattolico, l'A. raggiunse di nuovo il padre a Venezia, ove si trovava quando Saul Cohen indirizzò da Candia a Isacco dodici dubbi filosofici e su di essi chiese anche il parere del figlio intento a penetrare nel sistema d'Aristotele e a seguirne "una singolare via di profonda investigazione, interpretando le sentenze sapienziali tramandate dall'antichità in modo da scoprirvi parabole e allegorie". E Isacco, a proposito del dubbio intorno alla materia primordiale, risponde che l'A. "appartiene indubbiamente ai più valenti filosofi d'Italia" di quel tempo, e ci fa sapere che, a suo avviso, le opinioni di Averroè su quell'argomento sono le più ambigue e le più inesatte, e che la materia prima, secondo il parere del figlio, è da identificare con la "corporeità", come pensavano Avicenna e, per quel che concerne il mondo corporeo, Avicebron o Ibn Gèbiròl. Isacco morì nel 1508, mentre l'A. attendeva verosimilmente a condurre a termine la sua opera maggiore.
Nel 1516 risiedeva con un fratello a Ferrara. Nel 1520 era a Pesaro per curare l'edizione paterna del Commentario sopra gli ultimi Profeti, cui premise l'elegia in lode del genitore. Il 28 dicembre dello stesso anno, il viceré di Napoli, Ramón de Cardona, con rescritto sancito da Carlo V (che fu reso esecutivo dal rescritto del 15 maggio 1521), concedette ampi favori e privilegi a "León Abravanel y su casa y todos que son comprehendidos en su linage".In questo terzo soggiorno napoletano l'A. poté esercitare con fama la medicina, fu medico del viceré ed ebbe l'onore di curare il cardinale Raffaele Riario. Nello stesso anno, si adoprò con successo a che non venisse pubblicato a Napoli l'editto che imponeva agli Ebrei di portare la berretta gialla, come a Venezia e in altri stati italiani. Non sappiamo dove e quando sia morto, prima certamente che i Dialoghi d'Amore fossero stampati nel 1535.
Oltre ai Dialoghi, ci restano di lui cinque poesie ebraiche (sono pubblicate in versione letterale italiana nel volume dei Dialoghi a cura di S. Caramella, Bari 1929).
Fra quest'ultime, è bellissima la prima per il sentimento concitato nella rievocazione delle sue sventure e specialmente per il tenero ricordo del figlioletto rapitogli, e importantissima anche per gli accenni autobiografici, come quello di aver preso parte alle discussioni coi saggi di Edom, evidentemente in una o più università italiane, e di averli battuti o posti in serio imbarazzo.
Ma il nome dell'A. è soprattutto legato ai tre Dialoghi d'Amore, pubblicati a Roma nel 1535, dopo la sua morte, da Manano Lenzi e dedicati a madonna Aurelia Petrucci. L'opera scritta, secondo la concorde testimonianza di molti contemporanei, in italiano, sebbene altri abbia pensato allo spagnolo o all'ebraico, rientra nella ricca letteratura italiana quattro-cinquecentesca sull'amore platonicamente inteso. Ma mentre questa letteratura è in gran parte retorica e di scarsa importanza filosofica, l'opera dell'A. se ne distacca per maggiore vigore logico nel tentativo di accordare Platone e Aristotele, interpretato da Avicenna e da Averroè, col pensiero mosaico esposto allegoricamente dalla Cabala. Per questo l'opera che si avvicina di più ai Dialoghi dell'A, è senza dubbio il commento di Giovanni Pico della Mirandola alla Canzona d'Amore composta per Hieronymo Benivieni (della quale possediamo l'edizione a cura di E. Garin, nel volume: Giovanni Pico della Mirandola, De hominis dignitate, Heptaplus, De ente et Uno e Scritti vari, Firenze 1942, pp. 10-18, 443-581),che non il commento del Ficino al Simposio platonico. Ma mentre il Pico ostenta la sua vasta erudizione, non sempre ben digesta, l'A. mostra di averla ben più approfondita.
Comuni ad entrambi, oltre la distinzione plotiniana e ormai divulgata tra la "Venere terrena" e quella "celeste", sono i concetti di appetito naturale che si quieta nel bene, e di amore che ha per oggetto la bellezza nel cui acquisto vieppiù s'accende, la simpatia per la dottrina averroistica della copulatio dell'intelletto umano con la suprema bellezza, che è principio di ogni intelligibilità. Comune è altresì non soltanto lo schema platonico-aristotelico dell'universo, ma l'accenno a una curiosa dottrina cabalistica che permette di conciliare l'eternità del mondo e l'affermazione platonica e biblica che questo mondo ha avuto origine nel tempo ed è destinato a dissolversi (Pico, op. cit., pp. 469-470; Leone Ebreo, ed. Caramella, pp. 240-252), distinguendo l'eternità del Caos e la temporaneità dei mondi tratti successivamente da esso, sì che Sofia può dire a Filone: "Mi piace vederti fare Platone mosaico e del numero de' cabalisti".
Si è parlato da taluni di panteismo, a proposito del rapporto tra Dio e il mondo stabilito dall'Abarbanel. Ma Dio, per lui, è perfetto in se stesso; tutti gli esseri creati han bisogno di lui da cui dipendono, ma "lui di nissuno" (p. 42); Dio li crea non per necessità di natura, ma per libera volontà dal nulla (p. 239). Causa prima di tutte le cose che da lui provengono per libera creazione, gli esseri creati partecipano della perfezione di lui, e a lui anelano di ritornare, come a fine ultimo. Quello che lega Dio al mondo è un rapporto d'amore: creando, Dio si dona, e ama se stesso nelle creature, le quali attrae a sé come sommo bene e suprema bellezza, in un atto d'amore intellettuale risultante dalla "copulazione" dell'intelletto creato con l'intelletto divino, che l'uomo raggiunge quando l'anima sia "separata da questa colligazione corporea". Si tratta della ὁμοίωσις ϑεῷ κατὰ τὸ δυνατόν di Platone (Thaeet.,126b, Rep,X,613a-b) e dei neoplatonici, ma espressa con più forza e con più vivace sentimento di certezza, sì da preludere all'"amor Dei intellectualis" di Spinoza (che possedeva l'opera dell'A.) e all' "heroico furore" del Bruno.
Bibl.: Per la vita e gli scritti dell'A., per le questioni concernenti la lingua in cui furono scritti i Dialoghi, la prima edizione e la fortuna dell'opera e relativa bibliografia fino al 1929, si veda la Nota di S. Caramella, alla fine della sua edizione dei Dialoghi stessi, già citata. Per gli anni posteriori al 1929, I. Sonne, Intorno alla vita di Leone Ebreo, in La cultura moderna, XLIV (1934), pp. 163-193; G. Fontanesi, Il problema dell'amore nell'opera di Leone Ebreo, Venezia 1934; E. Garin, La filosofia, II, Milano 1947, pp. 78-83; G. Saitta, Il pensiero italiano nell'Umanesimo e nel Rinascimento, II, Bologna 1950, pp. 79-107; C. Dionisotti, Appunti su Leone Ebreo, in Italia medioevale e umanistica, II, Padova 1959, pp. 409 ss.