ABBĀSIDI (Banū 'l-‛Abbās, \arabo\)
La dinastia dei califfi, succeduta a quella degli Omayyadi (Ommìadi), che tenne il califfato fino alla caduta definitiva di questo per opera dei Mongoli nel 656 dell'ègira (1258 d. C.). Il suo nome ("i discendenti di al-‛Abbās") deriva da quello del trisavo del suo fondatore, al-‛Abbās ibn ("figlio di") ‛Abd al-Muṭṭalib, zio del profeta Maometto. A questa parentela si riannodano le fortune della famiglia: il figlio di al-‛Abbās, ‛Abd Allāh (morto circa 70 èg. = 689-90 d. C.), ebbe parte nella guerra civile tra il 4° califfo ‛Alī e gli Omayyadi e si acquistò fama di profondo conoscitore del Corano, delle tradizioni religiose risalenti a Maometto e della storia sacra preislamica. Il suo prestigio si trasmise ai suoi discendenti, cui il trionfo degli Omayyadi inibì per quasi un secolo la partecipazione diretta al potere. Durante questo tempo gli ‛Abbāsidi estesero la loro influenza nelle regioni orientali dell'impero musulmano e specialmente nel Khorāsān, dove s'iniziò, sulla fine del primo secolo dell'ègira, un intenso movimento di propaganda segreta (da‛wah), rigidameme organizzata che tendeva a rovesciare la dinastia omayyade per sostituirle (così si diceva ufficialmente) quella dei discendenti del califfo ‛Alī, nel quale un numeroso partito di musulmani (la Shī‛ah) riconosceva la sola legittima trasmissione del califfato. Maturatosi il movimento insurrezionale, la rivolta scoppiò nel Khorāsān e in breve ebbe ragione della resistenza degli Omayyadi, ormai in piena decadenza. Nonostante il valore personale dell'ultimo califfo omayyade, Marwān II, i ribelli occuparono al-Kūfah, sotto il comando di Abū 'l-‛Abbās ‛Abd Allāh ibn Muḥammad. Questi, anziché trasmettere il califfato agli ‛Alidi, si fece proclamare califfo e nel medesimo anno (132 ègira = gennaio 750) mise in rotta Marwān sul fiume az-Zāb in Mesopotamia; l'Omayyade fu poi nuovamente sconfitto e ucciso mentre tentava di rifugiarsi in Egitto.
Giunto al potere, Abū 'l-‛Abbās si sbarazzò col tradimento dei membri superstiti della famiglia omayyade, dei quali, dopo averli attirati a un convito, fece strage (scampò soltanto uno di essi, ‛Abd ar-Raḥmān (v.), il futuro fondatore del regno, poi califfato, degli Omayyadi di Spagna). A torto tuttavia la tradizione collega a questo atto di crudeltà il soprannome as-Saffāḥ (il sanguinario"), portato da Abū 'l-‛Abbās: tale soprannome (laqab) dev'essere inteso invece nel senso di "il generoso" ed ha carattere onorifico, quale hanno, tuttavia con colorito religioso, quelli che costantemente furono portati dai suoi successori e che finirono coll'assumere carattere ufficiale e col prevalere, nell'uso, sui loro nomi personali.
Gli ‛Abbāsidi, che erano giunti al potere supremo sfruttando il sentimento pietistico e legittimistico delle masse favorevoli alla restaurazione degli ‛Alidi, poterono venir meno all'impegno di rimetter questi sul trono e riuscirono a conservare per sé il califfato, grazie soprattutto all'appoggio delle milizie del Khorāsān fanaticamente devote ad essi ed eccellentemente organizzate. Essi ebbero cura, tuttavia, di dare al proprio governo un colorito spiccatamente religioso, in contrasto con quello che, a torto o a ragione, l'opinione dei fedeli aveva condannato negli Omayyadi, accusati di aver tralignato empiamente dalla buona norma di governo istituita da Maometto e seguìta dai primi quattro califfi, e di essere stati piuttosto re tirannici che custodi e pastori della comunità musulmana. Equivocando sul termine "famiglia di Maometto", gli ‛Abbāsidi affermarono che tale requisito si trovava in loro allo stesso grado che negli ‛Alidi (infatti tanto al-‛Abbās, il loro capostipite, quando Abū Ṭālib, padre di ‛Alī, erano zii di Maometto), e che pertanto il principio della legittimità era perfettamente adempiuto nel loro califfato. S'intende che siffatta pretesa non venne accolta come buona dagli Sciiti, i quali continuarono sotto gli ‛Abbāsidi, come avevano fatto sotto gli Omayyadi, a protestare contro l'usurpazione del potere spettante agli ‛Alidi; e tali proteste sboccarono, come già era stato prima, in aperte ribellioni, che vennero soffocate nel sangue con non minore ferocia di quella spiegata dagli Omayyadi. Tuttavia la maggioranza dei musulmani finì coll'acconciarsi al dominio degli ‛Abbāsidi, soprattutto per effetto del lungo e saggio regno del fratello e successore di Abū 'l-‛Abbās, al-Manṣūr (v.) (136-158 èg. = 754-775 d. C.), il quale riorganizzò lo stato e trasportò la capitale a Baghdād, la nuova città da lui fondata sulle rive del Tigri nel punto di confluenza delle vie che scendono dall'altipiano iranico, in posizione favorevole rispetto al nuovo assetto dell'impero musulmano, il quale aveva ora il suo centro di gravità nelle provincie orientali anziché in Siria come era stato sotto gli Omayyadi.
Nel trapasso del potere dagli omayyadi agli ‛Abbāsidi si è voluto vedere la fine del predominio dell'arabismo e il trionfo dell'iranismo nel mondo musulmano. Tale concezione storica è erronea se la si intenda in senso assoluto: non soltanto la dinastia degli ‛Abbāsidi è altrettanto araba quanto quella degli Omayyadi (appartenendo l'una e l'altra a due rami molto prossimi della tribù meccana dei Quraish, dalla quale era uscito Maometto); ma per lungo tempo le cariche supreme del governo e della milizia furono per lo più in mano di Arabi. È vero tuttavia che nell'età ‛abbāside si intensificò quel processo di reciproco assorbimento di elementi diversi di civiltà, tra cui una parte cospicua spetta alla civiltà persiana dal quale assorbimento è risultato il carattere specifico della civiltà islamica: questa, peraltro, così nella lingua come in molti altri aspetti tipici, conservò un'impronta spiccatamente araba. Ed è vero, inoltre, che una profonda trasformazione si ebbe, ma anch'essa graduale e non improvvisa, nel concetto e nella funzione della sovranità: trasformazione alla quale contribuì non poco la tradizione della monarchia persiana sassanide.
Il califfo, sotto gli ‛Abbāsidi, assume sempre più il carattere del sovrano assoluto, il cui prestigio assurge quasi a un'altezza sovrumana. Mentre il califfo dell'età omayyade era essenzialmente il capo supremo del complesso delle tribù arabe, e il suo potere trovava il proprio appoggio, e al tempo stesso la propria limitazione, nei personaggi più influenti di alcune tribù, il califfo ‛abbāside domina con eguale autorità su tutta la massa indiscriminata dei sudditi; non lo circondano più dei consiglieri forniti di un proprio prestigio e potere politico, ma una corte di funzionarî militari e civili che traggono la propria forza dal favore del sovrano e dall'influenza che esercitano sopra di lui.
Il primo tra essi, il vizir (wazīr), è l'effettivo capo del governo, talvolta così forte da riuscire a imporre il proprio volere al califfo e perfino da scalzarlo dal trono se egli si attenti a resistergli, talvolta invece esposto a improvvisi mutamenti del favore sovrano, i quali possono costargli la libertà e la vita. Ristretta ogni attività politica agli ambienti di corte, acquistano influenza e potere nuove categorie di personaggi che prima ne erano sprovvisti: famigli, schiavi, donne. In modo particolare, poi, queste ultime, nella loro qualità di mogli o di concubine, esercitano bene spesso un'influenza preponderante sul califfo, specialmente nella designazione del successore, sforzandosi naturalmente ciascuna di esse di guadagnare il trono al proprio figlio e, riuscite nell'intento, godendo dell'autorità e del potere di "regina madre".
Queste donne, quasi tutte schiave di origine straniera, persiane, greche, turche, negre, finiscono coll'alterare profondamente lo stesso tipo etnico della dinastia.
S'intende che l'influenza e il potere di siffatti varî elementi non hanno mai carattere di stabilità: un incrociarsi d'intrighi, uno spiegarsi di rivalità, un avvicendarsi di accordi e di rotture rendono mutevole a ogni istante il prevalere di questo o di quel personaggio; le congiure, le rivolte di palazzo, gli assassinî si succedono fraquenti, e non pochi sono i califfi ‛abbāsidi finiti per morte violenta, mentre il califfo salito al potere si sbarazza assai aspesso dei congiunti rivali e dei loro partigiani per mezzo di esecuzioni sommarie. Anche il modo di accessione al trono si trasforma: fermo restando il principio che il califfato spetta alla famiglia degli ‛Abbāsidi e che l'atto formale dell'investitura di ciascun nuovo califfo è costituito dalla bay‛ah, riconoscimento prestato da parte della comunità musulmana (v. califfato), tale atto non proviene più, come sotto gli Omayyadi, dai capi delle tribù, veri esponenti dell'effettivo potere politico delle masse arabe, bensì viene dato da quella ristretta cerchia di cortigiani e funzionarî, nella quale, come si è visto, risiede il reale governo dello stato.
Questo processo di trasformazione profonda dell'organismo statale non avvenne, beninteso, d'un tratto. I primi sovrani ‛abbāsidi, quasi tutti uomini di eminenti qualità personali, furono dominatori effettivi dell'impero musulmano ed esercitarono direttamente il potere; e, d'altra parte, dovettero tener conto dell'elemento arabo non ancora del tutto esautorato, e proseguire parzialmente nel sistema dei loro predecessori omayyadi. Se non che appunto il fine supremo della politica di quei primi ‛Abbāsidi fu quello di rendere il potere sovrano sempre più indipendente dai capi delle tribù arabe e di accentrarlo nelle mani del califfo; raggiunto questo fine, avvenne quanto suole avvenire in simili circostanze: il venir meno di potenti personalità sul trono del califfato, e al tempo stesso la facilità d'impadronirsi con un audace colpo di mano del potere accentrato in un solo individuo e sottratto ad ogni controllo esterno, favorirono naturalmente il progressivo indebolimento dell'autorità del sovrano e il predominio di ministri e di generali.
Questi ultimi, poi, finirono col divenire i veri e assoluti padroni dello stato, specialmente dopo che i califfi, per assicurarsi il potere e rendersi indipendenti dalle milizie nazionali, arabe o persiane, si circondarono di una guardia di tipo pretoriano, reclutata tra schiavi stranieri, in prevalenza turchi. A partire dalla fine del sec. III dell'ègira (principio del sec. X d. C.) il generale di questa guardia (amīr al-umarā' "comandante in capo") è il reale sovrano, sotto l'autorità nominale del califfo; ma (fenomeno anche questo abituale in circostanze analoghe, e che si riscontra tipicamente, p. es., nell'impero romano del III secolo) il suo potere è precario, e le rivolte, le uccisioni, i cambiamenti violenti si succedono ininterrotti.
Se, ciò non ostante, la dinastia ‛abbāside poté sussistere per ben cinque secoli, tale sua continuità si spiega con varie circostanze: anzitutto, la profonda convinzione che il califfato fosse prerogativa inalienabile della famiglia degli ‛Abbāsidi non venne mai meno; le opposizioni sciita e khārigita (v.), sostenitrici della tesi contraria, non riuscirono mai a prevalere nella maggior parte dell'impero musulmano, nonostante effimeri successi in questa o in quella regione. Pertanto, qualunque fosse la considerazione personale di cui erano fatti segno i singoli individui rivestiti della dignità califfale, il carattere venerabile di questa non veniva mai revocato in dubbio. Inoltre, occorre considerare che, a partire dalla seconda metà del sec. III dell'ègira, l'importanza politica di quanto avveniva nella stretta cerchia della corte ‛abbāside era pressoché nulla nei riguardi delle provincie del vasto impero, le quali a poco a poco andavano staccandosi da esso e si governavano in maniera autonoma, sotto dinastie discendenti per la maggior parte da antichi governatori resisi, di fatto, indipendenti dal potere centrale, verso il quale non conservavano se non un vincolo alquanto rilassato di vassallaggio. L'Africa sotto gli Aghlabiti (v.), l'Egitto sotto i Ṭūlūnidi (v.) e poi gli Ikhshīditi (v.), la Siria sotto i Ḥamdānidi (v.), la Persia sotto i Ṭāhiridi (v.) e poi i Sāmānidi (v.), l'Afghānistān sotto i Ghaznavidi (v.), ecc., finirono col disinteressarsi completamente delle rivolte di palazzo e dei bruschi cambiamenti di sovrani e di ministri che si succedevano a Baghdād, perché tali vicende non avevano nessuna ripercussione sulla vita interna di quelle regioni. Né diversamente andarono le cose quando, nel corso del IV e del V secolo dell'ègira, la stessa capitale del califfato cadde sotto il dominio di dinastie straniere, i Buwayhidi persiani e i Selgiūqidi turchi (v.), i quali sostituirono al dominio degli amīr al-umarā' quello dei sultani. Un reale pericolo per gli ‛Abbāsidi sarebbe stato costituito soltanto dall'eventuale prevalere di quelle dinastie, le quali, proclamatesi detentrici del califfato in opposizione religiosa agli ‛Abbāsidi , aspiravano, almeno teoricamente, al dominio universale di tutto il mondo islamico. Ma di queste dinastie soltanto quella sciita dei Fāṭimidi (v.) poté, per un momento, minacciare la conquista del centro del califfato, Baghdād, e la minaccia fu presto rintuzzata.
Durante i primi tempi del califfato ‛abbāside, quando l'unità dell'impero era ancora pressoché intatta e il potere centrale si esercitava effettivamente dall'estremo occidente dell'Africa fino ai confini dell'India, l'opera dei sovrani ‛abbāsidi fu di capitale importanza per l'assetto amministrativo e giuridico del mondo musulmano, che sotto gli Omayyadi offriva ancora, in gran parte, l'aspetto di un immenso territorio di conquista, nel quale gli Arabi dominatori si accampavano quasi straniati dalla massa delle popolazioni soggette, e l'azione dello stato (all'infuori dell'esazione del tributo dagli infedeli e alla ripartizione di esso, sotto forma di stipendio ai combattenti, tra i musulmani) era quasi nulla. Sotto gli ‛Abbāsidi giunge a compimento il processo di assimilazione già iniziatosi sotto gli Omayyadi, per il quale viene a cessare, attraverso le numerosissime conversioni all'islamismo, la distinzione tra Arabi e non Arabi, e il trasformarsi del sistema fiscale di personale in reale, facendo gravare l'imposta fondiaria su tutti i proprietarî di terreni senza distinzione di religione (mentre dapprima i musulmani ne erano esenti), assegna un carattere completamente nuovo all'amministrazione statale. Si costituisce un sistema regolare di ministeri (dīwān) ripartiti, ora secondo le particolari attribuzioni di ciascuno di essi, ora secondo le varie provincie dell'impero, finché, nel sec. IV dell'ègira, si giunge a una complessa organizzazione amministrativa, non dissimile nelle linee generali da quella degli stati occidentali moderni, diretta da un numeroso corpo di impiegati ordinati in categorie ben distinte e dipendenti tutti, attraverso i singoli ministri, dal vizir.
Speciale importanza aveva, naturalmente, l'amministrazione finanziaria (dīwān bayt al-māl o dīwān al-azimmah "ministero delle finanze", dīwān an-nafaqāt "ministero del tesoro"): dal sistema rudimentale d'imposte che era stato in uso sotto i primi califfi e sotto gli Omayyadi, consistente nel tributo dei sudditi non musulmani (ǵizyah, kharāǵ) e nell'"elemosina" (zakāh) dei musulmani, si era passati a un sistema fiscale complesso, comprendente imposte sui beni mobili e immobili, proventi delle dogane e di altre tasse sul commercio, cui si aggiungevano le rendite dei vasti beni demaniali. Le finanze venivano amministrate con ordine e con rigore, benché non sussistesse una distinzione netta tra l'erario pubblico e i "beni della corona": i bilanci dell'entrata di alcuni anni del sec. IV dell'ègira (X d. C.), che ci sono stati conservati, mostrano che la finanza ‛abbāside aveva raggiunto un grado di regolarità e di perizia tecnica quasi perfetto. Naturalmente così la situazione finanziaria, come quella economica, presenta alternanze di prosperità e di decadenza attraverso i secoli: ma le cose andarono peggiorando quando gli stati vassalli interruppero o cessarono del tutto il pagamento del tributo annuo e quando le rivolte e le guerre devastarono l'impero. Negli ultimi due secoli della dinastia ‛abbāside si può appena parlare di una vera e propria amministrazione centrale, poiché ogni stato possiede un esercito e una finanza indipendenti.
Somma importanza ha la dinastia ‛abbāside nella storia della civilta: sotto di essa il mondo musulmano raggiunge il suo pieno sviluppo spirituale, costituendo una società estremamente complessa e raffinata, di carattere cosmopolita e pur tuttavia unificata dalla comunanza di lingua e di religione, avida di godimenti materiali e intellettuali, aperta a ogni corrente di cultura. Centro di questa ricca e rigogliosa civiltà è Baghdād, una delle metropoli più popolose e più splendide che il mondo medievale abbia conosciute; e lo sforzo e l'intensità di vita mondana, artistica e scientifica della corte ‛abbāside, che risedeva in essa o nella vicina residenza di Sāmarrā (la Versailles ‛abbāside), possono dirsi uniche nella storia. A questo fiorire delle arti e delle scienze contribuirono direttamente i califfi, specialmente quelli del primo secolo della dinastia (v. arabi: Civiltà). Il costituirsi di altre dinastie e di altre corti negli stati vassalli e nei califfati rivali portò naturalmente al formarsi di altri centri di cultura, e la decadenza politica degli ‛Abbāsidi ebbe anche per effetto un affievolirsi del benessere materiale e dell'attività intellettuale; tuttavia, neppure nel suo estremo periodo di vita la dinastia trascurò completamente le arti e le scienze, e Baghdād era ancora uno dei maggiori centri culturali dell'islamismo quando venne distrutta dai Mongoli.
I primi califfi della dinastia furono spesso, come si è visto, uomini di grandi capacità militari, politiche e culturali: tra i sovrani più notevoli sono da ricordare, oltre il già citato al-Mansūr, Hārūn ar-Rashīd (v.), la cui figura è divenuta popolare anche in Occidente; al-Ma'mūn (v.), il grande protettore degli studî, introduttore delle scienze greche nel mondo arabo; al-Mutawakkil (232-247 èg. = 847-861 d. C.), che tolse vigore all'eresia mu‛tazilita; al-Mu‛taḍid (279-289 èg. = 892-902 d. C.), riformatore dell'amministrazione.
Singolare e caratteristica dell'ambiente e dei costumi del tempo è la figura di ‛Abd Allāh ibn al-Mu‛tazz "il califfo di un giorno", figlio del califfo al-Mu‛tazz, il quale, vissuto in mezzo agli studî letterarî e noto come poeta e teorico dell'arte poetica, si lasciò indurre a porsi come rivale del cugino al-Muqtadir, e fu proclamato califfo col soprannome di al-Murtaḍà, ma, debellati i suoi partigiani dalla guardia del corpo di al-Muqtadir, comandata dall'eunuco Mu'nis (che fu poi nominato amīr al-umara', v. sopra), venne catturato e strangolato il giorno stesso della sua proclamazione (20 rabī‛ I 296 ègira = 17 dicembre 906): quindi il suo nome non figura nell'elenco dei califfi.
Con la presa di Baghdād (656 èg. = 1258 d. C.) per parte dei Mongoli e con l'uccisione dell'ultimo califfo, al-Musta‛ṣim, e di tutta la sua famiglia, la dinastia ‛abbāside ha termine. Tuttavia, tre anni più tardi, il sultano mamlūko di Egitto Baibars fece comparire alla propria corte un presunto ‛Abbāside scampato alla strage e lo fece proclamare califfo col nome di al-Mustanṣir; dopo di lui si ha, per quasi tre secoli, una serie di pseudocaliffi ‛abbāsidi viventi in Egitto sotto la protezione dei Mamlūki, i quali si valevano del prestigio religioso di quei personaggi ai fini della propria politica; ma non soltanto la legittimità del califfato di costoro non venne quasi mai riconosciuta fuori d'Egitto, ma perfino la loro pertinenza reale alla famiglia ‛abbāside appare dubbia. L'ultimo di questi pseudocaliffi fu portato a Costantinopoli dal sultano ottomano Selīm I dopo la conquista dell'Egitto (923 èg. = 1517 d. C.), e da allora in poi ogni traccia della dinastia scompare.
V. anche: arabi: Storia; baghdād.
Bibl.: G. Weil, Geschichte der Chalifen, voll. 5, Stoccarda 1846-1862; A. Müller, L'Islamismo in Oriente e in Occidente, voll. 2, trad. ital., Milano, s. a. (l'edizione tedesca è del 1885); C. Huart, Histoire des Arabes, voll. 2, Parigi 1912; A. Mez, Die Renaissance des Islâms, Heidelberg 1922; J. Wellhausen, Das Arabische Reich und sein Sturz, Berlino 1902, ult. cap.; A. von Kremer, Über das Einnahmebudget des Abbasiden-Reichs vom Jahre 306 H. (918-919) in Denkschriften der Kais. Akad. d. Wiss. zu Wien, phil.-hist. CI, XXXVI, 1888; S. Lane-Poole, The Mohammadan Dynasties, Westminster 1894; E. de Zambaur, Manuel de généalogie et de chronologie pour l'histoire de l'Islam, Hannover 1927.