FARFA, Abbazia di
Abbazia benedettina situata a km. 40 ca. a N di Roma, in Sabina, lungo la valle del fiume omonimo alle pendici del monte San Martino.Le vicende storiche riguardanti le origini dell'abbazia - secondo quanto riportano le più antiche cronache documentarie farfensi, risalenti al sec. 9° - si legano alla leggendaria figura del monaco orientale Lorenzo Siro, che, rifugiatosi in Italia al tempo delle persecuzioni di Anastasio I (491-518), dopo essere divenuto vescovo della diocesi di Cures Sabini, si sarebbe ritirato sulla sommità del monte San Martino per dare vita a una comunità eremitica (di cui è stato individuato un oratorio con ambiente ipogeo datato al sec. 6°), dalla quale si sarebbe successivamente sviluppato il centro monastico. Recentemente, grazie a un'attenta rilettura di alcuni documenti risalenti al tempo di Gregorio Magno (590-604) riguardanti le diocesi sabine, si è riusciti a collegare la figura di Lorenzo Siro a un omonimo vescovo di Forum Novum (od. Vescovìo) vissuto nella seconda metà del sec. 6° e quindi a collocare la nascita e il breve sviluppo del centro monastico all'incirca fra il 560 e il 592, anno in cui la Sabina venne saccheggiata dai Longobardi di Ariulfo, duca di Spoleto. Il cenobio, distrutto, fu abbandonato e soltanto alla fine del sec. 7° la comunità religiosa venne ricostituita a opera di un pellegrino di ritorno dalla Terra Santa, Tommaso di Morienna, originario della Savoia. Il monastero conobbe un immediato sviluppo grazie all'interessamento dei duchi di Spoleto, che concessero ingenti donazioni e soprattutto protezione politica.I primi abati che si susseguirono al governo dell'abbazia erano tutti originari dell'Aquitania, a quell'epoca in preda alle scorrerie arabe provenienti dai territori del regno visigoto. È possibile che il cenobio sabino, abitato fin dalle origini da monaci transalpini, sia diventato punto di riferimento in Italia per i profughi, vittime delle incursioni musulmane; a conferma di ciò le fonti attestano come gli abati Auneperto, Fulcoaldo, Wandelperto e Alano, avvicendatisi al governo dell'abbazia dal 720 al 769, appartenessero ad alcune tra le più importanti famiglie di Tolosa, che già da alcuni decenni si erano stabilite nella regione sabina.Nel corso del sec. 8°, grazie alle numerose donazioni dei duchi di Spoleto e dei re longobardi, i possedimenti controllati dall'abbazia si estesero in tutta l'Italia centrale. Il rafforzamento territoriale procedette di pari passo con lo sviluppo culturale, al quale diede un decisivo impulso l'abate Alano; autore di varie omelie e rifondatore della vita religiosa sul monte San Martino, egli ebbe anche particolare cura dell'attività dello scriptorium, cui partecipò direttamente. Con il suo successore, Probato (770-781), F. raggiunse l'apogeo del prestigio politico e della prosperità economica. L'intervento di Carlo Magno comportò un mutamento della condizione giuridica del monastero, posto direttamente sotto il controllo del sovrano franco, che nel 775 gli conferì, primo in Italia, la defensio imperialis, uno speciale privilegio immunitario che lo liberava da qualsiasi ingerenza del potere civile e religioso.Sullo scorcio del sec. 8° la guida dell'abbazia venne nuovamente affidata ad abati franchi e i rapporti del monastero con le corti e i centri ecclesiastici dell'Europa settentrionale divennero di conseguenza frequenti e regolari. L'istituto monastico, per tutto il corso del sec. 9°, rimase saldamente legato alla monarchia carolingia, che continuò a concedere regolarmente la conferma dei privilegi.Nell'898 F. fu pesantemente segnata dalle incursioni saracene, tanto che la comunità religiosa fu costretta a fuggire dal monastero. Dopo un lungo periodo di abbandono, seguito da una fase di anarchia, si dovette attendere l'intervento militare di Alberico II per porre fine all'ingovernabilità del cenobio, al quale nel 947 venne imposto come abate il monaco cluniacense Dagiberto; solo con l'elezione dell'abate Ugo nel 998 F. riacquistò gran parte del prestigio perduto. Con il Constitutum Ugonis venne introdotta la riforma cluniacense, cui si deve la rinascita spirituale dell'abbazia. Per iniziativa dello stesso abate si ebbe il grande sviluppo dello scriptorium e dell'attività letteraria e storiografica che da questo prese avvio, culminata nel secolo successivo con l'opera di Gregorio da Catino (1060-1132). Nel 1060 è da segnalare inoltre la presenza a F. di papa Niccolò II che riconsacrò solennemente i due altari maggiori dedicati alla Vergine e al Salvatore.Nei decenni successivi i rapporti con la Chiesa romana si rivelarono tutt'altro che pacifici, inseriti nell'aspra contesa fra Papato e Impero per la lotta delle investiture, conflitto nel quale l'abbazia si trovò schierata in favore del partito imperiale. Significativo fu a tale proposito il provvedimento, preso dall'abate Berardo II nel 1097, di trasferire l'abbazia sulla cima del sovrastante monte San Martino, a maggiore protezione di tutta la comunità.Il concordato di Worms (1122) mutò per sempre la condizione giuridica del monastero, sottratto alla defensio imperialis. Da questo momento prese il via la lenta ma inesorabile decadenza economica e politica dell'abbazia.
Bibl.:
Fonti. - Gregorio da Catino, Regestum Farfense, a cura di I. Giorgi, U. Balzani (Biblioteca della R. Società romana di storia patria), 5 voll., Roma 1879-1914; id., Chronicon Farfense, a cura di U. Balzani (Fonti per la storia d'Italia, 33-34), 2 voll., Roma 1903; id., Liber largitorius vel notarius monasterii Pharfensis, a cura di G. Zucchetti (Regesta chartarum Italiae, 11, 17), 2 voll., Roma 1913-1932.Letteratura critica: J. Guirand, La badia di Farfa alla fine del secolo decimoterzo, Archivio della R. Società romana di storia patria 15, 1892, pp. 275-288; I. Schuster, Della basilica di S. Martino e di alcuni ricordi farfensi, NBAC 8, 1902, pp. 47-54; P. Kehr, Urkunden zur Geschichte von Farfa im XII. Jahrhundert, Quellen und Forschungen aus italienischen Archiven und Bibliotheken 9, 1906, pp. 170-184; I. Schuster, Ugo I di Farfa. Contributo alla storia del monastero imperiale di Farfa nel sec. XI, Bollettino della Deputazione di storia patria per l'Umbria 16, 1911, pp. 1-212; id., L'imperiale abbazia di Farfa, Città del Vaticano 1921 (rist. anast. 1987); G. Penco, Storia del monachesimo in Italia dalle origini fino alla fine del Medioevo, Roma 1961; P. Toubert, Les structures du Latium médiéval. Le Latium méridional et la Sabine du IXe siècle à la fin du XIIe siècle (BEFAR, 221), 2 voll., Roma 1973; P. Di Manzano, T. Leggio, La diocesi di Cures Sabini, Fara Sabina [1980]; F.J. Felten, Zur Geschichte der Klöster Farfa und S. Vincenzo al Volturno im achten Jahrhundert, Quellen und Forschungen aus italienischen Archiven und Bibliotheken 62, 1982, pp. 1-58.F. Betti
Il complesso medievale dell'abbazia di F. fu quasi completamente demolito poco prima del 1500, quando gli Orsini la ricostruirono. Agli inizi del Novecento, dell'epoca medievale si conservavano soltanto due strutture: un campanile, adiacente alla chiesa di età successiva, e una torre più robusta, il c.d. torrione.Il primo tentativo di recuperare i resti degli edifici di epoca medievale fu quello di Schuster (1921). Riconosciuto il campanile come una delle poche strutture medievali conservate in alzato, nel desiderio di ritrovare l'oratorio costruito dall'abate Sicardo (830-842) egli si persuase che il piano inferiore del campanile fosse una cripta.Altri scavi furono condotti nel 1927 (Markthaler, 1928) e nel 1936 (Croquison, 1938). Markthaler, partendo dall'identificazione di Schuster e dal fatto che l'oratorio era adiacente alla chiesa abbaziale, ipotizzò correttamente che l'antica chiesa si trovasse sul lato nordoccidentale del campanile; a una distanza di m. 30 ca. in direzione N-O scoprì poi una cripta. Invece di trarre le ovvie conclusioni (cioè che questa cripta e non la torre fosse il sito dell'oratorio), Croquison la ritenne estranea a Sicardo e pertinente invece a una chiesa ancora più antica, la cui navata doveva essere perpendicolare rispetto a quella della chiesa dell'epoca degli Orsini.I restauri del 1959-1962, effettuati dalla Soprintendenza ai Monumenti del Lazio (Franciosa, 1964), hanno dimostrato come la muratura medievale si sia conservata in tutta la sua altezza all'estremità orientale della chiesa rinascimentale, adiacente al campanile, mentre i saggi al di sotto del pavimento dell'edificio attuale hanno rivelato i muri e un elaborato pavimento in opus sectile pertinente alla navata altomedievale, disposti perpendicolarmente a essa. Al di sopra del livello pavimentale si conserva una piccola parte del muro altomedievale con il ritratto dipinto di un abate, forse Altberto (m. nel 790 ca.). A S della navata sono state scoperte le fondazioni di un muro massiccio e una struttura turriforme, in origine con una scala a chiocciola. Poiché l'abate Ugo all'inizio del sec. 11° descrisse F. come una città munita di mura (Destructio monasterii Farfensis), si è ipotizzato che il muro e la torre facessero parte di una cinta difensiva a protezione dell'abbazia. I più importanti oggetti mobili portati alla luce dagli scavi sono un sarcofago in marmo con una scena di battaglia e l'epitaffio dell'abate Sicardo (Franciosa, 1964).Le fonti scritte, le scoperte archeologiche e le strutture dell'abbazia ancora conservate in alzato sono state più di recente analizzate da McClendon (1980) il quale ha tratto due importanti conclusioni. Innanzi tutto, il campanile non è del sec. 9°, ma dell'11°, come permette di stabilire il confronto con la torre campanaria di S. Scolastica a Subiaco, del 1053. In effetti McClendon ha reinterpretato la torre e le strutture adiacenti come terminazione orientale della chiesa medievale, consistente in un presbiterio rettangolare costruito nel sec. 11° e in origine fiancheggiato da campanili gemelli. Secondo l'archeologo, inoltre, la cripta non è del sec. 8°, ma del 9°, come testimonia la forte somiglianza tra la cripta (e il transetto al di sopra di essa) e la terminazione orientale di S. Prassede a Roma, costruita da papa Pasquale I (817-824) soltanto un decennio prima che Sicardo divenisse abate di F.: si tratterebbe dunque della cripta dell'oratorio di Sicardo.Il primo obiettivo dei più recenti scavi condotti dalla British School at Rome tra il 1978 e il 1985 è stato quello di studiare le due strutture immediatamente all'esterno dell'oratorio, scoperte da Croquison (1938): un muro curvilineo posto a m. 3 all'esterno dell'abside che conteneva la cripta e uno rettilineo emergente dall'angolo del transetto. Nell'ultima campagna è stata scavata quasi tutta l'area tra la cripta e il c.d. torrione, area nella quale attualmente mancano costruzioni, ma dove in precedenza si trovava un grande edificio identificato come il palazzo tardomedievale e rinascimentale del cardinale-abate che amministrava i beni dell'abbazia.Nelle prime fasi degli scavi sembrava che l'edificazione del palazzo avesse cancellato ogni altro edificio preesistente; fortunatamente però nella costruzione del palazzo erano state riutilizzate strutture dell'8° e 9° secolo.Il muro concentrico alla cripta della chiesa medievale scoperto da Croquison, nuovamente scavato, è risultato essere il muro esterno di un ambulacro semicircolare costruito intorno all'abside; realizzato in due periodi diversi, l'ambulacro conteneva alcune tombe, evidentemente di importanti personaggi seppelliti il più vicino possibile alla cripta. La terminazione nordoccidentale della chiesa abbaziale altomedievale quindi consisteva di un transetto con un'abside, al di sotto della quale si trovava una cripta anulare. Adiacente all'abside, a livello della cripta, era un ambulacro semicircolare contenente sepolture. L'ambulacro è elemento del tutto estraneo alla tradizione costruttiva architettonica romana e i confronti più diretti possono essere istituiti con esempi transalpini, come Fulda, dove l'abate Ratgerio (802-817) aveva progettato un transetto, con abside e ambulacro concentrici, consacrato nell'819; da questi esempi deriva la formulazione di F., dove, oltre alle connessioni politiche con l'ambiente carolingio, si erano succeduti alla fine del sec. 8° abati di origine transalpina, come Ragambaldo, Altberto e Mauroaldo, mentre gli abati Benedetto (802-815) e Ingoaldo (815-830) avevano soggiornato rispettivamente a Francoforte e ad Aquisgrana.L'area prospiciente l'oratorio ha una storia complessa: nel sec. 12° o 13° era adibita a giardino e in seguito a cortile della stalla del palazzo del cardinale, ma, prima del sec. 12°, era uno spazio aperto con al centro un pozzo o una cisterna e varie tombe. Dopo un periodo di abbandono, durante il quale subì alla sommità una sensibile erosione, il pozzo-cisterna fu riempito deliberatamente con terra e pietrisco in cui sono state ritrovate due monete dell'imperatore Enrico II (1002-1024).Per spiegare questi elementi si deve considerare il secondo muro scoperto da Croquison, che partiva dall'angolo nordoccidentale del transetto. Gli scavi del 1978-1985 hanno dimostrato che esso si estendeva a O per m. 23; questo provava che vi erano state tre fasi costruttive e che rimaneva abbastanza per mostrare che il muro più antico terminava a m. 18 dal transetto e quindi girava verso N; a m. 3 a N del muro di Croquison vi era una struttura parallela, per la quale potevano essere provate quattro fasi costruttive anteriori al 15° secolo. L'area tra le due strutture parallele presentava numerose tombe al di sotto di un pavimento di calcare.È importante notare che la prima fase di costruzione è più antica dell'edificazione dell'ambulacro esterno alla cripta. Ciò mostra come lo spazio aperto sia anteriore alla costruzione dell'oratorio di Sicardo, che emerge come una struttura monumentale aggiunta alla chiesa abbaziale, occupando negli anni trenta del sec. 9° un terzo dell'area aperta. A parziale compensazione la facciata originale dell'atrio fu sostituita da una nuova struttura spostata di m. 2 a O, testimonianza dell'estensione del portico.Non ci sono prove archeologiche per la datazione di questo spazio aperto; è possibile comunque che la Constructio monasterii Farfensis contenga un indizio nella notizia di una visita a F. nel 705 del duca Faroaldo di Spoleto, la cui scorta aveva scaricato il proprio bagaglio in atrio. Se la parola atrium ha in questo caso un significato letterale, ci si può chiedere se tale atrio facesse parte dell'originario edificio costruito da Tommaso di Morienna verso la fine del 7° secolo.L'interpretazione di queste strutture è ancora incerta. Lo spazio aperto di fronte all'ambulacro dovrebbe essere un atrio attraverso il quale, prima della costruzione dell'oratorio di Sicardo, si entrava nella chiesa. Le strutture parallele dovrebbero consistere in un portico racchiudente il lato sudoccidentale, costituito verso l'interno da un colonnato e verso l'esterno da un muro continuo. Secondo un'ipotesi diversa l'accesso alla chiesa altomedievale sarebbe avvenuto dall'altra estremità e lo spazio aperto sarebbe stato un chiostro o un analogo complesso situato non davanti, ma oltre la chiesa carolingia.Adiacente al lato sudoccidentale dell'atrio-chiostro era un ampio ambiente rettangolare, al quale si addossava un altro più stretto. Si tratta di una struttura in origine molto accurata, con pitture murali almeno sui lati nordorientale e sudoccidentale. All'estremità sudorientale si trovava un ampio ingresso assiale, la cui soglia si conserva al di sotto di ricostruzioni successive. Per quanto è possibile vedere non vi erano aperture nel muro nordoccidentale, né accessi dall'atrio-chiostro; un ingresso sul muro meridionale conduceva alla struttura adiacente. L'ambiente fu modificato in varie occasioni: la prima fase inglobava i resti di muri che sono tardo-romani o altomedievali; nella seconda fase i muri furono nuovamente decorati. In seguito venne costruita una coppia di pilastri contrapposti forse per sostenere un arco, mentre il muro occidentale fu rinforzato. Evidentemente i muri dovevano sostenere un ulteriore peso e la spiegazione più probabile è che sia stato costruito un piano superiore. Contemporaneamente venne aperto un passaggio sul muro nordoccidentale che metteva in comunicazione il grande ambiente con una struttura di dimensioni ancora maggiori, il c.d. torrione, a m. 5 più a O. A una data sconosciuta nell'ampia stanza venne aggiunto un pavimento a mosaico in opus sectile, del quale si è conservato un piccolo frammento.L'ambiente grande e quello più piccolo che vi si addossava, in comunicazione tra loro grazie a un passaggio, costituivano una struttura unica di cui non è accertata la data di costruzione. La decorazione dell'ambiente più piccolo comprendeva una figura stante e un'iscrizione, ora solo parzialmente leggibile; il panneggio della figura e le lettere dell'iscrizione trovano confronti nella fine dell'8° e nel 9° secolo. Le pitture presentano tracce di un incendio e l'intonaco è rossastro a causa del calore; esse sono considerevolmente erose anche dietro l'abside dell'11° secolo. Ciò può costituire la prova non soltanto di un incendio, ma anche di un'epoca di abbandono durante la quale l'ambiente rimase privo di copertura e i dipinti furono così esposti alle intemperie; se questa ipotesi è giusta, il danno potrebbe essere stato causato dall'incendio dell'897 e dal temporaneo abbandono che ne seguì. Inoltre la terminazione nordoccidentale del grande e del piccolo ambiente fu posta al livello della facciata originaria dell'atrio-chiostro, che fu demolito quando Sicardo costruì l'oratorio. Così, mentre i danni provocati dal fuoco e dall'erosione dimostrano che gli ambienti già esistevano nell'897, l'allineamento dei muri alle estremità con quelli del più antico atrio-chiostro prova la loro esistenza già negli anni trenta del 9° secolo. Ne consegue che gli ambienti adiacenti all'atrio-chiostro esistevano all'inizio del sec. 9° e che, come questo, essi subirono gravi danni nell'897.Le dimensioni dell'ambiente maggiore e la presenza delle pitture murali e del mosaico pavimentale fanno ritenere che si tratti di un luogo importante destinato alle riunioni. Si può escludere l'ipotesi della sala capitolare, che il Regestum Farfense (doc. nr. 1153) riferisce essere adiacente alla chiesa, mentre questo edificio non lo era; è più probabile che si tratti del refettorio, anche perché quello di Montecassino, contemporaneo a questa struttura, occupava la stessa posizione. Le firme su un documento di F. indicano però che la comunità comprendeva almeno cento monaci e questa struttura è troppo piccola per poter ospitare un numero così grande di persone. Una terza ipotesi potrebbe spiegare non solo gli ambienti legati tra loro, ma anche il c.d. torrione. Questa massiccia torre (m. 1511) ha muri spessi più di m. 2; i lati sono paralleli a quelli dell'ambiente grande e le due strutture erano comunicanti tramite una porta; è quindi da ritenere che l'ambiente e la torre fossero in relazione. La forma e la posizione di quest'ultima - lontana dalla chiesa e all'interno della linea delle difese scoperte nel 1959 - mostrano che non si trattava né di un campanile né di una torre della cinta muraria. Nel piano di San Gallo (San Gallo, Stiftsbibl., 1092), nell'area a destra e di fronte alla chiesa principale si trovano edifici destinati agli ospiti. È possibile che sia stata proprio questa la funzione degli ambienti di F.: quello maggiore sarebbe stato nel sec. 11° perfettamente adeguato agli ospiti più ragguardevoli dell'abbazia, compreso l'imperatore; se il c.d. torrione fosse stato compreso nel complesso, il palazzo avrebbe avuto dimensioni considerevoli, con alloggiamenti per il seguito dell'imperatore e una stanza fortificata per il suo tesoro. Non è forse un caso che proprio queste stanze nel sec. 15° fossero state trasformate in palazzo per il cardinale-abate.Il nucleo del palazzo (se si tratta del palazzo) fu costruito prima che Sicardo ampliasse la chiesa e il suo atrio nell'830. Mentre mancano prove dirette per la data della sua costruzione, se ne può trovare un indizio nell'archivio di F. in forma di registrazione di donazioni all'abbazia: i periodi in cui questa riceveva un maggior numero di elargizioni sono anche quelli in cui è più probabile che venissero costruiti nuovi ambienti. Un'analisi delle donazioni mostra che prima di Sicardo si ebbero altri due momenti molto favorevoli: negli anni ottanta del sec. 8°, sotto l'abate Probato, e tra l'810 e l'820, all'epoca degli abati Benedetto e Ingoaldo. Mentre delle attività di Benedetto e Ingoaldo come costruttori non si sa nulla, il registro testimonia che Probato fornì al monastero un nuovo condotto per l'acqua. Presumibilmente il sistema idraulico già esistente si era rivelato inadeguato, anche perché la comunità era divenuta più numerosa. Probato, sotto il quale F. ricevette la protezione di Carlo Magno, sembra quindi colui che con maggiore probabilità può essere indicato come costruttore di un palazzo per il suo più importante benefattore.
Bibl.:
Fonti. - Gregorio da Catino, Regestum Farfense, a cura di I. Giorgi, U. Balzani (Biblioteca della R. Società romana di storia patria), V, Roma 1914, pp. 156-157; id., Chronicon Farfense, a cura di U. Balzani (Fonti per la storia d'Italia, 33-34), 2 voll., Roma 1903; Constructio monasterii Farfensis, ivi, I, p. 9; Ugo di Farfa, Destructio monasterii Farfensis, ivi, p. 31.
Letteratura critica. - I. Schuster, L'imperiale abbazia di Farfa, Città del Vaticano 1921 (rist. anast. 1987); P. Markthaler, Sulle recenti scoperte nell'abbazia imperiale di Farfa, RivAC 5, 1928, pp. 37-88; G. Croquison, I problemi archeologici farfensi, ivi, 15, 1938, pp. 37-71; N. Franciosa, L'abbazia imperiale di Farfa. Contributo al restauro della fabbrica carolingia, Napoli 1964; R.R. Ring, The Lands of Farfa: Studies in Lombard and Carolingian Italy, Ann Arbor 1972; W. Horn, E. Born, The Plan of St. Gall. A Study of the Architecture and Economy of, and Life in a Paradigmatic Carolingian Monastery, 3 voll., Berkeley-Los Angeles-London 1979; C.B. McClendon, The Revival of ''Opus Sectile'' Pavements in Rome and its Vicinity in the Carolingian Period, PBSR 48, 1980, pp. 157-165; id., An Early Funerary Portrait from the Medieval Abbey at Farfa, Gesta 22, 1983, 1, pp. 13-26; D. Whitehouse, L'abbazia di Farfa: VIII e IX secolo, Archeologia laziale 6, 1984, pp. 289-293; id., Farfa Abbey: the Eighth and Ninth Centuries, AM 2, 1985, pp. 245-256; C.B. McClendon, The Imperial Abbey of Farfa. Architectural Currents of the Early Middle Ages, New Haven-London 1987.D.B. Whitehouse
La chiesa abbaziale altomedievale era dotata di un'unica navata, della quale è stata accertata la larghezza (m. 10), ma non la lunghezza, che si sviluppava in senso ortogonale rispetto al santuario odierno, risalente al sec. 15°, su di un asse nord-ovest sud-est.Su questa struttura di modeste dimensioni vennero successivamente innestati due corpi architettonici contrapposti: a oriente un coro tripartito, composto da un avancorpo quadrangolare affiancato da due torri campanarie abbinate, di cui una sola conservata, e a occidente un transetto sporgente absidato, con sottostante cripta semianulare, interrotta da un braccio rettilineo. Nella Constructio monasterii Farfensis si legge che l'abate Sicardo (830-842) commissionò la costruzione di un oratorio dedicato al Salvatore, aggiunto alla preesistente chiesa, dotato di cripta per la dimora delle reliquie dei santi martiri Valentino, Ilario e Alessandro.Sulle strutture di questa abbaziale gli studiosi hanno assunto posizioni contrastanti. In un primo momento fu la parte orientale, cioè le due torri affiancate al coro quadrato - interpretato da alcuni (Croquison, 1938; Franciosa, 1964) come uno dei più puri esempi di Westwerk carolingio -, a essere riconosciuta come l'originaria struttura voluta dall'abate Sicardo, soprattutto per la sua tipologia architettonica, oltre che per i particolari della decorazione della base del campanile, che in qualche modo richiamano analoghe soluzioni transalpine, come per es. i timpani ornamentali, confrontabili con quelli situati sulla facciata del portico d'ingresso dell'abbazia di Lorsch.Indubbiamente le caratteristiche architettoniche del Westwerk - che comunque ebbe la massima diffusione oltre che in età carolingia anche nella successiva epoca ottoniana, per giungere infine, pur nella progressiva semplificazione strutturale dei suoi elementi costitutivi, fino alla metà del sec. 11° ca. (Heitz, 1991) - trovano nel complesso orientale del monastero sabino, almeno dal punto di vista tipologico, un'interpretazione che risponderebbe, anche se solo in parte, a quanto si conosce di queste strutture.Problematica è però la mancanza in questo di alcune caratteristiche funzionali specifiche di tale organismo, almeno nel suo momento iniziale, come per es. la loggia sopraelevata all'altezza dell'ingresso della chiesa, per consentire ai sovrani in visita di assistere alla funzione liturgica, e le scale poste all'interno delle torri laterali per accedere alla loggia.Un altro problema è costituito dall'assenza, al di sotto dell'abside quadrata, della cripta ricordata dalle fonti come parte integrante dell'oratorio. In realtà recentemente, nella rimozione del pavimento dell'ambiente interno del coro quadrato, è venuto alla luce un tratto di muro semicircolare - di cui purtroppo non si è potuto effettuare alcun rilievo o ripresa fotografica perché immediatamente obliterato dalla nuova pavimentazione - che potrebbe essere interpretato come la cripta dell'oratorio dedicato al Salvatore.In base all'analisi delle caratteristiche costruttive del paramento murario esterno della base della torre campanaria, di cui sono state individuate convincenti relazioni con le murature del campanile di S. Scolastica a Subiaco - assegnato nella sua seconda fase edilizia, con certezza, alla metà del sec. 11° -, è stato possibile circoscrivere finalmente la data di costruzione del blocco orientale di Farfa. In entrambe le strutture infatti si segnalano la presenza di archetti sorretti da robuste lesene e l'inserimento di filari di mattoni intorno agli archetti, tra i quali vengono applicati elementi in cotto di forma quadrangolare (Prandi, 1976; McClendon, 1987).Accantonata quindi l'ipotesi carolingia per il corpo orientale, per quanto riguarda la sezione occidentale dell'edificio rimangono solo i muri di fondazione del transetto, con uno spessore che varia da cm. 70 a m. 1, maggiori comunque di quelli della navata. Sono state rinvenute, inoltre, al di sotto dell'attuale presbiterio, anche le basi dei pilastri dell'arco trionfale che collegava il transetto con l'aula basilicale e delle quali si è rilevata la non assialità rispetto al perimetro della navata.La cripta si lega strettamente alle fondazioni del transetto, presentando identità di murature sia nello spessore sia nella tipologia muraria, costituita di conci regolari di calcare locale. Le pareti interne conservano inoltre sei aperture che in una seconda fase vennero chiuse e dotate di un piano inclinato per l'alloggio di lampade per l'illuminazione interna.L'icnografia dell'edificio altomedievale può essere così delineata: la chiesa del periodo longobardo era costituita da una navata e da un'abside, forse individuabile in quel muro semicircolare venuto alla luce al di sotto del coro quadrato, a cui in un secondo momento sarebbe seguita la ristrutturazione carolingia - molto probabilmente l'oratorio sicardiano - con l'aggiunta di un transetto absidato con cripta semianulare e corridoio rettilineo assiale.Nella ricostruzione proposta è facile riconoscere un organismo architettonico tipicamente romano, esemplato sul presbiterio della basilica di S. Pietro, la cui costruzione viene attribuita al pontificato di Gregorio Magno (590-604) e che ha in questo periodo una grande diffusione non solo a Roma e nel Lazio, ma anche nelle regioni settentrionali dell'Impero, in concomitanza del fenomeno delle traslazioni delle reliquie dei martiri romani, che assunse proporzioni vastissime nella prima metà del 9° secolo.È possibile farsi un'idea precisa della sistemazione architettonica generale dell'intero complesso monastico, nel momento della sua massima espansione edilizia, prima della distruzione saracena alla fine del sec. 9°, grazie a una descrizione ricca di informazioni preziose, contenuta nella Destructio monasterii Farfensis, redatta dall'abate Ugo agli inizi dell'11° secolo. Dal testo risulta che in questo periodo la chiesa abbaziale era dotata di una copertura in lastre di piombo e di un ciborio in onice collocato al di sopra dell'altare maggiore e che fra gli edifici si contavano allora ben cinque cappelle: la prima, in onore di s. Pietro, destinata ai canonici, altre due riservate rispettivamente ai monaci convalescenti e a quelli moribondi e una quarta situata all'interno del palazzo imperiale a uso privato dei monarchi in visita; l'ultima, collocata all'esterno dell'abbazia e dedicata alla Vergine, era destinata alle donne, alle quali era precluso l'ingresso al cenobio. Il monastero era inoltre provvisto di bagni e di portici, questi ultimi situati sia all'interno sia all'esterno delle robuste mura difensive con torri.In seguito alla distruzione saracena, che sconvolse l'intero complesso abbaziale, si ebbe, nel corso dei secc. 10° e 11°, un lento e faticoso ripristino delle strutture preesistenti. Un primo intervento fu quello attuato nel 911 con la rimessa in opera del tetto dell'abbaziale, mentre nel 988, sotto l'abate Giovanni III (966-997), i chiostri erano di nuovo agibili. Si restaurarono o si ricostruirono ex novo anche gli oratori; ne compaiono due dall'intitolazione inedita: il primo in onore di s. Benedetto, del quale si ha notizia dal 999, il secondo dedicato alla santa Croce, presente nei documenti dal 1055.Con la solenne riconsacrazione degli altari maggiori della chiesa abbaziale, avvenuta il 6 luglio 1060 alla presenza dello stesso papa Nicola II accompagnato da un seguito di cardinali, si può considerare finalmente conclusa, dopo oltre un secolo, la ristrutturazione degli edifici monastici. Era abate in questo periodo Berardo I (1048-1089), alla cui committenza è stata collegata da una parte degli studiosi (McClendon, 1987) l'edificazione del coro quadrato frapposto alla coppia di torri campanarie. La planimetria e l'alzato del blocco orientale sono stati sufficientemente indagati, per cui è stato possibile ricostruirne in dettaglio le strutture. All'interno della torre campanaria superstite, la presenza di archi incastrati all'altezza del primo piano di trifore, utilizzati come piano di appoggio per una volta senza nervature, dimostra come fosse previsto un ambiente autonomo rispetto al resto della costruzione, collegato con l'adiacente presbiterio attraverso una grande arcata. All'esterno invece il paramento murario risulta qualificato in basso da robuste lesene collegate da archetti e sormontate da nicchie cuspidate, sulle quali poggiavano in origine cinque piani di trifore, di cui attualmente se ne conservano solo quattro.La muratura esterna dell'abside quadrata, contigua alla torre campanaria, mostra per tutta la sua altezza una serie continua di lesene terminanti in archetti, mentre le pareti interne sono scandite da coppie di pilastri raccordate da archi, comunicanti con il presbiterio per mezzo di un grande arco trionfale sormontato da due basse finestre arcuate. Dalla descrizione è possibile riconoscere un complesso architettonico imperniato su un presbiterio rettangolare unito mediante quattro archi-diaframma ai due ambienti situati alla base delle torri campanarie, all'abside quadrata e all'aula della chiesa.Nella disposizione tripartita della zona presbiteriale si possono evidenziare precise relazioni con numerosi edifici del periodo ottoniano localizzati per lo più nella regione compresa fra il Reno e la Mosa, come per es. l'abbaziale di St. Maximin a Treviri, della metà del sec. 10°, che ha valore di prototipo nel presentare alla base delle due torri, sistemate ai margini opposti del transetto, ambienti voltati comunicanti con l'anticoro. Anche le cattedrali della stessa regione ben presto adottarono la tipologia architettonica del presbiterio tripartito, come evidenziano i casi di Toul, Metz e Verden, dove nello stesso periodo fu inserita una coppia di campanili collocati sulle testate del transetto, fiancheggianti un coro centrale sporgente. Nella seconda metà del sec. 11° questa particolare struttura si diffuse anche nella Germania meridionale, come dimostrano i casi di St. Peter und Paul a Niederzell nella Reichenau e di St. Georg a Klosterreichenbach, quest'ultimo più vicino al blocco orientale di Farfa.Anche in Italia settentrionale è possibile riscontrare precocemente la presenza di torri campanarie abbinate, all'altezza del transetto, come per es. nelle cattedrali di Ivrea e di Aosta e nella più tarda chiesa di S. Abbondio a Como, mentre, al contrario, non si segnalano casi di absidi quadrate.Nonostante l'intensa attività edilizia svolta all'interno del complesso monastico nel corso del sec. 11°, nel 1097 l'abate Berardo II decise di trasferire tutta la comunità monastica sulla cima del sovrastante monte San Martino, luogo già in origine abitato da gruppi di eremiti. Il tentativo, nato probabilmente per motivi difensivi, non ebbe seguito e, alla morte dell'abate nel 1098, i lavori intrapresi riguardanti l'edificazione della chiesa, dedicata a s. Martino, vennero immediatamente abbandonati.Le imponenti strutture che ancora si ergono sulla sommità del monte, oggetto recentemente di un'indagine archeologica, consentono di tracciare le linee generali del nuovo progetto. La chiesa presenta una pianta basilicale a tre navate con transetto absidato, sottostante cripta 'a sala' e un'originale facciata provvista di due torrioni separati da un atrio aperto verso l'interno che, almeno in questo periodo, non presenta esempi confrontabili in Italia, con l'unica eccezione dell'abbaziale di San Salvatore sul monte Amiata.La genesi e la diffusione di questa particolare tipologia architettonica vanno ancora una volta ricercate in Europa settentrionale, specificatamente nella regione dell'Alto Reno, dove si presenta in numerosi esempi a partire dalla prima metà del sec. 11° (cattedrali di Strasburgo e Basilea; abbaziale di Limburg an der Haardt), per estendersi successivamente in altre regioni europee, in particolare in Normandia.Anche in quest'ultimo caso viene confermata quindi la continuità di contatti di F. con i centri culturali transalpini, che rimane una costante delle vicende artistiche dell'abbazia sabina, che subirono comunque un definitivo arresto di lì a qualche anno con la fine dell'autonomia politica.
Bibl.
Fonti: Gregorio da Catino, Chronicon Farfense, a cura di U. Balzani (Fonti per la storia d'Italia, 33-34), 2 voll., Roma 1903; Constructio monasterii Farfensis, ivi, I, pp. 21-23; Ugo di Farfa, Destructio monasterii Farfensis, ivi, pp. 29-31.Letteratura critica: I. Schuster, Della basilica di S. Martino e di alcuni ricordi farfensi, NBAC 8, 1902, pp. 47-54; id., L'oratorio del Salvatore nel monastero imperiale di Farfa, ivi, 17, 1911, pp. 86-99; id., Reliquie d'arte nella badia imperiale di Farfa, Archivio della R. Società romana di storia patria 34, 1911, pp. 269-350; P. Markthaler, Sulle recenti scoperte nell'abbazia imperiale di Farfa, RivAC 5, 1928, pp. 37-88; G. Croquison, I problemi archeologici farfensi, ivi, 15, 1938, pp. 37-71; N. Franciosa, L'abbazia imperiale di Farfa. Contributo al restauro della fabbrica carolingia, Napoli 1964; Tutela e valorizzazione del patrimonio artistico di Roma e del Lazio, "VII Settimana dei musei, Roma 1964", Roma 1964, pp. 122-135; C. Pietrangeli, L'abbazia di Farfa, in C. D'Onofrio, C. Pietrangeli, Abbazie del Lazio, Roma 1970, pp. 141-175; B. Premoli, Il ''S. Martino Nuovo'' di Farfa, Bollettino dell'Unione storia e arte, n.s., 15, 1972, pp. 21-27; B. Premoli, La chiesa abbaziale di Farfa, RINASA, 21-22, 1974-1975, pp. 5-77; A. Prandi, Osservazioni sull'abbazia di Farfa, in Roma e l'età carolingia, "Atti delle Giornate di studio, Roma 1976", Roma 1976, pp. 357-368; B. M. Apollonj Ghetti, Le cripte semianulari di Vescovio e Farfa nella bassa Sabina, in Il paleocristiano in bassa Sabina, Roma 1980, pp. 113-135 ; C.B. McClendon, The Revival of 'Opus Sectile' Pavements in Rome and its Vicinity in the Carolingian Period, PBSR 48, 1980, pp. 157-165; D. Whitehouse, Farfa: l'abbazia medievale attraverso gli scavi archeologici, in Farfa nella Sabina, Roma 1983, pp. 17-30; T. Leggio, Farfa, problemi e prospettive di ricerca, Il Territorio 1, 1984, pp. 73-86; L. Pani Ermini, L'abbazia di Farfa, in La Sabina medievale, a cura di M. Righetti Tosti-Croce, Cinisello Balsamo 1985, pp. 34-59; C.B. McClendon, The Imperial Abbey of Farfa. Architectural Currents of the Early Middle Ages, New Haven-London 1987 (con bibl.); M. G. Fiore Cavaliere, Fara Sabina-monte Motilla-oratorio di S. Martino: indagini archeologiche, in Archeologia Laziale IX (Quaderni del centro di studio per l'archeologia etrusco-italica, 16), Roma 1988, pp. 441-451; id., Fara in Sabina: monte S. Martino indagini archeologiche nella chiesa nuova, in Archeologia Laziale X (Quaderni del Centro di studio per l'archeologia etrusco-italica, 19), Roma 1990, pp. 334-338; C. Heitz, Rôle de l'église-porche dans la formation des façades occidentales de nos églises romanes, in La façade romane, "Actes du Colloque international organisé par le Centre d'études supérieures de civilisation médiévale, Poitiers 1990", CahCM 34, 1991, pp. 329-334.
Le sculture medievali dell'abbazia sabina oltre sessanta rilievi costituiti in larga maggioranza da capitelli a stampella - sono passate attraverso le varie ristrutturazioni architettoniche che il complesso monumentale ha subìto nel corso della sua storia. I pezzi sono quindi per una buona parte erratici o, quando ancora in opera, risultano del tutto fuori contesto. Una parte di questi si trova riutilizzata nelle trifore degli ultimi due piani del campanile, sottoposto recentemente a un radicale restauro che ha consentito la liberazione delle trifore dalle tamponature seicentesche con la conseguente messa in luce di undici capitelli a stampella, ancora in ottimo stato di conservazione.Negli ambienti monastici inoltre si ritrovano numerosi esemplari di capitelli - alcuni tagliati a metà e impiegati come peducci nelle volte del corridoio di accesso al chiostro tardorinascimentale, altri conservati nel Mus. dell'abbazia -, tutti provenienti dalle trifore del secondo campanile, abbattuto agli inizi del sec. 17°, dove, anche in questo caso, erano stati riutilizzati. Sempre nei locali del Mus. dell'abbazia si segnala, oltre a frammenti di lastre e mensole con decorazione a intreccio, l'epitaffio dell'abate Sicardo (830-842), mentre all'interno della chiesa, riedificata nel corso del sec. 15°, si trovano, ancora in opera sulle colonne della navata centrale, quattro capitelli a volute ioniche, attribuibili senz'altro a maestranze cosmatesche - alle quali, tra l'altro, si devono anche numerosi frammenti di una recinzione presbiteriale firmata "Magister Rain. hoc opus fecit" -, nonché, infine, un dossale di cattedra con i simboli dei quattro evangelisti scolpiti all'interno di riquadri separati da fasce decorate con motivi fitomorfi, databile al 12° secolo.Del massimo interesse, fra le sculture elencate, risulta il cospicuo gruppo di capitelli, omogenei per le dimensioni e per la tipologia a stampella, anche se al suo interno sono stati distinti differenti contesti cronologici, tutti circoscrivibili comunque a un ambito esclusivamente altomedievale. La prima serie, la più numerosa, è stata collocata nel terzo quarto del sec. 8°, proprio per la presenza in essa di innegabili apporti e influenze dei maggiori centri artistici longobardi, aquitanici e visigoti sviluppatisi nel corso dei primi secoli del Medioevo nel contesto dei regni romano-barbarici. Nei capitelli risulta particolarmente evidente la commistione di diverse e talora opposte forme espressive, che rimandano da un lato, per il tipo di decorazione alveolata a forti contrasti e vive spigolature, a un linguaggio di origine esclusivamente altomedievale, mentre dall'altro, per la presenza di ornati resi con un rilievo morbido ed elegante, a matrici culturali che si richiamano genericamente a modelli paleocristiani. Tale dicotomia di motivi iconografici e linguaggi espressivi - fra i quali emerge come immediatamente riconoscibile la componente culturale aquitanica, penetrata a F. grazie alla presenza di numerosi abati originari di Tolosa che nel corso del sec. 8° si susseguirono al governo dell'abbazia - trova motivazione nella probabile origine eterogenea e nella non comune formazione degli artefici che, all'interno comunque di un medesimo cantiere, presero parte alla lavorazione dei rilievi.Per l'età carolingia, al contrario, si può chiaramente distinguere l'attività di due gruppi di maestranze operanti autonomamente e non interferenti, l'uno legato alla realtà regionale dell'abbazia, l'altro di formazione decisamente aulica, che evidenzia la provenienza degli artefici da un ambito culturalmente elevato, verosimilmente in contatto con officine legate alla corte imperiale. Da una parte, infatti, nella decorazione di alcune mensole e di una serie di frammenti di pluteo si riconoscono quei motivi, a nodo di nastro vimineo variamente intrecciato, largamente diffusi dalla fine del sec. 8° e per gran parte del 9° in tutti i territori dell'impero carolingio; dall'altra, il gruppo composto da alcuni capitelli a stampella e dall'epitaffio dell'abate Sicardo, che si qualifica per l'alto valore formale, oltre che per l'originalità dei temi ornamentali, sensibili ad apporti provenienti dall'arte tardoantica; a questo nucleo si sono potuti accostare solamente alcuni esemplari di produzione transalpina: i pulvini del St. Justinus di Höchst, presso Francoforte, per i capitelli, e l'epitaffio di papa Adriano I (Roma, portico della basilica di S. Pietro in Vaticano) per l'epitaffio di Sicardo.Si segnala infine, fra il materiale conservato nel Mus. dell'abbazia, il cofanetto eburneo (seconda metà del sec. 11°) donato al cenobio, come si legge nell'iscrizione dedicatoria, dai commercianti amalfitani Mauro e Pantaleone. L'oggetto è decorato su ogni lato con episodi della Vita di Cristo e della Vergine, nei quali è stato riconosciuto l'intervento di vari artisti, tutti comunque appartenenti a una medesima bottega, originaria, probabilmente, dell'Italia meridionale, come farebbero supporre le relazioni stilistiche individuate con le celebri tavolette d'avorio conservate a Salerno (Mus. Diocesano; Toesca, 1933-1934).
Bibl.: I. Schuster, Reliquie d'arte nella badia imperiale di Farfa, Archivio della R. Società romana di storia patria 34, 1911, pp. 269-350; A.B. Schuchert, Eine unbekannte Elfenbeinkassette aus dem 11. Jahrhundert, RömQ 40, 1932, pp. 1-11; A. Hofmeister, Maurus von Amalfi und die Elfenbeinkassette von Farfa aus dem 11. Jahrhundert, Quellen und Forschungen aus italienischen Archiven und Bibliotheken 24, 1932-1933, pp. 278-283; A.B. Schuchert, Zur Elfenbeinkassette von Farfa, RömQ 41, 1933, pp. 162-165; P. Toesca, Un cimelio amalfitano, BArte, s. III, 27, 1933-1934, pp. 537-543; H.P. L'Orange, Nuovo materiale per lo studio della scultura altomedievale: sculture altomedievali dell'abbazia di Farfa, AAAH 4, 1969, pp. 213-214; F. Betti, Sculture altomedievali dell'abbazia di Farfa, AM, s. II, 6, 1992, 1, pp. 1-40.F. Betti
Le più antiche tracce di decorazione pittorica nel complesso abbaziale sono probabilmente costituite dai frammenti rinvenuti nel 1959 nella cripta semianulare. Si tratta di un partito a finto velario sormontato da un registro di scene narrative inserite entro fasce policrome, di cui - visto lo stato di forte compromissione - non è più possibile cogliere il soggetto e le qualità stilistiche. Premoli (1974-1975) individuava nella fascia superiore due mani distinte, l'una prossima ai modi ellenizzanti di Giovanni VII (705-707) e l'altra, più irrigidita, riconducibile al filone meno aulico della produzione romana. Anche per il motivo a vela i riscontri più puntuali sono stati indicati negli esempi dei secc. 8°-9°, epoca a cui viene ricondotta l'intera decorazione (Cantone, 1985).Difficilmente verificabile, allo stato attuale, rimane la pur affascinante ipotesi di Bertelli (1983) che F. fosse, nel sec. 9°, al centro di un'enclave di cultura carolingia aperta agli influssi della scuola di Reims, il cui principale testo pittorico superstite dovrebbe essere infatti costituito dall'Adorazione della croce nella primitiva facciata dell'abbazia di S. Giovanni in Argentella, presso Palombara Sabina, che è stata tuttavia convincentemente posticipata di ca. tre secoli (Aggiornamento scientifico, 1988).Un altro momento della decorazione dell'abbaziale di F. è stato restituito, sempre nel 1959, da uno spiccato di muro rinvenuto sotto l'altare barocco e decorato sul lato meridionale con un velario, che, per il minore naturalismo e il più acceso cromatismo, rispetto a quello della cripta, è stato ricondotto ai secc. 11°-12° (Cantone, 1985). Sul lato opposto del muro si trova invece una controversa figura di abate orante ritenuta da Cantone (1985) pertinente alla prima metà del sec. 12°; diversamente, McClendon (1983), basandosi su considerazioni storiche oltre che stilistiche ed epigrafiche, suggerisce che il personaggio ritratto possa essere il franco Altberto, che guidò il monastero dal 786 al 790.Il ciclo di storie vetero e neotestamentarie, riquadrate da elaborate architetture dipinte e opera di almeno due mani distinte, che ricopriva la parte basamentale della torre campanaria, è al centro di un articolato dibattito critico. L'individuazione (Markthaler, 1928), malgrado lo stato frammentario, di un programma di salvazione con richiami all'origine siriaca del fondatore del monastero non ha infatti contribuito a chiarirne la cronologia o l'ambito culturale (Cantone, 1985). Venuta meno la correlazione proposta da Matthiae (1966) con le pitture di S. Urbano alla Caffarella a Roma, i riferimenti spaziano dagli influssi ottoniani (Premoli, 1974-1975), all'Italia meridionale e centrale, fino agli stimolanti confronti con alcuni codici farfensi (McClendon, 1987), polarizzandosi tuttavia, nella maggior parte dei casi, intorno alla seconda metà dell'11° secolo.All'interno del c.d. coro quadrato si sovrappongono poi vari strati di pittura, tra i quali di maggior interesse sono un motivo a meandri prospettici nell'intradosso di un'apertura tamponata, datato alla fine del sec. 11° (Cantone, 1985), e un Giudizio universale, che, per lo sviluppo insistito e artificioso dei panneggi, potrebbe collocarsi intorno alla fine del secolo successivo; molto più monumentale, anche se di compromessa leggibilità, sembrerebbe invece la figura angelica poco al di sopra.La prima testimonianza di un'attività di produzione libraria a F. riguarda l'abate Alano (761-769) - che viene ricordato nella Constructio monasterii Farfensis come abile scriba -, anche se, stando alle consuetudini dei principali insediamenti benedettini, è probabile che un corredo di codici liturgici accompagnasse la comunità fin dalla sua fondazione.Una continua attività di produzione e di accumulo di materiale librario per tutto il sec. 9°, fino al forzato abbandono dell'898, è poi sicuramente attestata da una notizia fornita dall'abate Ugo (998-1038), il quale, nella sua Destructio monasterii Farfensis, afferma a tale proposito che in tutto il regno d'Italia non esisteva, a eccezione di Nonantola, un altro monastero paragonabile per ricchezza a quello sabino. Un'ulteriore conferma indiretta proviene dal Chronicon Farfense, che ricorda numerosi codici, di cui quattro rilegati in argento e crisografati, asportati intorno al 939 dal cenobio di S. Vittoria in Matenano, nelle Marche, dove si era rifugiata parte dei monaci scampati all'incursione saracena.La sostanziale omogeneità grafica delle scarsissime testimonianze superstiti (Roma, Vallicell., C. 9; Roma, BAV, Arch. S. Pietro, D. 164; Roma, Bibl. Naz., Farf. 29; Merseburg, Stiftsbibl., I 136) ha fatto ipotizzare che durante il sec. 9° si fosse formato a F. uno scriptorium ben organizzato (Supino Martini, 1994, p. 50).Sullo scorcio del sec. 10°, l'adesione dell'abbazia alla riforma cluniacense coincise con una nuova fioritura della comunità, cui seguì un rinnovato impulso verso la produzione libraria, che raggiunse tuttavia il massimo splendore solo nella seconda metà del secolo successivo. Alla fine del governo di Berardo III (1099-1119) l'abbazia risultava infatti in possesso di numerosi codici preziosi, alcuni dei quali rilegati in avorio e in argento.I codici conservati dei secc. 11°-12°, quasi tutti redatti in minuscola carolina nella sua tipizzazione romanesca (Supino Martini, 1987), uniti ai titoli tramandati da Gregorio da Catino nel Chronicon Farfense, rivelano inoltre una certa apertura culturale rispetto ai limitati orizzonti di una formazione rigorosamente monastica, anche se, paragonato a quello di Montecassino, rimane evidente la sostanziale arretratezza del patrimonio librario farfense (Supino Martini, 1983, p. 606).Nel sec. 11°, con la rinascita dello scriptorium, la produzione si orientò verso scelte decorative piuttosto semplificate. La maggior parte dei codici (Roma, BAV, Vat. lat. 6808; Roma, Bibl. Naz., Farf. 27; Farf. 32) presenta infatti esclusivamente iniziali decorate di tipo ottoniano, anche se non mancano suggestioni da centri più prossimi, primo tra tutti Montecassino (Windsor, Eton College Lib., 124). In seguito, nel momento di maggiore prestigio e vitalità, che coincise con l'attivita di Gregorio da Catino, si assistette a una graduale apertura nei confronti delle novità del Romanico d'Oltralpe e a un'adesione a modelli classicistici di derivazione bizantina, come testimoniano, per es., i panneggi con pieghe a V (Garrison, 1953-1962).Tra gli esiti più interessanti di questi anni, oltre al Breviario chigiano (Roma, BAV, Chigi C.VI. 177), che costituisce uno dei più precoci esemplari miniati, vanno ricordati - anche per il loro valore storico oltre che artistico - il Chronicon (Roma, Bibl. Naz., Farf. 1) e il Regestum (Roma, BAV, Vat. lat. 8487), che nella pagina di dedica (c. 12r) raffigura Gregorio da Catino nell'atto di redigere il testo e di offrirlo alla Madonna (Mazal, 1978, p. 272; Breccia Fratadocchi, 1994).
Bibl.:
Fonti. - Gregorio da Catino, Chronicon Farfense, a cura di U. Balzani (Fonti per la storia d'Italia, 33-34), 2 voll., Roma 1903: I, pp. 325-326; Constructio monasterii Farfensis, ivi, p. 18; Ugo di Farfa, Destructio monasterii Farfensis, ivi, pp. 29-31.
Letteratura critica. - I. Schuster, L'imperiale abbazia di Farfa, Roma 1921 (rist. anast. 1987); P. Markthaler, Sulle recenti scoperte nell'abbazia imperiale di Farfa, RivAC 5, 1928, pp. 37-88; E.B. Garrison, Studies in the History of Mediaeval Italian Painting, 4 voll., Firenze 1953-1962; G. Matthiae, Pittura romana del Medioevo, II, Roma 1966, pp. 35, 93; K. Berg, Studies in Tuscan Twelfth-Century Illumination, Oslo 1968; B. Premoli, La chiesa abbaziale di Farfa, RINASA 21-22, 1974-1975, pp. 5-77; H. Toubert, Contribution à l'iconographie des psautiers, MEFR 88, 1976, pp. 581-619; O Mazal, Buchkunst der Romanik (Buchkunst im Wandel der Zeiten, 2), Graz 1978; C. Bertelli, Traccia allo studio delle fondazioni medievali dell'arte italiana, in Storia dell'arte italiana, V, Dal Medioevo al Quattrocento, Torino 1983, pp. 5-163; C.B. McClendon, An Early Funerary Portrait from the Medieval Abbey of Farfa, Gesta 22, 1983, 1, pp. 13-26; P. Supino Martini, La produzione libraria negli scriptoria delle abbazie di Farfa e di S. Eutizio, "Atti del 9° Congresso internazionale di studi sull'Alto Medioevo, Spoleto 1982", Spoleto 1983, II, pp. 581-607; R. Cantone, La decorazione pittorica, in Farfa. Storia di una fabbrica abbaziale, Roma 1985; L. Pani Ermini, L'abbazia di Farfa, in La Sabina medievale, a cura di M. Righetti Tosti-Croce, Cinisello Balsamo 1985, pp. 34-59; C.B. McClendon, The Imperial Abbey of Farfa. Architectural Currents of the Early Middle Ages, New Haven-London 1987 (con bibl.); P. Supino Martini, Roma e l'area grafica romanesca (secoli X-XII), Alessandria 1987, pp. 240-287 (con bibl.); Aggiornamento scientifico all'opera di G. Matthiae, Pittura romana del Medioevo, II, a cura di F. Gandolfo, Roma 1988; I luoghi della memoria scritta, cat., Roma 1994; P. Supino Martini, Itinerario monastico in area romanesca, ivi, pp. 49-56; M.M. Breccia Fratadocchi, ivi, pp. 66-72, nrr. 14-23.G. Curzi