Abbigliamento
Il termine abbigliamento, che in origine aveva il significato di "ornamento, decorazione, abbellimento (anche di cose)", indica oggi quasi esclusivamente la varietà degli oggetti usati per vestirsi e adornarsi. Rientrano quindi in questa denominazione non solo gli indumenti propriamente detti, ma anche gli accessori, i gioielli e le diverse modalità di trattamento dell'epidermide, dalle prime forme di tatuaggio, alle odierne pratiche cosmetiche, cioè tutte quelle operazioni che, per scopi diversi, trasformano l'aspetto naturale originario del corpo umano. A partire dalla Seconda guerra mondiale, la diffusione su larga scala delle fibre sintetiche ha condotto alla progressiva commistione di artificio nell'abbigliamento e artificialità dei materiali.
1.
La storia dell'abbigliamento, a differenza di quella della moda, nei suoi inizi e sviluppi coincide con la storia dell'essere umano. In ogni epoca e in tutte le latitudini della terra l'uomo ha ricoperto e ricopre il proprio corpo utilizzando le più svariate modalità ornamentali e vestimentarie. Tale bisogno di modificare l'aspetto naturale sorge dal fatto che l'uomo, a differenza della maggior parte dei mammiferi, è nudo, sprovvisto, con l'eccezione del capo e di poche altre parti del corpo, di un reale rivestimento pilifero. La constatazione che l'essere umano, insieme a tale assenza di protezione naturale, è anche caratterizzato da 'una serie di carenze' sul piano morfologico ha portato A. Gehlen a definire l'uomo un 'essere manchevole' (Mängelwesen) e a evidenziare come questa sprovvedutezza biologica trovi tuttavia la rivalsa nella sua facoltà pensante e nella capacità di adoperare le mani (Gehlen 1940, trad. it., pp. 46, 60-61). L'essere umano fu posto, dunque, dinanzi alla grande opportunità di dover 'elaborarsi', di provvedere da sé, liberamente e creativamente, alle proprie necessità. Così, per es., il non essere legato a un ambiente specifico gli consentì di muoversi ovunque nelle zone calde e fredde, di adattarvisi, di cercare di volta in volta anche le soluzioni vestimentarie più idonee per proteggersi dalle intemperie o da altri pericoli esterni, e il fatto di avere un corpo nudo lo indusse, sin dagli inizi della sua storia, a modificarlo e arricchirlo mediante pitture, tatuaggi e decorazioni varie.
Tutte le modalità di cura del proprio aspetto esteriore rispondono, innanzitutto, a un innato bisogno di salvaguardare e affermare la propria individualità, non riscontrabile nel mondo animale (v. cultura). La coscienza del proprio Io, che caratterizza l'essere umano, si esprime come esperienza di separazione, di distinzione nei confronti dei propri simili e dell'ambiente che lo circonda. Lo stato di nudità, in cui l'essere umano lascia il seno materno all'atto della nascita, costituisce l'unico momento di uguaglianza con i propri simili. Sin dagli albori della propria storia, egli ha istintivamente cercato di sottrarsi al rischio di livellamento rappresentato dalla comune 'uniforme' della pelle, facendo uso della pittura e del tatuaggio del corpo, degli ornamenti e dei vestiti con cui, ancora oggi, compensa il suo essere carente e soddisfa il bisogno individuale di distinzione sublimando, in forma socialmente accettabile, l'istinto di rivalità: abbigliarsi significa, infatti, differenziarsi. Tale dato antropologico costituisce il punto di partenza indispensabile per chiarire le motivazioni che sono all'origine dell'abbigliarsi, in cui interagiscono intenti pratici e, in modo non affatto irrilevante, estetici, nonché esigenze individuali e sociali.Le antichissime raffigurazioni di esseri umani rinvenute nelle caverne, i risultati degli studi compiuti, specialmente in campo etnologico, e le numerose testimonianze contenute nei resoconti di viaggi compiuti fra popoli che vivevano allo stato naturale concordano nel ritenere che le influenze climatiche non possono essere considerate come determinanti per l'inizio dell'uso dei vestiti. Così, per es., gli abitanti della Terra del Fuoco, secondo quanto riferirono J. Cook e poi Ch. Darwin, andavano nudi, nonostante il freddo intenso e il vento gelido, o portavano brandelli di pelli semplicemente come ornamento. L'intento primario di decorare il proprio corpo, piuttosto che di difenderlo dal freddo, era espresso dalla loro predilezione per le perle di vetro e dall'uso che essi facevano di tessuti che venivano loro regalati: non li adoperavano per proteggersi, ma li riducevano a pezzi, che fermavano come decorazione intorno alle membra. Presso popolazioni ove era stata introdotta la consuetudine dell'uso dei vestiti, per es. nel Borneo, fu ugualmente constatato che questi venivano indossati nelle festività in gran quantità quale ornamento, nonostante il caldo insopportabile. Nell'Africa orientale, con il bel tempo, si usavano come decorazione pelli di capra, che però con la pioggia e il freddo venivano tolte per evitare che si deteriorassero.
Neppure il senso del pudore costituisce una motivazione valida per spiegare l'origine del vestito, giacché, come è stato osservato, presso i popoli che vivevano allo stato naturale, la nudità non coincideva necessariamente con l'impudicizia. È stato anzi constatato il contrario, e cioè che i popoli i quali normalmente andavano nudi, per es. gli aborigeni australiani, nelle loro danze erano soliti coprire, con grembiulini di piume o altro materiale ornamentale, in primo luogo gli organi genitali. Più che di senso del pudore, si può parlare, in questo caso, di un istintivo intento di richiamare l'attenzione, proprio attraverso l'occultamento, su quelle parti del corpo ritenute sessualmente più stimolanti. In culture differenti, per es. presso gli ottentotti, i cinesi, gli arabi, venivano accuratamente sottratti allo sguardo altrui rispettivamente il deretano, i piedi, il volto e, presso alcuni popoli, perfino l'ombelico. L'origine del vestirsi non appare dunque riconducibile al comune senso del pudore, che piuttosto è da considerarsi come la conseguenza di un'abitudine, formatasi nel tempo, di celare costantemente certe parti del corpo, e le cui variazioni sono strettamente legate alle trasformazioni sociopsicologiche e culturali delle singole società. La foglia di fico, che la Bibbia presenta come prima modalità di rivestimento del corpo umano, come prima espressione del pudore, è interpretata da I. Kant nella sua valenza eminentemente erotica che, a differenza di quanto accade nel mondo animale, consente all'essere umano di prolungare e accrescere, mediante l'immaginazione, l'attrazione sessuale (Kant 1786).
Il passaggio dal semplice piacere animale al sentimento, la sublimazione dell'istinto a opera della fantasia, secondo il filosofo tedesco, segnò un momento fondamentale nella storia della cultura, in quanto fu all'origine di tutte le creazioni artistiche proprie dell'essere umano, tra cui quelle manifestazioni del gusto per il bello costituite appunto dalle molteplici modalità di decorazione del proprio corpo. Al sorgere di queste ultime avrebbe tuttavia concorso, oltre all'intento di sollecitare in modo più efficace l'interesse erotico altrui, anche quello di proteggersi dall'influsso della magia, dall'azione di spiriti o di altre forze psichiche disincarnate rivali, a cui veniva attribuita la causa di tutti gli eventi nefasti, altrimenti non comprensibili. L'uomo primitivo considerava infatti gli agenti magici altrettanto temibili e reali della pioggia e del freddo, e da essi si proteggeva con l'uso di anelli e altri oggetti portati come amuleti e collocati soprattutto in prossimità degli orifizi del corpo. A proposito di tali consuetudini, J. Frazer affermava nel Ramo d'oro che agli anelli, al pari dei nodi, veniva assegnato tanto il potere magico di esercitare 'un'influenza costrittiva', che tratteneva e imprigionava l'anima dell'uomo, quanto il potere di impedire 'l'entrata degli spiriti malvagi' (Frazer 1890, trad. it., 1° vol., p. 378). Il cordoncino legato intorno ai lombi, inizialmente senza l'aggiunta di altri elementi, costituì in origine un mezzo di prevenzione magica. Tale finalità fu poi recepita nelle varie modalità del cingere, rappresentate dagli anelli, dalle collane, dai braccialetti o dalle cinture, le quali, successivamente, con la graduale scomparsa della motivazione magica, assunsero una funzione sempre più decorativa e, quindi, anche forme artisticamente più raffinate.
Le prime modalità di modifica dell'aspetto esteriore del corpo umano furono gli interventi sulla pelle mediante pitture e tatuaggi, il cui intento iniziale, più che rivolto a fini estetici, fu quello di incutere timore e repulsione per proteggersi da forze rivali. Secondo W. Wundt, "gli ornamenti, il tatuaggio [...] sono anzitutto mezzi magici, e come tali rivolti ai bisogni più urgenti cui l'uomo non può supplire da solo, come la difesa contro le malattie, la fortuna nella caccia o in guerra" (Wundt 1904, trad. it., pp. 363-64). A tale intento magico è riconducibile l'antichissimo uso di maschere di animali, la cui 'incorporazione' significava un accrescimento della propria potenza. Si credeva infatti che la forza vitale degli animali uccisi, specie se temibili e pregiati, si trasmettesse a colui che ne portava sulle spalle e sulla testa le spoglie, intendendo in tal modo alludere alla propria forza, abilità e combattività. Presso tutti i popoli, in forme più o meno raffinate, l'orribile maschera animale ebbe pure una valenza religiosa, simbolizzò l'aspetto terrificante, misterioso, della divinità e fu impiegata come ornamento sacerdotale. L'iniziale funzione magica di difesa dai pericoli di natura spirituale e fisica a cui l'uomo fu maggiormente esposto, a motivo della sua attività di cacciatore e di guerriero, spiegherebbe inoltre perché, presso i popoli che vivevano allo stato naturale, egli decorasse il proprio corpo più riccamente della donna.
Tra le motivazioni che contribuirono al sorgere delle prime decorazioni del corpo c'è da aggiungere comunque il gusto per il bello. In verità, ciò è parzialmente osservabile anche nel mondo animale, per es. in quelle modificazioni di forme e colori mediante le quali alcune specie segnalano la propria disponibilità sessuale, con la fondamentale differenza, tuttavia, che la decorazione del proprio aspetto esteriore nell'essere umano non è condizionata solo dalla natura, non risponde semplicemente a un bisogno istintivo, a un innato impulso ludico, ma è essenzialmente il risultato della sua libera attività creatrice. Nella pittura e nel tatuaggio del corpo, come nell'utilizzazione a fini ornamentali di elementi ricavati dalla natura, e infine nei vestiti, trovò espressione la sensibilità tipicamente umana per il bello; in tali attività, secondo l'opinione di alcuni studiosi, operavano le stesse leggi a cui si attennero successivamente tutte le espressioni artistiche. In proposito G. Semper afferma: "L'adornare è in realtà un fenomeno molto importante della storia della cultura. È uno dei privilegi dell'essere umano, forse il più antico. Nessun animale abbellisce sé stesso [...]. È il primo e più significativo passo verso l'arte; nell'ornamento e nei suoi principi è contenuto l'intero codice dell'estetica formale" (Semper 1884, p. 404).
Sulla base delle testimonianze forniteci dagli etnologi, e anche degli studi sul comportamento ludico dei bambini, il piacere istintivo per la decorazione risulta essere antecedente al bisogno del vestirsi. Quest'ultimo, come si ricava da molti aspetti comuni, anche linguistici, originariamente non è stato altro che uno sviluppo dell'ornamentazione del corpo, una sua modalità, anche se le nostre abitudini attuali ci inducono a considerare l'uno come qualcosa di superfluo e l'altro come qualcosa del tutto indispensabile.
T. Carlyle, uno dei primi ad aver approfondito il tema del vestire, nel suo celebre lavoro Sartor resartus, cui si sono richiamati gran parte degli scritti sull'argomento, così si espresse a proposito dell'uomo che lui chiamava 'selvaggio': "Soddisfatti i bisogni della fame e della vendetta, il suo prossimo pensiero non era la comodità, ma l'ornamento [...]. Presso i popoli selvaggi trovansi infatti il tatuaggio e la pittura anche prima delle vesti. Il primo bisogno spirituale di un selvaggio è l'ornamento, come si può osservare ancora fra le classi incolte dei paesi civili" (Carlyle 1833-34, trad. it., p. 42). Il vestito si originò dunque dalla decorazione, che ricopriva ben precise parti del corpo, quali il collo, i fianchi e le giunture ossee delle braccia e delle gambe, che coincidono poi con i punti statici e architettonici del corpo umano. Inoltre, certi elementi utilizzati originariamente a scopo ornamentale, quali le pelli degli animali, ben si prestavano ad assumere una finalità di protezione fisica, che finì di fatto con il prevalere sempre più sull'altra. Le pelli d'animale divennero in realtà il primo e principale mezzo di rivestimento del corpo umano: per i romani, per es., esse costituivano l'elemento di riconoscimento e di distinzione dei barbari, come ci testimoniano alcuni scrittori latini, i quali definirono l'invasione dei goti come la vittoria delle pelli d'animale sulla toga. Esse, dunque, sono da considerarsi all'origine di ciò che oggi, attraverso un processo di sviluppo, diversificazione e affinamento, testimoniatoci dalla storia del costume, intendiamo per vestito (v. moda).
2.
Rispetto al mondo animale, l'essere umano si caratterizza come homo faber, a motivo della sua capacità di modificare l'ambiente in cui vive, mentre, in relazione alle sue attività creatrici più spirituali, al fatto che "non può vivere la sua vita senza esprimere la sua vita", egli viene definito animal symbolicum (Cassirer 1944, trad. it., pp. 368, 383). Ciò che qualifica la socialità umana e la differenzia da quella animale è proprio tale capacità di espressione simbolica, su cui si basa tutto il progresso della cultura e a cui sono da riportare pure le varie modalità di decorazione del corpo, dalle più primitive fino a quelle odierne. Queste, infatti, hanno sempre un significato e trasmettono importanti informazioni relative all'età, al sesso, al gruppo etnico di appartenenza, alla religiosità, al grado di indipendenza, originalità ed eccentricità dell'individuo, alla sua concezione della corporalità e della sessualità. Le decorazioni possono essere usate per segnalare gli atteggiamenti verso gli altri, in particolare la disponibilità sessuale, l'aggressività, la ribellione, la sottomissione, la formalità nel comportamento, e per evidenziare il proprio status sociale ed economico, ma anche per compensare i sentimenti di inferiorità sociale. In situazioni relazionali, i vari elementi dell'abbigliamento, nei loro momenti di codificazione e decodificazione, al pari di messaggi inviati in un codice da un soggetto emittente a uno ricevente, costituiscono un fondamentale veicolo di comunicazione non verbale a cui non ci si può sottrarre, e proprio a motivo di tale funzione segnica, come portatori di un significato, hanno recentemente attirato l'attenzione anche degli studiosi di semiotica. Essi, tuttavia, non possono prescindere o essere dissociati dalla vitalità comunicativa propria dell'architettura anatomica del corpo, dalla sua struttura linguistica, e, quindi, dall'espressione del volto, dallo sguardo, dai gesti, dai movimenti, dalla postura. Solo nel contesto di un'interazione armonica con tali modalità espressive non verbali, che in maniera significativa lo completano ed enfatizzano, che lo rendono parte di un tutto dinamico, l'abbigliarsi diviene un fatto comunicativo, un linguaggio visivo articolato, immediato, rivelatore di molteplici implicazioni psicosociologiche e culturali.L'aspetto esteriore ha un ruolo importante nel fissare e mantenere un'immagine del sé e ha un peso considerevole per l'autostima, per il proprio senso di sicurezza. Questo vale già nell'infanzia. Oltre al proprio nome, i vari elementi dell'abbigliamento, nonostante l'aspetto coercitivo che necessariamente implicano sul piano comportamentale, costituiscono per il bambino un motivo di orgoglio: a due-tre anni "forniscono un importante ancoraggio per l'autoidentificazione" (Allport 1961, trad. it., p. 101). A questa età l'essere umano è già alle prese con il problema dell'identità personale, del riconoscimento, per es. dinanzi allo specchio, del proprio Io corporeo. A tale coscienza, tipicamente umana, di avere un'esistenza corporea distinta mirano anche le manipolazioni dell'aspetto esteriore. Queste infatti intendono raggiungere una presentazione ottimale e gratificante dell'immagine che si ha di sé stessi e che di sé si vuole trasmettere. Nella comunicazione non verbale, il modo di apparire è senz'altro il segnale che più influisce sulle percezioni e sulle reazioni degli altri, oltre che di sé stessi. Le varie componenti dell'aspetto acquistano importanza soprattutto per il loro significato sociale, e cioè per i messaggi relativi all'Io, manipolati o meno, consapevoli o no, che riescono a comunicare. Non necessariamente tali informazioni sono veritiere, ma è sufficiente che esse esprimano ciò che l'individuo desidera che gli altri pensino di lui e che suscitino reazioni corrispondenti, atte cioè a confermarle. L'immagine che il soggetto crea di sé stesso si esprime così in segnali che sta agli altri decodificare.
Presso alcune popolazioni della Nuova Zelanda, il tatuaggio sul viso e sul corpo era praticato dagli individui più influenti nella comunità, come segno di distinzione dagli altri, i cui corpi presentavano una decorazione meno estesa e più semplice. Alcune popolazioni primitive africane e polinesiane si facevano tatuare segni simboleggianti il numero dei nemici uccisi o delle ferite riportate in guerra, una sorta di medaglia al valore. Altri popoli usavano incidere sul corpo non solo gli atti eroici, ma anche le malefatte, al fine di renderle note agli occhi degli altri componenti del gruppo. Senza più ricorrere all'indelebile tatuaggio, anche presso i popoli 'civili', gli atti di emarginazione, di discriminazione e di iniziazione sono stati generalmente accompagnati dall'imposizione di segni connessi all'abbigliamento. Si pensi alla grave umiliazione della privazione delle vesti, con cui simbolicamente si veniva spogliati della propria identità, della propria esistenza, come se si venisse ricacciati in una livellante condizione naturale, extraculturale, animale: allo schiavo, per es., veniva tolto, oltre al nome, anche l'abito, ogni segno cioè della sua identità passata. Più recentemente, ai deportati nei campi di concentramento nazisti venivano imposte un'uniforme a strisce e, non solo per motivi igienici ma con palese significato castratorio, la rasatura dei capelli: prescrizioni, queste, in vigore, soprattutto una volta, per i malati di mente, i prigionieri, i traditori, e tipiche, in genere, di tutte le istituzioni totalitarie. In un contesto diverso, tale valore simbolico è ancora oggi testimoniato dalle cerimonie di consacrazione religiosa in cui i novizi, per poter assumere la nuova identità, tagliano i capelli, cambiano il nome e indossano altre vesti.
Anche il colore di un particolare capo di vestiario è stato adoperato in senso distintivo (v. colore). Spesso lo si è usato per discriminare persone ritenute socialmente pericolose o devianti, come nel caso del cappuccio nero dei lebbrosi o del velo giallo che portavano le cortigiane nella Firenze del Cinquecento. Nell'abbigliamento, i colori, come anche le forme, sono esteticamente importanti e hanno per lo più un fondamentale valore simbolico. Già nelle primitive pitture del corpo, con cui si intendeva allontanare gli spiriti maligni o terrorizzare il nemico, il colore aveva una precisa valenza magica. A tale potere magico-simbolico si richiamava anche la consuetudine del condottiero romano, che celebrava il suo trionfo, la sua divinizzazione, indossando una porpora bordata d'oro, con il capo cinto di una corona d'alloro e il volto e la parte superiore del corpo dipinti con minio, proprio come la statua di Giove Capitolino. Sin dall'antichità, l'arte della cosmesi perseguì esplicitamente un'azione ammaliante: si pensi, per es., all'impressione sensuale che suscita la bocca quando, con il rossetto, viene accentuata la zona del rosso naturale delle labbra, o anche all'effetto penetrante che, nel rapporto interpersonale, assumono gli occhi quando vengono efficacemente rinforzati mediante una molteplicità di artifici.
L'essere umano ha usufruito della sua diretta esperienza con la natura per conoscere l'azione fisica e il valore simbolico dei colori, di cui poi si è servito per esprimere i suoi sentimenti nell'abbellimento del corpo, nei vestiti e nelle arti figurative.Il colore di un vestito può essere un indizio delle motivazioni psicologiche e della personalità di colui che l'indossa, tenendo conto però di altri fattori, spesso molto più decisivi nella scelta, riferiti agli atteggiamenti della persona ed esterni a essa. Tali possono essere le simbologie cromatiche delle diverse tradizioni culturali e le prescrizioni sociali tipiche del gruppo d'appartenenza, alcuni particolari riferimenti magici o credenze religiose, i gusti proposti dai mass media, le mode o, semplicemente, ragioni di convenienza pratica. Non affatto irrilevanti sono inoltre il colore dei capelli, quello degli occhi e il tipo di carnagione. La scelta può inconsciamente essere condizionata dall'associazione a ricordi, gratificanti o meno, e anche dal momentaneo stato d'animo, di buon umore, che farebbe preferire colori chiari e allegri, oppure di dolore e turbamento, che, istintivamente, porterebbe a indossare vestiti più coprenti e dalle tinte più scure. "Se i colori producono stati d'animo ‒ scrive Goethe nella Teoria dei colori a proposito dell'abbigliamento ‒ d'altro lato si adattano a stati d'animo e condizioni di vita" (Goethe 1810, trad. it., p. 198).
L'utilizzazione di segni ornamentali e vestimentari, spesso molto vistosi e rigidamente codificati, distintivi di ben precisi ruoli nella sfera politica, religiosa, militare e civile, ha particolarmente caratterizzato nei secoli scorsi i popoli più civilizzati: tracce di essi sono visibili ancora oggi presso i gruppi fortemente gerarchizzati. Molti oggetti, passando gradualmente dalla semplice funzione di uso (armi, bastoni, cinture, fibbie, copricapo) o dalla originaria funzione magica (anelli, pietre preziose, gioielli), a una funzione più accentuatamente ornamentale, assunsero l'aspetto di vere creazioni artistiche di materiale pregiato finemente lavorato e divennero segni di differenziazione, simboli di potere. Tale è il caso, per es., dello scettro regale, del pastorale vescovile o del bastone da maresciallo, utilizzati originariamente nell'esercizio del potere come strumento per percuotere i sudditi. Per quanto riguarda la cura dell'aspetto, vi sono anche elementi che, attraverso l'effetto di un''estensione' dell'Io, mirano a rendere più evidenti i ruoli e l'immagine che si intende trasmettere agli altri. L'estensione consiste nel fatto che le nostre percezioni visive, tattili e, nell'uso del profumo, olfattive, attraverso elementi dell'abbigliamento che hanno uno stretto legame con il corpo, vengono prolungate fuori di noi, ottenendone così un accrescimento. Il trasferimento delle nostre percezioni corporali agli oggetti modifica, in modo più o meno rilevante, il livello di percezione generale, a seconda dell'estensione e della forma dell'elemento ornamentale e del movimento o della rigidità che esso favorisce. Si tratta di un aspetto estetico, oltre che psicologico, del problema dell'abbigliamento, come dimostra la più frequente forma di estensione, quella relativa all'altezza. Una dimensione più grande del proprio corpo accresce l'autostima e suscita negli altri sentimenti di timore e rispetto.
Questo è l'effetto prodotto dalle lunghe talari e dalle toghe dei dignitari, da molti simboli di potere, da particolari acconciature e copricapi, dai tacchi alti, che mirano anche oggi ad accrescere l'altezza e a slanciare la figura. Una pretesa di spazio e di distanza era espressa dalla ingombrante crinolina e un'estensione della figura umana era costituita dallo strascico, un accessorio di abiti lunghi e stretti che conferiva maggiore imponenza e solennità all'incedere misurato e solenne. Oggi tale vistosa esibizione del proprio status mediante simboli vestimentari è quasi del tutto scomparsa; rimane tuttavia l'esigenza di segnalare visivamente determinati ruoli, motivata senza dubbio più dalla loro utilità pubblica che dal bisogno di distinzione sociale. È il caso dell'uniforme di polizia, della tonaca degli ecclesiastici o del camice che il medico indossa in ospedale, mediante i quali vengono trasmesse con immediatezza informazioni che consentono di stabilire una corretta interazione sociale.
La donna, che, a motivo della sua assenza dai ruoli politicamente, socialmente e religiosamente rilevanti, non ha avuto la possibilità, salvo rare eccezioni, di esibire decorazioni onorifiche o di rango, ha compensato questa sua emarginazione curando più dell'uomo l'eleganza dei propri abiti e la ricchezza degli ornamenti. "Curare la sua bellezza, abbigliarsi [...] le permette di appropriarsi della sua persona" scrive S. de Beauvoir, cioè di "scegliere e creare il proprio Io" (de Beauvoir 1949-50, trad. it., p. 311). Attraverso una strategia che mira a correggere e a dissimulare i punti deboli del proprio corpo e a valorizzarne quelli forti, più attraenti, in un'abile arte del reinventarsi continuamente, in cui sono presenti anche le componenti ludica e magica, la donna si sente protagonista della propria trasformazione, accrescendo così la fiducia e la sicurezza in sé stessa. Tale coscienza dell'Io corporeo, del proprio fascino, della capacità di seduzione, se non regredisce in narcisistico amore per la propria immagine, si riflette positivamente nel confronto sociale, giacché un aspetto fisicamente attraente incide favorevolmente sugli atteggiamenti e sui comportamenti degli altri.
La psicoanalisi ha posto in luce il significato della particolare predilezione feticistica per parti del corpo non sessualmente primarie (per es., i piedi, le mani, i capelli, le labbra, il seno) e per alcuni capi di abbigliamento (la scarpa, la calza, la cravatta, i pantaloni, il cappello, la cintura, la giarrettiera), interpretandola come spostamento del rimosso esibizionismo genitale in simboli fallici e vaginali. Tale valenza agisce, per lo più in modo del tutto inconscio, anche nell'ambito dell'interazione e, principalmente nella donna, favorisce una funzione dell'abbigliarsi ampiamente riscontrabile in tutta la storia del costume, preziosa non solo per la vita di coppia, ma anche per i contatti sociali fra uomo e donna, quella cioè di un meccanismo regolativo attraverso il quale, quasi a proprio piacimento, l'interesse sessuale può venir risvegliato o attenuato. La visualizzazione dell'identità sessuale avviene per lo più accentuando il carattere allusivo nella cura della propria immagine, soprattutto nel modo di indossare i vestiti, lasciando intravvedere cioè la nudità nel momento stesso in cui viene nascosta. In un gioco erotico e insieme estetico, fondamentalmente ambivalente, in cui viene enfatizzata la sensuale sinuosità e plasticità del corpo, i vestiti femminili acquistano quel tocco di mistero che valorizza il corpo e lo rende sessualmente più seducente e più provocante dello stesso nudo esibito, agendo così in modo efficace sul desiderio e sulla curiosità maschili.
3.
Un'attenta lettura del ricco materiale ornamentale e vestimentario documentato dalla storia dell'abbigliamento consente di cogliere le strette connessioni che esso ha con aspetti importanti della vita umana. Per es., per quanto riguarda l'evoluzione dei rapporti uomo-donna, sono senz'altro significative le trasformazioni verificatesi alla fine del Settecento: l'uomo rinunciò alle forme di decorazione eccentriche ed elaborate e ridusse il suo abbigliamento a uno stile sobrio e austero; la donna dell'alta società, invece, continuò a godere del privilegio di essere, dal punto di vista strettamente sartoriale, l'unica depositaria dello sfarzo, dell'eleganza e della bellezza. Il fatto che questo nuovo ordine di idee non avesse influito sulle donne, ma solo sugli uomini, dipese essenzialmente dal ruolo di detentori esclusivi del potere che questi ultimi si erano sempre arrogati e che, di conseguenza, li rendeva, a differenza dell'altro sesso, maggiormente soggetti ai mutamenti sociali. T. Veblen individua la ragione fondamentale della distinzione nel modo d'abbigliarsi dei due sessi nel fatto che la donna era ancora considerata proprietà dell'uomo (Veblen 1899). A lei, infatti, non si addiceva guadagnarsi da vivere lavorando: la sua sfera era all'interno della casa, che lei doveva 'abbellire' anche con la sua presenza.
L'esibizione vistosa di consumo e di agiatezza faceva parte dei doveri femminili, serviva a porre in evidenza il potere economico del proprio 'padrone', di cui la donna era il maggiore 'ornamento', una sua 'estensione'. L'estetica del fascino femminile si riduceva essenzialmente a un'estetica della sottomissione e dell'oggettualizzazione sessuale e imponeva elementi vestimentari che comportavano, come nel caso del busto, un'evidente deformazione del corpo e rischi di malattie anche gravi. Se confrontiamo queste informazioni forniteci dalla storia dell'abbigliamento con la realtà attuale, si osserva che, grazie alle mutate condizioni sociali e culturali, che hanno favorito la donna nell'affermazione e nella difesa della propria dignità di 'soggetto', i vari elementi del vestiario per entrambi i sessi sono oggi caratterizzati da una maggiore praticità e funzionalità. Essi tendono sostanzialmente a soddisfare le esigenze naturali, fisiche ed espressive del corpo, che non viene più represso dall'abbigliamento, ma è da quest'ultimo rivalutato e potenziato nella sua funzione di elemento privilegiato di comunicazione. Nel contempo però, il moderno sviluppo dell'industria della moda ha imposto, alla donna in particolare, dei modelli riguardanti l'abbigliamento, che sollecitano anche 'tipi' o immagini femminili (per es. le top models), che finiscono per condizionare notevolmente gli acquisti e le scelte individuali.
Le forme fondamentali dell'abbigliamento in realtà non sono affatto arbitrarie, ma appaiono e scompaiono in concomitanza di precisi eventi storici: basti pensare, per es., all'incidenza, non certo irrilevante, della Riforma o della Rivoluzione francese. In tutte le epoche e presso tutti i popoli tali forme costituiscono sensibili indicatori dei processi culturali, vale a dire di ciò che l'essere umano ha creato come sua seconda natura per compensare lo stato di nudità, di carenza rispetto al mondo animale. Le diverse modalità ornamentali e vestimentarie, in una lettura diacronica, riflettono infatti il cammino della cultura, e le sue espressioni sono tanto più elaborate quanto più alto è il livello raggiunto da essa. Considerando poi un ampio arco di tempo, è constatabile una sostanziale corrispondenza tra abbigliamento, architettura e arredamento, così come risulta, per es., dallo stile unitario delle espressioni artistiche e vestimentarie delle grandi culture dell'antichità, quali l'assira, l'egizia e l'ellenica o dei movimenti culturali gotico, rinascimentale e barocco. L'abbigliamento, la casa e anche l'ambiente abitativo circostante presentano in realtà alcuni aspetti in comune, a cominciare dall'etimologia (habitus e habitare hanno la stessa radice nel verbo habere). L'abbigliamento è stato definito da H.M. McLuhan una 'estensione della pelle' (McLuhan 1964, trad. it., p. 129): infatti tutti e tre (abbigliamento, casa e ambiente urbano) possono essere percepiti come ulteriori 'strati di pelle', con un'analoga funzione protettiva a livello fisico e, specialmente, psicologico. Oltre alla comune sensazione di benessere e di comodità che questi ambiti suscitano di solito nell'individuo, vi è un'altra analogia che riguarda l'aspetto estetico e simbolico. Sia la decorazione e la cura del proprio aspetto, sia l'arredamento abitativo e urbano costituiscono, infatti, forme di un pregnante linguaggio visivo, accomunate generalmente dalle stesse modalità esteriori di fondo, e come tali sono 'ex-pressioni' non tanto del capriccio individuale, quanto dell'Io collettivo, dello spirito del tempo.
1.
Anche se è da sempre considerato come l'espressione stessa della naturalità, il corpo storicamente si è avvalso di artifici di ogni tipo (Borel 1992): dal trucco ai tatuaggi, dalle scarificazioni alle mutilazioni, dal piercing alle operazioni di chirurgia estetica, tutti questi elementi artificiali hanno concorso, assieme all'abbigliamento, a trasformare visibilmente il corpo in corpo sociale, in segno culturale, tendendo a limitare l'appartenenza troppo visibile del corpo all'ordine delle cose naturali, che rischiava di assimilare l'individuo agli animali.Tuttavia, pur considerando che l'abbligliamento da sempre è stato un artificio, fino alla Seconda guerra mondiale tutto ciò che ha coperto, dipinto, costretto il corpo è stato 'naturale': dai tessuti alle pelli, dalle polveri e dagli unguenti al legno e ai metalli, dalle perle agli ossi di animali (per bottoni, busti), dalle pietre alle piume, alle conchiglie, tutti questi elementi appartenevano al regno della natura. L'artificio, nella sua produzione di significati funzionali e simbolici, si fondava su materiali naturali che il lavoro incorporato provvedeva a rendere artificiali. Dalla Seconda guerra mondiale in poi, in seguito alla diffusione delle fibre sintetiche (poliammidiche, poliestere, poliviniliche, poliacriliche, polipropileniche e poliuretaniche), l'artificio nell'abbigliamento si è misurato con l'artificialità stessa dei materiali, assimilandola. Questa è stata la prima commistione dell'artificiale vero e proprio con il corpo per quanto riguarda l'abbigliamento, commistione che tuttavia non è mai stata considerata vantaggiosa né sul piano estetico (date l'intrinseca 'freddezza' e la specifica rigidità dei tessuti, legate alla loro origine chimica), né sotto il profilo igienico-sanitario. Tale passaggio ha fatto emergere alla superficie del corpo, nell'ambito dell'abbigliamento, un processo che la medicina aveva sviluppato già dal Cinquecento all'interno del corpo stesso, con la costruzione di protesi di varia natura. Nei decenni successivi alla Seconda guerra mondiale questa tendenza si è potenziata in modo rilevante, portando alla costruzione, per es., di valvole e pacemaker, e producendo una sempre più evidente metamorfosi del corpo in macchina.
Il fenomeno di artificializzazione ha coinvolto l'abbigliamento attraverso l'utilizzazione di prodotti della chimica, dell'elettronica, di tecnologie sempre più presenti nel campo della moda. Il secondo passaggio all'artificialità è consistito appunto nell'avvento di mezzi e strumenti comunicativi. Il processo, cominciato con l'uso degli auricolari delle radio a transistor, è esploso con l'arrivo del walkman: questo ha annullato la distanza dalle macchine che fino ai tempi moderni aveva contraddistinto il corpo. Infatti, nonostante la perdita di naturalità sia sempre stata considerata una caratteristica 'naturale' dell'essere umano (Amsterdamski 1980), una sua eventuale commistione con le macchine sarebbe stata, nel passato, improponibile. Oggi questa distanza è caduta, perché è il valore stesso della naturalità del corpo che è andato in crisi, mentre è aumentato enormemente, allo stesso tempo, il valore della tecnologia. Il corpo, come emblema della naturalità, non è più stato capace di tenere le macchine nettamente separate, soggiacendo al loro assalto.
In realtà, sembrano destinati a coabitare e a ibridarsi in misura sempre maggiore non solo il 'naturale' e l''artificiale', ma anche il 'naturale' e le 'macchine'.Le tecnologie 'indossate' dopo il walkman sono state il cellulare, il cordless, le agende elettroniche, il computer portatile, il 'mobile-office', che hanno seguito il destino non solo delle borse, delle '24 ore', ma del corpo e dell'abbigliamento nel suo complesso. Esse sono apparse con forme epurate e serie, poiché hanno puntato su un superfunzionalismo 'high tech', presentandosi sotto quelle "sembianze austere che i piccoli oggetti, come orologi, occhiali, accendini, penne, portacenere e quaderni, ormai avevano perso a vantaggio di un'apparenza gaia, ludica, mutevole" (Lipovetsky 1987, p. 194). L'introduzione delle tecnologie comunicative ha aperto la strada, soprattutto nell'abbigliamento giovanile, all'utilizzo di altre tecnologie elettroniche: hanno fatto la loro apparizione accessori o dettagli luminosi e sonori, a carattere sia ludico-estetico (spille e braccialetti a intermittenza o scarpe dei bambini che si illuminano) sia funzionale (elementi dell'abbigliamento che consentono di essere visti di notte o in particolari situazioni). All'ordine delle tecnologie elettroniche appartengono anche altri strumenti dell'abbigliamento sportivo, come i misuratori di passi o di velocità, oppure la tecnologia da polso, ossia gli 'orologi' destinati a misurare molteplici parametri, affiancando alla misura del tempo quella dell'altitudine, della pressione atmosferica, dei passi, della velocità, della pressione arteriosa, della frequenza cardiaca, della temperatura esterna, della latitudine e longitudine, della profondità in immersione, dei tempi intermedi in un allenamento, perfino del dispendio di calorie durante uno sforzo fisico.
2.
Le nuove tecnologie comunicative e informative sono passate dalla definizione di 'portabili' a quella di 'indossabili'. Questo cambiamento descrive efficacemente il percorso del loro avvicinamento al corpo, complice lo sviluppo della miniaturizzazione che ne ha ridotto dimensioni e peso, a parità di prestazione. Dunque, da stanziali, sedentarie nell'ambiente domestico o di lavoro, esse sono passate a essere mobili, diventando portabili e modificando la prossemica e la cinesica del corpo. Poi, man mano che le loro dimensioni rimpicciolivano, esse si sono 'arrampicate' sulla superficie del corpo, insinuandosi nei vari anfratti dell'abbigliamento: così, per es. il cellulare è andato a finire nei taschini delle giacche o dei vestiti, mescolandosi con gli elementi del look.
La simbiosi delle tecnologie con l'abbigliamento sembra destinata a durare nel tempo e a svilupparsi ulteriormente. Il Massachusetts institute of technology (MIT) ha progettato un computer indossabile con tutto incorporato: laptop, telefono cellulare, telecamera, registratore, walkman, monitor per misurare la pressione sanguigna. Il giaccone lungo, lanciato in alcune recenti collezioni, è dotato di un piccolo interruttore per termoriscaldarlo, nonché dell'attacco per l'alimentazione del cellulare. Si prevede che in un prossimo futuro i vestiti stessi saranno computerizzati: si potrà regolarne la pesantezza in base al clima, il colore a seconda dello stato d'animo e perfino misurare, grazie a essi, in tempo reale le calorie di un pasto.
Guardando anche solo al presente, è evidente che i materiali 'tecnici', tra cui il gore-tex, stanno avendo notevole successo nei giacconi impermeabili. In una moda che coniuga gli apporti dell'arte povera, del punk e della tecnologia, sono ormai entrati materiali che richiamano le tecnologie, come l'organza metallizzata. Anche i dettagli mutuati dal mondo dello sport entrano con prepotenza nella moda del quotidiano, che con i 'materiali tecnologici' disegna per es. donne 'artificiali', vestite di lattice setoso o di pellicole rifrangenti (Tortora-Eubank 1998). Se questo uso della tecnologia esprime materialmente la riduzione, insieme materiale e simbolica, del corpo a macchina e forza l'abbigliamento a trovare nel valore aggiunto delle tecnologie comunicative e informative una nuova frontiera, allo stesso tempo la moda e la danza ironizzano su tale tendenza, svuotandola del suo significato aggressivo. Ecco allora lo stile 'techno' e quello 'robot'. Il primo nasce alla fine degli anni Ottanta a opera di giovani europei e giapponesi, che si vestono "come se vivessero in una catastrofe fantascientifica, con abiti antiradiazioni, giubbotti da contraerea, occhiali a specchio e camuffamenti da commando urbano" (Polhemus 1994, p. 23). Questo stile si è recentemente esteso in forma soft, prediligendo indumenti in plastica trasparente, come trench, borse e scarpe, oppure giubbotti e microgonne in tessuto lucido dall'effetto metallico o ancora corpetti in rete plastificata (strada che anche l'alta moda sta ricalcando con l'utilizzo dei cosiddetti new materials). Lo stile robot nella danza invece punta sull'abilità del soggetto a riprodurre i movimenti rigidi e meccanici della macchina, rifacendo il verso all'automa, che è una delle figure tradizionali dell'immaginario mostruoso. In questo caso, non è più la macchina che imita l'essere umano (automa), ma è l'essere umano stesso che imita la macchina (cioè l'automa), ironizzando sul fatto che l'individuo è sempre più ridotto a macchina. È infine degli ultimi anni lo stile 'cyberpunk', tra il siderale, il tecnologico e le reti Internet; esso realizza un bricolage tra residui industriali, come tubi di gomma o maschere antigas, e materiali di alta tecnologia, come circuiti elettronici, ologrammi, inserzioni metalliche che richiamano i robot.
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