ABDICAZIONE (lat. abdicatio: da ab e dicare, intensivo di dicere; fr. abdication; sp. abdicación; ted. Abdankung.; ingl. abdication)
Nella terminologia giuridica romana, abdicatio è la rinuncia volontaria ad una cosa. Chi rinuncia a un'eredità, chi vende sé stesso schiavo, chi esce dalla propria gens, compie una abdicatio. Così può darsi una abdicatio dalla tutela, e forse anche ma la questione è controversa, dalla patria potestas (cfr. Rein, Privatrecht der Römer, Lipsia 1858, p. 488).
Ma più notevole importanza ha la parola e l'atto nel diritto pubblico, specialmente del periodo repubblicano. Solo per essa è conservato il principio della limitazione nel tempo della magistratura. Il magistrato in carica non può da altri esser deposto o esser fatto cessare dai suoi poteri o dalle sue funzioni; egli stesso deve rinunciarvi. Né altro lo astringe a questa rinuncia, se non il giuramento che egli ha prestato di osservare le leggi.
Il censore Appio Claudio nel 443 conservò il suo ufficio al di là dei termini legali, senza che alcuno potesse impedire l'esercizio irregolare dei poteri di lui. La deposizione dell'ufficio avveniva in forma pubblica e solenne. Il magistrato si presentava sui rostri, rendeva conto del suo operato, giurando di aver osservato le leggi, e dichiarava di deporre i proprî poteri. Nel linguaggio comune questa cerimonia si chiamò abire magistratu o eiurare magistratum (Cic., ad famil., V, 2, 7; in Pis., 6; Tac., Ann. XII, 4, Hist., III, 37; Plin., Paneg., 65). I magistrati pei quali era prescritta una durata di tempo diversa dalla annuale (dittatori e censori), procuravano in genere di poter rinunciare al loro ufficio prima dello scadere dei termini, che erano di sei mesi pel dittatore, di diciotto pei censori. Il magister equitum riceveva dal dittatore l'ordine di dimettersi.
Più specialmente la parola abdicatio finì con essere riservata solo alla deposizione volontaria dell'ufficio prima del tempo stabilito. Tale rinuncia non era naturalmente consentita nell'imperium militare, se prima non si era provveduto a un successore. Questa abdicazione, che potremmo dire precoce, poteva avvenire per molteplici ragioni. Il senato agì alle volte, perché magistrati inetti si ritirassero, ma formalmente la rinuncia dovette sempre apparire volontaria (Liv., V, 9).
Durante l'impero, nominati i magistrati del senato per lo più in séguito a commendatio del principe, e poi sempre più direttamente dall'imperatore, l'imperium maius di questo poté ordinare la cessazione dei poteri del magistrato senza bisogno dell'abdicazione volontaria. Durante il basso impero, si ebbe l'unico esempio di abdicazione d'imperatori: quella voluta da Diocleziano (v.) e da lui imposta anche al collega Massimiano, avvenimento che sembrò singolare e quasi incomprensibile agli stessi contemporanei, e che i moderni cercarono di spiegare con varî motivi (cfr. Costa, Diocletianus in E. de Ruggiero, Dizionario Epigrafico, II, 111, Roma 1900, p. 1823).
Dal senso stretto della parola abdicatio deriva il significato, ancor più specifico, di abdicazione nel diritto pubblico moderno. S'intende con questo termine il volontario abbandono dell'ufficio regio, per virtù di una manifestazione di volontà dello stesso monarca, la quale ha per effetto di aprire regolarmente la successione, come in séguito a morte. Si distingue propriamente dalla rinuncia all'eredità del trono, la quale consiste nel rifiuto o non accettazione della corona, al momento dell'apertura della successione: per ciò chi abdica, è re da tempo più o meno lungo, mentre chi rinuncia, non è, ma dovrebbe diventare tale.
Nel diritto pubblico italiano, tacendo in materia lo Statuto albertino, la dottrina, in difetto di disposizioni categoriche, esige per la validità dell'abdicazione alcuni requisiti. Essa è un atto di natura personale, che dev'essere fatto solo per il re e non per i suoi discendenti, rispetto ai quali potrebbe essere efficace solo con la successiva approvazione del parlamento; né può ammettersi che il re abdichi in favore di persona diversa da quella chiamata immediatamente a succedere in virtù della costituzione. Dev'essere assoluta, non temporanea o revocabile, per modo che il re abdicatario non possa essere nuovamente chiamato al trono se non per virtù di una legge, che modifichi l'ordine naturale della successione. Infine, deve risultare da un atto autentico, in guisa che niun dubbio rimanga sulla manifestazione esplicita e libera della volontà del re; peraltro, nel silenzio della costituzione al riguardo, non si ritiene necessaria una legge, trattandosi di un atto personale del re. Non mancano scrittori, i quali ammettono, accanto alla forma espressa di abdicazione, una forma tacita, risultante da un complesso di fatti o atti, dai quali si possa desumere con sicurezza che il re non intende più oltre conservare l'ufficio: come il rifiuto di prestare giuramento o la ritrattazione di esso, l'abbandono durevole dello stato, e simili.
Carlo Alberto, il 23 marzo 1849, dopo Novara, abdicò nel campo alla presenza del ministro Cadorna, il quale ne informò a Torino il governo, che il 26 marzo ne diede notizia alla Camera: questa richiese che l'abdicazione risultasse da apposito documento autentico, dettato infatti dipoi ad Oporto dallo stesso re ad un pubblico notaio; ma il parlamento non diede all'atto forma di legge. Presso di noi non si ebbero altri esempî di abdicazione; altrove furono numerosi. Scarsi invece quelli di rinuncia.
Quanto al Pontefice Romano, non v'ha dubbio ch'egli possa abdicare. In tal caso, perde tutti i diritti, i privilegi, le prerogative, i poteri giurisdizionali che gli spettano in quanto è capo supremo della cristianità. Perché l'abdicazione sia valida, non si richiede il consenso o l'accettazione di essa da parte dei cardinali o dei vescovi o di altri. Celebri, nella storia ecclesiastica, sono le rinunzie al papato di Celestino V (1294) e di Gregorio XII (1406). Ai tempi di Celestino, si agitava vivacemente fra i canonisti la questione se il papa potesse, o no, abdicare, e, nel caso affermativo, se alla validità della rinunzia fosse necessario il previo consenso del collegio dei cardinali, o di altri. Appunto Celestino V dichiarò che il sommo pontefice poteva liberamente rinunziare e che non occorreva il beneplacito o consenso di alcuno. Bonifacio VIII confermò questa dichiarazione e la fece inserire nella sua raccolta delle decretali (c.1, de renunciatione, I, 7, in VI). Il codice di diritto canonico espone la stessa dottrina in questi termini: "Si contingat ut Romanus Pontifex renuntiet, ad eius dem renuntiationis validitatem non est necessaria Cardinalium aliorumve acceptatio (can. 221).