ABERRAZIONE dei sistemi ottici
Gli strumenti ottici hanno come scopo di aumentare la potenza visiva dell'occhio per portarla là dove direttamente non potrebbe arrivare, ed utilizzano la proprietà fondamentale dei sistemi ottici, di fornire immagini degli oggetti materiali: le quali, se sapientemente ottenute, permetteranno all'occhio di scoprirvi più di quello che non gli sarebbe stato possibile con la visione diretta degli oggetti. Pertanto è evidente che un dato strumento potrà dare il massimo rendimento quando le immagini che esso fornisce riproducano nella maniera più fedele ed in tutti i particolari la forma dell'oggetto osservato. In realtà una tale riproduzione fedele non si può ottenere per due ragioni fondamentali: 1° perché anche lo strumento più perfetto teoricamente, in seguito ai fenomeni di diffrazione, che sono connessi inevitabilmente colla natura della luce stessa, non può riprodurre particolari inferiori a un certo ordine di grandezza; 2° perché la realizzazione dei sistemi ottici va soggetta a numerose imperfezioni che ne complicano il funzionamento, che distruggono la similitudine geometrica fra l'immagine e l'oggetto, e diminuiscono la nettezza dei particolari. Lo studio di queste anomalie è della più grande importanza pratica, sia perché ci permette di interpretare meglio le immagini fornite dai sistemi ottici reali, sia perché ci serve di preziosa guida per una più razionale costruzione, la quale per mezzo di opportuna scelta e di convenienti adattamenti delle parti, giova ad aumentare la potenza degli strumenti, fino ad avvicinarla al limite consentito dalla natura stessa della luce.
Evidentemente, le qualità da richiedersi a un sistema ottico, perché possa dirsi perfetto, sono due: 1° che dia immagini il più possibile nette e definite nei loro particolari o elementi; 2° che dia immagini, nel loro insieme, geometricamente simili all'oggetto.
I due requisiti debbono essere studiati separatamente, perché mentre il primo ci porta a considerare oggetti di dimensioni piccolissime, come una stella o un forellino molto sottile illuminato (stella artificiale), il secondo porta al nostro esame il caso di oggetti di notevole estensione.
Mettendoci dal primo punto di vista, è evidente che un sistema ottico debba dirsi perfetto quando trasforma ogni onda luminosa sferica incidente, col centro nella "stella oggetto" (a distanza finita o infinita), in un'altra onda sferica col centro in un altro punto, stella immagine", pure a distanza finita o infinita. Questo risultato in pratica può essere effettivamente raggiunto in un numero limitatissimo di casi, a causa delle complicazioni teoriche e pratiche che influenzano la forma dell'onda emergente, al punto che, se la perfetta sfericità di quest'onda fosse requisito indispensabile negli strumenti ottici, saremmo costretti a rinunziare al loro impiego.
Ma in realta la potenza limitata dei nostri sensi, che non ci fa avvertire le deformazioni inferiori a un certo limite, e gli inevitabili fenomeni di diffrazione costruiscono in pratica una soglia oltre la quale si rendono inavvertibili gli effetti delle deformazioni dell'onda, mentre d'altra parte, in molte applicazioni, gli strumenti ottici servono bene al loro fine anche se emettono onde difettose. Tenuto conto di queste circostanze possiamo riguardare quale funzione normale di un sistema ottico reale quella di trasformare un'onda sferica incidente in un'onda di forma quasi-sferica; e parliamo ancora di un'immagine della stella, indicando con questo nome quella figura più o meno complessa in cui ha luogo il massimo concentramento di luce.
Dal momento che le leggi determinanti la forma dell'onda sono quelle note della riflessione e della rifrazione, è subito evidente che se le superficie riflettenti e rifrangenti hanno delle forti asperità e rugosità, l'onda emergente non può essere regolare e perciò neppure sferica. Quindi nella costruzione dei sistemi ottici prima di tutto si debbono realizzare delle superficie il più possibile prossime a quelle geometricamente regolari, su cui si eseguono i calcoli. Tali superficie si sogliono chiamare otticamente corrette, o anche solo ottiche. La finezza necessaria è tale che in pratica si riesce a ottenere soltanto per superficie piane e sferiche, e solo in qualche caso si lavorano superficie paraboliche e iperboliche. Quando questa precisione non è raggiunta, si dice che il sistema ottico ha delle irregolarità, o anche degli errori. Una proposizione fondamentale dovuta a lord Rayleigh stabilisce il valore massimo degli errori tollerabili in una superficie ottica praticamente: protuberanze o avvallamenti sono tollerabili finché le differenze di cammino ottico a cui dànno origine siano non superiori a un quarto della lunghezza d'onda della luce impiegata; ogni differenza essendo presa fra il cammino ottico della luce attraverso la protuberanza (o l'avvallamento) ed il cammino che si sarebbe avuto senza l'errore. Più precisamente se n e n′ sono gli indici assoluti di rifrazione dei mezzi separati dalla superficie considerata, e λ è la lunghezza d'onda, lo spessore della protuberanza massima tollerabile è λ/4 (n-n′). Per le medesime ragioni i mezzi attraversati dalle onde debbono essere omogenei; cioè possedere dappertutto l'indice di rifrazione costante. Praticamente, un mezzo si riterrà omogeneo se la n presenta variazioni tali che il prodotto del cammino che la luce compie nella zona variata per la variazione Δ ν dell'indice diano un prodotto inferiore a λ/4.
Ma anche supponendo eliminata ogni irregolarità, in pochissimi casi, come si è detto, l'onda emergente è perfettamente sferica: per es., quando la stella occupa il centro di curvatura di uno specchio sferico (nel qual caso l'immagine coincide colla sorgente) o il fuoco di uno specchio parabolico, nel qual caso l'immagine va all'infinito. L'onda non sferica, che, nel caso generale, corrisponde a un'onda sferica incidente, si dice affetta da aberrazioni; e dalle stesse aberrazioni si dice affetto il sistema ottico che l'ha prodotta. Lo studio delle aberrazioni presenta fisicamente e matematicamente difficoltà notevoli; per evitare le quali si procede per gradi, classificandole opportunamente e limitando l'attenzione agli effetti principali.
Come primo passo su questo campo di studio si considerano le sole aberrazioni assiali dei sistemi centrati. E siccome, una volta calcolati gli elementi caratteristici per un punto, si possono dedurre i loro valori per qualunque altro punto dell'asse, si suole fare la loro determinazione per il fuoco principale soltanto.
La descrizione delle aberrazioni si può fare in due modi: o dando la legge con cui varia il cammino ottico fra i punti dell'onda in esame ed i corrispondenti di un'altra onda sferica di riferimento, e si parla allora di aberrazione d'onda; oppure, divisa l'onda in esame in tante zone elementari circolari col centro sull'asse, si rappresentano algebricamente o graficamente le posizioni dei fuochi delle singole zone sull'asse. Ricorderemo fugacemente, che tanto le zone elementari, quanto i loro fuochi, sono immagini e locuzioni introdotte per semplicità d'esposizione, poiché fisicamente non sono realizzabili. Si sa infatti che al diminuire dell'altezza dh della zona il fuoco corrispondente diventa sempre più indefinito e svanisce, per effetto della diffrazione. L'uso di tali locuzioni costituisce dunque un comodo artificio rappresentativo, che ha valore se applicato a porzioni di onde di una certa estensione.
La posizione che ha sull'asse il fuoco di una zona dipende dal raggio h di questa e dalla lunghezza d'onda λ della luce. Impiegando luce monocromatica (λ = costante), se la posizione del fuoco varia al variare di h, si dice che l'onda è affetta da aberrazione sferica. Considerando invece una zona isolata (h = costante), se il fuoco si sposta al variare di λ, si dice, invece, che vi è aberrazione cromatica.
Aberrazione sferica. - L'insieme del sistema ottico e delle onde essendo di rivoluzione attorno all'asse principale, può essere studiato in una sua sezione fatta con un piano passante per l'asse stesso. ln tal caso la calotta sferica di riferimento si traduce in un arco di circolo. Se questo è osculatore alla sezione meridiana dell'onda studiata nel suo vertice (h = 0) (fig.1), l'aberrazione d'onda w, che si può supporre espressa in serie di potenze di h, risulta data da
perché i termini con esponente dispari, mancano per la simmetria rispetto all'asse principale, mentre il termine in h2 manca per la scelta del cerchio di riferimento. Le quantità a, b, c,...., sono costanti caratteristiche del sistema ottico studiato. Quando l'apertura di questo non è molto grande, i termini di ordine superiore sono trascurabili e l'aberrazione di onda si riduce a w = ah4; degli altri termini si tiene conto solo nel caso di speciali obbiettivi di grande apertura, come quelli dei microscopî; e l'aberrazione sferica allora si suol chiamare zonale.
Derivando w rispetto a h si ottiene la descrizione dell'aberrazione angolare, ossia la legge con cui varia, al variare di h, l'angolo. Θp (h) che la normale all'onda nel punto di ordinata h fa colla retta che congiunge il punto stesso col fuoco parassiale, centro della sfera di riferimento, (fig.1):
Chiamando f il raggio di curvatura dell'onda nel vertice, ossia il raggio della sfera di riferimento, e Tp (h) l'aberrazione trasversale si ha subito
cioè la normale all'onda nel punto di altezza h taglia il piano normale all'asse nel fuoco parassiale in un punto distante di Tp (h) dall'asse. La distanza Lp, (h) del fuoco parassiale dal punto in cui la normale stessa taglia l'asse misura l'aberrazione sferica longitudinale, ed è espressa da
Si possono subito enunciare le leggi fondamentali dell'aberrazione sferica semplice; l'aberrazione d'onda è proporzionale alla quarta potenza di h, quella angolare e quella trasversale alla terza potenza e quella longitudinale al quadrato di h. Il parametro a è funzione degli elementi caratteristici del sistema ottico considerato; per es., per uno specchio sferico di raggio R, si ha
Per una lente semplice di indice n, nell'aria, e di cui f sia la distanza focale parassiale, R1 il raggio di curvatura della faccia rivolta verso la luce e R2 il raggio dell'altra faccia, presi col loro segno in modo che risultino positivi per una lente biconvessa, si ha
Non essendo questa espressione simmetrica rispetto ad R1 e R2, si deduce che l'aberrazione cambia voltando la lente, a meno che R1 e R2 non siano eguali.
Il calcolo di a diventa molto complesso per più lenti combinate; qui ci basta dire che combinando due o più lenti, si può ottenere, con opportuna scelta delle curvature e degli indici di rifrazione, che l'aberrazione complessiva risulti molto minore di quella di una lente semplice, di apertura e distanza focali uguali a quelle del sistema. È così che si può raggiungere la correzione dell'aberrazione sferica, mediante la combinazione di più lenti.
Aberrazione cromatica. - Il coefficiente a, come appare dai valori riportati relativi ai casi più semplici, mentre per gli specchi dipende solo da grandezze geometriche, per le lenti dipende anche dall'indice di rifrazione della sostanza di cui è fatta la lente. Limitando la trattazione ancora a questi Lasi semplici, si deduce che mentre l'aberrazione d'onda nei sistemi catottrici è indipendente dal colore della luce impiegata, nelle lenti dipende dalla lunghezza d'onda λ di questa. Le lenti sono dunque affette da aberrazione cromatica.
La rappresentazione analitica di questa aberrazione urta contro forti difficoltà, perché non si ha modo di esprimere semplicemente n in funzione di λ, quando si voglia considerare tutto il campo delle lunghezze d'onda che interessano lo spettro visibile; perciò si preferisce uno studio empirico e una rappresentazione grafica, misurando e descrivendo come sono disposti sull'asse i fuochi della lente studiata corrispondenti a ciascuna lunghezza d'onda.
Misurate le distanze di questi fuochi da un punto qualunque dell'asse, preso come riferimento, si riportano come ordinate su una coppia di assi ortogonali, di cui le ascisse sono i corrispondenti valori di λ. Si ottiene così una curva, detta curva di colore, che rappresenta appunto l'aberrazione cromatica studiata (fig. 2). Nelle lenti convergenti, fatte colle sostanze comuni, il fuoco è tanto più vicino alla lente quanto minore è la lunghezza d'onda. Si è sempre parlato di fuoco della lente, intendendo che non vi fosse aberrazione sferica; ma in ogni caso le definizioni valgono per ogni zona elementare. Se poi le curve di colore costruite per le diverse zone non risultano identiche, come è da aspettarsi nel caso generale, si dice che esiste l'aberrazione sfero-cromatica; di cui però si tiene pochissimo conto, perché nella maggioranza dei casi è trascurabile.
Per gli usi pratici, anche senza tracciar tutta la curva di colore, basta conoscere quello che avviene per alcune lunghezze d'onda fondamentali; che sono quella gialla del sodio (λ =589 mμ) e quelle dell'idrogeno nel rosso (λ = 656 mμ) e nell'azzurro (λ = 486 mμ). Delle sostanze di cui si fanno le lenti si misurano gli indici di rifrazione relativi a queste tre radiazioni, indici che, secondo le notazioni usate per le corrispondenti righe di Fraunhofer nello spettro solare, si indicano rispettivamente con nD, nC, e nF. Più spesso si dà nD, la differenza Δ n = nF − nC e anche il rapporto, detto numero di Abbe,
che ha particolare importanza, perché dà un'idea molto precisa dell'entità dell'aberrazione cromatica di ogni lente costruita colla sostanza a cui appartiene questo numero. Infatti ν è uguale al rapporto fD/(fC − fF), essendo queste le tre distanze focali per le lunghezze d'onda indicate dall'indice.
Le varie qualità di vetro ottico, che ormai sono parecchie centinaia, ma che si riuniscono ancora intorno ai due antichi tipi chiamati crown e flint, sono caratterizzate dal valore di ν, che è circa 60 per il primo e circa 35 per il secondo.
L'aberrazione cromatica di due o più lenti combinate è una funzione della aberrazione dei singoli elementi; come avviene per l'aberrazione sferica, combinando elementi con opportune caratteristiche il sistema risultante può avere anche un'aberrazione cromatica molto inferiore a quella di una lente semplice, di apertura e distanza focale uguali a quelle del sistema. Per questo si possono calcolare gli obbititivi acromatici, di cui si tratta in modo particolare sotto la v. acromatismo.
Astigmatismo e altre aberrazioni extraassiali. - Finché il sistema ottico in istudio è centrato e la stella è sull'asse principale, l'immagine, per complessa che sia, conserva sempre la sua forma di rivoluzione attorno all'asse stesso; ma anche quest'ultima qualità si perde quando si passi al caso più generale, in cui la sorgente può trovarsi in un punto qualunque. Lo studio delle nuove onde emergenti si presenta, quindi, più complicato di quello precedente; ma, continuando a considerare soltanto i sistemi centrati, la figura immagine di una stella assume ancora delle forme che si prestano ad una classificazione e a uno studio proficuo. Intanto, l'insieme del sistema ottico, della stella, delle onde incidenti e delle onde emergenti ha come piano di simmetria quello definito dall'asse e dalla stella, e anche la figura di diffrazione sul piano immagine, per quanto complessa, deve avere un asse di simmetria, intersecante l'asse principale.
Nonostante questa prima semplificazione, per poter procedere oltre nello studio, conviene andare avanti per gradi; e dapprima si limiti l'apertura dell'onda fino a ridurla a un piccolo elemento, intendendo con questo non un'area infinitesima, ma quella che si realizza, in pratica, diaframmando strettamente il sistema ottico studiato, sia sull'asse, sia fuori. Questo elemento d'onda si comporta molto prossimamente come una superficie a due curvature principali, cosicché, come indica la fig. 3, la luce viene a concentrarsi due volte, in due piccoli segmenti AB, A′ B′, ortogonali fra loro e chiamati le linee focali. Per quella simmetria sopra ricordata, il prolungamento di una di queste deve necessariamente intersecare l'asse principale e ad essa si dà il nome di focale radiale, mentre l'altra si chiama focale tangenziale. Supposto circolare il contorno dell'elemento d'onda, nel piano del diaframma, il fascio di luce, che in generale ha una sezione normale prossimamente ellittica coll'asse maggiore parallelo alla focale più vicina, in una posizione intermedia fra le due focali ha una sezione circolare. Il fenomeno è tanto più accentuato quanto maggiore è la differenza dei raggi principali di curvatura dell'elemento di onda, perché maggiore risulta allora la distanza fra le due focali; e perché, col crescere di questa, cresce anche il diametro del circoletto intermedio.
Un elemento di onda che si comporta in questa guisa si dice affetto da astigmatismo. Questo termine acquista così nell'ottica un significato assai particolare e più ristretto di quello etimologico.
In alcuni casi semplici la posizione delle focali viene determinata con delle formule interessanti per l'analogia che presentano con quelle fondamentali della teoria dei sistemi ottici e che esprimono la corrispondenza omografica sull'asse principale fra punti oggetto e punti immagine. Così nel caso di uno specchio sferico di raggio R, mentre sull'asse si ha
p e p′ essendo le distanze del punto oggetto e del punto immagine dal vertice dello specchio stesso, fuori dell'asse si ha
dove t = s è la distanza fra la stella e l'elemento di specchio che ne riflette la luce, t′ è la distanza fra questo e la focale tangenziale, s′ è la distanza fra lo specchio e la focale radiale ed i è l'angolo che l'asse dell'onda fa con l'asse dell'elemento riflettente (fig. 4). Essendo cos i ⟨ 1, la focale tangenziale è più vicina della radiale allo specchio. La differenza s′ - t′ che si prende in generale come misura dell'astigmatismo, è espressa da
e cresce col crescere di i, mentre si annulla per i = 0, come è naturale, perché ciò significa che la stella ritorna sull'asse principale dell'elemento di specchio considerato.
Se lo specchio fosse stato privo di astigmatismo, avrebbe dovuto dare della stella un'immagine puntiforme, secondo la teoria elementare di Gauss, posta ad una distanza p′ dal vertice, data ancora dalla formula
essendo p = t = s. Dunque mentre è t′ ⟨ p′, è s′ > p′ ossia per la focale tangenziale lo specchio agisce come se avesse, per la teoria di Gauss, un raggio di curvatura R′ = R cos i, e per la focale radiale, analogamente, un raggio Rn = R/cos i. Per le lenti semplici avviene qualche cosa di simile: sull'asse principale di una lente strettamente diaframmata vale la formula
Se la stella dista angolarmente di i dall'asse, si ha ancora astigmatismo, e le distanze t′ e s′ delle due focali sono legate alla distanza lineare della stella dalla lente t = s = p mediante le relazioni:
dove
(n, indice di rifrazione del materiale di cui è fatta la lente). Tanto fi quanto ft sono minori di f, ossia entrambe le focali sono più vicine alla lente che non l'immagine sull'asse principale; e delle due, la focale tangenziale più di quella radiale (fig. 5).
Leggi ben più complesse si hanno per i sistemi ottici composti di varî elementi diottrici e catottrici. Ma con la opportuna scelta di questi si può ottenere che l'astigmatismo del complesso sia annullato, o quasi; almeno, entro un certo angolo a partire dall'asse principale. Per ottener questo gli indici e le curvature delle lenti debbono soddisfare a certe relazioni conosciute sotto il nome di condizione del Petzwal.
Se l'onda non ha più un'estensione così ridotta come quella supposta fin qui, le cose si complicano assai. Per dare un'idea di quello che avviene in un caso ancora molto semplice come quello della riflessione sopra un unico specchio sferico concavo, si riportano nella fig. 6 le forme che via via assume sopra uno schermo E, che si allontana dallo specchio secondo la retta VE, il contorno del fascio luminoso, emesso dal forellino illuminato P, e riflesso da una corona circolare dello specchio (ottenuta anteponendo a questo un opportuno diaframma). Le forme III e IV sono le più rassomiglianti a delle focali, ma ne sono ancora parecchio diverse (cfr. H. Bouasse, Optique góométrigue supérieure, Parigi 1918, p. 146). Per le lenti semplici il fenomeno è ancora più complesso; ma, tanto per queste quanto per gli specchi sferici, è ormai studiato in tutti i suoi particolari. Nelle lenti composte la varietà dei risultati è tale che non è stato ancora possibile farne oggetto di uno studio sistematico completo. A volte avviene che un obbiettivo, anche con tutta l'apertura, dia di una stella una immagine composta di due focali, come nei casi studiati di uno specchio o di una lente semplice diaframmata; ma la posizione di queste, pur essendo governata da una relazione omografica, del tipo di quelle riportate sopra, è molto diversa da un obbiettivo all'altro, secondo la composizione di questo.
In altri tipi di sistemi ottici, invece, avviene che l'immagine di una stella assuma un aspetto come quello rappresentato schematicamente nella fig. 7, che richiama la forma di certe comete. Di qui il nome di coma, dato all'aberrazione che affetta l'onda emergente in questi casi.
Per effetto delle aberrazioni assiali la immagine di una stella risulta più sbiadita, allargata e meno netta di quello che si avrebbe con un sistema ottico perfetto di uguale apertura. Le aberrazioni oblique la deformano ancora di più, dandole degli aspetti caratteristici che non hanno nulla di simile con quello della sorgente. Chi osserva in un cannocchiale l'immagine di una stella, vede una figura che rivela piuttosto i difetti dell'obbiettivo che le proprietà della sorgente di luce.
Quando l'oggetto ha delle dimensioni apprezzabili, le aberrazioni agiscono ancora sui singoli punti immagine; ma il fatto che questi si trovino uno accanto all'altro, con continuità, fa sì che non si vedano i particolari di ognuno, e che l'effetto delle aberrazioni in definitiva si traduca in uno sbiadimento dell'immagine complessiva; la quale può anche svanire del tutto per dar luogo a un chiarore uniforme nel caso di aberrazioni fortissime. Si parla, perciò, di definizione e di nettezza dell'immagine, entità per ora non bene definite e lasciate al giudizio soggettivo dell'osservatore.
Più considerevoli e più importanti, però, sono gli effetti dell'astigmatismo; perché quando l'oggetto, pur essendo piano e normale all'asse del sistema ottico, ha una certa estensione, i suoi punti prossimi all'asse hanno delle immagini puntiformi, fedeli riproduzioni dell'originale; ma su quelli via via più lontani, l'astigmatismo produce i suoi effetti con un allungamento radiale delle singole immagini nelle vicinanze delle focali radiali, o con un allungamento tangenziale, vicino alle focali tangenziali. Chi osserva l'immagine complessiva sopra uno schermo si trova così in dubbio dove porre questo per avere la riproduzione più fedele dell'oggetto. Per una certa posizione può anche avvenire che l'immagine dei punti fuori dell'asse siano tanti circoletti, ma le loro dimensioni notevoli producono una certa confusione dell'insieme, tanto più sensibile, quanto maggiore è l'astigmatismo.
È poi da rilevarsi il fatto che la superficie luogo delle focali radiali, o quella delle focali tangenziali o anche quella dei circoletti intermedî, corrispondenti ai varî punti di un oggetto piano, normale all'asse, non è un piano, ma una calotta di rivoluzione attorno all'asse medesimo. Ne viene che praticamente l'immagine migliore, o a fuoco, sta sopra una calotta più o meno concava: e si ha così l'aberrazione conosciuta sotto il nome di curvatura del campo.
Quando è soddisfatta la condizione del Petzwal è abolita anche la curvatura del campo.
L'immagine di oggetti filiformi o reticolari risente in modo singolare dell'astigmatismo; così un insieme di circoli concentrici col centro sull'asse ha un'immagine ben definita quando la si osservi sopra la superficie luogo delle focali tangenziali; mentre un insieme di rette, complanari e passanti per l'asse, ha una buona immagine sulla superficie luogo delle focali radiali: le curvature delle due superficie sono diverse in generale e quindi un complesso di cerchi concentrici e di rette diametrali non può mai avere una riproduzione fedele da un sistema ottico affetto da astigmatismo. Anche i due insiemi di cerchi e di rette separatamente non possono avere una buona immagine se non hanno sull'asse il centro comune o il punto comune d'intersezione.
Avviene, talvolta, che l'immagine di una stella consti di due focali anche quando la stella si trova sull'asse di un sistema ottico. Poiché si è visto che, se il sistema è regolare, è impossibile che le onde emergenti siano affette da astigmatismo, nel senso fin qui definito, è necessario inferirne che il sistema non sia più di rivoluzione attorno all'asse principale. Le cause di questo nuovo astigmatismo, in pratica, sono da ricercarsi o in imperfezioni di lavorazione, o in deformazioni subìte dalle superficie ottiche o dall'omogeneità dei mezzi trasparenti, impiegati nella costruzione. Esempî di tali deformazioni si possono trovare nei grandi obbiettivi non sufficientemente robusti per resistere alle flessioni a cui vanno soggetti quando si fa cambiare la loro orientazione rispetto alla verticale; esempî di imperfezione si trovano nei piccoli obbiettivi, di poco prezzo, in cui le superficie, invece che sferiche, sono spesso piuttosto calotte di ellissoide.
Questa specie di astigmatismo si riscontra frequentemente anche nell'occhio; perché, spesso, le sue parti e soprattutto la cornea non hanno quella regolarità di forma che pretenderemmo in un sistema ottico costruito meccanicamente. Nell'occhio normale, però, questo difetto è impercettibile, perché esso vede le stelle come tanti puntini, senza traccia di allungamento. Ma non è raro il caso di occhi, invece, che al posto di una stella vedono un piccolo segmento; essi sono allora affetti da astigmatismo sull'asse (e anche fuori), e la causa è da ricercarsi in notevoli deformazioni, anormali o patologiche, delle loro parti ottiche. Una certa correzione del difetto si può ottenere, ponendo dinanzi all'occhio un altro sistema ottico astigmatico, come una lente cilindrica o torica che dia una focale ad angolo retto con quella dell'occhio.
Gli effetti dell'astigmatismo sull'asse sono assai peggiori di quelli dell'astigmatismo vero, perché, pur essendo in linea generale dello stesso genere i disturbi che essi portano nell'immagine, manca ora, in questa, quella zona più o meno estesa intorno all'asse principale, in cui essa è ben definita e che si trova sempre nel caso dell'astigmatismo vero, anche se molto forte.
Distorsione. - Tornando a quanto si è detto in principio di questa voce, ricordiamo che l'immagine di un oggetto esteso deve possedere ancora il secondo dei requisiti menzionati: deve essere, cioè, simile all'oggetto. Per quanto interessa le applicazioni, conviene limitare un po' le pretese, e parlare di oggetto piano, normale all'asse, e di immagine piana, prescindendo, perciò, anche dalla curvatura del campo. Se esiste la similitudine fra le due figure, l'immagine si dice ortoscopica; in caso diverso si suol dire che si ha distorsione. Riferendo i punti dell'oggetto a un sistema di coordinate polari, ρ e θ, col polo sull'asse del sistema ottico e i punti dell'immagine a un altro sistema di coordinate polari ρ′ e θ′, pure col polo sull'asse, per ragioni di simmetria si ha sempre che θ = θ′; e si trova invece che ρ′ è una funzione di ρ più o meno complessa, ma sviluppabile in serie di potenze. Per i casi pratici lo sviluppo si può arrestare alla seconda potenza, e scrivere:
dove a e b sono costanti caratteristiche del sistema ottico adoperato. Se b = 0, l'immagine è ortoscopica; se b2 è affetto dal segno +, la distorsione si dice a cuscinetto; e si dice invece a barile se b2 ha il segno -. La ragione di questi nomi va cercata nella forma che assume l'immagine di un oggetto a contorno quadrato col centro sull'asse (fig. 8). Questa distorsione però non va confusa con quella che si osserva guardando una struttura reticolare attraverso una lente affetta da forte aberrazione sferica.
Lo studio pratico delle aberrazioni si fa con varî metodi, di cui i principali utilizzano le interferenze fra elementi di onda che hanno attraversato regioni diverse del sistema ottico studiato.
Ciò si ottiene con molteplici dispositivi, di cui quelli fondamentali sono descritti da V. Ronchi, La prova dei sistemi ottici, Bologna 1925.
Aberrazione della luce.
Gli effetti della non istantanea trasmissione della luce (di cui la velocità è quasi 300 mila km. al secondo) sui dati delle osservazioni astronomiche sono molteplici. Il primo, del quale Galileo aveva preveduta la possibilità mezzo secolo prima che il Roemer (1644-1710) misurasse la velocità della luce, è quello del ritardo col quale l'immagine di un astro è percepita e quindi la posizione sua fissata, e con cui un fenomeno svolgentesi su di esso è osservato; ritardo tanto maggiore quanto maggiore è la distanza dell'astro stesso, che è nota in funzione del tempo per i componenti del sistema solare, ignota per lo più o appena grossolanamente nota per le stelle, gli ammassi, le nebulose.
Poiché queste distanze sono enormi ed enormemente varie, così questi ritardi ammontano a qualche anno per le stelle più prossime, a parecchie centinaia di migliaia di anni per alcuni ammassi e nebulose. Ond'è che lo spettacolo del cielo, quale lo percepiamo, corrisponde per i diversi individui suoi a posizioni e stati assai diversamente remoti nel tempo, a realtà sorpassate e anche scomparse. Donde la necessità della ricerca dell'elemento distanza, ai fini non solo della conoscenza della struttura dell'universo, ma ancora dello studio dell'evoluzione di esso.
Per un astro di distanza nota, adunque, dobbiamo retrodatare ogni osservazione relativa ad esso in proporzione di un secondo ogni 300 mila km. di distanza, oppure (il che è lo stesso) di tante volte 498.,5 quant'è il numero che misura la sua distanza in unità della distanza Terra-Sole (tanto è il tempo necessario a che la luce del Sole giunga a noi), come si deve fare correntemente per i componenti del sistema solare.
Se astro e osservatore fossero fissi nello spazio, questo primo effetto della non istantanea trasmissione della luce sarebbe anche l'unico; ma l'osservatore si muove, sia ruotando colla terra intorno al suo asse, sia trasportato da essa nel suo tragitto lungo l'orbita terrestre, sia infine trascinato col sistema solare nello spazio; mentre alla lor volta nello spazio si muovono, oltre che i pianeti e le comete, anche le stelle, per quanto dalle misure astrometriche, nel senso perpendicolare alla visuale, il loro spostamento angolare sia piccolissimo, anzi, per lo più, quasi insensibile per un intervallo non lungo di tempo, a cagione dell'enorme distanza loro.
Dal doppio movimento dell'astro e dell'osservatore derivano effetti diversi a cagione della velocità finita della luce, anche se qualcuno di essi non è sempre praticamente sensibile o rilevabile dalle osservazioni o calcolabile, per mancanza di dati, come vedremo.
Tali effetti sono di triplice natura: relativi alla direzione della visuale, cioè alla posizione, sulla sfera celeste, della stella; relativi al periodo di fenomeni luminosi che sovra di essa si osservino; relativi, infine, alla lunghezza d'onda dei raggi che se ne ricevono.
Per quel che riguarda la direzione visuale, l'effetto si prevede meglio se si ammette, per comodità, la teoria corpuscolare della luce, il che non implica l'adozione effettiva della teoria stessa, in quanto la spiegazione dei fenomeni in questione può farsi anche con l'ipotesi ondulatoria. Immaginando adunque il raggio luminoso emesso da un astro come un proiettile dotato di una velocità propria costante, quella della luce, potremo ammettere che questa sua velocità si componga con quella di un corpo celeste che lo emetta o che lo riceva. La ricerca della direzione apparente dell'astro visto dall'osservatore, cioè della velocità relativa del proiettile luminoso rispetto all'osservatore stesso sarà ridotta a un problema di moto relativo.
Supponendo dapprima il caso più semplice dell'astro fisso, si otterrà questa direzione della velocità relativa rispetto all'osservatore, cioè rispetto all'osservatore considerato come fisso, componendo la velocità della luce misurata sulla congiungente astro-osservatore con una velocità eguale e contraria a quella dell'osservatore stesso (con che sarà appunto annullata la velocità dell'osservatore). L'astro sarà veduto dall'osservatore nella direzione parallela alla risultante di quelle due velocità ed evidentemente nel verso opposto.
L'immagine dell'astro risulta, adunque, spostata nel piano contenente l'astro e la direzione istantanea del moto dell'osservatore verso quest'ultima direzione, cioè verso il punto celeste al quale in quell'istante il moto dell'osservatore è diretto, punto che chiamasi apice istantaneo di quel moto. L'importo angolare di questo spostamento, per la stessa velocità e direzione del moto dell'osservatore, è tanto maggiore quanto più s'accosta all'angolo retto l'angolo fra la congiungente Terra-astro e la direzione del moto dell'osservatore: lo spostamento è nullo se la congiungente Terra-astro coincide, da una banda o dall'altra, con la direzione del moto dell'osservatore. Con elementari considerazioni trigonometriche si vede subito che il rapporto del seno dell'angolo di cui è deviata l'immagine dell'astro, al seno dell'angolo fra la direzione dall'osservatore all'astro e dall'osservatore all'apice del suo moto, è eguale al rapporto fra la velocità dell'osservatore e quella della luce.
In questo effetto di apparente deviazione della direzione della visuale all'astro consiste il fenomeno dell'aberrazione delle fisse, o aberrazione siderale.
Si dovrà distinguere l'aberrazione derivante dal moto dell'osservatore per la rotazione della Terra intorno al suo asse, chiamata aberrazione diurna, da quella derivante da moto dell'osservatore come partecipe della rivoluzione della Terra intorno al Sole, chiamata aberrazione annua. Nel primo caso, l'apice del moto dell'osservatore è evidentemente il punto est (ruotando a Terra nel senso ovest-est); lungo il circolo massimo congiungente la stella e detto punto avrà luogo il piccolo spostamento di aberrazione diurna. La velocità dell'osservatore è diversa a seconda della sua latitudine: di 463 m. circa all'equatore, varierà per gli altri punti della superficie terrestre come il coseno della latitudine; dalla piccolezza del rapporto tra questa velocità e quella della luce si vede quanto piccolo debba essere l'effetto dell'aberrazione diurna; tanto più piccolo quanto più alta è la latitudine del luogo d'osservazione.
Nel secondo caso l'apice del moto è il punto del cielo in cui quell'istante e nel verso del suo moto incontra la sfera celeste; sarà esso un punto giacente nello stesso piano dell'orbita e quindi un punto del cerchio massimo dell'eclittica, punto, il quale, sarebbe facile vederlo, si trova dove il Sole, com'è visto dalla Terra, si trovava tre mesi prima. La velocità della terra sull'orbita sua, considerata circolare, è di circa 29 km. al secondo: il rapporto fra questa velocità e quella della luce è di circa
rapporto che, moltiplicato per il numero dei secondi d'arco contenuto in un arco unitario, eguale cioè al raggio (206-265) dà il valore dello stesso rapporto in secondi d'arco, cioè 20″, 47 che è la fondamentale costante d'aberrazione e dà lo scostamento angolare di aberrazione annua di una stella che si trovi a 90° dall'apice del moto della Terra, in particolare in qualunque momento dell'anno di una stella coincidente coi poli dell'eclittica. Il fenomeno dell'aberrazione annua fu scoperto dal Bradley (1692-1762) nel 1728, mentre si proponeva di mettere in evidenza l'effetto prospettico di parallasse osservabile dai due estremi di un diametro dell'orbita terrestre per la stella γ Draconis, al duplice scopo di dedurre una stima di distanza stellare e di raggiungere una prova sperimentale del moto della Terra sulla sua orbita. A cagione dell'aberrazione annua l'immagine di una stella descriverà nel periodo di un anno sulla sfera celeste una piccola ellisse, detta ellisse di aberrazione, il cui centro sarà la posizione vera della stella. Il semiasse maggiore di questa ellisse è eguale per tutte le stelle ed eguale alla costante di aberrazione (20′′,47) e parallelo all'eclittica; l'asse minore le sarà perpendicolare e tanto più breve, cioè tanto più schiacciata l'ellisse, quanto più la stella è vicina al piano dell'eclittica: su questa l'ellisse si ridurrà ad un archetto di eclittica eguale al doppio della costante di aberrazione: ai poli dell'eclittica l'ellisse si ridurrà a un cerchio.
Un terzo effetto di aberrazione della luce si deve avere per le direzioni delle visuali stellari in conseguenza del moto della Terra attraverso lo spazio solidalmente col Sole: la velocità (circa 19 km. al secondo) e l'apice (ascensione retta 18 ore, declinazione + 30° nella costellazione di Ercole) di questo moto non sono noti colla stessa precisione che per il moto di rivoluzione terrestre, ma si ha motivo di credere che si tratti di una traslazione da considerarsi come uniforme. L'aberrazione che ne deriva, e che chiamasi aberrazione secolare, sarà costante per ogni stella; sarà bensì calcolabile con la teoria che conosciamo e cogli elementi del moto del sistema solare, che pure grossolanamente conosciamo, or ora citati; ma le osservazioni non potranno mettere in evidenza questo effetto, appunto per la costanza della velocità e la fissità dell'apice di questo moto, e quindi la costanza dell'effetto stesso, a differenza delle altre due aberrazioni; le quali, per il variare continuo o periodico dell'apice del moto dell'osservatore, dànno invece, come s'è visto, effetti periodicamente variabili.
Si supponga ora mobile l'astro: il problema di moto relativo a cui in fondo si riduce quello dell'aberrazione, deve tener conto di una velocità componente in più: quella dell'astro stesso; in luogo della velocità della luce e di quella assoluta della terra, come prima, dovremo prendere in considerazione la velocità della luce e la velocità relativa della Terra rispetto all'astro. È evidente senz'altro che, se correggiamo della deviazione di aberrazione siderale la direzione osservata dell'astro a un certo istante, avremo la direzione vera dell'astro, sempre come osservata in quell'istante ma corrispondente alla posizione che l'astro aveva quando il raggio si è spiccato da esso; avremo cioè la direzione vera dell'astro se questo non si fosse mosso. Supposto anche di conoscere la legge di movimento apparente dell'astro, la conoscenza di questa direzione, che congiunge la posizione dell'osservatore all'istante di arrivo del raggio con la posizione dell'astro all'istante di partenza di quel raggio, non avrà alcun significato finché non sia noto quell'intervallo di tempo, che è, poi, l'intervallo impiegato dalla luce a percorrere quella distanza; finché adunque non si conosca quella distanza.
Già s'è detto essere questa distanza per le stelle in generale ignota o nota grossolanamente, e misurabile ad anni, secoli e anche millenni di percorso della luce; raramente si potrebbe e, potendolo, praticamente gioverebbe, dalla distanza e dal moto proprio di una stella, dedurre la posizione vera corrispondente all'istante di partenza del raggio, come vista all'istante del suo arrivo.
Non è così per i pianeti e le comete: per essi il tempo impiegato dalla luce a percorrere la distanza che li separa da noi è ben conosciuto, come ben conosciute la direzione e la velocità del loro moto nello spazio ad ogni istante: essendo poi quell'intervallo di tempo sempre abbastanza piccolo (da poco più di un secondo per la Luna a poco più di quattro ore per Nettuno) si potrà in generale ritenere rettilineo e uniforme il movimento della Terra, come anche quello del pianeta o della cometa durante esso intervallo.
Il problema, dunque, dell'aberrazione per il caso di un astro in moto si riferisce essenzialmente ai membri del sistema solare e prende perciò il nome di problema dell'aberrazione planetaria.
Delimitato così il campo a cui si riferiscono le nostre considerazioni, si può inoltre dimostrare con elementari ragionamenti geometrici che la direzione apparente osservata del pianeta (o astro in moto) a un dato istante è identica alla direzione vera, corretta cioè dell'aberrazione planetaria, corrispondente alla posizione del pianeta all'istante in cui il raggio se ne spiccò, e vista dall'osservatore in quello stesso istante; la direzione apparente osservata del pianeta a un dato istante è insomma parallela (e incontra quindi la sfera celeste nello stesso punto) alla congiungente osservatore-pianeta nelle posizioni contemporanea e corrispondente all'istante di partenza del raggio. Anche qui naturalmente è necessario conoscere la distanza Terra-pianeta per conoscere l'istante in cui il raggio si spiccò dal pianeta ed a cui si riferiscono ambo le posizioni del pianeta e dell'osservatore, e la relativa posizione vera del primo rispetto al secondo.
Il secondo degli effetti derivanti dal moto combinato dell'osservatore e dell'astro è quello che riguarda il variare per esso, non della direzione che li congiunge, ma della distanza che li separa: cioè il movimento relativo lungo la visuale, detto movimento radiale. Quando trattisi di un fenomeno luminoso periodico, come, ad esempio la variazione periodica di splendore delle variabili, o anche di una successione di fenomeni o di aspetti osservati, il periodo nell'un caso, e la successione nell'altro, risultano alterati dal variare continuo della distanza della stella. Questo movimento radiale è la risultante della componente secondo la visuale del reale moto della stella nello spazio e della componente secondo la direzione stessa del moto del sistema solare nello spazio e della Terra nella sua orbita. Mentre le prime due componenti sono in generale da considerarsi come costanti, quella relativa alla rivoluzione della Terra intorno al Sole, trattandosi non più di un moto rettilineo e uniforme, ma di un moto (seppure sensibilmente uniforme) lungo una curva chiusa, sarà continuamente o periodicamente variabile.
Per tale moto, considerato a sé, astraendo cioè dal movimento radiale Sole-stella, la Terra va periodicamente allontanandosi e avvicinandosi alla stella, eccetto che la stella si trovi ai poli dell'eclittica; e l'avvicinamento e l'allontanamento sono tanto più sensibili, quanto più la stella è vicina al piano dell'eclittica. La correzione da apportarsi agli istanti delle osservazioni fisiche per ridurli ai corrispondenti che si sarebbero fatti dal Sole, per eliminare cioè le alterazioni apportate dal movimento dell'osservatore sull'eclittica, si chiama equazione della luce. Essa sarà evidentemente positiva per metà dell'anno, negativa per l'altra metà e non potrà superare i 498 ,5 della distanza Terra-Sole espressa in tempo-luce. Il terzo e ultimo effetto del movimento combinato dell'astro e dell'osservatore deriva ancora dalla variazione reciproca continua della distanza loro, cioè dal moto radiale, ed è di natura astrofisica: basti appena accennarvi per far compiuto il quadro delle conseguenze astronomiche della non istantanea trasmissione della luce. Il movimento radiale di una stella relativo all'osservatore ha per effetto di spostare le radiazioni ricevute dalla stella verso il rosso, se la stella si allontana, o verso il violetto, se essa si avvicina a noi. È questo il principio scoperto da C. Doppler nel 1843.