Abhidharma
Raccolta di testi poi divenuti canonici, ma composti intorno al 1° sec. a.C., alcuni secoli dopo la vita del Buddha. Per estensione il termine designa anche la metodologia delle prime scuole filosofiche sviluppatasi in seno al buddismo.
Al contrario dei discorsi (sutta) attribuiti al Buddha, che formano lo strato più antico del Canone, i testi dell’A. si caratterizzano per lo stile tecnico e analitico e per la tendenza a investigare e classificare il reale. Storicamente, i testi dell’A. si sviluppano a partire dalle liste di elementi (mātr̥kā) elaborate probabilmente per memorizzare concetti affini. Tali liste appaiono già sporadicamente nei discorsi attribuiti al Buddha e poi nel Vinaya (la seconda delle tre parti in cui si articola il Canone buddista), ma solo nei testi A. le spiegazioni relative ai vari termini cominciano a venir messe per iscritto e le liste a introdurre una discussione analitica del proprio contenuto. Queste analisi fungono da fondamento per la successiva filosofia buddista, sia Mahāyāna sia Yogācāra e Pramāṇavāda. È presumibile che ogni scuola avesse propri testi di A., anche se solo due raccolte si sono conservate, quella in pāli della scuola Theravāda e quella in sanscrito della scuola Sarvāstivāda, che si diffuse nell’India del Nord e in Asia Centrale. Di entrambe le scuole si conserva anche un commento (rispettivamente chiamato Kathāvatthu e Mahāvibhāṣā) che confuta le opinioni di altre scuole e permette così di immaginare quanto ampio fosse il dibattito in merito. Ulteriori elementi provengono da frammenti, altre opere (soprattutto l’A.-kośa di Vasubandhu) e dalle numerose traduzioni in cinese e tibetano. Sul piano formale, i testi dell’A. si articolano intorno a discussioni fra esponenti di varie scuole buddiste (mentre più tardi, per es. nei testi del Pramāṇavāda, le discussioni avverranno soprattutto fra buddisti ed esponenti di scuole che si rifanno al Veda) e le argomentazioni prevedono l’utilizzo di ragionamento e autorità del Buddha. Il primo è nei testi più antichi applicato solo all’interno di dibattiti su passi scritturali, ma tende vieppiù ad assumere valore autonomo e a essere giudicato anche secondo criteri esterni, quali l’assenza di fallacie argomentative.
Le discussioni ontologiche preservate nei testi dell’A. vertono sull’elencazione e la discussione dei dharma (per questa e altre accezioni del termine ➔ dharma). Il termine è virtualmente intraducibile perché fa riferimento a un’ontologia profondamente diversa da quella sottesa alle lingue in cui si vorrebbe tradurlo, ossia priva di enti solidi e persistenti nel tempo. La dottrina buddista dell’impermanenza e dell’insostanzialità (anatta) guarda infatti con scetticismo a qualsiasi concretizzazione, refutando l’idea che esista un tutto (per es., un vaso) al di là delle parti che lo compongono. Tali parti, tuttavia, non vanno a loro volta considerate come piccoli ‘oggetti’ dotati di estensione spazio-temporale. Ogni volta, infatti, che si immagina qualcosa dotato di tale estensione quello che si sta attuando è una sintesi fra diversi dati conoscitivi, sintesi che deve essere nuovamente sciolta se si vuole arrivare a qualcosa di realmente esistente. Gli elementi atomici con cui tale analisi termina sono appunto i dharma. Questi sono stati interpretati diversamente a seconda delle scuole e sono variamente intesi anche dalla critica occidentale, giacché mostrano natura mista, a cavallo fra quelle che potremmo chiamare psicologia e ontologia, nel senso che non indicano ‘oggetti’ indipendenti dal loro comparire nell’esperienza. È stato perciò proposto un accostamento fra i dharma e i ‘dati’ come intesi in fenomenologia. Tali entità minime pongono però ulteriori problemi, giacché il buddismo sostiene anche la loro interdipendenza. Com’è però possibile immaginare che dharma privi di estensione spazio-temporale, e quindi istantanei e isolati, possano legarsi in concatenazioni causali? La scuola Sarvāstivāda postula perciò che i dharma abbiano un duplice aspetto, da una parte, la loro natura propria, costante in passato, presente e futuro, dall’altra, la loro attività, che è necessariamente solo istantanea in quanto dipende da una concatenazione di circostanze. Invece gli oggetti come appaiono nell’esperienza ordinaria sono sempre e solo momentanei in quanto risultato della composizione di vari elementi semplici (per es., i dharma ‘colore’, ‘qualità tattile’, ecc. permettono la nostra percezione di un ‘vaso’). Al contrario, la scuola Dārṣṭāntika nega che i dharma abbiano una natura propria al di là e al di sopra del proprio manifestarsi nell’esperienza con una determinata attività, casualmente determinata dall’ininterrotto flusso delle concatenazioni causali che costituisce il mondo fenomenico. Postulare una natura propria per i dharma, quindi, significherebbe ricadere nella concettualizzazione (➔ vikalpa).
Sul piano epistemologico, i Sārvāstivādin distinguono tre fattori in ogni processo percettivo, ossia un organo di senso, un elemento percepibile (per es., il colore o il suono) e un precedente momento coscienziale. Nel caso della mente intesa come senso interno, capace cioè di percepire elementi percepibili interni, quali il piacere o il dolore, il precedente momento coscienziale funge da organo di senso per cogliere un successivo momento (dato che anche la mente non può essere intesa come un’entità perdurante nel tempo). La mente può cogliere sia elementi realmente esistenti, quali i dharma, sia gli oggetti compositi della nostra esperienza ordinaria. I Dārṣṭāntika replicano che tale distinzione di tre elementi è esplicativa, ma priva di qualsiasi valore ontologico, giacché nel flusso delle concatenazioni causali i tre elementi non sono realmente distinguibili. Se lo fossero, dal momento che ogni attimo non ha estensione e non può quindi accogliere più di un elemento, un successivo momento coscienziale conoscerebbe un elemento percepibile già dissoltosi e, di conseguenza, inesistente. La percezione sensibile non avrebbe allora nessun valore conoscitivo.