abito/abitudine
I due termini abito e abitudine sono concettualmente distinti, ma spesso, nella sfera pratica, sono stati messi in stretta relazione. Abito deriva dal latino habĭtus, che si riconnette ad habere («avere, essere fornito»): l’abito è dunque un ‘modo (di essere) che si ha’, una ‘disposizione’ ad agire, a comportarsi in un determinato modo. Questo è il significato che assume in Aristotele, per il quale l’abito (gr. ἕξις «attitudine», da ἔχω «ho») è una disposizione consapevolmente adottata dal soggetto, in ambito sia conoscitivo sia pratico. Nel primo caso l’abito si apprende attraverso l’insegnamento e richiede tempo ed esperienza (per es., l’abito dello scienziato); nel secondo coincide con le virtù morali, ossia con la disposizione a ‘governare’ le passioni e le emozioni, scegliendo sempre il giusto mezzo. La virtù morale si apprende attraverso l’esempio e si rafforza tramite l’esercizio, sino a divenire un modo di comportarsi che ci è solito, ossia un costume, un’abitudine (gr. ἔϑος «abitudine, costume»). L’abitudine, per Aristotele, è qualcosa di «simile alla natura», perché trasforma in disposizione spontanea quello che in un primo tempo richiedeva uno sforzo consapevole. Di qui la concezione dell’educazione come acquisizione di buone abitudini e la convinzione che le leggi, abituando a osservare un certo comportamento (dapprima soltanto per il timore della sanzione), alla lunga educhino il cittadino. Nella filosofia moderna, allorché si considera la vita dello spirito ponendo l’accento sulla sua libertà e creatività, contrapposta alla necessità della natura, l’abitudine appare come inerzia e passività dello spirito: di qui la svalutazione di essa a opera di Rousseau, Kant e Fichte. Un ruolo cruciale viene invece riconosciuto all’abitudine da Hume, secondo il quale soltanto essa è in grado di spiegare la formazione delle idee generali, nonché il principio di causa/effetto: l’analisi empirico-sperimentale, infatti, dimostra, secondo il filosofo scozzese, che noi possediamo soltanto idee particolari e che le cosiddette idee generali altro non sono che nomi ai quali siamo abituati ad associare una serie di idee particolari simili tra loro; quanto al concetto di causa, l’esperienza ci mostra soltanto la contiguità spaziale e la successione temporale degli eventi, ma non ci dice nulla sulla necessità della successione. È l’abitudine a registrare il succedersi di due eventi, a indurci a pensare che il primo sia causa del secondo. Tuttavia, senza idee generali e senza il principio di causa/effetto non potremmo avere alcuna conoscenza delle questioni di fatto, né potremmo dirigere le nostre azioni adattando i mezzi ai fini. L’abitudine è quindi una sorta di ‘rimedio naturale’ allo scetticismo nel quale ci condurrebbe la ragione: ed estesa alla sfera pratica (etica e politica) contribuisce a formare un ‘abito’ tollerante, che evita i pericoli del fanatismo e del dogmatismo. Così Hume percorre all’inverso il cammino aristotelico, ma ristabilisce anch’egli, pur in un contesto filosofico assai diverso, il nesso abito/abitudine. Particolare rilievo all’abitudine è stato dato anche da alcuni filosofi spiritualisti del sec. 19°. Maine de Biran, trattando dell’Influenza dell’abitudine sulla facoltà di pensare (1803), ha distinto tra le ‘abitudini passive’ (che riguardano la sfera sensoriale) e le ‘abitudini attive’ (relative alle operazioni): mentre le prime portano a un abbassamento del livello della coscienza, perché innescano una sorta di ‘meccanismo’ automatico, le seconde liberano lo spirito dai meccanismi che si formano attraverso la ripetizione degli sforzi. Su questa linea si colloca Ravaisson (De l’habitude, 1838; trad. it. Sull’abitudine), il quale sosteneva che l’abitudine è un’idea trasformatasi in realtà e capace di agire come tale: essa non è quindi un meccanismo, ma, al contrario, qualcosa che testimonia il prevalere della causa finale sulla causa efficiente, lo spirito che si fa natura.