abito
1. D. usa il termine a. in diversi sensi e modi, naturalmente tutti legati al significato che il concetto di habitus aveva assunto nella letteratura filosofica del Duecento, sotto la diretta influenza dei testi di Aristotele e del Commento di Averroè. Un primo significato è quello di " disposizione a ricevere una forma o ad operare secondo un modo costante e determinato ". In questo senso in Cv IV VIII 14 E però che morte dice privazione, che non può essere se non nel subietto de l'abito, e le pietre non sono subietto di vita, per che non ‛ morte ', ma ‛ non vivere ' dicere si deono, intendendo così affermare che la totale assenza di un a. implica non la negazione, bensì l'estraneità alla forma o disposizione in esso implicita (dell'a. e della privazione in rapporto ad uno medesimo subietto si parla in IV XIV 10). Altrove, invece, in Cv III XIII 6-9 (sette volte) il concetto di a. è usato per indicare uno stato già sviluppato, anche se non totalmente realizzato, di una determinata ‛ potenza ', o, meglio ancora, una qualità ormai posseduta di cui si può usare liberamente e senza difficoltà quando si voglia. In Cv III XIII 8 leggiamo infatti: Veramente, sempre è l'uomo che ha costei per donna [la Filosofia] da chiamare filosofo, non ostante che tuttavia non sia ne l'ultimo atto di filosofia, però che da l'abito maggiormente è altri da denominare. Onde dicemo alcuno virtuoso, non solamente virtute operando, ma l'abito de la virtù avendo; e dicemo l'uomo facundo eziandio non parlando, per l'abito de la facundia, cioè del bene parlare. Sicché, poco oltre, parlando di questa filosofia, in quanto da l'umana intelligenza è participata, D. può osservare che avvegna che a l'abito di quella per alquanti si vegna, non vi si viene sì per alcuno, che propriamente abito dire si possa; però che 'l primo studio, cioè quello per lo quale l'abito si genera, non puote quella perfettamente acquistare (§ 9), e così concludere: E qui si vede s'umil è sua loda: che, perfetta e imperfetta, nome di perfezione non perde (§ 10). Con significato analogo il termine torna in Pg XXX 116, Pd XIII 78 (a. de l'arte), Cv I I 2 (a. di scienza) e II XIII 6, III XII 2 (dove si parla dello studio ad ‛ acquistare ' l'a. de l'arte e de la scienza, e ad ‛ usarlo ' una volta acquistato: ricorre due volte); XV 5 (a. de la sapienza); Rime LXXXIII 82 (a. di scienza). In un senso molto simile a. è poi usato in Cv II X 9 (E quanto savere e quanto abito virtuoso non si pare per questo lume non avere! e quanta matteria e quanti vizii si discernono per aver questo lume!) e in I I 6, dove il discorso torna di nuovo a trattare dell'a. filosofico e del naturale desiderio e possibilità umana di sapere che, sebbene comune a tutta la specie, è tuttavia raggiungibile compiutamente solo da pochi individui (Manifestamente adunque può vedere chi bene considera, che pochi rimangono quelli che a l'abito da tutti desiderato possano pervenire, e innumerabili quasi sono li 'mpediti che di questo cibo sempre vivono affamati). D'altra parte, in Cv I VI 7 (due volte) e 8, D. applica il concetto di a. anche all'uso ‛ abituale ' delle lingue e alle loro reciproche relazioni: Lo latino conosce lo volgare in genere, ma non distinto: che se esso lo conoscesse distinto, tutti li volgari conoscerebbe, perché non è ragione che l'uno più che l'altro conoscesse; e così in qualunque uomo fosse tutto l'abito del latino, sarebbe l'abito di conoscenza distinto de lo volgare. Ma questo non è; ché uno abituato di latino non distingue, s'elli è d'Italia, lo volgare [inghilese] da lo tedesco; né lo tedesco, lo volgare italico dal provenzale. Onde è manifesto che lo latino non è conoscente de lo volgare. E, in questo caso, è evidente che il termine a. ha un significato assai simile, se non addirittura identico, a quello di ‛ abitudine ' o ‛ uso costante '.
Assai più vicino al concetto originario di a. qual è definito da Aristotele e, sul suo esempio, da altri filosofi classici e medievali, è l'uso che D. fa del termine nella terza canzone del Convivio e in alcuni passi del IV trattato.
Secondo Aristotele, infatti, ogni a. nasce dalla ripetizione di atti simili, proprio come si acquista l'arte del citaredo suonando costantemente la cetra; e, appunto per questo, l'a. diventa una seconda natura, inseparabile ormai da chi ne è l'oggetto (Eth. Nic. II I). Ecco perché, secondo Aristotele, la vera virtù deve appunto definirsi come a. nel senso che essa, più che un ‛ atto ', è una ‛ condizione ', una ‛ abitudine ', uno stato dell'animo, ormai consolidato e costituito con la stessa permanenza e continuità propria dei caratteri naturali; e anzi il termine greco ἔϑoς (dal gr. ἔϑειν = lat. solere) esplica perfettamente il significato di questa continuità abituale, ormai consustanziata con il carattere particolare di un individuo. Per Aristotele, infatti, la virtù è un prodotto naturale e sociale della ragione che, una volta realizzatosi veramente, non può non diventare permanente; perché, come è scritto in un celebre passo di Eth. nic. II I 1103 a 23 " Le virtù non si generano né per natura né contro natura, ma nascono in noi che, atti per natura a riceverle, vi diveniamo perfetti mediante l'abito ". Al contrario dei processi di sviluppo naturale (nei quali la potenza deve sempre precedere l'atto) nel processo di formazione della virtù precede invece l'attività; difatti " le cose che per farle occorre prima impararle, le impariamo facendole ". Essere virtuosi o giusti significa, in realtà, diventarlo " operando cose giuste " così come si è " temperanti operando cose temperanti, forti operando cose forti ". (ibid. II IV 1105 a 17). Questa formulazione ebbe grande importanza nella storia delle dottrine etiche classiche e medievali; e fu accettata e illustrata da Averroè nei suoi commenti all'Ethica Nicomachea. Poi, con la diffusione di questo testo nella cultura filosofica del XIII sec., venne largamente adottata dai maestri scolastici, i quali distinsero il termine habitus da quello di habitudo, riservando al primo il significato di ‛ comportamento costante '. In questo senso si può quindi interpretare anche un noto passo di Tommaso d'Aquino, spesso citato come fonte del concetto dantesco di a., riferito alla dottrina della virtù (v.): " Habitus autem a potentia in hoc differt quod per potentiam sumus potentes aliquid facere: per habitum autem non reddimur potentes vel impotentes ad aliquid faciendum, sed habiles vel inhabiles ad id quod possumus bene vel male agendum. Per habitum igitur neque datur neque tollitur nobis aliquid posse: sed hoc per habitum acquirimus, ut bene vel male aliquid agamus " (cont. Gent. IV 77).
Orbene: ai vv. 81-88 di Le dolci rime, D. scrive, citando direttamente il testo aristotelico (Eth. nic. II VI 1106a 15-19): Dico ch'ogni vertù principalmente / vien da una radice: vertute, dico, che fa l'uom felice / in sua operazione. / Questo è, secondo che l'Etica dice, un abito eligente / lo qual dimora in mezzo solamente, / e tai parole pone. Ma, poco oltre, commentando il passo (Cv IV XVII 1-2) afferma che propiissimi nostri frutti sono le morali vertudi, però che da ogni canto sono in nostra podestade (§ 2).
Ciò significa non solo l'accettazione del concetto tradizionale di A., ma la netta accentuazione del carattere totalmente umano della virtù, che consiste appunto nell'a. eligente di un essere razionale, capace di una scelta volontaria, saldamente fondata sulla costante abitudine alla medietas, ossia all'esclusione degli ‛ estremi ' viziosi. E infatti, in Cv I XI 7, D. ancora afferma: E però che l'abito di vertude, sì morale come intellettuale, subitamente avere non si può, ma conviene che per usanza s'acquisti, ed ellino la loro usanza pongono in alcuna arte e a discernere l'altre cose non curano, impossibile è a loro discrezione avere (cfr. anche § 6). Dell'a. di elezione o elettivo D. parla ancora in IV XVII 7 (2 volte), XX 1. Per l'a. di disposizioni virtuose cfr. I V 4.
L'insistenza di D. sull'unica radice ‛ abituale ' della virtù, del tutto naturale e umana, è apparsa quindi, non solo a B. Nardi, ma anche a uno storico di tendenze assai diverse come É. Gilson, il tratto che caratterizza più chiaramente l'indipendenza di D. dalle concezioni etiche tomiste, non meno che nei confronti di altre dottrine che miravano a far dipendere il carattere della virtù morale da un fine trascendente e del tutto sovrannaturale. Difatti D. si giova proprio del concetto di a. per meglio sottolineare la distinzione tra l'ordine supremo della rivelazione e della grazia e quell'ambito, strettamente umano e naturale, dell'agire virtuoso che proprio perché è fondato su una ‛ operazione ' o tendenza a operare in modo razionale e costante, sembra escludere ogni dimensione trascendente della virtù naturale. Né pare errata la considerazione del Gilson che indicava la prima ragione di questa netta accentuazione dantesca del carattere abituale della virtù nella sua preoccupazione ‛ politica ' di assicurare l'autonomia umana e mondana dell'agire morale, pur salvaguardando i supremi diritti della scientia de divinis e del fine sovrannaturale che attende l'uomo oltre i confini della città terrena.
2. Col significato non tecnico di " vestito ", " veste ", "indumento ", il termine ricorre in If XVI 8, Pg XXIX 134, Vn IX 9, Rime dubbie II 1 e, nel senso metaforico di " sembianza ", " aspetto ", in Rime LXXXIV 10 (così anche in Fiore XCVI 13, XCVII 9). Usato assolutamente indica, secondo un uso comune al latino medievale, lo stato ecclesiastico, l'appartenenza a un ordine religioso del quale si indossa l'a.: fuggi'mi, e nel suo [di s. Chiara] abito mi chiusi, Pd III 104; a santo Domenico si fa d'abito e di vita simile, Cv IV XXVIII 9 (così in Fiore CIII 6).
Ricorre come variante di alito in Pd XXIII 114 (v. Petrocchi, ad L.).
Bibl. - É. Gilson, D. et la philosophie, Parigi 1953, 111-113; ma, soprattutto per i rapporti tra D. e il commento tomistico all'Etica Nicomachea, cfr. il commento al Convivio di B. Busnelli e G. Vandelli, con appendice di aggiornamento di A.E. Quaglio, Firenze 1964, e le osservazioni e chiarimenti di B. Nardi, Dal " Convivio " alla " Commedia ", Roma 1960, 27-28.