di Giovanni Canitano
L’esigenza di nutrire una popolazione mondiale in rapida crescita che nel 2050 vivrà per circa il 70% in insediamenti urbani, adottando stili alimentari tipici delle società a capitalismo maturo, farà dell’acqua e della terra le vere poste in gioco del nuovo millennio, aumentando la competizione tra i paesi per il controllo della terra e dell’acqua. Naturalmente leggere in parallelo crescita demografica ed esaurimento delle risorse naturali equivale a occultare una parte essenziale del problema, il fatto cioè che non sono gli esseri umani a minacciare gli equilibri ambientali, quanto piuttosto il loro modo di consumare. Le abitudini alimentari incidono sulla salute pubblica, la biodiversità e lo sfruttamento di acqua, terra ed energia. Ne consegue che cambiamenti fondamentali nel consumo e nella produzione dei prodotti alimentari appaiono indispensabili per ridurre la pressione sulle risorse naturali e per contribuire ad un’economia sostenibile. Due concetti che consentono di collegare l’uso delle risorse idriche alla produzione, al consumo e al commercio di beni sono l’impronta idrica (water footprint) e l’acqua virtuale. Il primo, elaborato da Arjen Y. Hoekstra, permette di misurare il volume di acqua dolce necessario per produrre un bene, comprensivo del quantitativo consumato e inquinato nelle diverse fasi della filiera; il secondo, coniato da Toni Allan, mette in evidenza come la globalizzazione degli scambi consenta a molti paesi di esternalizzare la loro impronta idrica, importando dall’estero quei beni che necessitano di molta acqua per essere prodotti, mettendo però in questo modo sotto pressione le risorse idriche dei paesi esportatori – spesso paesi emergenti o in via di sviluppo – e determinando un vero e proprio ‘scambio ecologico ineguale’.
Tutti i paesi importano ed esportano acqua virtualmente sotto forma di prodotti agricoli. Si calcola che il commercio di prodotti alimentari generi a livello mondiale un flusso virtuale d’acqua di quasi 1250 miliardi di m3 l’anno. Indicativo è il caso dell’Europa, dove l’impronta idrica del continente, intesa come il volume totale d’acqua usato per produrre le merci consumate dai suoi cittadini, viene in gran parte esternalizzata attraverso l’importazione di materie prime ad alta intensità idrica. Paesi in crescita come la Cina e l’India hanno sino a oggi manifestato una scarsa dipendenza da fonti idriche esterne ma l’incremento demografico, l’urbanizzazione e la rapida transizione verso i modelli alimentari tipici delle economie mature, stanno portando questi paesi ad aumentare sia le importazioni alimentari, sia la loro impronta idrica esterna. Pertanto l’Europa, che è un importatore netto di acqua virtuale, fa dipendere la propria sicurezza idrica da risorse esterne la cui disponibilità potrebbe non essere garantita nel futuro. Circa l’85% dell’impronta idrica umana è legata alla produzione agricola e solo il restante 15% alla produzione industriale e al consumo domestico; pertanto, è la scelta del tipo di dieta a incidere in maniera decisiva sul consumo d’acqua. L’adozione di modelli alimentari con elevato consumo di carne e di prodotti di origine animale richiede, in generale, maggiori quantità d’acqua. Il fabbisogno idrico necessario alla produzione di prodotti vegetali e animali è notevolmente diverso: se per ottenere 1000 kcal di cibo di origine vegetale vengono impiegati circa 0,5 m3 di acqua, per le stesse calorie di cibo di origine animale sono necessari circa 4 m3 di acqua. Alcuni numeri aiutano a capire quanto le abitudini alimentari influenzino il consumo di risorse naturali. In un lavoro del 2008 Hoekstra e Chapagain hanno calcolato l’impronta idrica media globale di molti prodotti. I valori ottenuti possono indirizzare il consumatore nella scelta di una dieta che gli consenta di ridurre la propria impronta idrica. Si va dai 15.500 litri/Kg della carne di manzo fino ai 130 litri/Kg della lattuga, passando per i 6100 litri/Kg della carne di pecora, i 3900 litri/Kg del pollo, i 1300 litri/Kg del grano, i 700 litri/Kg di mele e pere. Nei paesi industrializzati il consumo calorico medio è stimato in 3400 calorie al giorno; di queste, circa il 30% proviene da prodotti animali. Ipotizzando una ripartizione equilibrata di alimenti di origine animale, tale tipo di dieta richiederebbe circa 3600 litri d’acqua al giorno. È evidente che un consumatore può ridurre drasticamente la propria impronta idrica solo riducendo contemporaneamente la quantità di carne consumata o scegliendo tipi di carne differenti (i processi di produzione delle carni bianche richiedono un minor quantitativo di acqua rispetto a quelli delle carni rosse).
L’impronta idrica del consumo di prodotti agricoli è influenzata dai modelli di consumo, ma anche dallo spreco di cibo. Di tutti gli alimenti prodotti a livello globale, una quota che varia tra il 30 e il 50% non viene consumata. Secondo le stime di uno studio della Fao, la quantità di cibo perduto o sprecato ogni anno equivale a oltre la metà del raccolto annuale mondiale di cereali (2,3 miliardi di tonnellate nel 2009-10). Poiché i prodotti ad alta intensità idrica sono in genere più deperibili, il rischio di perdite e sprechi alimentari è anch’esso condizionato dalla dieta alimentare. Nella geografia degli sprechi è però interessante notare che, mentre nei paesi sviluppati la perdita di acqua incorporata in prodotti alimentari è concentrata alla fine della filiera alimentare ed è legata all’enorme quantità di cibo che viene acquistata e mai consumata, nei paesi in via di sviluppo la perdita si verifica sostanzialmente all’inizio della stessa filiera ed è causata dalla mancanza di infrastrutture di stoccaggio, imballaggio e trasporto dei prodotti agricoli.