Aborto
Per aborto si intende l'interruzione della gravidanza nel periodo in cui il feto non ha la capacità di vivere fuori dall'utero materno. Il limite temporale, in Italia così come in Francia, è fissato, in accordo con le disposizioni legislative, alla fine del sesto mese di gravidanza, mentre l'interruzione della gravidanza dopo tale termine è chiamata parto prematuro (in Germania il limite è il 196° giorno, nei paesi anglosassoni il 154°). Con riguardo alla volontarietà dell'atto abortivo, si distinguono l'aborto spontaneo, o involontario, e l'aborto procurato, il quale, a sua volta, può presentarsi come aborto per volontà, con il consenso della gestante (IVG, interruzione volontaria della gravidanza), o come aborto contro la volontà della gestante (aborto coatto). L'aborto volontario, poi, può essere terapeutico, quando mira a prevenire il verificarsi di un danno alla salute fisica o psichica della madre; eugenetico, quando ci si propone di evitare la nascita di un essere malformato o portatore di gravi patologie; sociale, se la finalità è quella di impedire la nascita di un figlio in condizioni economiche e sociali inidonee al suo naturale sviluppo. Se l'aborto spontaneo interessa prevalentemente le scienze mediche, che ne studiano le cause e i possibili mezzi terapeutici di prevenzione, l'aborto procurato è al centro di un intenso dibattito che investe le sfere della morale, della politica e del diritto. Scontata in genere la riprovazione per l'aborto coatto, differente è il giudizio nei confronti dell'aborto volontario, che si pone fra due estremi: da una parte vi è la piena condanna di coloro che, soprattutto sulla base della dottrina della Chiesa cattolica, ritengono che il feto sia 'persona' nel senso pieno sin dal momento del concepimento e quindi giudicano l'aborto volontario come soppressione di un essere umano; dall'altra vi è l'opinione di quanti sostengono che la qualità di persona venga acquistata dall'organismo umano al momento della nascita, onde non viene data una valutazione etica negativa dell'aborto volontario, rientrando la scelta della donna di non portare a termine la gravidanza nella sfera della sua libertà.
1.
Studi condotti in diverse aree geografiche hanno generalmente riportato una frequenza di abortività spontanea che richiede il ricovero ospedaliero in circa l'8-10% delle gravidanze. Tuttavia, tale frequenza, rispetto al totale degli aborti spontanei, risulta sottostimata: infatti, alcune valutazioni basate su studi prospettici hanno mostrato tassi leggermente superiori (10-13%). Questa differenza può essere spiegata dal fatto che queste ultime stime prendono in considerazione anche gli aborti spontanei che non giungono a osservazione ospedaliera. Vi sono poi aborti che non vengono diagnosticati, in quanto si verificano molto precocemente durante la gravidanza, e appaiono come un semplice ritardo mestruale. Questo può avvenire nelle gravidanze non diagnosticate prima del ritardo mestruale (la diagnosi precoce della gravidanza può essere effettuata mediante il dosaggio nel sangue dell'ormone ßHCG, Human chorionic gonadotropin). Quest'ultimo aspetto dell'abortività non clinicamente rilevabile ha stimolato un vasto interesse. Studi recenti hanno dimostrato che la percentuale di questa abortività subclinica oscilla dal 30 al 60% delle gravidanze. Se tali cifre saranno confermate, all'osservazione di una maggior frequenza di abortività tra il secondo e terzo mese di gravidanza, seguita poi da una rapida diminuzione dell'incidenza della patologia abortiva, fino a raggiungere valori estremamente bassi dopo la 18a-20a settimana di gestazione, si potrebbe aggiungere un picco di incidenza nelle epoche più precoci di gravidanza, configurando così un andamento 'bimodale'. Se si sommano gli aborti diagnosticati con quelli non diagnosticati, si può pertanto concludere che solo il 25-35% dei concepimenti si conclude con la nascita di un feto vivo e sano.
2.
Premesso che in quasi il 40% dei casi di aborto spontaneo, anche dopo numerose indagini, il fenomeno rimane inspiegato, nella rassegna delle principali cause di abortività va considerata innanzitutto l'età materna. I dati relativi a differenti popolazioni dimostrano infatti che l'abortività aumenta con l'età materna. La frequenza di abortività spontanea è di circa il 5-7% nelle donne di età uguale o inferiore a 19 anni, del 15-20% in quelle di età uguale o superiore a 40. Tale incremento è legato all'aumento di frequenza di alcune aberrazioni cromosomiche, ossia alterazioni del patrimonio genetico del prodotto del concepimento, in particolare di trisomie, che sono tanto più comuni quanto più avanzata è l'età materna. In generale, le anomalie cromosomiche sono la causa più frequente di aborto spontaneo, com'è dimostrato dal fatto che si riscontrano nel 60% dei casi di prodotti abortivi. Buona parte di queste alterazioni non sono però ereditarie, bensì casuali e spesso non ripetute. Nessuna causa può essere ritenuta assoluta, cioè costantemente incompatibile con una normale gravidanza, anche se alcune condizioni patologiche (per es. le malformazioni uterine) sono da considerarsi ad 'alto rischio'. Tra le cause endocrine e dismetaboliche vanno ricordate la reazione policistica dell'ovaio (irregolarità mestruali, irsutismo, obesità), l'ipertiroidismo e il diabete. In un ridotto numero di pazienti l'aborto avviene per meccanismo immune. È noto che pazienti con patologie autoimmunitarie come la sclerodermia e, in particolare, il lupus eritematoso sistemico (LES) hanno un maggior rischio di abortività spontanea; un'elevata frequenza di suscettibilità autoimmune, rivelata dalla presenza di anticorpi antinucleo, è stata rinvenuta nelle donne con abortività ripetuta. L'associazione definita con maggiore precisione è quella tra aborti, o morti fetali, e presenza di alcuni particolari anticorpi (antifosfolipidici del lupus anticoagulante e anticardiolipina), appartenenti alla classe delle immunoglobuline G o M, identificati in pazienti con LES o altre malattie autoimmuni, o in pazienti in cui l'aborto non si accompagna a segni di malattie sistemiche. Il meccanismo patogenetico che lega la presenza di tali anticorpi all'aborto è una scarsa funzionalità della placenta, conseguente a fenomeni trombotici a carico dei vasi che la irrorano. Tra le cause di abortività spontanea bisogna menzionare il fumo di sigaretta. Già nei primi anni del Novecento l'ostetrico milanese L. Mangiagalli aveva osservato nelle operaie addette alla manifattura tabacchi un'elevata frequenza di aborti spontanei e di bambini con basso peso e vari problemi alla nascita. La maggior parte degli studi condotti a tal proposito ha evidenziato un'associazione significativa tra fumo di sigarette, aborto spontaneo e basso peso alla nascita.
3.
L'aborto si presenta con una serie di quadri clinici ben definiti: la minaccia d'aborto, che è caratterizzata da perdite ematiche dai genitali, accompagnate o meno da dolore, può regredire, nel 50% dei casi, o procedere verso l'aborto in atto (o inevitabile), in cui si ha l'espulsione completa o incompleta del prodotto del concepimento. Come varianti di questo decorso classico si possono presentare l'aborto interno (o ritenuto), in cui vi è assenza di segni clinici e ritenzione endouterina del prodotto del concepimento morto, e l'aborto settico, caratterizzato da processi infettivi locali e generali.
4.
La diagnosi della minaccia d'aborto si basa sui dati clinici obiettivi e su indagini di laboratorio, quali il dosaggio dell'ormone ßHCG, e strumentali, come l'ecografia pelvica. Per quanto riguarda la ricerca delle cause dell'aborto, considerando che in circa il 60% dei casi l'aborto spontaneo è dovuto a un'alterazione cromosomica casuale e difficilmente ripetibile, le indagini per identificare le cause di aborto spontaneo sono riservate alle donne che hanno avuto aborti ripetuti. Per es., se si sospetta una patologia abortiva su base autoimmune, l'iter diagnostico deve partire dalla storia clinica della paziente, che dovrà verificare l'esistenza, presente o pregressa, di trombosi arteriose o venose, crisi di emicrania, eritemi, fotosensibilità, dolori articolari, alterazioni ereditarie ecc. Tra gli esami di laboratorio, sono di notevole valore diagnostico il tempo di tromboplastina parziale attivata, che risulterà allungato, e il VDRL (Venereal disease research laboratory), test per la diagnosi sierologica della sifilide, che, in caso di falsa positività, svelerà la presenza di autoanticorpi tipici (anticardiolipina).Per quanto riguarda la terapia della minaccia d'aborto, si discute il ruolo dei diversi trattamenti proposti, a causa sia dell'alta percentuale di risoluzioni spontanee, sia della varietà dei fattori, spesso di natura ignota, che sono alla base dell'aborto. A parte il semplice riposo a letto, le altre terapie proposte non hanno mostrato alcuna efficacia. Qualora la causa sia di tipo meccanico, cioè si presenti l'incontinenza cervicale, si ricorre all'applicazione di un meccanismo contenitivo artificiale, rappresentato dal cerchiaggio cervico-istimico. Nelle coppie che presentano una poliabortività apparentemente senza causa certa, ma su sospetta base autoimmune, sono stati effettuati trattamenti sperimentali di sensibilizzazione della donna con linfociti appartenenti al partner o a un donatore, ottenendo un miglioramento. Nel caso di abortività in soggetti con reazione policistica dell'ovaio, la normalizzazione del peso corporeo riduce il rischio. Le gravidanze che proseguono dopo una minaccia di aborto, richiedono attenti controlli, a causa dell'elevata incidenza di parti pretermine, ritardi nell'accrescimento e anomalie morfologiche fetali.
5.
Come in altri paesi, in Italia dal 1978 la legge consente di interrompere volontariamente la gravidanza. L'interruzione viene generalmente praticata mediante isterosuzione. In anestesia generale o loco-regionale, il prodotto del concepimento viene estratto dall'utero aspirandolo con una sottile cannula introdotta nell'utero stesso. Le complicazioni immediate (lacerazioni della cervice uterina, perforazione dell'utero, metrorragie, evacuazione incompleta) o ritardate (infezioni pelviche, aborti del secondo trimestre e parti pretermine in gravidanze successive) si verificano in non più del 2-5% dei casi e dipendono dall'epoca gestazionale in cui viene effettuato l'intervento. Recentemente si è introdotta la pratica di IVG, in epoche molto precoci della gravidanza, con farmaci antiprogestinici associati a prostaglandine, tecnica che è risultata finora abbastanza sicura ed efficace.
1.
L'aborto spontaneo determina in genere disturbi di tipo depressivo, più accentuati nelle quattro settimane che seguono l'evento e comunque di modesta entità; essi scompaiono rapidamente, soprattutto se non si tratta di una nullipara con aborti spontanei ripetuti o di una gravidanza a termine con un nato morto, gravidanza impropriamente vissuta come un aborto spontaneo. Nella prospettiva psicologica del profondo, lo stato depressivo prodotto dall'aborto spontaneo è riconducibile al 'lavoro del lutto', cioè al processo intrapsichico che segue la perdita di un oggetto amato, dal quale il soggetto riesce a distaccarsi gradualmente. I casi di lutto patologico sono quelli in cui la donna si ritiene colpevole, malata, incapace di maternità, oppure sono i casi, molto più rari, di ambivalenza affettiva amore-odio verso il prodotto del concepimento e sé stessa, nei quali possono manifestarsi sintomi maniacali che esprimono quella stessa aggressività verso la morte che caratterizza i riti collettivi di alcune società primitive.
2.
La tipologia prevalente di coloro che ricorrono all'IVG è la seguente: donne di età superiore ai 24 anni, coniugate, pluripare e con un livello di istruzione elementare o medio-inferiore, che almeno in parte spiega il non uso o l'uso scorretto dei metodi di contraccezione. Riguardo alle motivazioni che spingono all'aborto si può notare che tutte le ricerche condotte prima degli anni Settanta risultano in genere poco attendibili, sia perché risentono di vari pregiudizi, sia per l'influenza negativa della letteratura medica, la quale ha sostenuto a oltranza la tesi che l'aborto comporta un trauma psichico e danni fisici da evitare comunque. Una volta superati i condizionamenti culturali e fattasi strada la convinzione che solo uno studio obiettivo e scientifico del fenomeno parte spiega il non uso o l'uso scorretto dei metodi di contraccezione.Riguardo alle motivazioni che spingono all'aborto si può notare che tutte le ricerche condotte prima degli anni Settanta risultano in genere poco attendibili, sia perché risentono di vari pregiudizi, sia per l'influenza negativa della letteratura medica, la quale ha sostenuto a oltranza la tesi che l'aborto comporta un trauma psichico e danni fisici da evitare comunque. Una volta superati i condizionamenti culturali e fattasi strada la convinzione che solo uno studio obiettivo e scientifico del fenomeno avrebbe consentito una prevenzione efficace, si è potuto stabilire che le motivazioni che inducono le donne ad abortire di solito sono multiple e solo in una piccola percentuale di casi sussiste un reale pericolo per la vita della gestante. Nella misura in cui dette motivazioni sono legate alla situazione personale della donna e s'intrecciano con usi e costumi della società in cui vive, risulta utile raggrupparle in due categorie: a) motivazioni oggettive, come volontà deliberata di limitare il numero dei figli, problemi di salute fisica e mentale, problemi di natura economica, problemi inerenti allo studio o al lavoro, indisponibilità di contraccettivi assolutamente sicuri e innocui; b) motivazioni soggettive, quali identità personale incerta o problematica, ambivalenza nei confronti della maternità, storia di rapporto negativo con la propria madre, relazione conflittuale con il partner e con i figli già procreati.
Una volta stabilito che di solito le motivazioni oggettive si sovrappongono a quelle soggettive, analizzando separatamente le motivazioni delle donne nubili e quelle delle donne sposate (Adler-David 1992; Francescato-Prezza 1979), si è riscontrato che nelle donne nubili emerge con maggior evidenza il peso di fattori sociali (la paura della reazione dei genitori, il fatto di non essere sposata, la giovane età del partner), mentre in quelle sposate emergono più spesso i disturbi nervosi (19% dei casi contro il 3% delle nubili). Con l'espressione 'disturbi nervosi', estremamente generica e acriticamente onnicomprensiva, ma esplicativa della situazione di molte donne sposate, spesso vengono oggettivizzati conflitti, frustrazioni e contraddizioni della vita quotidiana, insieme al rifiuto mascherato di una nuova gravidanza. In definitiva si tratta del modo con il quale una madre di famiglia riesce ad attribuire a motivi di salute un bisogno di abortire che deriva da motivazioni personali diverse da quelle oggettive elencate. Insieme ai disturbi nervosi la donna spesso accusa disturbi somatici, quasi sempre privi di riscontri obiettivi. Ci troviamo così di fronte a una 'categoria-rifugio' (Kellerhals-Pasini 1977), che esprime in termini socialmente accettabili un rifiuto della gravidanza dipendente da altro.
Circa i motivi inconsci che possono indurre certe donne a scegliere sistematicamente e ostinatamente l'aborto, rifiutando con mille pretesti non solo ogni contraccettivo, ma anche le precauzioni più elementari, la psicologia del profondo li riconduce a bisogni patologici di tipo sado-masochistico: si tratta di donne per le quali il piacere maggiore non è il restare incinte, ma abortire, in quanto l'embrione costituisce la reviviscenza simbolica di fratellini vissuti come rivali nella prima infanzia oppure odiati a causa di un assurdo ruolo materno imposto alla donna, quando era ancora bambina, da una famiglia troppo numerosa e povera. Oltre alle motivazioni inconsce nettamente patologiche, sussistono motivazioni nevrotiche all'aborto, dovute principalmente al bisogno autolesionistico di fallire anche nella maternità, come in ogni altra cosa della vita (Francescato 1983; Kellerhals-Pasini 1977). Infine è importante ricordare che un motivo per interrompere la gravidanza è una maternità utilizzata come reazione difensiva inconscia a una perdita affettiva importante (lutto, separazione o solo la minaccia di questi eventi). In alcuni casi l'oggetto perduto è la donna stessa, la quale dubita del suo valore di persona e di donna. A tale proposito sono noti alcuni concepimenti non voluti di donne al loro primo impiego, che cercano nella maternità autorassicurazione e gratificazione in un momento di incertezze per il futuro.
3.
Sull'argomento sono state condotte numerose ricerche con interviste semi-standardizzate, sondaggi di opinione, misurazioni dell'atteggiamento con l'uso di scale Lickert (Campbell Moore Cavar 1974). Mentre il livello socio-economico e l'appartenenza politica non hanno evidenziato alcuna relazione con l'atteggiamento verso l'aborto, il livello culturale e la religiosità sono risultate variabili rilevanti, sia pure con andamento opposto: il livello di tolleranza aumenta con l'aumentare del livello culturale, mentre la maggiore religiosità riduce la tolleranza. Ricerche italiane (Francescato-Prezza 1979) confermano che le donne cattoliche praticanti incontrano maggiori difficoltà nel decidersi all'IVG e più perplessità nel sostenere che in futuro ripeterebbero tale esperienza. Anche la famiglia di origine delle donne praticanti risulta essere meno tollerante verso l'aborto rispetto alla famiglia di quelle non praticanti. Comunque sembra che primariamente sia il contesto culturale a determinare l'atteggiamento verso l'aborto, al punto che esso dovrebbe essere considerato una variabile critica, se associato alle variabili età, scolarità, livello socio-economico, professione e stato civile. Altre variabili che influenzano l'atteggiamento verso l'aborto sono il modello di famiglia ideale e l'atteggiamento verso la pianificazione delle nascite, perché, ovviamente, la procreazione responsabile modifica sia l'atteggiamento sia il comportamento verso la maternità. Le ricerche che mettono in rapporto l'atteggiamento e l'effettivo comportamento abortivo, in caso di una gravidanza indesiderata, rilevano una forte correlazione tra le opinioni dei soggetti e il comportamento prescelto nella situazione di fatto (Adler-David 1992). Infatti, le donne che avevano esplicitato di percepire l'aborto come un problema morale si sono collocate, in qualsiasi periodo della gestazione, nel gruppo di coloro che avrebbero portato a termine la gravidanza, mentre quelle che avevano espresso l'opinione che l'aborto è una questione personale, hanno deciso quasi sempre di abortire. Nello stesso ambito di ricerche è emerso che le donne che interrompono la gravidanza, paragonate a quelle che la portano a termine, si autodescrivono più competenti, autodirette e con un'immagine di sé più positiva e meno tradizionale.Una gravidanza indesiderata e la decisione di abortire costituiscono per la donna un problema da risolvere che si traduce in un momento di 'crisi' interpersonale, morale e psicofisica. Tuttavia, come in altre situazioni di crisi, la soluzione può portare chi la vive a una maturazione psicologica. La donna di solito decide di abortire dopo una riflessione sofferta: tiene conto dei propri scopi nell'ambito dello studio, del lavoro e della società e li ordina in vista del proprio benessere e di quello della propria famiglia, presente e futura. Scopi esistenziali a parte, le difficoltà nel decidere l'interruzione della gravidanza dipendono da molti fattori contingenti, fra i quali non ultimo è il tipo di aborto concretamente accessibile alla donna (terapeutico, volontario o illegale). Comunque, il periodo che va dalla consapevolezza dell'incipiente maternità alla decisione di abortire è un momento delicato, durante il quale la donna vive stati estremi di disagio, di euforia, di conflittualità. In rari casi si registrano propositi o tentativi di suicidio, segnali questi di un equilibrio personale profondamente alterato. Da una ricerca effettuata su 600 donne italiane (Francescato 1983) sono state registrate reazioni disparate alla decisione presa: dall'insonnia alla perdita dell'appetito, da generiche crisi di nervi al rifiuto di rapporti sessuali, ma anche reazioni positive, seppure meno numerose, di gioia e di aumento dell'autostima. Solo raramente è stata rilevata un'alterazione del rapporto con il partner, con la famiglia di origine o propria e con il lavoro. L'aborto viene vissuto come qualcosa da tenere nascosto, per cui le donne ne parlano quasi esclusivamente con il partner; vorrebbero parlarne con la madre e con le amiche, ma non lo fanno; nessuna pensa di rivolgersi al padre. Sentimenti di vergogna e la paura di non essere capite impediscono la comunicazione pur desiderata con le persone più vicine. La decisione di abortire è presa nell'81% dei casi esclusivamente dalla donna, nel 4% dei casi dalla donna insieme al suo partner, mentre nel rimanente 15% dei casi intervengono nella decisione il medico e le amiche. Il rapporto con la propria madre risulta particolarmente importante: si è potuto stabilire che più del 50% dei soggetti avrebbe desiderato affrontare il problema con la madre, ma non lo ha fatto per vergogna o perché sapeva che avrebbe incontrato disapprovazione. Considerando poi che con la maternità la donna passa dal ruolo di figlia a quello di madre (Grasso 1978), ciò non avviene senza conflitti, legati specialmente al modo in cui la figura materna è stata vissuta. Se la propria madre è stata percepita come una donna oppressa da una famiglia numerosa, in conflitto con il marito, con maternità mal vissute e problematiche, l'identificazione con tale modello può senz'altro indurre a rifiutare la propria maternità.
4.
Nella dimensione emotivo-affettiva l'aborto può essere vissuto come la risoluzione di uno stato di malattia che coincide con la gravidanza, il cui significato positivo o negativo dipende obiettivamente dalla situazione e dalle prospettive della gestante. In tal senso l'aborto ancor più che un problema di competenza medica si rivela un evento dalle molteplici implicazioni sociali, che pone numerosi dilemmi a tutti coloro che ne sono coinvolti: non solo il partner, i familiari e gli amici della donna, ma anche i medici, il personale paramedico e i consulenti dei servizi socio-sanitari. Va però precisato che se l'aborto da un lato può sembrare atto a guarire lo stress causato da una gravidanza indesiderata, dall'altro è a sua volta, in sé e per sé, un evento stressante. A questa contraddizione e ai due diversi punti di vista, che corrispondono rispettivamente al disagio soggettivo creato dalla gravidanza indesiderata e alle molteplici implicazioni socio-sanitarie dell'aborto, va, almeno in parte, attribuita la difficoltà di mettere a confronto i risultati delle ricerche, condotte peraltro con metodologie diverse e non generalizzabili, in ragione del fatto che le donne indagate non costituiscono un campione rappresentativo. Comunque, sotto il profilo dei presupposti teorici le ricerche sulle risposte emotive all'aborto possono essere condotte in prospettiva clinica e psicofisica. La prospettiva clinica, focalizzata sulle risposte psicopatologiche, si rifà ampiamente alla psicoanalisi, che solo da poco tempo si sta positivamente impegnando sul tema dell'aborto. L'altra prospettiva è quella dello stress e del modo di affrontarlo: in essa si considera la gravidanza indesiderata come uno dei tanti eventi stressanti della vita che richiede cambiamenti e si accompagna a difficoltà, senza comportare necessariamente esiti psicopatologici. Sta di fatto che la gamma delle possibili reazioni della donna all'interruzione di gravidanza è molto ampia e va da un estremo positivo di crescita e maturazione psicologica, a un estremo opposto che include risposte nettamente psicopatologiche. A tale proposito risulta utile fare riferimento a una ricerca americana (Adler-David 1992) che, indagando su un ampio campione di donne a tre mesi dall'aborto, ha estratto dalle risposte relative a un dettagliato questionario sul loro vissuto emotivo tre fattori, dei quali uno positivo e due negativi: il primo fattore rappresenta sentimenti positivi quali sono un senso di sollievo e di felicità; il secondo fattore concerne sentimenti negativi, come la paura di disapprovazione, la vergogna e il senso di colpa, cioè emozioni che riflettono la percezione di aver violato delle norme sociali; il terzo fattore, correlato con l'età (essendo le donne più giovani quelle nelle quali si riscontra maggiormente), include emozioni negative come il dispiacere, la depressione, l'ansia, il dubbio, la rabbia: tutte emozioni legate a un senso interno di perdita. Quando l'ambiente sociale in cui la donna è inserita offre comprensione e sostegno al pari dell'ambiente medico-psicologico in cui l'aborto viene deciso ed effettuato, si assiste alla rapida scomparsa della paura, della vergogna e del senso di colpa. Resta il senso interno di perdita, la cui intensità varia a seconda della sensibilità della donna e che, comunque, deve essere rielaborato, possibilmente con un sostegno psicologico che dovrebbe sempre essere fornito alle donne che abortiscono, sia prima sia dopo l'interruzione della gravidanza.
A seconda dell'atteggiamento che può essere assunto dal sistema normativo di un ordinamento giuridico riguardo all'aborto, si danno tradizionalmente le seguenti figure: aborto come illecito penale, aborto liberalizzato e aborto depenalizzato.Il regime dell'aborto come illecito penale è ispirato solitamente dall'esigenza di tutelare due valori: da un lato la conservazione o l'incremento del patrimonio demografico e, dall'altro, il diritto alla vita del concepito. Il primo è legato all'indirizzo politico di uno Stato e alla complessa ponderazione comparativa di interessi legati alla pressione antropica sul territorio. Il secondo valore dipende dalla concezione giuridica che si assume del concepito e, in particolare, dalla decisione relativa sia al momento in cui l'embrione merita di essere qualificato come soggetto e, quindi, come portatore di un interesse autonomo, sia alla tutela che si voglia riservare a tale interesse in raffronto con quelli degli altri soggetti (madre, padre, altri figli, comunità generale) coinvolti nella gestazione. L'assunzione della posizione secondo cui l'embrione è portatore di vita autonoma sin dal concepimento ed è degno non solo di riconoscimento giuridico, ma anche di tutela assolutamente prevalente rispetto a quella di qualsiasi altro soggetto, a cominciare dalla gestante, conduce all'adozione del regime di repressione penale dell'aborto.L'aborto è lecito o liberalizzato quando la legge, muovendo in genere dal presupposto che, prima della nascita, il concepito sia una parte del corpo della donna, che ha il diritto di disporne liberamente, riconosce alla gestante il potere di adottare comportamenti atti a interrompere la gravidanza. La liceità è, peraltro, limitata, in genere, a un determinato periodo di tempo, computato a partire dall'inizio della gravidanza, che viene fissato in misura varia a seconda degli ordinamenti. In sostanza, in un sistema normativo di aborto liberalizzato, l'interruzione della gravidanza è lecita purché si rispetti il limite temporale fissato dalla legge.Infine, si ha l'aborto depenalizzato quando il sistema normativo concepisce l'interruzione volontaria della gravidanza come una figura intermedia tra le due precedenti. La legge, pur assumendo in linea di principio l'aborto come illecito, perché lesivo del diritto del concepito alla vita, bilancia l'interesse del nascituro con alcuni altri interessi della madre, specificatamente enumerati e ritenuti prevalenti rispetto al primo.Questa tripartizione dell'interruzione volontaria della gravidanza è tradizionale, ma inesatta. Infatti, le parole usate per la classificazione risentono della vis polemica che ha accompagnato le recenti modificazioni dei sistemi normativi, tanto da realizzare una descrizione del fenomeno scorretta dal punto di vista concettuale. Basti pensare che l'aborto continua a essere concepito come reato anche nel regime di aborto cosiddetto depenalizzato, nel quale solo in alcune limitate ipotesi esso diventa lecito, così come anche in regime di liberalizzazione l'aborto è lecito solo nella fase iniziale della gestazione.
Alla luce di queste considerazioni appare più corretto distinguere il regime giuridico di liceità dell'aborto da quello di illiceità penale. Questa si distingue ulteriormente a seconda che il divieto penale sia assoluto, quando l'aborto è represso penalmente in modo totale e incondizionato, o relativo, quando il sistema normativo concepisce l'aborto come reato, ma prevede un periodo di tempo, quello iniziale della gestazione, nel quale, a condizioni determinate per tutelare interessi di vari soggetti, l'interruzione volontaria della gravidanza diventa lecita. In questo secondo regime di illiceità penale, la relatività consente anche di parlare di relativa liceità penale dell'aborto.L'esame degli ordinamenti giuridici contemporanei in materia di aborto conduce alla constatazione che la loro normazione si caratterizza, a partire all'incirca da un secolo a questa parte, per un progressivo mutamento di impostazione, sintetizzabile nel duplice fenomeno della relativizzazione dell'illiceità penale dell'aborto e della prestazione dell'assistenza socio-sanitaria a favore delle donne che interrompono volontariamente la loro gravidanza. All'inizio del 20° secolo, infatti, quasi tutti gli Stati consideravano l'aborto procurato un comportamento degno della reazione repressiva più grave e più severa di cui dispone l'autorità, cioè la sanzione penale.
Oggi molti Stati non considerano più penalmente illecito l'aborto procurato per volontà della gestante, richiedendo, peraltro, come condizione della eccezionale liceità penale, che si realizzino fattispecie complesse costituite dalla combinazione tra determinati accadimenti e decorsi temporali, fissati in maniera quantitativamente diversa da ordinamento a ordinamento. Così, per es., nella vigente legislazione italiana l'interruzione volontaria della gravidanza, che resta un reato, diventa lecita se nei primi 90 giorni della gestazione la donna accusi circostanze per le quali la prosecuzione della gravidanza, il parto o la maternità comporterebbero un serio pericolo per la sua salute fisica o psichica, in relazione o al suo stato di salute o alle sue condizioni economiche, sociali e familiari, o alle circostanze in cui è avvenuto il concepimento, o a previsioni di anomalie o malformazioni del concepito (l. 22 maggio 1978, nr. 194, art. 4). Dopo i 90 giorni l'interruzione volontaria della gravidanza è lecita solo se la gravidanza o il parto comportino un grave pericolo per la vita della donna o quando siano accertati processi patologici, tra cui quelli relativi a rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro, che determinino un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna (art. 6).L'altra novità nell'atteggiamento attuale degli ordinamenti giuridici è costituita dall'assunzione da parte delle autorità pubbliche di compiti di assistenza socio-sanitaria a favore della donna che, trovandosi nelle condizioni di liceità dell'interruzione volontaria della gravidanza, decida di abortire. Questi compiti consistono, anzitutto, nel fornire alla gestante tutte le informazioni di carattere sia giuridico sia tecnico-medico, che sono necessarie o utili per consentirle di elaborare in piena consapevolezza la decisione relativa al completamento della gestazione. Nell'ipotesi in cui la donna si orienti per l'interruzione della gravidanza, i compiti di assistenza assumono il contenuto tipico della prestazione sanitaria, spesso gratuita, erogata dalle strutture sanitarie pubbliche.
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