LINCOLN, Abraham
Sedicesimo presidente degli Stati Uniti d'America, nato a Big South Fork (contea La Rue, nello stato di Kentucky), il 12 febbraio 1809; morto a Washington, il 15 aprile 1865. Era figlio di poveri agricoltori quaccheri. Il padre, Tommaso, falegname, andava di paese in paese in cerca di lavoro. Nel 1816 si trasferì nell'Indiana dove gli morì la moglie; ma ritornò nel Kentucky per risposarsi con Sarah (Bush) Johnston, donna intelligente e industriosa, che ebbe una salutare influenza sul figliastro. Abramo frequentò la scuola per breve tempo - non più d'un anno - e imparò soltanto a leggere, a scrivere, e l'aritmetica; ma nella sua gioventù lesse molto. Era di carattere gioviale, un po' pigro, e pieno di fantasia.
Aveva appena sette anni quando cominciò ad aiutare il padre nel lavoro dei campi, e continuò il duro mestiere per dieci anni. Il suo desiderio di conoscere il mondo poté esaudirsi quando ottenne il posto di mozzo su una barcaccia che trasportava legname a New Orleans. Intanto, la sua famiglia si trasferiva nella contea di Sangamon (Illinois).
Divenuto maggiorenne, lasciò la famiglia; ottenne un posto per dodici dollari al mese presso un costruttore di zattere, poi fece un altro viaggio a New Orleans, ove vide per la prima volta nella sua vita una vendita all'asta di schiavi - cosa che gli fece un'impressione indimenticabile. Al suo ritorno andò ad abitare per sei anni dal 1831, a New Salem, piccolo villaggio dell'Illinois, ove s'impiegò in un negozio di generi diversi. Ma gli affari andavano male, e quando il proprietario decise di chiudere il negozio L. rimase senza lavoro e senza mezzi:
Nel 1832, quando scoppiò la guerra contro gl'Indiani guidati dal capo Black Hawk (Falcone Nero), L. fu scelto con sua sorpresa - appena ventitreenne - come capitano d'una compagnia di volontarî, composta per la maggior parte di villici. La spedizione non durò più di tre mesi, e L. ne fu lietissimo: l'atto suo più valoroso fu di proteggere contro i suoi soldati, e con pericolo della propria vita, un vecchio selvaggio smarrito nel suo campo.
Alla fine della guerra si dedicò alla politica. Già nel marzo 1832 i whigs della sua contea l'avevano proposto candidato alla legislatura dello stato d'Illinois: non riuscì, perché la maggioranza degli elettori era democratica, ma tale era la sua popolarità locale che ottenne 205 voti su un totale di 208 nella contea di Sangamon. Con un suo amico mise su un negozio di drogheria a New Salem, ma dopo un anno quest'impresa finì disastrosamente, e L. rimase con debiti che andò pagando a poco a poco nei quindici anni successivi.
Nel 1833 divenne ufficiale postale a New Salem. Siccome il salario non era sufficiente per vivere decentemente, l'anno dopo decise di fare l'agrimensore; nello stesso tempo decise di darsi di nuovo alla vita politica, ripresentandosi come candidato alla legislatura. Benché fosse liberale (whig), e forte ammiratore di Enrico Clay, i suoi abili discorsi improvvisati gli permisero di essere eletto in un distretto che era stato sempre fortemente democratico. La sua carriera nella legislatura dello stato, che durò dal 1834 al 1842, non fu molto brillante; ma un suo atto già faceva prevedere il suo vero carattere d'uomo di ben altre mire: appoggiato da un solo collega, protestò contro un ordine del giorno a favore della schiavitù.
Nel frattempo aveva cominciato lo studio della giurisprudenza.
Nel 1837 fu ammesso all'esercizio dell'avvocatura, e si stabilì a Springfield, capitale dell'Illinois, mettendosi in società con John T. Stuart, avvocato di una certa fama. Acquistò ben presto molta rinomanza nell'esercizio della professione, distinguendosi particolarmente alle corti d'assise. Il suo successo si deve più all'integrità del suo carattere che alla sua conoscenza della giurisprudenza. L., politicamente, era ormai il capo del partito whig. Nel 1841 lasciò lo Stuart e si unì con Stephen T. Logan, uno dei più celebri avvocati dello stato; nel 1843 L. cercò di ottenere la nomina a deputato al Congresso federale, ma non gli fu possibile perché, come egli scrisse subito dopo, "vi era la più strana combinazione di influenze religiose contro di me. Si diceva dovunque che nessun cristiano doveva votare per me perché io non appartenevo a nessuna religione; mi credevano deista, e mi accusavano di esser favorevole al duello dicendo che ne avrei sostenuto uno". Tre anni dopo, nel 1846, fu finalmente eletto, per una sessione, al Congresso federale e militò nelle file dell'opposizione liberale.
In un abile discorso alla camera dei rappresentanti accusò il presidente J. K. Polk e il generale L. Cass di avere ingiustamente provocato la guerra contro il Messico. Più importante, però, fu il suo progetto di legge che mirava in generale a circoscrivere il sistema della schiavitù. Col suo voto a favore del progetto Wilmot cercò di proibire la schiavitù nel territorio testé tolto al Messico. Aveva sempre odiato la schiavitù, ma non aveva mai simpatizzato con la politica degli abolizionisti. Sin dal 1837, essendo deputato alla legislatura statale, aveva presentato un progetto di legge dichiarando che "l'istituzione della schiavitù è fondata sull'ingiustizia e sulla pessima politica; che la promulgazione di dottrine abolizioniste tendeva ad aumentare invece di diminuire il male". Dichiarò anche che il Congresso aveva il potere di abolire la schiavitù nel distretto di Columbia, "ma che questo potere non doveva essere esercitato senza il consenso degli abitanti del distretto", e senza un compenso ai padroni degli schiavi. Durante quest'intervallo di dodici anni (1837-1849), la questione della schiavitù continuava a imporsi alla nazione, e L. s'era mantenuto fermo nella sua tesi giacché, nel 1849 non aveva fatto altro che reiterare le sue opinioni del 1837. Il progetto Lincoln però non fu neanche discusso.
Lasciato il Congresso nel 1849, cercò invano di ottenere la nomina di commissario dell'ufficio generale per la distribuzione dei terreni demaniali. Gli offrirono, invece, la nomina di governatore del nuovo territorio dell'Oregon, che egli declinò, preferendo tornare all'esercizio della sua professione. La ditta Logan e Lincoln fu sciolta nel 1845, e allora si formò la nuova società, Lincoln e Herndon. Fu durante questo periodo che L. finalmente si fece una posizione finanziaria. Fu richiamato alla politica dal Kansas-Nebraska Act del 1854, con il quale il Congresso adottò il principio che in ogni nuovo stato che si andasse costituendo tutti i problemi, non escluso quello della schiavitù, venissero regolati a beneplacito del popolo. Questa pericolosa deliberazione, imposta dai possessori di schiavi del sud, e che apriva tutto il territorio del nordovest all'invasione della schiavitù, rivelò tutta l'importanza della questione schiavista al popolo degli stati liberi, e s'insinuò nella politica della nazione come un evento della massima importanza.
L'ingegno naturale e gli anni di lavoro assiduo nella sua professione avevano sviluppato in lui una rara lucidità nelle discussioni. Quando Stephen A. Douglas divenne il propugnatore del Kansas-Nebraska Act, L., a richiesta del partito, gli rispose a Peoria il 16 ottobre 1854. Questo importantissimo discorso gli assicurò un posto nella storia. Il trapasso dall'umile uomo politico, che cinque anni prima non era riuscito a ottenere la nomina di deputato al Congresso, è tale da sembrare quasi incredibile. Per la sua lucidità, per la vastità della materia, e per la grande simpatia che ispirò, il discorso è superiore a qualunque altra cosa che sia apparsa nella letteratura schiavista. Nel suo discorso L. non ammise, come facevano gli abolizionisti, né astrazioni né vendette, ma fu anzitutto democratico e umanitario. Disse che desiderava porre un freno alla diffusione della schiavitù non solo perché egli la credeva inumana, ma anche perché, sono sue parole, "i nuovi stati liberi sono i luoghi dove possono andare i poveri per migliorare la loro condizione". Questo rimase il punto fondamentale del suo pensiero sia riguardo ai territorî sia riguardo alla preservazione dell'unione.
Il discorso di Peoria lo rese celebre. Crebbe anche la sua ambizione politica, e i whigs lo misero avanti come candidato al senato federale, ma non furono abbastanza forti per farlo riuscire nelle elezioni. Malgrado quest'insuccesso, il partito continuò a sostenerlo, e nel 1858 gli offrì di nuovo la candidatura a senatore che L. accettò. In un discorso fatto in quel convegno per aprire la campagna elettorale L. pronunziò le memorabili parole: "Una casa divisa contro sé stessa non può durare. Credo che questo governo non potrà durare per sempre se continuerà a essere mezzo schiavo e mezzo libero". E in tutti i suoi discorsi insisteva che "la schiavitù è un errore". Allo stesso tempo sfidò il suo vecchio rivale, Stephen A. Douglas, candidato dei democratici, a una serie di contraddittorî nei quali i due competitori peroravano la loro causa. La propaganda antischiavista di Lincoln basata sullo studio giuridico, storico e morale della questione, ebbe larga eco di consensi quasi unanimi negli stati settentrionali, mentre nel Sud preparò gli uomini alla resistenza che poco dopo ebbe così clamoroso e cruento sviluppo nella guerra fratricida di secessione. In questo modo L. preparò la strada per il rovesciamento del partito democratico, quantunque nelle elezioni di quel momento vincesse Douglas.
Un altro fatto che contribuì alla fama di Lincoln fu l'organizzazione del grande partito repubblicano, che, aborrendo la schiavitù, si oppose in massa compatta ai democratici, con l'intendimento di porre in giusta proporzione il potere del governo centrale coi diritti dei singoli stati, ossia di costringere il governo a impedire la preponderanza degli stati a schiavi e la propagazione ulteriore della schiavitù. I repubblicani si dichiararono inoltre avversi ai progetti di conquista di Cuba, del Messico e dell'America Centrale, che non avevano altra mira se non l'estensione della schiavitù. L. in poco tempo divenne uno dei capi più autorevoli dei repubblicani; e nel convegno nazionale del partito, che si adunò a Chicago nel maggio 1860, fu scelto candidato alla presidenza degli Stati Uniti; e, pur non avendo ottenuto la maggioranza del voto popolare, il numero degli "elettori statali" - da cui dipende la scelta definitiva del capo esecutivo - a lui favorevoli, bastò per la sua elevazione alla presidenza.
In occasione della grande festa popolare che si celebrò a Springfield per la riuscita elezione, Lincoln parlò alla folla in maniera da fare intendere ch'era ormai imminente la rottura tra il Nord e il Sud della nazione. Aveva ragione. Il risultato delle elezioni era stato appena annunziato, che il movimento di secessione del Sud, che minacciava da tempo, scoppiò in aperta rivolta, e quasi un mese prima che L. potesse essere insediato come presidente degli Stati Uniti, sette stati del Sud formarono una confederazione indipendente, con proprio statuto e con Jefferson Davis per presidente (v. stati uniti: Storia).
Il giorno del suo insediamento a Washington, 4 marzo 1861, L. tenne un discorso forte e patetico che faceva prevedere la sua azione ufficiale in modo caratteristico. Quantunque non cedesse su nessun principio, non pronunziò un ardente manifesto antischiavista, che avrebbe soddisfatto i più ardenti repubblicani. Con grande moderazione di parola, mostrò ai secessionisti che il loro passo era sbagliato, anche dal punto di vista del proprio bene; che non solo era loro dovere di non distruggere l'Unione, ma ch'egli aveva giurato di mantenere salda l'unione degli stati contro tutte le mene dei separatisti. Dichiarò che egli e il suo partito non avevano intenzione d'intervenire contro la schiavitù dove essa esisteva, ma soltanto d'impedire la sua propagazione nel territorio che ne era allora libero, e implorò con ardore e passione il popolo del Sud a non distruggere un governo sacro per tante preziose memorie.
Ma le ostilità scoppiarono e diedero principio alla guerra di secessione. Da questo momento in poi la storia della vita di L. s'immedesima nella storia della nazione americana. La situazione che dovette affrontare il nuovo presidente, era spaventosa: ben armati i sudisti, mal provvisto e debole l'esercito federale; l'erario vuoto; il credito pubblico al più basso livello; molti funzionarî governativi simpatizzanti con i separatisti; discordi le fazioni in seno al partito. La più grande sagacia, inoltre, fu necessaria per mantenere fedeli all'Unione gli stati limitrofi che, mentre si opponevano sinceramente alla secessione, pensavano che la schiavitù non dovesse in nessun modo essere messa in pericolo, e il governo non avesse alcun diritto d'intromettersi in questo problema; mentre invece un forte elemento del Nord, devoto all'Unione, credeva che l'autorità governativa potesse essere ristabilita soltanto per mezzo della completa abolizione della schiavitù, e chiese l'emancipazione. Né questo era tutto. Forti influenze europee, con un mal celato desiderio di una permanente disunione degli Stati Uniti, appoggiavano con zelo la causa dei secessionisti del Sud, e pareva che le due principali potenze del vecchio mondo, Inghilterra e Francia, aspettassero il momento opportuno per prestare loro aiuto.
L. riconobbe che la lotta non sarebbe stata come una guerra contro lo straniero, che desta l'entusiasmo di una nazione unita, ma una guerra civile, che avrebbe eccitato le animosità di partito anche in luoghi sotto il controllo del governo; che si sarebbe dovuto combattere non con una macchina già fatta, governata da una volontà assoluta, ma con mezzi che dovevano essere forniti dall'azione volontaria del popolo; che l'esercito doveva formarsi con reclutamento di volontarî; che si dovevano raccogliere forti somme di denaro fra il popolo, per mezzo dei suoi rappresentanti, e con tassazioni volontarie; e che tutto il popolo, o almeno una forte maggioranza, doveva accettare misure di guerra, le quali menomavano i diritti e le libertà di cui esso godeva.
È evidente che la politica adottata da L. non poté soddisfare tutti, nemmeno alcuni dei suoi più sinceri amici. Gli spiriti più arditi dell'Unione credevano che il presidente avrebbe dovuto chiamare tutto il Nord sotto le armi per schiacciare la ribellione con un poderoso colpo. Si lamentava dovunque che l'amministrazione fosse senza animo, indecisa, lenta nel suo procedere. L. invece preferiva aspettare che fosse il nemico a dare il primo colpo, e quando questo fosse avvenuto era sicuro che il popolo sarebbe stato pronto a combattere. E aveva ragione, perché quando si sentì il rombo del primo cannone nel porto di Charleston, il 12 aprile 1861, il popolo del Nord corse alle armi. Al principio tuttavia egli credette che il popolo fosse pronto a combattere per la difesa dell'Unione, ma non per l'abolizione della schiavitù; e in tal senso si espresse. Non che le sue vedute e i suoi sentimenti sulla schiavitù avessero cambiato; ma credeva che l'abolizione della schiavitù sarebbe stata una conseguenza necessaria della salvezza del governo, dello statuto e dell'Unione. Più tardi, al principio del 1862, L. vide che il dare alla guerra un carattere antischiavista era il modo più sicuro per impedire il riconoscimento da parte delle potenze europee della Confederazione del Sud come stato indipendente: la schiavitù essendo detestata da tutta l'umanità, nessun governo europeo avrebbe osato offendere l'opinione pubblica appoggiando apertamente la creazione di uno stato fondato sulla schiavitù. Malgrado il desiderio di evitare conflitti con l'Europa, nel novembre 1861, la Gran Bretagna stava per dichiarare guerra agli Stati Uniti a causa dell'incidente del Trent, nave inglese che il capitano Wilkes dell'Unione fermò e ispezionò impossessandosi dei due commissarî confederati, Mason e Slidell, che si trovavano a bordo. Ma L. riuscì, grazie alla sua abilità diplomatica, a risolvere l'incidente in modo onorevole, placando l'Inghilterra.
Il 22 settembre 1862, L. emanò il primo proclama sull'emancipazione dichiarante che se gli abitanti degli stati ribelli non ritornassero a essere fedeli al governo federale, prima del 1° gennaio 1863, gli schiavi sarebbero stati dichiarati liberi. Di questo proclama non tennero alcun conto gli stati del Sud, così che il giorno stabilito (1° gennaio 1863), L. emanò il suo famoso proclama di emancipazione che dichiarava liberi cittadini i quattro milioni e mezzo di negri che allora abitavano negli Stati Uniti.
Nel dicembre 1863, quando già si delineava la vittoria finale del governo, L. emanò un proclama d'amnistia, accolto dapprima con favore generale, ma abbandonato poi per un altro progetto di ricostruzione, molto più rigoroso nelle sue misure, presentato alla Camera dei rappresentanti da Henry Winter Davis. Nel frattempo cresceva la popolarità di Lincoln, che lo fece trionfare nelle elezioni del 1864, malgrado l'opposizione entro il proprio partito.
Ormai la guerra era virtualmente decisa, sebbene non ancora terminata. Il generale Sherman avanzava trionfalmente attraverso il Sud, e il generale Grant teneva la sua mano ferrea sui baluardi di Richmond. I giorni della confederazione erano contati.
L'11 aprile 1865 la città di Washington festeggiava la caduta di Richmond, capitale dei separatisti, nelle mani dei federali, e la resa di Lee, generalissimo dell'esercito confederato. In questa occasione L. fece il suo ultimo discorso in pubblico, parlando da un balcone della Casa Bianca, in cui accennò al ristabilimento dell'autorità nazionale, e sostenne con enfasi l'immutabilità dei principî repubblicani. Questo fu il suo testamento politico poiché tre giorni dopo, la sera del 14 aprile, mentre assisteva con alcuni suoi amici da un palco del teatro Ford di Washington alla rappresentazione del "Nostro Cugino Americano" (Our American Cousin), certo Giovanni Wilkes Booth, fanatico partigiano della secessione, lo ferì con un colpo di rivoltella, esclamando "Il Sud è vendicato". Il presidente morì la mattina del 15 aprile.
La perdita sostenuta dalla nazione con la morte di L. fu enorme. Il problema di fondere di nuovo le due sezioni della nazione era così difficile come era stato quello di dirigere la guerra. Alla soluzione di questo problema L. avrebbe contribuito non sola con la sua esperienza, ma anche con la sua grande generosità e prudenza. La tragica fine commosse tutto il mondo civile. Un gemito di dolore si alzò da tutte le parti come mai prima in America. Al lutto degli Americani fecero eco tutti i popoli civili, inviando in America indirizzi di condoglianza e rammarico.
L. era alto quasi due metri, magro e scarno, lungo di braccia; modesto nel vestire, semplice e cordiale nei modi, narratore facondo e di schietta cortesia. Nel 1841 aveva sposato Mary Todd, figlia di Robert s. Tood.
Per le opere del L.: A. Lincoln, Complete Works: comprising his speeches letters, state papers, and miscellaneous writings, a cura di J. G. Nimlay e J. Hay, New York 1920; A. Lincoln, The Writings of Abraham Lincoln, a cura di Arthur Brooks Lapsley, New York 1888-1906, voll. 8.
Bibl.: E. Channing, The United States of America, 1765-1865, New York 1896; J. Garfield Randall, Constitutional problems Under L., New York 1926; J. G. Nicolay, A Short Life of A. L., New York 1921; C. Sandburg, A. L., the Prairie Years., New York 1926; A. J. Beveridge, A. L., 1809-1858, New York 1928; A. Agresti, A. L, Genova 1913; J. Baldwin, A. L.- a true life, New York 1904; J. Hodges Choate, A. L., New York 1901.