DE BALMES, Abramo
Scarse e frammentarie le notizie sulla vita e sulla famiglia. Del D. sappiamo che nacque forse nel 1440; sicura è invece la località, Lecce, come egli stesso ricorda nella prefazione alla traduzione dei Commentari d'Averroè. Del padre, il rabbino Meyr (o Mayr), si sa soltanto che con il fratello Mosè si dedicò a vari mestieri e, in particolare, al prestito del denaro. Dai pochi documenti sulla sua vita apprendiamo che fu figlio unico e che il padre morì prima del 1497 nominandolo erede universale. Dopo poco, il D. fu citato in causa dai fratelli della sua promessa sposa - una lontana cugina dello stesso ramo dei De Balmes di Lecce - i quali il 14 apr. 1497 presentarono al re di Napoli una richiesta di restituzione della dote di 200 ducati versata come deposito dieci anni prima al padre del D., il quale l'aveva fatta fruttare sino a 800 ducati. Non essendo stato ancora celebrato il matrimonio a quella data, il D. fu condannato con rescritto sovrano del 16 apr. 1497 a restituire tutta la dote, compresi gli interessi. Non sappiamo se si sia successivamente sposato.
Il D. aveva studiato all'università di Napoli, dove aveva ottenuto il dottorato in medicina e filosofia nel 1492, per concessione speciale di papa Innocenzo VIII. Anche suo nonno Abramo - con il quale molto spesso è stato erroneamente confuso - si era laureato a Napoli in medicina ed era stato medico alla corte di Ferdinando I re di Napoli tra il 1463 e il 1488.
Nel 1510, quando gli ebrei furono espulsi da Napoli, il D. si trasferì a Venezia, dove ottenne la protezione del cardinale Domenico Grimani, di cui fu anche medico personale. Con il Grimani iniziò anche un lungo rapporto di amicizia; per lui tradusse dall'ebraico in latino numerose opere, fra cui un saggio di astronomia di Ibn al-Haitham e la lettera di commiato del filosofo musulmano Ibn Bãggia (Avempace) con il titolo di Epistola expeditionis preceduta da una dedica al cardinale. Tradusse pure dall'arabo in latino molte opere di Averroè, ma la sua fama è legata soprattutto alla composizione del Miqnēh-Abrāim, una grammatica ebraica, in lingua ebraica, è indiscussa originalità, che il D. tradusse lui stesso in parte in latino e che fu pubblicata per la prima volta a Venezia da Daniel Bomberg alla fine del 1523, dopo la morte dell'autore. L'incontro col Bomberg fu determinante per il D., in quanto, come dice egli stesso nell'introduzione alla grammatica, l'interesse dell'editore nei suoi riguardi e l'amicizia e i favori manifestatigli erano in contrasto con la freddezza con cui era accolto nell'ambiente ebraico. Nonostante la mancanza di una precisa documentazione, il D. dovette anche insegnare filosofia all'università di Padova assieme ad un altro famoso medico ebreo, Elia Levita. Alla sua morte, che risale a poco prima del 1523 e avvenne quasi sicuramente a Padova, nonostante alcuni ritengano sia avvenuta a Venezia, l'università gli rese solenni onori funebri, e una gran folla di studenti seguì il suo feretro.
L'opera più famosa del D. è il Miqnēh-Abrāim, la grammatica ebraica che egli scrisse sotto l'influsso del Bomberg e che, come detto, fu pubblicata dallo stesso Bomberg a Venezia nel 1523 (ebbe poi altre ristampe: Venezia 1529, Antuerpiae 1564, Hannover 1594) con una versione latina intitolata Peculium Abramae (titolo ripreso da Genesi, XIII., 7),eseguita in parte dallo stesso D. e completata dopo la sua morte dal medico e filosofo contemporaneo David Kalonymus, che vi aggiunse anche un capitolo finale, il Tractatus de accentionis. Con quest'opera il D. si distacca dalla precedente tradizione grammaticale ebraica, rappresentata in particolare da Ibn Janāh e Profiat Duran. per costruire una sua dottrina grammaticale basata sulla teoria della logica, con speciale attenzione alla filologia latina - ma anche greca, come è dimostrato dalle numerose citazioni del Cratilo di Platone -, applicata ai vari aspetti della grammatica ebraica.
Lo sforzo del D. è volto a codificare la sintassi ebraica, a cui è dedicata una speciale sezione nell'opera, considerandola separata e indipendente dalla grammatica e rifiutando così il metodo tradizionale rappresentato da David e Mosè Kimchi. L'opera tuttavia non ebbe fortuna nell'ambiente ebraico contemporaneo; ad essa si opposero il Levita e Sebastiano Münster, il quale nell'introduzione alla sua grammatica, pubblicata nel 1525, espresse un duro giudizio sul D., che, egli scrive, "nihil sdiud agere mihi visus est quam veterum doctrinain perpetuo convellere atque impugnare magis insectando occupatus quani in docendo". In generale, i contemporanei consideravano il metodo del D. troppo rigido, accompagnato da una terminologia difficile, da cui sarebbe trasparsa solo una grande erudizione. Invece il Peculium Abramae, proprio per essere la prima grammatica ebraica sistematica con accanto la traduzione latina, fu accolto con favore negli ambienti ebraici e cristiani e adottata negli anni successivi. Il testo dell'opera con la traduzione latina è andato perduto: sembra tuttavia che la versione latina del D. fosse nei primi capitoli piuttosto rozza ed elementare, in quanto il Bomberg la volle troppo aderente al testo originale, ma che in seguito l'autore abbia tradotto più liberamente e con una certa eleganza testuale.
Il D. tradusse sia dall'arabo sia dall'ebraico in latino molte opere di filosofi arabi medievali, contribuendo notevolmente a diffondere fra i contemporanei le loro dottrine filosofiche. Tra queste traduzioni, speciale attenzione richiedono il testo di astronomia del sec. XI di Ibn al-Haitham, con titolo latino di Liber de Mundo (o il Quadrante) e la lettera di commiato di Avempace ad un suo amico e discepolo di Granada, intitolata Epistola expeditionis (conservata inedita nel ms. Vat. lat- 3897), già citati, e un trattato di Gemini sull'astronomia dal titolo Introduzione all'Almagesto di Toiomeo.
Particolare importanza hanno le traduzioni dei D. di varie opere di Averroè concernenti problemi di logica aristotelica, che furono tutte incorporate nella edizione di Aristotele pubblicata dai Giunta a Venezia nel 1552, mentre alcune di esse si conservano anche manoscritte presso le biblioteche Vaticana, Marciana di Venezia e Ambrosiana di Milano. In tale edizione delle opere aristoteliche figurano le seguenti traduzioni del D.: Commentum medium in libros Topicorum; Commentum medium in Sophistichos elencos; Epitomen Jogicae; Quaesita logicalia; Epistola de primitate praedicdtorum in demonstrationibus; Paraphrases in tres libros Rethoricorum; Sermo de substantia orbis (stampato anche nell'edizione di Aristotele di Bologna nel 1580, insieme all'esposizione di Giovanni Ganduno pubblicata a Venezia nel 1589). Nella stessa edizione aristotelica del 1552 compaiono anche le versioni del D. da altri commentatori arabi: Abbualkasis Benadaris, Quaesitum primum de notificatione generis et speciei e Quaesitum secundum de nominis definitione; Alhagiag ben Thalmus, Quaesitum de mistione propositionis de inesse et necessariae; Abiuhalkasini Mahmat b. Kasam, Quaesitum primum de modo discernendi demonstrationes propter quid et demonstrationes quia; Quaesitum secundum. Castigatio quartae speciei secundi generis congeriarum demonstrationum ipsius Alpharabii; Abuhabad Adhadrhaman ben Johar, Epistola prima de negativo, de necessario et negativo possibili; Epistola secunda de termine medio.
Nell'edizione aristotelica stampata a Venezia nel 1552 da Niccolò Bascarini è inserita anche la versione dall'arabo in latino del Compendiuni necessarium, e del De generatione et curruptione di Aristotele. È da notare che Giambattista Bagolini, preparando la nuova edizione giuntina di Aristotele nel 1552, preferì le traduzioni aristoteliche del D. per correggere quelle di Iacopo Mantino.
La traduzione dell'ampio Commento di Averroè sugli Analitici posteriori di Aristotele, pubblicata a Venezia intorno al 1526, sembra che facesse parte di un più ambizioso progetto del D., comprendente anche una sua opera filosofica originale, il Liber de demonstratione, di cui però non si ha nessuna notizia. Al D. è attribuita anche una traduzione dall'arabo in latino del libro di Galeno De plantis.
Fonti e Bibl.: Alcune limitate notizie sul D. e sulla sua famiglia si hanno in documenti conservati presso l'Archivio di Stato di Napoli, come ad esempio: Reg. Camerae Summariae, Part. regg. 37, c. 162; 39, c: 64; Collat. Partium, regg. 4, c. 45v; 7, c. 2; Collat. Privilegiorum, reg. 6, c. 47. Si vedano inoltre: S. Münster, Institutio elementaris Hebraicae linguae, Basilae 1532, p. 958; K. Gesner, Bibliotheca instituta et collecta. Tiguri 1583, p. 1; G. Bartolocci, Bibliotheca magna rabbinica de scrittoribuset scripris ebraicis, I,Roma 1675, pp. 34 ss.; R. Simon, Histoire critique du Vieux Testament, Rotterdam 1675, pp. 178, 536; J. A. Fabricius, Bibliotheca Graeca, Hamburg 1708-1728, III, p. 549; XIII, p. 22; J. Ch. Wolf, Bibliotheca Hebraea, I, Hamburg-Leipzig 1715 (poi Bologna 1967), pp. 69 ss.; A. Baillet, Jugements des savans sur les principaux ouvrages des auteurs, I, Paris 1722, n. 724; G. J. 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(confonde anch'egli il D. col nonno Abramo); N. Ferorelli, A. D. ebreo di Lecce..., in Arch. stor. per le prov. napol., XXXI (1906), pp. 632-54 (il quale porta un contr. notevole sulla figura del D., in quanto ne distingue la figura rispetto al nonno Abramo); D. W. Amram, The Makers of Hebrew Books in Italy, Philadelphia 1909, pp. 169-72; E. Morpurgo, L'Università degli ebrei in Padova nel XVI sec., in Boll. d. Museo civico di Padova, XII (1909), pp. 16-25, 65-75; G. Herlitz-B. Kirschner, Iüdisches Lexicon, I,Berlin 1927, p. 699; J. Bloch, Venetian Printers of Hebrew books, New York 1932, p. 10; C. Roth, Gli ebrei in Venezia, Roma 1933, pp. 289 s.; C. Frati, Diz. bio-bibl. d. bibliotecari e bibliofili ital. dal sec. XIV al XIX, a cura di A. Sorbelli, Firenze 1934, p. 270, n. 10; A. Revere, La Confraternita israelitica "Sovvegno" di Padova, in Rass. mensile d'Israele, XII (1937-38), pp. 277-36; C. Roth, The Jewish contribution to civilisation, London 1938, pp. 52, 331; G. 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