ABRAMO (ebraico 'Abhrām; latino Abraham; greco 'Αβραάμ; franc., ted. e ingl. Abraham)
Primo - e il più grande - dei patriarchi del popolo ebreo, da ebrei, cristiani e maomettani ugualmente venerato come padre nella fede.
Il nome occorre nella Bibbia sotto due forme: 'Abhrām fino a Genesi, XVIII, 5; da indi in poi 'Abhrāhām e sotto la duplice forma si ritrova pure nell'assiro: A-bi-ra-mu "mio padre è eccelso", e A-ba-ra-ha-am, quest'ultima in una lettera della prima dinastia babilonese (sec. XXIII a. C.). E appunto al tempo di quella dinastia viveva Abramo, essendo probabilmente contemporaneo di Ḫammurabi (v.) il sesto e più grande re di quella dinastia.
Il racconto biblico. - Secondo il racconto del Genesi, XI, 26-32, A. nacque nella città di 'Ūr, l'Uru dei Caldei, la moderna Mugheir (el-Muqayyar), da Tare, padre di tre figli: A., Nachor ed Aran. Dei primi anni di A. non si dice altro. Adulto sposò Sarai (ebraico Ṡāray, nome poi mutato in ebraico Ṡārāh), che era sterile. Tare un giorno prese A. suo figlio, Lot suo nipote e Sarai, moglie di A., e partì da 'Ūr dei Caldei, dirigendosi verso il paese di Canaan. Giunti in Haran, città nel Nord della Mesopotamia, dove la dea Luna (Sīn) riceveva speciali onori, vi si fermarono; ed ivi morì Tare nell'età di 205 anni. Allora, (ma, secondo Atti, VII, 3, prima che lasciasse 'Ūr), la voce del Signore si fece udire ad A.: "Vattene dalla tua terra, dalla tua patria e dalla tua casa paterna, verso la regione che ti mostrerò. Io ti farò divenire una grande nazione e ti benedirò: ingrandirò il tuo nome e sarai una benedizione. Benedirò chi ti benedice e maledirò chi ti maledice, e per te saranno benedette tutte le nazioni della terra" (Gen. XII,, 1 seg.). Il servo fedele lascia la Caldea, lascia Haran per una terra che ancor non gli è rivelata, e arriva a Sichem, nella Palestina.
In Sichem il Signore gli manifestò esser quella la terra promessa: "Alla tua progenie darò questa terra" Ivi, ed anche in Bethel, A. innalzò un altare al Signore che gli era apparso. Ma una grande carestia lo costrinse a discendere in Egitto, dove, per i depravati costumi locali, trovandosi in pericolo di perdere e la sposa e la vita, consigliò Sarai, nel caso che si tentasse d'incettarla per il Faraone, di dichiararsi semplicemente sua sorella. Sarai era difatti sua sorella, perché figlia dello stesso padre, quantunque non della stessa madre (XX, 12). Per giudicare rettamente di questo consiglio, bisognerebbe conoscere tutte le circostanze del fatto: forse, la sua fiducia in Dio gli fece sperare che l'onore della sua Sarai sarebbe stato protetto, come avvenne. Alcuni critici, poi, hanno veduto nel matrimonio con una sorella, ma non figlia della stessa madre, una sopravvivenza di un primitivo sistema matriarcale. Ritornato in Canaan, A. fu costretto a separarsi da Lot, che andò ad abitare con la sua famiglia in Sodoma.
A questo punto del racconto biblico A. è messo in relazione con la storia profana d'Oriente (Gen., XIV): Amrafel (Amrāphel), re di Sennaar (Babilonia), Arioch ('Aryōkh), re di Ellasar, Thadal (Tidh‛al), re dei Goi e Chodorlahomor (Kĕdhārlā‛ōmer), re di Elam, capo della spedizione, entrano in Canaan a guerreggiare i re della Pentapoli, ribellatisi a Chodorlahomor. Sodoma cade nelle loro mani, e gli abitanti, compreso Lot, vengono trasportati prigionieri. A. con 318 dei suoi più fedeli servi, piomba di notte, improvvisamente, sul nemico, lo mette in fuga, libera i prigionieri e s'impadronisce di un ricco bottino, di cui però non vuole usufruire. A lui vittorioso viene incontro il gran sacerdote dell'Altissimo, Melchisedec, re di Salem (antico nome di Gerusalemme). A. lo riconosce superiore e gli offre le sue decime.
I documenti cuneiformi dissepolti in Oriente hanno confermata la storicità di questa pagina della Bibbia. Infatti: 1° ci dànno i nomi dei quattro re orientali; Amraphel è, secondo l'opinione comune e più probabile degli assiriologi, lo stesso che Ḫammurabi, già sopra menzionato. Arioch o Eri-aku è la forma sumerica di Arad-Sin, re di Larsa (Ellasar), di cui copiosi documenti ci fanno conoscere il regno e le gesta. Tadal ci viene innanzi sotto la forma di Tudḥalias, re di Ḫatti. Il nome di Chodorlahomor non s'è ancora trovato nella sua interezza; ma sono frequenti i due elementi Kudur "servo" e Lagamar "dio" di marca schiettamente elamita, variamente combinati in nomi proprî; 2° ci narrano come il re Kudur-Naḫḫunte conquistò Babilonia circa il 2280 a. C., e come il celebre Ḫammurabi, della dinastia babilonese, non scosse il giogo elamita se non l'anno 30° del suo regno; 3° ci fan sapere che già qualche secolo prima di Hammurabi i re di Akkad (Babilonia) avevano spinto le loro conquiste in Occidente fino al Mediterraneo (v. Zeitschrift f. alttestamentliche Wissenschaft, XXXVI, 1916, pp. 65-71; Biblica, VIII, 1907, pp. 350-357).
Seguono diverse apparizioni in cui il Signore promette ad A. che avrà un figlio "delle sue viscere" ed una numerosa prosapia. Gli viene anche manifestata la futura storia del popolo ebraico, che avrebbe dominato dal fiume d'Egitto all'Eufrate. La nascita d'Ismaele, che ottiene da Agar, serva di Sarai, rallegra il vegliardo, a cui Iddio muta il nome di Abramo in quello di Abraham (ebraico), perché "padre di una folla di popoli", e quello di Ṡārāy in Šārāh (ebraico) "principessa". Per ubbidire al Signore, A. circoncide se stesso, Ismaele e tutti gli altri della sua famiglia: la circoncisione d'ora innanzi è un gravissimo precetto religioso per tutti i discendenti del patriarca. Iddio gli annunzia la prossima nascita di un figlio: ma A. è vecchio, e così Sara, la quale, udendo, sorride. Ma il Signore benedice A. e vuole che, dal "sorriso" di Sara, il figlio si chiami Isacco (Yiṣḥāq "egli ride"). Il Signore vuole distruggere Sodoma e Gomorra e A. supplica per le città delittuose: Jahvè è disposto a cedere purché vi siano dieci giusti. Ma il castigio di Dio piomba inesorabile sulle città condannate, ché solo Lot merita di essere salvato.
Un episodio simile a quello presso il Faraone d'Egitto ebbe luogo in Gerara: simile consiglio a Sara e simile effetto. Il parallelismo di alcuni elementi delle due narrazioni non sembra tuttavia sufficiente per autorizzarne l'identificazione. Diverso è il luogo e il tempo dei due episodî; la somiglianza nelle circostanze deriva da consuetudini comuni.
Grande gioia provò il vegliardo quando nacque Isacco, e gran festa fece quando fu divezzato (Gen., XXI, 8). Ma la gioia fu presto turbata dalle gelosie delle due donne (Agar e Sara) per la convivenza dei figliuoli. Cedendo al volere di Sara, A. ordinò che Agar ed Ismaele si allontanassero dalla sua tenda. Ciò del resto era conforme al contemporaneo codice di Ḫammurabi, in cui si legge (col. 28, riga 60 seg.): "Se il padre, mentre vive, ai figli che gli avrà dato la serva non avrà detto: 'figli miei'; e poscia il padre venga a morire, i figli della serva non possono dividere l'eredità della casa paterna con i figli della padrona".
Ma ecco un altro episodio, celebre anche nella letteratura e nell'arte. Il Signore comanda ad A. d'immolare Isacco, già adolescente, nel luogo che gli avrebbe mostrato. A. cela allo stesso suo figliuolo il disegno di Dio. Ed Isacco porta sulle sue spalle le legna per il sacrifizio: "Ecco", disse Isacco, "il fuoco e le legna; ma dov'è la vittima per l'olocausto?". "Dio provvederà" fu la risposta del padre. Ma, mentre egli alza il ferro sul capo del figlio, una voce dal cielo: "No", gli grida "non portar la mano contro il fanciullo"; e un montone, che s'offre allora alla vista, ne prende il posto. Ed il Signore (XXII, 16 seg.): "In fede mia ti giuro (gli disse) che, in premio d'aver tu fatto tal cosa, ti colmerò di benedizioni e farò numerosissima la tua progenie come le stelle del cielo e l'arena del mare, e la tua discendenza occuperà la porta dei tuoi nemici; e nella tua discendenza si diranno benedette tutte le genti della terra, in premio di aver tu ascoltato la mia voce".
Seguono altri episodî forti di colore orientale: la morte di Sara, lo sposalizio d'Isacco e un'altra figliuolanza di A., che, "vecchio e sazio di vivere", muore (Gen., XXV, 7 seg.) in età di 175 anni. Il suo corpo fu seppellito dai suoi figli Isacco ed Ismaele nella stessa caverna di Macpela in Hebron, dove già riposava Sara.
Storicità. - La storicità della persona e dei fatti di Abramo è stata oggetto di vivaci discussioni. Si volle negarla e vi si giunse per tre vie: la prima è la mitologica. A. sarebbe in origine un'antichissima divinità, ridotta poi al più modesto rango di un eroe dal severo monoteismo jahvistico. Si segnalarono in questa interpretazione specialmente i panbabilonisti (Winckler, Stucken, Jensen, ecc.), che videro nella storia di A. i due miti astrali del sole (Šamaš) e di Venere (Ištar) generati dalla luna (Sīn)), l'astro adorato in 'Ūr ed in Haran. La seconda via è quella della personificazione della tribù o nazione. I viaggi di A. starebbero a rappresentare le migrazioni della primitiva tribù degli Ebrei dall'Oriente verso i paesi mediterranei (Meyer). Terza via, infine, la saga. Nella persona di A. si sarebbero cristallizzate antiche storie di tempi favolosi, che si raccontavano presso gli Ebrei, come altre simili storie si raccontavano presso altri popoli (Gunkel).
Ma la sostanza stessa del racconto biblico, per non dir altro, sta contro la prima e la seconda ipotesi, ora del resto cadute in discredito anche presso i critici più avanzati. E invero le azioni che si raccontano di A. non eccedono la comune misura dell'uomo, e non se ne tacciono le debolezze. Qualche cosa di straordinario sembra avere soltanto il fatto d'arme del capo XIV, che pure si riduce ad un attacco notturno d'una retroguardia. A. non è neanche una figura di eroe, come Sansone, Davide, Elia e simili. Le sue azioni, poi sono narrate in maniera troppo circostanziata, minuta, intonata alla vita privata di un uomo, rispettabile sì, ma insomma non influente, perché vi si possa vedere l'incarnazione di un popolo e della sua storia. Anche la terza opinione (delle saghe) mal si accorda con la sobrietà con la quale è tratteggiata la figura di A., senza quegli strepitosi fatti, di che sogliono essere piene le epopee nazionali. Egli non fa un solo miracolo. La sua vita è quella della tenda: vita semplice e patriarcale, molto differente da quella, per es., dei re d'Israele. Il codice di Ḫammurabi, come abbiamo già accennato, illumina singolarmente qualche tratto dei costumi patriarcali. I documenti assiro-babilonesi, informandoci dei più minuti particolari di quei tempi remoti, dimostrano l'insussistenza dei presupposti su cui quei critici basano le loro teorie.
Delle varie fonti, di cui secondo l'ipotesi "documentaria" risulta composto il Pentateuco, i critici indipendenti si accordano nell'assegnare Gen., XII, 4 b-5; XIII, 6 aba; 11 b; 12 aba; XVI, i a; 3; 15; 16; XVIII; XIX, 29; XXI, 1 b; 2 b-5; XXIII; XXV, 7-11 a; 12-17; 19-20. Maggiore incertezza vi è nel distinguere, delle parti che rimangono, quanto spetti a ciascuno degli altri due documenti, J (fonte Jahvista) ed E (Eloista): tanto più che, specialmente riguardo ad J, si postulano varie recensioni, o, per lo meno, stadî di sviluppo. In ogni modo, E non compare prima del c. XV; e a questa fonte si assegnano, inoltre, il c. XX (o 1-17), gran parte dei capi XXI (a partire dal v. 8) e XXII (1-14). Il c. XIV non viene assegnato con sicurezza a nessuna di queste fonti.
Abramo nella storia religiosa. - Per gli Ebrei l'eminente posto che tiene A., spicca nei tre concetti che si ripetono e s'avvicendano, si può dire, in tutti i libri della Bibbia: 1° A. è il loro "padre" per eccellenza, ed essi si vantano di essere la "stirpe di Abramo" (Giosuè, XXIV, 3; Giuditta, VIII, 22; Isaia, LI, 2; Matteo, iII, 9; Luca, I, 73; XVI, 24; Giov., VIII, 39; Atti, XIII, 26; II Cor., XI, 22; Giac., II, 21, ecc.); 2° il loro Dio, Jahvè, è il "Dio d'Abramo" (Esodo, III, 6; I Re, XVIII, 36; I Cronache, XXIX, 18; Salmi, XLVII, 9; Matteo, XXII, 32 ecc.); 3° A. è il depositario della grande promessa, a cui sono legati i destini del popolo eletto (Esodo, II, 24; Lev., XXVI, 42; II Re, XII, 23; Salmi, CV, 9, XLI; Luca, I, 73; Galati, III, 16, ecc.). Né tal concetto cessò coi tempi biblici, ma si perpetuò nella venerazione del popolo, testimoni il Talmūd, i Midrashīm, infine gli apocrifi (v. sotto).
Nel Cristianesimo, A. fu pure oggetto di grande venerazione. Gesù, ai Giudei che vantano la loro carnale discendenza da A. oppone che anzitutto importa imitare le opere di A. (Giov., VIII, 33), e già nella predicazione del Battista è detto che Dio può, se vuole, anche dalle pietre suscitare dei figli di A. (Matteo, III, 9; Luca, III, 8). L'espressione "seno di Abramo" indica il luogo dove sono le anime dei giusti. I Gentili che crederanno in Cristo, come il centurione di Cafarnao, siederanno al banchetto del regno celeste insieme con i Patriarchi: "Io vi dico", dice il Signore, "che molti verranno dall'Oriente e dall'Occidente e si assideranno con Abramo, Isacco e Giacobbe nel regno dei Cieli. I figli del regno saranno gettati nelle tenebre esteriori dove si piange ed è il battito di denti" (Matt., VIII, 11 seg.; Luca, XIII, 28); il ricco epulone, morendo, dall'inferno "vide Abramo da lungi e Lazzaro nel suo seno" (Luca, XVI, 22 segg.).
Ma A. è soprattutto, in numerosi passi neotestamentarî, (oltre che l'antenato di Gesù, in cui si adempiono le promesse divine, Matt. I, 1; Luca, I, 55 e 73; III, 34) l'eroe della fede (Luca, XIII 16; XIX, 9; Atti, III, 25; VII, 2-8, 17; Giacomo, II, 21 segg.).
Questa dottrina è stata esposta con grande ampiezza dall'Apostolo Paolo nelle sue Epistole ai Galati (III-IV) ed ai Romani (IV): chi ha fede in Cristo è vero figlio di Abramo: "... perciò non vi è più Giudeo, né Greco, non vi è servo né libero, non maschio nè femmina: tutti infatti una sola cosa siete in Cristo Gesù; e se siete di Cristo, siete figliuoli di Abramo, eredi secondo le promesse" (Gal., III, 28 seg.). Come il figliuolo carnale Ismaele con sua madre fu allontanato dalla tenda paterna, non potendo aver parte all'eredità di A., così gli Ebrei e la Sinagoga che rifiutano di credere in Cristo non appartengono più alla stirpe benedetta, e A. rimane il padre dei soli credenti. Questi passi di S. Paolo, fondamentali per una giusta interpretazione del suo pensiero, e che tanta importanza hanno assunto, specialmente nelle controversie teologiche della Riforma, non vanno tuttavia interpretati in senso luterano. L'apostolo non intende una fede morta (cioè disgiunta dalle opere), anzi è chiaro che ammira la fede del patriarca, perché accompagnata da eminenti virtù. La qual cosa appare ancor più evidente dalla Lettera di Giacomo (II, 20 segg.): "Abramo, nostro padre, non è stato forse giustificato dalle sue opere, offrendo il suo figlio Isacco sull'altare?".
Sul posto fatto ad A. nell'iconografia cristiana, v. sotto.
La Chiesa ha inserito fin dal sec. IV (papa Damaso, 366-384) il suo nome nel canone della Messa, dove si prega il Padre celeste d'accettare il sacrificio eucaristico "... come ti sei degnato d'accettare.... il sacrificio del nostro patriarca Abramo". Il suo nome si trova nei martirologi (di Adone, di Usuardo, romano) al 9 di ottobre.
Abramo nell'Islamismo. - Fin dal 1880 lo Snouck Hurgronje mostrò con quasi assoluta certezza che gli Arabi pagani, contrariamente all'opinione generale dei Musulmani, non ebbero alcuna tradizione intorno al biblico A. ed ai suoi rapporti con popolazioni arabe e con il santuario della Ka‛bah alla Mecca. Maometto, nel periodo più antico della sua predicazione, ossia prima d'emigrare dalla Mecca a Medina, non aveva dato ad A. nel Corano alcun particolare risalto rispetto alle figure degli altri personaggi del Vecchio e del Nuovo Testamento, ch'egli qualifica tutti come "profeti". Solo nel decennio della sua vita a Medina (622-632), in quotidiano contatto con forti gruppi di Ebrei, si rappresentò A. (il cui nome fu da lui storpiato in Ibrāhīm, ch'è la forma passata poi dal Corano alle lingue di tutti i popoli musulmani) come il più insigne campione del monoteismo contro l'idolatria, come il capostipite di molte popolazioni dell'Arabia settentrionale, come colui che, insieme col figlio Ismaele, eresse al vero Dio il primo tempio che sia mai esistito sulla terra, cioè la Ka‛bah, poi profanata da culti pagani per opera dei tardi e degeneri discendenti arabi di quei due "profeti". I riti del pellegrinaggio alla Mecca - afferma Maometto nel periodo medinese della sua predicazione - furono insegnati da A. il quale non fu né Ebreo né Cristiano, ma fu un ḥanīf (v.) interamente devoto all'unico e vero Dio, dal quale ebbe testi sacri rivelati; tutti i "profeti" posteriori, inclusi Mosè e Cristo, furono i continuatori dell'opera religiosa di A. come suo continuatore è anche Maometto. Il Corano gli dà l'epiteto biblico di "amico" (khalīl) di Dio, ed in un punto (VI, 74) gli dà come padre Āzar, forse per confusione con il fido servo Eleazaro. Circa l'enorme importanza che la figura di A. venne ad avere a Medina per l'evoluzione religiosa di Maometto rispetto agli Ebrei ed ai Cristiani, v. Maometto.
I commentatori indigeni del Corano, gli autori di ampie biografie dei "profeti", gli scrittori musulmani di storia preislamica o di storia universale hanno dato larghissimo sviluppo alla vita di A. attingendo ecletticamente (sopra tutto mediante convertiti dal giudaismo) alla Bibbia, al Talmūd e alla letteratura popolare giudaica; un saggio di simile biografia leggendaria d'A. può aversi da G. Weil, Biblische Legenden der Muselmänner, Francoforte a. M. 1845, pp. 68-99. Per i Musulmani A. attraverso Ismaele, è il progenitore di gran parte delle popolazioni dell'Arabia settentrionale, quindi anche dei Coreisciti (Quraish) che erano i signori della Mecca, e per conseguenza antenato diretto di Maometto stesso. L'antica Hebron, nella Palestina meridionale, dopo la conquista musulmana prese in arabo il nome di al-Khalīl "l'amico", appunto perché colà i Musulmani vi venerano, nella moschea principale, la tomba di Abramo, oggetto di pii pellegrinaggi.
Abramo nell'arte. - Il sacrificio di A. - interpretato come simbolo del sacrificio del Cristo (il Padre acconsente ed il Figlio vi si presta volonteroso) - è raffigurato con grande frequenza nell'arte cristiana. Tuttavia esso non appartiene che alla seconda fase (metà del II, metà del III sec.) della simbolistica monumentale: in affreschi delle catacombe romane (nella Camera dei sacramenti del cimitero di Callisto, del principio del III sec.; nel cimitero di Domitilla), in mosaici (S. Vitale di Ravenna), in numerosi sarcofagi (citeremo, tra i romani, quello, celebre, di Giunio Basso; e l'altro, di S. Maria Maggiore, nel quale Isacco, in procinto di essere sacrificato dal padre, prende il posto di Gesù davanti a Pilato), in un rosso graffito postcostantiniano di Roma (via Salaria antica), in un cucchiaio d'argento del IV sec., trovato in Aquileia nel 1792, in alcuni vetri, ecc. In un vetro dipinto della cattedrale di Bourges, Isacco tiene addirittura la croce.
Fra le numerosissime raffigurazioni, opera di artisti posteriori, ricorderemo soltanto il celebre quadro di Rembrandt (A. e i tre angeli) nel Museo dell'Ermitage, a Leningrado; quello di P. P. Rubens (A. e Melchisedec) nella collezione Northsbrook; i bassorilievi del Ghiberti e del Brunelleschi per le porte del Battistero di Firenze, rappresentanti il Sacrificio; l'affresco di Raffaello nelle Logge vaticane, dove A. adora Iddio nella persona degli angeli che lo visitarono.
Libri apocrifi su abramo.
Intorno ad A. come agli altri patriarchi, si venne intessendo una copiosa fioritura di leggende. Le principali sono nei libri apocrifi col suo nome, alcuni dei quali, attraverso versioni, sono giunti fino a noi.
L'Apocalisse di Abramo. - È un'opera giudaica, probabilmeme della fine del I sec. d. C. Si divide in due parti: un racconto aggadico della conversione di A. al monoteismo (cc. I-VIII) e una sezione apocalittica (cc. IX-XXXII). Tare, il padre di A. è un fabbricante di idoli e il figlio l'aiuta nel suo mestiere. Ma A. si accorge ben presto della debolezza dei falsi dèi, vedendoli incapaci di resistere alle ingiurie degli uomini e degli elementi. Quindi nella sua anima si fa strada la convinzione che deve esistere un solo Dio, creatore di tutto l'universo, e A. lo prega di rivelarsi a lui. Mentre ancora parla, una voce celeste gli comanda di uscire dalla casa di suo padre; il fulmine cade e riduce in cenere Tare con tutta la sua casa. La sezione apocalittica si connette a Genesi, XV, 9 segg., e descrive come A. dopo aver offerto un sacrifizio sul monte Oreb, fu fatto salire, sulle ali di una colomba, nel settimo cielo, ove gli venne dato di contemplare il trono di Dio, i diversi cieli, la terra, lo Sheol e le sue pene, l'Eden colle sue felicità, la storia d'Israele dal peccato di Adamo fino al giudizio supremo.
La maggior parte dei critici assegnano al libro origine giudaica, ed infatti le idee principali dello scritto e l'interessamento speciale dell'autore per A. e la sua posterità, per il monte Oreb, per le vicissitudini del popolo eletto, per Gerusalemme, il tempio, i sacrifizî, indicano un ambiente giudaico. Si deve però ammettere qualche interpolazione cristiana, specie nel c. XXIX, ove si allude a Gesù Cristo. Certi passi potrebbero pure suggerire qualche influsso gnostico; ma insomma lo spirito generale dell'opera è giudaico, benché non sia in tutto conforme a quello dei farisei e dei rabbini talmūdici. Essa è conservata soltanto in una versione paleoslava. Si può ammettere col Ginzberg che il testo originale fosse sceitto in ebraico o in aramaico, probabilmente in Palestina.
Il Testamento di Abramo. - Anche questo scritto, almeno nella sua forma originale, appartiene al sec. I o II d. C. Essendo stato composto probabilmente in ebraico o in aramaico, si è conservato in parecchie versioni: in greco, in paleoslavo, in rumeno, in copto, in arabo e in etiopico. I testi si dividono in due recensioni di cui una è assai più lunga dell'altra.
Il tema fondamentale è l'annunzio fatto ad A. della sua prossima morte, e la sua ripugnanza assoluta ad accettarla. Su questo tema, trattato sotto diverse forme, s'intreccia una piccola apocalisse: sotto la guida dell'arcangelo Michele, A. sale al cielo e vi contempla, fra altri misteri, il giudizio particolare che tutte le anime hanno da subire subito dopo la morte; messe in bilancia, esse sono pesate con tutte le loro opere buone e cattive; l'anima cattiva va "al luogo del supplizio amarissimo", mentre l'anima santa "sale al luogo della salvezza e la sua parte è coi giusti". L'intercessione per i defunti può influire sulla sentenza del giudice.
La paura della morte e il rifiuto di accettarla si ritrovano in parecchie altre leggende giudaiche e sono attribuiti ai personaggi più celebri d'Israele, quali Mosè, Esdra, ecc. Anche la pesatura delle anime si riscontra nella letteratura rabbinica; e questa concezione ebbe una larga eco nell'arte cristiana del Medioevo. In complesso, le idee dell'apocrifo sono prettamente giudaiche, benché nella recensione più lunga le parole abbiano talvolta colorito cristiano. I critici sono generalmente concordi nell'ammettere l'origine giudaica dello scritto, o quanto meno del documento che ne fu la base.
Bibl.: Oltre ai commenti al Genesi, alle opere generali indicate sotto la voce bibbia, ed agli articoli nei principali repertorî (Vigouroux, Dictionnaire de la Bible, I, s. v.; Cheyne, Encyclopaedia Biblica, s. v.; Hastings, Dictionary of the Bible, s. v.; Hauck, Real Encykl. für protest. Theologie und Kirche, I s, s. v.; si vedano: Beer, Leben Abrahams nach Auffassung der jüdischen Sagen, Lipsia 1859; W. J. Deane, Abraham, his life and times, Londra, s. a.; J. O. Dejkes, Abraham the friend of God, Londra 1877; e, per le questioni archeologiche e storiche e la bibliografia più recente, S. A. Cook, in The Cambridge Ancient History, 2ª ed., I-II, Cambridge, 1924-1926, capitolo IV, i e 2; V; XIII, 8; XIV.
Per l'iconografia v. Leclercq in Dictionn. d'archéol. chrét. et liturgie, Parigi 1924, I, n. i, col. 111 segg.
Per le leggende su A. v. Hamburger in Real Encycl. für Bibel und Talmud s. v. e in Jewish Encyclopaedia, I, s. v.; Encyclopaedia Judaica, I, s. v.; per la figura di A. nel Nuovo Testamento, v. i principali commenti e la bibliografia alla voce s. paolo; per le fonti rabbiniche, Strack-Billerberk, Kommentar zum N. T. aus Talmud und Midrasch, Lipsia 1921 segg., ai passi citati.
Per gli apocrifi: M. R. James, The testament of Abraham, Cambridge 1892 (s. v. e in Texts and Studies, II, 2); trad. ingl. di A. Craigie in Menzies, Recently discovered manuscripts, Edimburgo 1897, p. 183 segg. (Ante-Nicene Christian Library, additional volume). Il testo dell'Apocalisse di A. è in Tichuravov, Monumenti della letteratura apocrifa russa, Pietroburgo 1863; trad. tedesca di N. Bonwetsch, Die Apokalypse Abrahams, Lipsia 1897; inglese di Box, The Apocalypse of Abraham, Londra 1918 (Translations of early documents). Si veda inoltre: Ginzberg in Jewish Encyclopaedia, cit., p. 91 segg.; Schürer, Geschichte des jüdischen Volkes, 4ª ed., Lipsia 1909, III, p. 336 segg.; Frey, in Vigouroux, Dictionn. cit., Supplement I, Parigi 1926, coll. 28-38.