Abstract
Abrogare va distinto da modificare, sostituire, integrare, derogare, perché di per sé è un mero togliere; vanno distinte secondo tradizione e secondo le disposizioni del codice civile l’abrogazione espressa da quella tacita e da quella per rinnovazione di materia, spiegando sia le somiglianze che giustificano l’uso del medesimo sostantivo sia le significative differenze che giustificano l’aggettivazione; la voce poi affronta la questione se vengono abrogate disposizioni oppure norme e cerca di dimostrare perché è corretta la prima risposta; viene anche chiarita la distinzione, se positivamente disciplinata, tra abrogazione di disposizioni contenute in atto normativo gerarchicamente subordinato e illegittimità sopravvenuta; viene discussa la questione ancora oggi disputata intorno al fondamento giuridico della abrogazione; infine viene affrontata la questione che va sotto il nome prevalente (e ingannevole) di reviviscenza.
Conviene partire dal caso più semplice ed evidente. Un legislatore nel tempo t0 ha introdotto nel sistema una legge che chiameremo X; nel tempo t1 il successivo legislatore (lo stesso di prima o un altro, sempre che ne abbia il potere) decide che la precedente legge X va cancellata, non deve essere più applicata; se così vuole, ottiene questo risultato facendo entrare in vigore una nuova legge Y la quale prescrive che “la legge X è abrogata”; la conseguenza di questa dichiarazione contenuta nella legge Y è che dal momento in cui la nuova legge entra in vigore (momento che chiameremo t2 perché in generale viene dopo il momento t1) nessuno che sta dentro il sistema di cui sia X che Y facevano o fanno parte può applicare la legge X a casi iniziati successivamente alla abrogazione (la legge X non è più in vigore).
La vicenda descritta si chiama abrogazione espressa: abrogazione è sia l’atto di abrogare sia l’effetto abrogativo; è una abrogazione espressa perché il legislatore dice di voler abrogare la legge X e indica espressamente la legge o la disposizione che viene abrogata.
Dalla descrizione si ricavano molti altri elementi che caratterizzano l’abrogazione espressa (e per derivazione, come vedremo, anche altre forme di abrogazione): 1) anzitutto l’abrogazione presuppone lo scorrere del tempo e la separazione tra il periodo di vigenza della legge abrogata ed il periodo di vigenza della legge abrogante; 2) nello stesso tempo l’abrogazione presuppone la immediata contiguità tra legge che abroga e legge abrogante: in altre parole la legge X vige fino al momento t2, e la legge abrogante Y entra in vigore nello stesso momento t2; 3) in terzo luogo la legge abrogata non diventa per questo solo fatto una legge invalida: è una legge disvoluta dal legislatore, che, se era valida, resta valida in riferimento al periodo della sua vigenza; è una legge abrogata e quindi non più in vigore; la legge abrogata potrebbe rivelarsi invalida dopo la sua abrogazione ed essere trattata come tale, ma si tratterebbe di una vicenda del tutto diversa che non riguarda la sua abrogazione: la cosa è possibile perché la legge abrogata in principio non cessa di essere efficace nei confronti dei rapporti nati durante la sua vigenza; se però la legge X è stata dichiarata invalida mentre era in vigore e per questa ragione non è più in vigore, la sua abrogazione non avrebbe senso (ed anzi sarebbe pericolosa perché potrebbe indurre l’operatore giuridico a credere che essa cessa di essere in vigore nel momento in cui viene erroneamente dichiarata abrogata, mentre invece o idealmente non è mai entrata in vigore oppure è cessata di vigore, se così dispone il sistema, nel momento in cui è stata dichiarata invalida); 4) la mera abrogazione, e cioè la dichiarazione che si limita ad abrogare senza cercare di introdurre una nuova regola con riferimento al medesimo oggetto disciplinato da quella abrogata determina semplicemente un vuoto: se tale vuoto resterà tale (qualcosa che prima si poteva o doveva fare ed ora non si può o deve più fare sul piano giuridico) o sarà sostituito in positivo da una diversa regola vigente nel sistema dipende da come il sistema reagirà al vuoto (se ad esempio la legge abrogata derogava ad un’altra legge, tolta la deroga mediante una legge meramente abrogativa, si riespande la legge a suo tempo derogata).
L’abrogazione espressa si traduce nella cancellazione ideale dal sistema normativo vigente di tutti gli enunciati che vengono abrogati (di quelli della intera legge se viene abrogata una intera legge, di quelli contenuti in un articolo se viene abrogato un solo articolo, e così via). Questa cancellazione naturalmente è un fatto ideale, che sta nella testa degli utenti: materialmente non viene cancellato nulla, perchè l’accaduto (ad es. la pubblicazione legale a stampa) non può essere tolto; questa ideale cancellazione riguarda, come sottolineato più volte, il sistema in vigore nel momento in cui esso viene interrogato dopo l’abrogazione e non riguarda ovviamente il sistema quale era in vigore prima della abrogazione; questo spiega perché è possibile, utile, e necessario comunque per l’operatore giuridico, disporre di archivi normativi temporizzati, che restituiscano il testo quale era ufficialmente in vigore nel momento cronologico nel quale l’operatore si colloca, come fa oggi l’archivio Normattiva reperibile nel sito www.parlamento.it.
Carattere essenziale della abrogazione espressa (e non della abrogazione tacita, come è evidente) è la esatta individuazione da parte della legge abrogante della legge o delle disposizioni abrogate; non è dunque abrogazione espressa quella che si manifesta nella inutile clausola di stile che si limita a dire che “sono abrogate le disposizioni incompatibili con la presente legge”.
Peraltro se la legge successiva toglie espressamente da una legge precedente alcune parole che per se stesse non hanno senso compiuto, non si usa il sostantivo “abrogazione” e il verbo “abrogare”, ma il sostantivo “soppressione” ed il verbo “sopprimere”: quest’uso si spiega e si giustifica facilmente perché è ovvio che togliendo parole che da sole non hanno senso compiuto il legislatore in realtà non intende propriamente abrogare ma intende modificare un precedente testo, cosicché per sapere qual è la nuova disposizione che il legislatore intende introdurre bisogna togliere dal vecchio testo le parole soppresse ed emerge in tal modo la nuova disposizione.
Spesso la legge Y non contiene solo la disposizione che abroga la precedente legge X o parti di una precedente legge, ma al contrario anzitutto disciplina con regole nuove lo stesso oggetto o gli stessi oggetti disciplinati dalla legge X e poi a questa nuova disciplina aggiunge la disposizione finale secondo cui la legge X è abrogata. Questo è un risultato che il legislatore può ottenere usando una modalità formalmente diversa, che nasconde il momento abrogativo e nella quale comunque non compare la parola abrogazione, come vedremo nel par. 7.
In ogni caso il momento t2 nel quale avviene l’abrogazione, poiché pretende di tagliare in modo netto una vita individuale e sociale che scorre continua, determina in realtà una serie di problemi che vanno sotto il nome di retroattività (quando per alcuni casi nati anteriormente si applica la nuova legge Y al posto della legge X che in astratto allora li regolava), oppure di immediata applicazione (quando la nuova legge Y si applica da t2 in poi anche a rapporti e situazioni già cominciate che per la parte anteriore a t2 restano regolate dalla legge abrogata), oppure di ultrattività (quando ad alcuni casi già cominciati prima di t2 si applica fino al loro esaurimento la legge abrogata X e non quella abrogante Y); quest’ultima vicenda spiega perché è possibile sollevare una questione di costituzionalità nei confronti anche di una legge o disposizione di legge abrogata: ciò è possibile perché per il giudice a quo quella disposizione, anche se abrogata, è rilevante nel processo perché dovrebbe applicarla. Decidere poi quando c’è ed è ammissibile retroattività oppure immediata applicazione, oppure ancora ultrattività, è questione complessa che esige una apposita trattazione. È peraltro opportuno ricordare che a) come regola generale le leggi e gli atti normativi non hanno effetto retroattivo, come prescrive l’art. 11 delle disp. sulla legge in generale, premesse al codice civile; b) che questo principio può essere derogato dalle leggi a meno che tale eccezione non determini vizio di incostituzionalità; c) che la Costituzione vieta la retroattività delle norme penali sfavorevoli (art. 25).
Vale infine la pena di sottolineare come in base a questa analisi bisogna fare distinzione tra vigenza di una legge (e quindi inizio e fine della vigenza), validità di una legge (e quindi eventualità che una legge vigente venga dichiarata invalida), efficacia di una legge (che potrebbe anche essere non più vigente).
La esperienza più che millenaria, codificata nel codice civile (art 15 delle disp. sulla legge in generale, premesse al codice civile), mostra che esiste un caso molto simile alla abrogazione espressa (anche se per aspetti non secondari è diverso), caso che viene generalmente chiamato abrogazione tacita. Però l’enunciato del codice civile non usa questa espressione e dice che «Le leggi non sono abrogate che da leggi posteriori … per incompatibilità tra le nuove disposizioni e le precedenti». Queste parole rendono chiaro che in questo caso non esiste propriamente un atto di abrogazione perché il legislatore successivo non ha detto nulla, e quindi non ha in senso proprio voluto l’abrogazione; il legislatore successivo però ha fatto entrare in vigore una legge nella quale singole disposizioni sono incompatibili con precedenti disposizioni di legge, cosicché è impossibile in riferimento allo stesso caso da decidere obbedire ad ambedue: o si obbedisce ad una e non all’altra e viceversa; l’art. 15 citato prescrive che in tal caso, tra due disposizioni di legge (ma, in forza di una ricostruzione complessiva del sistema normativo, bisogna interpretare la parola legge nel senso che incompatibili possono risultare due disposizioni contenute in atti normativi quali che siano purché di pari forza giuridica: quindi ad es. anche regolamenti), se vi è incompatibilità nel senso prima definito, l’operatore deve applicare la disposizione successiva e non applicare quella anteriore e cioè ritenere tacitamente abrogata la disposizione anteriore: Il ragionamento che si ricava chiaramente da questa prescrizione, e che del resto è stato esplicitato per millenni dai giuristi e dai giudici, è che la incompatibilità di una disposizione successiva nei confronti di una disposizione anteriore è la prova che il legislatore successivo non voleva più la disposizione anteriore; in altre parole la abrogazione tacita viene per questa via ricondotta a quella espressa (e si spiega così l’uso della stessa parola “abrogazione”). Questa parificazione non toglie però le differenze non piccole che restano comunque: 1) la abrogazione espressa dipende dal mero disvolere successivo del legislatore, quella tacita da una accertata incompatibilità: il fondamento della abrogazione in questo caso sta nella incompatibilità, da cui si presume il disvolere; inoltre mentre la abrogazione espressa può manifestarsi come un mero togliere, l’abrogazione tacita in tanto può venir dichiarata dall’operatore giuridico in quanto esiste una nuova disposizione che prende il posto della precedente; 2) la abrogazione espressa è giuridicamente certa (è certa al massimo grado quanto possono esserlo le cose umane: è ovvio che non si può impedire né l’errore né la malafede); l’abrogazione tacita per definizione è incerta: spetta ad ogni operatore dichiarare se vi è o non vi è incompatibilità, e nessuno può escludere che in perfetta buona fede due operatori giungano a conclusioni opposte; 3) per questa ragione nessuno può garantire che l’abrogazione tacita venga riconosciuta una volta per sempre entro il sistema; neppure la Corte di cassazione, che può cambiare opinione, garantisce questo risultato.
La terza forma di abrogazione prescritta nell’art. 15 citato viene chiamata in generale abrogazione per rinnovazione della materia ma viene formulata con le parole «… perché la nuova legge regola l’intera materia già regolata dalla legge anteriore». A rigore non è una terza forma di abrogazione ma una variante della abrogazione tacita; le due forme che si oppongono sono abrogazione espressa ed abrogazione tacita; la abrogazione tacita a sua volta si divide in due sottospecie; quella nella quale incompatibili sono due disposizioni contenute in due atti l’uno successivo all’altro, e quella nella quale incompatibili sono due leggi che disciplinano la medesima materia, per cui a quella stessa materia o si applica la legge anteriore o si applica la legge posteriore. La particolarità di questa seconda forma di abrogazione tacita sta nel fatto che non è detto che risultino incompatibili tra di loro tutte le disposizioni delle legge anteriore con tutte le disposizioni della legge posteriore: l’operatore potrebbe essere indotto a fare una mescolanza, ed aggiungere alle disposizioni della legge posteriore quelle della legge anteriore che non risultano incompatibili con nessuna delle disposizioni della legge posteriore. L’art. 15, se veramente la materia delle due leggi è esattamente e completamente la medesima (notare la limitazione: tutto dipende da questa valutazione dell’operatore, il quale ben potrebbe concludere che la materia non è la medesima, ma coincidente solo in parte), vieta questa commistione. L’idea che sta dietro questa prescrizione è che la ratio della nuova legge è certamente diversa dalla ratio della vecchia (altrimenti il legislatore non avrebbe introdotto una nuova legge al posto della precedente ma si sarebbe limitato a modificare quella precedente secondo opportunità), e dunque non si possono aggiungere alla nuova legge disposizioni che rispecchiano una diversa ratio. In questo caso la incertezza della risposta dei giudici è ancora maggiore rispetto al caso di incompatibilità tra specifiche disposizioni, soprattutto perché esistono nella esperienza giuridica possibilità di conciliazione tra vecchie e nuove leggi che permettono appunto di evitare di giungere alla dichiarazione di abrogazione tacita.
Il caso più importante e frequente di conciliazione va sotto il nome di deroga, e cioè eccezione. Anche in questo caso conviene partire dalla deroga espressa. Immaginiamo che una legge nel disciplinare un oggetto individui quattro classi di cose interne a tale oggetto; immaginiamo che successivamente una distinta legge decida di disciplinare una soltanto delle quattro classi, e si limiti a dire che “in deroga alla precedente legge X, la classe y è così disciplinata …”. Si tratta chiaramente di una eccezione nei confronti di una regola. Immaginiamo che la vicenda si ripresenti, ma questa seconda volta la legge successiva non esprima la volontà di derogare: è l’operatore giuridico che si rende conto che c’è un caso astratto che, stando alla lettera, viene disciplinato contemporaneamente dalla legge derogata e dalla legge derogante, e conclude appunto che si tratta di una deroga tacita ed applica il criterio della specialità, per cui la disposizione derogata resta in vigore meno il caso ad essa sottratto dalla disposizione derogante, ed al caso che fa eccezione viene applicata la disposizione derogante. Siccome la disposizione derogata a rigore non è stata abrogata e resta scritta così come è stata originariamente formulata, la conseguenza è che in principio, se la disposizione derogante viene abrogata senza essere sostituita, la vicenda viene interpretata come una tacita volontà del legislatore successivo di riespandere il raggio d’azione della disposizione a suo tempo derogata, in modo da far corrispondere alla lettera rimasta immutata il suo raggio d’azione, che comprende di nuovo il caso prima sottratto dalla disposizione derogante ora abrogata. Nessuno però può escludere una diversa conclusione di qualche giudice, in base ad argomenti specifici relativi al caso.
Immaginiamo ora che una legge disciplini un certo caso astratto che chiameremo x; immaginiamo che una successiva legge disciplini una materia complessa, che concettualmente comprende anche il caso x, con regole incompatibili con quelle che con la precedente legge disciplinavano il caso x; la domanda diventa: la legge successiva ha tacitamene abrogato la legge anteriore cosicché il caso x viene ora disciplinato dalla legge successiva, oppure il caso x resta disciplinato come per l’innanzi, come eccezione alla legge più generale emanata successivamente? In questo caso neppure si può dire che vi sia tra giudici e giuristi una tendenza dominante: tutto dipende dalle circostanze, dalla ratio dell’una e dell’altra legge, da argomenti persuasivi nell’uno o nell’altro senso.
Caso analogo si ha quando due leggi si sovrappongono parzialmente, cosicché un oggetto x rientra concettualmente sia nella materia più ampia della prima legge sia nella diversa materia più ampia della seconda legge, ed il legislatore nulla ha detto sul punto.
Questi esempi dimostrano che l’abrogazione tacita deve fare i conti con le complicazioni che il linguaggio del legislatore e la realtà alla quale il linguaggio si riferisce spesso producono, senza che dagli enunciati del legislatore sia possibile dire in caso di incompatibilità qual è la sua volontà, se togliere comunque una delle due leggi o disposizioni (abrogazione tacita) o salvarle ambedue mediante il criterio della specialità.
La trattazione precedente presuppone implicitamente che ad essere abrogate sono disposizioni e non norme. È venuto il momento di trattare espressamente questo punto significativo. Naturalmente la questione ha senso se e solo se tra disposizione e norma vi è distinzione. Premesso che a mio parere sarebbe preferibile la parola “enunciato” anziché la parola “disposizione”, è ormai entrato nell’uso tra i giuristi ed anche tra i giudici fare distinzione tra disposizione e norma: disposizione è appunto l’enunciato del legislatore così come sta scritto, e cioè un insieme di parole scritte di senso giuridicamente compiuto; norma è la prescrizione che si ricava da uno o più enunciati coordinati e collegati. Diventa in tal modo possibile che ad una disposizione (enunciato) corrispondano due o più norme, e che vi siano norme senza corrispondente disposizione (enunciato). La cosa viene plasticamente verificata con le sentenze cd. interpretative della Corte costituzionale, sia di rigetto sia di accoglimento, quando la Corte dichiara incostituzionale non la disposizione ma una ipotizzata norma ricavata dalla disposizione (che resta in vigore così come sta scritta) o viceversa dichiara non fondata la questione rispetto ad una specifica disposizione perché la norma ricavabile dalla disposizione non è contraria a Costituzione, contro l’ipotesi del giudice a quo che dando una diversa interpretazione (e cioè costruendo una diversa norma sulla base della medesima disposizione) aveva ritenuto la norma così costruita incostituzionale (e quindi incostituzionale anche la disposizione che a suo dire imponeva quella norma).
Dire che l’abrogazione riguarda la disposizione oppure dire che riguarda la norma comporta una diversa ricostruzione del fenomeno. Nel primo caso la abrogazione, sia espressa che tacita, sia di una intera legge che di parti interne ad una legge, cancella idealmente dal sistema proprio e solo le parole che vengono abrogate. Nel secondo caso con la parola abrogazione si intende la cancellazione dal sistema di qualunque norma precedentemente assunta dagli operatori giuridici come vigente, anche quando ricavata per ragionamento da una o più disposizioni, o da uno più principi anche non scritti, a causa della introduzione nel sistema di una nuova norma incompatibile con una precedente.
Le ragioni per sostenere la prima ricostruzione e rigettare la seconda sono le seguenti: 1) anzitutto la seconda tesi non può in alcun modo essere sostenuta a proposito della abrogazione espressa perché la abrogazione espressa si caratterizza proprio per il fatto che il legislatore indica esattamente la legge (e cioè l’intero testo della legge) o la parte interna al testo di una legge che viene abrogata; 2) la seconda ricostruzione non permette più di stabilire alcun confine nella abrogazione tacita: qualunque nuova legge, potendo in potenza determinare il mutamento di significato di innumerevoli altre disposizioni, potrebbe secondo questa ricostruzione determinare l’abrogazione (necessariamente tacita) di un numero incontrollabile di precedenti norme, tante quante sono quelle non più ricavabili dal sistema in forza della innovazione introdotta dal legislatore; qualunque mutamento di interpretazione di un testo da parte dei giudici determina abrogazione tacita nei confronti della precedente interpretazione dello stesso testo (salvo dover ammettere che è sempre possibile una interpretazione che riprenda una vecchia interpretazione per un certo tempo abbandonata, con il che scompare l’essenziale della abrogazione, e cioè l’idea del togliere qualcosa dal sistema che può essere reintrodotto soltanto mediante un nuovo atto di volontà del legislatore); la deroga tacita è indistinguibile dalla abrogazione tacita, perché è comunque modificazione di una precedente norma; 3) con la abrogazione tacita intesa come abrogazione di norme non c’è alcuna cancellazione sia pure ideale entro il sistema: al più le disposizioni restano inerti perchè da esse non viene più ricavata alcuna norma, ma niente esclude che mutando le norme nel tempo (le norme, si faccia attenzione, non soltanto le disposizioni) quelle disposizioni rimaste a lungo inerti ritornino a vivere.
In conclusione, se si vuole conservare il tradizionale impianto conoscitivo e linguistico in materia, e non imbarcarsi su strade malagevoli e alla fine impraticabili, è necessario ribadire che si abrogano sempre disposizioni e non norme. Conviene anche ribadire, per evitare incomprensioni ed equivoci, che le disposizioni non sono insiemi di parole senza senso, ma proposizioni giuridicamente significative, il che è quanto dire che esprimono comunque una o più norme, che fanno corpo con le parole che le manifestano. La distinzione tra disposizione e norma non è una distinzione tra una materia bruta senza significato ed una ideale che ha significato, ma tra enunciati che riescono a parlare di norme senza bisogno di essere riformulati, e formulazioni linguistiche non scritte dal legislatore, ma comunque ricavate da disposizioni scritte dal legislatore, attraverso i tradizionali e sperimentati meccanismi inventati nei secoli dalle pratiche giuridiche.
Non chiamiamo abrogazione un qualunque mutamento nel sistema giuridico, quando nessuna disposizione viene tolta, nonostante il mutamento.
Col passare degli anni qualunque sistema normativo diventa più o meno inquinato, a causa delle molte leggi o disposizioni tacitamente abrogate che però formalmente sembrano ancora in vigore, delle molte leggi temporanee il cui termine, certus o incertus quando, è scaduto, delle leggi-provvedimento che muoiono di fatto con la fine del provvedimento ma formalmente restano in vigore, di quelle rimaste senza oggetto oppure senza finanziamento, di quelle di fatto non più applicate senza reazione del sistema, e simili. Da qui il desiderio, e secondo molti la necessità di disinquinare periodicamente il sistema.
Il modo più semplice, più sicuro, maggiormente rispettoso della collocazione e del ruolo delle assemblee legislative elette dal popolo, è quello di incaricare gli esperti di operare una attenta ricognizione di tutte quelle leggi e disposizioni che per ragioni varie debbono ritenersi non più vigenti, farne un accurato elenco in appendice ad una legge, ed approvare una legge che abroghi espressamente tali leggi o disposizioni. Alcune regioni e province autonome lo hanno fatto e lo fanno (ma lo ha fatto recentemente anche lo Stato, anche se sono stati commessi errori che lo hanno costretto a dichiarare successivamente mediante decreto-legge poi convertito non abrogati alcuni atti o disposizioni che invece erano stati dichiarati abrogati). La formula mediante la quale lo fanno ha ricevuto critiche ingiustificate derivanti dalla incomprensione del problema a cui far fronte: tali leggi dicono che le leggi e le disposizioni elencate nell’allegato x “sono o restano abrogate”. La ragione di questa formula pare evidente: se uno degli obiettivi di questa operazione di disinquinamento è quello di rendere certe e incontrovertibili abrogazioni tacite trasformandole in abrogazioni espresse, bisogna però evitare che gli operatori giuridici vengano tratti in inganno e ritengano abrogate le leggi e le disposizioni elencate dal momento in cui entra in vigore la legge disinquinante, quando invece erano state già da tempo riconosciute come abrogate in modo tacito. La formula serve appunto a ricordare agli operatori che l’abrogazione può essere già avvenuta e spetta ad essi stabilire se è già avvenuta, quando e con quali conseguenze. La novità consiste nel fatto che dalla legge disinquinante in poi l’abrogazione è divenuta espressa e non ammette più ripensamenti (quindi se vi è stato un errore ed una abrogazione di una legge o disposizione che viceversa viene giudicata necessaria l’unico modo per superare l’abrogazione ormai espressa è quello di approvare una nuova legge che riporta in vigore il contenuto normativo abrogato). La ragione pratica e l’utilità di tutta l’operazione sta nella possibilità di organizzare un archivio (oggi ovviamente informatico) di tutte le leggi sicuramente in vigore, espungendo via via dall’archivio tutte le leggi e disposizioni sicuramente abrogate.
Però la fantasia umana ha escogitato un altro modo per perseguire il risultato prima descritto. Anziché affidare il risultato ad una ricognizione e conseguente dichiarazione espressa da parte di qualcuno investito del compito, affidarlo ad un meccanismo automatico: tutte le leggi anteriori all’anno x sono abrogate (l’automatismo opera una sola volta), oppure tutte le leggi che abbiano più di trenta anni sono abrogate (l’automatismo è permanente). Poiché le disposizioni ora enunciate sono troppo rozze e molto pericolose, il meccanismo introdotto recentemente in Italia (con la legge 28.11.2005, n. 246, parzialmente modificato dalle leggi 4.3.2009, n. 15 e 18.6.2009, n. 69) ha enunciato il principio e stabilito poi le eccezioni: 1) il principio è che tutte le leggi anteriori al 1970 si intendono comunque abrogate a partire da una certa data (per la cronaca il 16.12.2010), fatte salve le eccezioni; 2) la prima eccezione consiste nell’esclusione da questo automatismo di alcuni tipi di atti (ad es. tutti gli atti denominati codici o testi unici e le leggi che disciplinano certe materie che vengono elencate, con il che però, come l’esperienza della Corte costituzionale insegna quando deve distinguere materia da materia, si scaricano sugli operatori tutti i difficili e controversi problemi sulla esatta delimitazione di una materia); 3) la seconda eccezione consiste in un elenco approvato dal Governo con decreto legislativo che, accertata la necessità di leggi anteriori al 1970, le salva dalla abrogazione (quindi è spettato al Governo, entro il termine della delegazione, stabilire se leggi anteriori al 1970 erano ancora utili e necessarie). Il Governo però, complice il Parlamento, ha aggiunto a questa disciplina il meccanismo non automatico descritto all’inizio, e cioè ha abrogato espressamente migliaia di leggi pregresse con il decreto-legge 22.12.2008, n. 200, convertito nella legge 18.2.2009, n. 9, ed altre migliaia col decreto legislativo 13.12.2010, n. 212. È impossibile qui esaminare compiutamente la intera vicenda e le molte complicazioni e i molti dubbi e controversie che ha suscitato. Va comunque ricordata per mostrare in quanti modi è possibile intervenire in tema di abrogazione.
Spesso il momento del togliere, della abrogazione, viene assorbito all’interno di una vicenda pratica e linguistica più ricca che comprende tacitamente il togliere come momento logicamente e praticamente preliminare rispetto all’obiettivo finale. Possiamo chiamare questa vicenda col nome generale e onnicomprensivo di modificazione di una precedente legge. Il caso più semplice ed evidente si ottiene con le cosiddette novelle: il legislatore dice espressamente, e rende chiaro anche con opportuni segni grafici (le virgolette), che un certo articolo che egli designa, o un comma, o un titolo, “è così modificato”: seguono un a capo e tra le virgolette il nuovo testo. In che cosa consiste la modificazione dipende dalla lettura del nuovo testo comparandolo col vecchio che viene modificato (questo spiega perché il fenomeno viene nominato anche le parole “integrazione” e “sostituzione”).
In tutti questi casi sarebbe un errore se la legge, dopo aver novellato un precedente testo, contenesse una disposizione che dicesse che il vecchio testo viene abrogato: l’abrogazione di parte del vecchio testo è già idealmente contenuta nel nuovo testo che prende il posto del precedente.
Il caso descritto è quello ideale, propugnato dai testi di legistica, mediante il quale la sostituzione da parte di un nuovo testo al posto del vecchio viene compiuta in modo testuale ed espresso. Purtroppo talvolta il legislatore opera questa modificazione senza però scrivere in modo ufficiale e certo il nuovo testo: è l’operatore giuridico che mette a confronto il vecchio testo e le modificazioni che il secondo legislatore vuole apportare al vecchio testo, e costruisce un terzo testo che è la risultante del confronto tra i due precedenti (così avviene spesso con le leggi chiamate ufficialmente di interpretazione autentica). Ancora peggio, non si può escludere e nella pratica è presente un caso ancora più incerto, quando il legislatore prescrive qualcosa, e questo qualcosa modifica parzialmente un vecchio testo senza però che il legislatore avverta che sta modificando un precedente testo.
Il fondamento giuridico della abrogazione delle leggi non sta propriamente né nella volontà della legge anteriore, e cioè, come sostenuto da alcuni anche oggi, in una condizione risolutiva tacita contenuta nella legge anteriore né in una volontà della legge successiva considerata superiore. Molto più semplicemente e persuasivamente, al pari di tutte le regole sugli atti normativi, che stabiliscono le condizioni di esistenza e di validità di tali atti, le norme sulla abrogazione sono logicamente superiori agli atti che esse disciplinano, e quindi in principio sono di ordine costituzionale. Ed infatti il fondamento delle norme sulla abrogazione si ricava facilmente dal principio costituzionale secondo cui la funzione legislativa spetta alle Camere nelle materie statali ed ai Consigli regionali nelle materie regionali: nella funzione legislativa viene pacificamente compresa la funzione di abrogare o comunque modificare le leggi preesistenti.
Questo fondamento di ordine costituzionale spiega perché sono inutili e senza portata giuridica quelle clausole ricorrenti nelle leggi ordinarie secondo cui esse non sono modificabili se non in modo espresso. Per dare attuazione a simili clausole bisogna presupporre che in Costituzione sia presente un principio non scritto secondo cui le leggi, se non dicono nulla sul punto, possono essere abrogate o modificate anche tacitamente, ma quelle che esigono la abrogazione o modificazione espressa rendono incostituzionali le leggi successive che contengono disposizioni incompatibili senza nulla dire per quanto riguarda la abrogazione o modificazione delle disposizioni che verrebbero tacitamente abrogate. Il testo costituzionale però non solo non dice nulla sul punto ma neppure contiene un qualche indizio sulla cui base ricavare il principio. Come potrebbe la Corte costituzionale integrare il testo della Costituzione in modo così clamoroso? Solo una revisione costituzionale può raggiungere questo risultato.
La questione sul fondamento della abrogazione si ripropone però in modo diverso a livello costituzionale. Se si accetta la tesi secondo cui la Costituzione può vietare in tutto o in parte la propria modificazione, diventa vero in questo caso che il fondamento della abrogazione a livello costituzionale sta nella legge anteriore. Ma anche qualunque altra tesi in materia, sia che si ricorra a ciò che dice positivamente il testo costituzionale, sia che si argomenti sulla base del silenzio costituzionale, sia che si ricorra alla presunta essenza delle costituzioni, si presenta e non può non presentarsi come conferma che a livello costituzionale è il passato che domina giuridicamente (nota bene) il futuro.
Sul piano logico, quando un atto normativo gerarchicamente superiore entra in vigore dopo un atto normativo inferiore e tra i due vi è incompatibilità, è possibile sia dire che il secondo ha abrogato quello anteriore sia dire che il primo è divenuto illegittimo. Se, come in generale accade, il sistema tratta l’abrogazione in modo diverso dal trattamento che viene riservato alla illegittimità sopravvenuta (ad es. l’abrogazione può e deve essere accertata da qualunque giudice, la illegittimità sopravvenuta deve essere dichiarata da un giudice speciale secondo modalità specifiche), non è affatto indifferente decidere quale ricostruzione del fenomeno bisogna seguire. Se l’ordinamento italiano nulla dice sul punto, la regola sempre seguita è che l’atto gerarchicamente superiore ha il potere di abrogare quello gerarchicamente inferiore, in modo espresso o tacito. Però nell’ordinamento italiano esiste un caso che il diritto positivo esige venga trattato in modo diverso: l’art. 2 del d.lgs. 16.3.1992, n. 266 (norme di attuazione dello Statuto speciale per il Trentino-Alto Adige), prescrive che se viene modificata una legge cornice in caso di legislazione regionale concorrente, le Province di Trento o di Bolzano hanno un anno di tempo per modificare la legge provinciale al fine di renderla compatibile con le nuove disposizioni di principio poste dallo Stato, e se non lo fanno allora si deve ricorrere alla Corte costituzionale che deciderà sul punto. Come si vede dall’esempio è possibile (ma in Italia è comunque un caso eccezionale che deve essere previsto in modo espresso) che il succedersi nel tempo di atti di diversa forza incompatibili tra loro venga trattato non come un caso di abrogazione ma come un caso di illegittimità sopravvenuta.
Si è posta la domanda se l’abrogazione è un fatto permanente oppure almeno in qualche caso può cessare con conseguente reviviscenza delle disposizioni a suo tempo abrogate.
Per comprendere la questione bisogna escludere un caso banale (che solo per l’apparenza non giuridica può essere chiamato “reviviscenza”): il caso di una nuova legge che rinvia ad una legge a suo tempo abrogata e dice di volerla immettere di nuovo nel sistema: questa in termini giuridici non è reviviscenza della vecchia legge ma è entrata in vigore di una nuova legge che ha come contenuto quello della vecchia legge. La cosa è possibile (anche se dal punto di vista della buona redazione delle leggi non è elegante e viene sconsigliata) e sul piano giuridico non pone alcun problema particolare: in ogni caso non ha nulla a che fare con l’abrogazione, che resta esattamente come a suo tempo fu determinata.
Ha senso parlare di reviviscenza in senso proprio se è ammesso un automatismo per cui un fatto (da individuare secondo il sistema) ha come conseguenza automatica la cessazione della abrogazione a suo tempo dichiarata, e col prodursi di tale fatto un nuovo inizio di vigore proprio della legge o disposizione a suo tempo trattata come abrogata. Il caso cioè deve presentare ad un tempo due requisiti: 1) manca una volontà esplicita del legislatore di far rivivere una legge a suo tempo abrogata (se ci fosse tale volontà in realtà rientreremmo nel caso pacifico prima descritto); 2) però è possibile ricavare dalle circostanze la cessazione dell’effetto abrogativo e per conseguenza la ripresa di vigore di una legge a suo tempo abrogata.
In realtà qualcosa del genere è già stata da tempo ipotizzata ed esiste, solo che non si chiama reviviscenza ma sospensione: è il caso di una legge che viene sospesa a tempo determinato o indeterminato o per sua stessa dichiarazione o per dichiarazione di una legge successiva. Si chiama sospensione proprio perché non è abrogazione. Se si vuole parlare di reviviscenza come cosa diversa dalla sospensione bisogna dunque immaginare un caso diverso che sia vera e propria cessazione dell’effetto abrogativo a suo tempo prodotto.
L’esempio che si fa è quello di una legge meramente abrogativa che si limita ad abrogare espressamente una precedente disposizione espressamente abrogativa. Si deve immaginare dunque questa sequenza: nel tempo t0 è in vigore una legge X; nel tempo t1 una disposizione di legge successiva abroga espressamente la legge X; nel tempo t2 una legge si limita ad abrogare la disposizione abrogativa di t1. Che cosa può concludere l’operatore giuridico che legge la legge del tempo t2 e deve applicarla? O la legge viene giudicata senza oggetto e dunque non applicabile e l’enunciato della legge resta inerte, come se non fosse mai stato approvato, oppure l’unica interpretazione possibile è che il legislatore t2 voleva implicitamente, in modo criptico e contorto, rimettere in vigore la legge di t0, e cioè in realtà non far cessare l’abrogazione della legge di t0, che comunque è accaduta ed ha prodotto il suo effetto, ma far entrare di nuovo in vigore il contenuto normativo della legge di t0, cosicché ritorniamo al caso banale: è la legge di t2 che entra in vigore, assumendo come contenuto, in questo modo criptico e sciagurato, il contenuto della legge di t0.
Veniamo ora al referendum abrogativo. Per volontà espressa della Costituzione questo atto può avere solo un contenuto negativo: togliere senza possibilità di mettere qualcosa al posto di ciò che viene tolto. Se la Costituzione avesse scritto che questo atto, se così fosse stato richiesto dai proponenti, ha come conseguenza quella di far rientrare in vigore la legge a suo tempo abrogata da quella sulla quale si vota, oppure se addirittura la Costituzione avesse stabilito che sempre un referendum del genere determina la reviviscenza della legge a suo tempo abrogata da quella su cui verte il referendum, a parte la ovvia conseguenza che non avrebbe senso chiamare abrogativo un tale referendum, comunque si tratterebbe di una prescrizione della Costituzione che attribuisce al corpo elettorale il potere di far tornare in vigore un contenuto normativo a suo tempo abrogato: anche in questo caso l’effetto abrogativo non viene affatto toccato; ciò che entra in vigore è un vecchio contenuto fatto proprio da un voto popolare, cosicché è questa volontà ultima che fonda l’entrata in vigore del vecchio contenuto, e non la vecchia volontà a suo tempo abrogata. Però in Costituzione non esiste uno straccio di prova che il referendum abrogativo possa essere usato per far entrare in vigore il contenuto di una vecchia legge a suo tempo abrogata.
Diverso, e più appropriato, il caso di una sentenza della Corte costituzionale che dichiara la illegittimità proprio di una disposizione che prescrive l’abrogazione (ad es. di una legge meramente abrogativa). In questo caso è evidente che la Corte si è limitata come è suo dovere a decidere sulla incostituzionalità di una disposizione o di un atto normativo, che è nato illegittimo, cosicché dal punto di vista logico diventa possibile dire, ragionando in astratto, che in realtà non cessa l’effetto abrogativo ma tale presunto effetto in realtà non si è mai realizzato. Anche ad ammettere questa ricostruzione, la parola reviviscenza non coglie perfettamente il fenomeno, perché la legge dichiarata abrogata, a causa della illegittimità della disposizione o atto abrogativo non è mai stata abrogata.
Però la parola reviviscenza, per quanto a rigore non del tutto appropriata, in questo caso può giustificarsi facendo notare che una abrogazione, espressa per di più, come atto e come intenzione, è davvero avvenuta, e che per un certo tempo davvero una disposizione o una legge è stata ritenuta abrogata, e che solo un nuovo avvenimento, la sentenza della Corte, consente di nuovo la sua applicazione. Il fatto che, dopo questa specifica sentenza della Corte, si riprenda ad applicarla è proprio una forma di rinascita giuridica, e quindi di reviviscenza. Si tratterebbe comunque di un caso rarissimo, col quale comunque non cessa l’effetto abrogativo perché giuridicamente mai avvenuto. In sintesi, l’effetto abrogativo, se avvenuto e una volta avvenuto in modo legittimo, in principio è permanente.
Però ragionando in astratto non si può escludere la possibilità di una vicenda che merita il nome di reviviscenza, come risultato dell’intero sistema giudicato necessario dai giudici: se un referendum meramente abrogativo determina un vuoto che secondo Costituzione non può esistere (ad es. la assenza di una legge elettorale per eleggere le Camere, come ha sostenuto la Corte costituzionale), allora i giudici, dovendo comunque riempire il vuoto (divieto di non liquet) e non avendo altro testo approvato dal legislatore, potrebbero ricorrere al testo che era in vigore prima della legga abrogata da quella a sua volta abrogata dal referendum abrogativo, fermo restando che il legislatore ha sempre la possibilità di intervenire con una nuova legge e riempire con un suo atto volontario la lacuna che si è creata (la Corte costituzionale però con la sentenza 12.1.2012, n. 13 non ha seguito questa impostazione per quanto riguarda il referendum abrogativo).
Art. 15 disp. prel.
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