Abuso del diritto e interpretazione degli atti
Il consolidarsi di un orientamento della Corte di cassazione circa l’interpretazione dell’art. 20 del t.u. dell’imposta di registro, quale norma che legittima l’individuazione degli effetti oggettivamente raggiunti dal negozio o dal collegamento negoziale, anche indipendentemente dal contenuto degli atti e dalle dichiarazioni rese dalle parti, sembra porre un problema di tipo sistematico (solo apparentemente antinomico) con l’entrata in vigore della nuova disciplina dell’abuso e dell’elusione d’imposta (art. 10 bis dello Statuto dei contribuenti) che ha inteso unificare, nella prospettiva della certezza giuridica, la regolamentazione sia dal punto di vista sostanziale che procedimentale di questo istituto “atipico”, che consente – appunto – di considerare a inopponibili una o più operazioni poste effettivamente in essere dalle parti contraenti ai fini della corretta applicazione dei tributi.
Le ragioni che in questo anno rendono opportuna una nuova riflessione sul tenore dell’art. 20 del d.P.R. 26.4.1986, n. 131 dell’imposta di registro, seppure trattasi di un testo immutato da oltre quaranta anni1, sono da ricondurre a vicende diverse, di matrice sia giurisprudenziale che normativa, cronologicamente concorrenti e non pianamente conciliabili sul piano interpretativo.
Ragioni che, si precisa fin d’ora, – allo stato – non sembrano condurre a un risultato esegetico unanimemente accolto.
Ai sensi dell’art. 20, l’imposta di registro è applicata secondo l’intrinseca natura e gli effetti giuridici degli atti presentati alla registrazione, anche se non vi corrisponda il titolo o la forma apparente. La disposizione, dunque, esplicitando il riferimento agli effetti “giuridici”, ha agevolato fin da subito il consolidarsi di un orientamento della Cassazione volto a ribadire il superamento della teoria della considerazione economica degli atti ai fini dell’applicazione dell’imposta di registro.
Tuttavia, a ridosso dell’anno 2000, la Suprema Corte intraprese un percorso esegetico progressivamente orientato ad attuare una sorta di “supplenza ordinamentale” rispetto ad un’asserita inerzia del legislatore nella definizione (e delimitazione) normativa del presupposto dell’imposta di registro, rimasta inalterata a fronte della sempre maggiore complessità degli scambi commerciali e del libero esplicarsi dell’autonomia negoziale tramite “operazioni economiche” e collegamenti negoziali.
Nell’evoluzione di questo iter giurisprudenziale si è passati dall’affermazione di una natura antielusiva dell’art. 202 (finalizzata essenzialmente alla valutazione unitaria di elementi estrinseci all’atto e di atti ad esso collegati), alla negazione di tale natura allo scopo di non applicare in questo contesto la disciplina procedimentale del contraddittorio necessario3. A ben vedere, tale ultima posizione apparve fin da subito meramente strumentale, radicando invece – nella sostanza – ancora di più la Corte nella determinazione per cui l’applicazione dell’art. 20 imponeva il ricorso a canoni ermeneutici volti all’individuazione della reale operazione economica perseguita dalle parti conformando indirettamente lo stesso presupposto del tributo e le fattispecie definite in tariffa4.
Questa interpretazione giurisprudenziale finalizzata ad assoggettare a imposizione il contenuto intrinseco dell’atto o degli atti di cui si assume sussistere una relazione in forza di un vincolo funzionale di preordinazione trova il suo culmine proprio in questi ultimi due anni, quando la Corte, andando oltre le argomentazioni riconducibili agli elementi estrinseci dell’atto, al collegamento negoziale e alla causa concreta, sembra utilizzare l’art. 20 per operare una “sostituzione di fattispecie” secondo uno schema interpretativo in tutto corrispondente a quello che legittima l’accertamento antielusivo5.
Secondo la maggior parte della dottrina, che pur lamenta alcuni anacronismi della disciplina del tributo di registro6, tali passaggi motivazionali, paiono non tenere conto dei principi di legalità e di riserva di legge riconducibili all’art. 23 Cost., contraddicendo la ratio del vigente sistema disciplinare dell’imposta di registro, sia quanto ai profili sostanziali che procedimentali, ancora connessi alla formalità della registrazione del singolo atto e alla rilevanza solo della connessione necessaria7.
Occorre precisare che la dottrina stessa nega da sempre la natura antielusiva dell’art. 20, ma in una prospettiva diversa da quella che emerge dalla giurisprudenza: una prospettiva volta a ricondurre detta norma a mera regola dell’interpretazione degli atti (eventualmente dando rilievo al dato giuridico che emerge effettivamente dal collegamento di una pluralità di atti), senza che sia possibile per l’amministrazione finanziaria disconoscere gli effetti giuridici conseguenziali agli schemi negoziali adottati dai contribuenti. L’inopponibilità degli effetti degli atti è infatti conseguenza di un potere “atipico” di accertamento quale appunto quello disciplinato con l’istituto dell’abuso e dell’elusione d’imposta8, privo di una disciplina positiva – relativamente all’imposta di registro – fino all’entrata in vigore dell’art. 1 del d.lgs. 5.8.2015, n. 128 sulla certezza del diritto che ha introdotto nello Statuto dei diritti del contribuente l’art. 10 bis.
Negli stessi anni si è assistito al compimento di un altro storico percorso, pressoché coevo al precedente, relativo alla positivizzazione della disciplina dell’abuso del diritto in materia tributaria e la sua espressa coincidenza regolamentare con l’elusione d’imposta.
In attuazione della l. delega 11.3.2014, n. 23 è stato emanato il d.lgs. n. 128/2015 che ha introdotto nello Statuto dei diritti del contribuente (l. 27.7.2000, n. 212) un nuovo art. 10 bis9 che disciplina in modo generalizzato (senza specificazione dei tributi), mediante una clausola generale (senza specificazione di fattispecie), l’abuso del diritto e l’elusione d’imposta sia in termini sostanziali che procedimentali.
Tale disciplina trae certo origine dalle precedenti formule normative (quale ad es. l’art. 37 bis del d.P.R. n. 600/1973) e arresti giurisprudenziali (interni e comunitari10), ma si caratterizza rispetto ad essi per alcune scelte “selettive” tra i possibili significati da essi ritraibili, in particolare esplicitando la residualità della nozione di abuso/elusione e l’affermazione di garanzie del contribuente sia sul piano sostanziale (affidamento e certezza degli effetti giuridici rispetto alle scelte operative legittimamente effettuate), sia sul piano procedimentale (pena la nullità degli atti amministrativi emanati in maniera difforme).
Più complesso, invece, proprio per le caratteristiche ontologiche del fenomeno che si intende disciplinare, sintetizzare in un testo la relativa nozione. La disposizione pertanto si limita a prevedere che ai fini dell’applicazione della disciplina dell’abuso si considerano operazioni prive di sostanza economica i fatti, gli atti e i contratti, anche tra loro collegati, inidonei a produrre effetti significativi diversi dai vantaggi fiscali. In particolare, sono indici di mancanza di sostanza economica la non coerenza della qualificazione delle singole operazioni con il fondamento giuridico del loro insieme e la non conformità dell’utilizzo degli strumenti giuridici a normali logiche di mercato. Inoltre, si precisa che i vantaggi fiscali sono da considerarsi indebiti quando da essi consistono in benefici, anche non immediati, realizzati in contrasto con le finalità delle norme fiscali o con i principi dell’ordinamento tributario.
Ai fini che qui interessano sembrerebbe potersi concludere che, alla luce della nuova disciplina antiabuso, qualsiasi atto di accertamento dell’amministrazione finanziaria emesso sul presupposto del disconoscimento di effetti giuridici di atti o operazioni economiche (seppur evidenziati attraverso il loro collegamento o frazionamento11) potrà considerarsi valido solo se conforme alla disciplina dell’art.10 bis, anche avuto riguardo al tributo di registro.
Il consolidamento della menzionata giurisprudenza di legittimità circa l’interpretazione dell’art. 20 proprio in contemporanea con la discussione legislativa e susseguente entrata in vigore della nuova disciplina dell’abuso pone l’interrogativo se vi siano ragioni per ritenere non applicabile la clausola generale antielusiva all’imposta di registro.
Se cioè l’art. 20 costituisca una norma “speciale” in forza della quale sia possibile pervenire in modo autonomo (e senza le accennate garanzie di tipo sostanziale e procedimentale) allo stesso risultato interpretativo che, a seguito della riforma, verrebbe ordinariamente attuato con la disciplina antielusiva dell’art.10 bis.
Una tale conclusione condurrebbe al dato paradossale per cui l’imposta di registro (e di conseguenza le relative imposte ipotecaria e catastale ove dovute) sarebbe l’unico tributo dell’intero sistema tributario al quale la riforma dell’abuso del diritto non troverebbe applicazione.
Va precisato tuttavia fin d’ora che in ragione dei principi di diritto intertemporale che regolano la successione delle norme e della disposizione transitoria dell’art. 1, co. 5, d.lgs. n. 128/2015, introduttivo del 10 bis, la nuova disciplina ha efficacia dal 1.10.2015 e si applica anche alle operazioni poste in essere in data anteriore, se alla stessa non sia già stato notificato un relativo atto impositivo12.
Pertanto a rigore si deve riscontrare che, correttamente, la Cassazione nelle citate pronunce emesse dopo l’entrata in vigore dell’art. 10 bis ha ritenuto di non dover decidere in base ad esso le questioni pendenti. Tuttavia, per completezza occorre segnalare che, così come in alcune pronunce i Supremi giudici argomentano l’immanenza delle nuove regole in quanto comunque di derivazione dal precetto costituzionale dell’art. 53 cost. e da principi giurisprudenziali già precedentemente consolidati, ritendo così di poterne fare immediata applicazione nelle loro decisioni13, allo stesso modo nelle segnalate pronunce relative al tributo di registro la Cassazione precisa, già ora, le ragioni per confutare l’assorbimento di qualsiasi potere di “riqualificazione” dell’amministrazione finanziaria unicamente nell’art. 10 bis, insistendo nell’interpretazione sopra ricordata che trae forza dal solo art. 2014.
La valenza generale e unificante per tutti i tributi della riforma della disciplina dell’abuso/elusione, dettata innanzitutto dall’obiettivo manifesto della certezza del diritto, indirettamente confermata dalla scelta sistematica di inserire la disciplina nell’ambito dello Statuto, sembrerebbe ragionevolmente condurre all’applicazione della medesima disciplina anche all’imposta di registro (sia avuto riguardo agli atti d’impresa, che gli atti posti in essere al di fuori da tale contesto).
In effetti, il riferimento ai “tributi” nell’accezione più ampia e generalizzata, non esplicitato nella
l. delega, è stato ritenuto funzionale alla corretta attuazione della delega stessa per la «revisione delle vigenti disposizioni antielusive al fine di unificarle al principio generale del divieto dell’abuso del diritto».
Ed infatti proprio dalla delega discendeva che all’esito della revisione di “tutte” le disposizioni antielusive in vigore dovesse scaturire un’unica disciplina volta a regolare al contempo le fattispecie che, nel previgente sistema, erano ascrivibili al principio generale di divieto dell’abuso del diritto (di matrice giurisprudenziale) e le fattispecie, che nel previgente sistema, erano ascrivibili alle disposizioni antielusive di carattere generale.
All’esito di questa disamina dell’ordinamento vigente, al fine di evitare incertezze interpretative, è stata espressamente disposta l’abrogazione dell’art. 37 bis, senza intervenire su altre disposizioni vigenti che in passato hanno comunque fondato (a torto o a ragione) argomentazioni a sostegno dell’inopponibilità al fisco delle scelte dell’autonomia privata dei contribuenti. Una scelta operativa, a nostro avviso, solo apparentemente contraddittoria poiché proprio in ragione della delega si deve ritenere che la nuova disciplina dell’art.10 bis assorba in sé qualsivoglia contestazione in termini di divieto di abuso del diritto e di elusione fiscale rispetto a tutti tributi del nostro ordinamento fiscale e che, dunque, la sopravvivenza nel sistema vigente di eventuali disposizioni che, come l’art. 20, hanno in precedenza condotto a pronunce in termini latamente antielusivi deve essere interpretata nel senso di ricondurre tali norme al loro corretto ambito di applicazione diverso dall’abuso e dall’elusione.
Premessa allora l’incertezza sull’interpretazione dell’art. 20, sembra a nostro avviso ragionevole concludere che esso certamente non è stato abrogato, né modificato e resta dunque in vigore nei medesimi termini dispositivi previgenti la riforma, ma per effetto dell’attuazione della citata delega mediante il decreto attuativo, dovrebbe concludersi che dal 1.10.2015, tra le possibili norme desumibili dal predetto articolo, debba essere espunta quella, eventualmente, riferibile a contestazioni in termini di elusione e di abuso o comunque di “effetto economico finale” (o qualsivoglia procedimento interpretativo che consenta all’amministrazione finanziaria di attuare una “sostituzione” di fattispecie), dovendo oggi queste stesse fattispecie considerarsi uniformemente disciplinate dall’art. 10 bis, sia per i profili sostanziali che procedimentali.
Da quanto sopra discenderebbe, dunque, come conseguenza immediata e diretta (dell’attuazione della l. delega, così come operata dal d.lgs. attuativo), la riconduzione del citato art. 20 nel suo alveo originario, scevro di qualsiasi natura antielusiva e circoscritto all’interpretazione degli effetti giuridici degli atti cui non dovranno essere ricondotte indagini circa effetti ulteriori.
La Cassazione, invece, argomenta, da ultimo15, la propria posizione affermando che l’art. 20 non è disposizione che dal legislatore sia stata predisposta al recupero di imposte eluse, questo perché l’istituto dell’abuso del diritto, attualmente disciplinato appunto dall’art.10 bis, presuppone una mancanza di causa economica che non è invece prevista per l’applicazione del menzionato art. 20. Tale ultima norma imporrebbe invece, ai fini della determinazione dell’imposta di registro, di qualificare l’atto o il collegamento negoziale in ragione del loro “intrinseco” ovverosia degli effetti oggettivamente raggiunti dal negozio o dal collegamento negoziale.
Secondo questa ricostruzione, dunque, un conferimento di beni in una società e la cessione di quote della stessa se collegati potrebbero essere senz’altro idonei a realizzare oggettivamente gli effetti della vendita e cioè il trasferimento di cose dietro corrispettivo del pagamento del prezzo. Tuttavia sembra chiaro che in questa prospettiva gli effetti cui si intende fare riferimento non sono quelli giuridici (come impone il tenore dell’art. 20), bensì quelli “economici”, non potendosi negare che, nell’esempio prospettato, le posizione giuridiche dei soggetti coinvolti rispetto ai relativi beni siano certamente differenti.
A corredo di questa argomentazione la Corte conclude che «la fattispecie regolata dall’art. 20 nemmeno ha a che fare con l’istituto della simulazione, atteso che la riqualificazione in parola avviene anche se le parti hanno realmente voluto quel negozio o quel collegamento negoziale e questo appunto perché ciò che conta sono gli effetti oggettivamente prodottisi (…) ciò che importa non è cosa le parti hanno scritto mediante i contratti concluso, ma cosa esse hanno effettivamente realizzato col complessivo regolamento negoziale adottato, anche indipendentemente dal contenuto delle dichiarazioni rese»16.
Si tratta a ben vedere di argomentazioni che ordinariamente vengono utilizzate a sostegno di motivazioni antielusive al fine di considerare inopponibili una o più operazioni prive di sostanza economica e rispetto alle quali la Cassazione assume che, invece, l’art. 20, così come formulato, mantenga una propria specifica funzione non coincidente con quella dell’art. 10 bis.
Si segnala, per completezza, che parte della dottrina17, proprio argomentando dalla “mancanza di sostanza economica” dell’operazione, quale caratteristica oggi determinante perché si possa riscontrare l’indebito vantaggio fiscale, ritiene che la nuova disciplina sia applicabile all’imposta di registro solo in circostanze eccezionali (essenzialmente nel caso di condotte circolari), mancando in tutte le altre ipotesi un principio – nella sistematica di questo tributo – al quale raffrontare il regime fiscale conseguito, fino ad un nuovo intervento legislativo che attribuisca rilevanza nella disciplina sostanziale e procedimentale dell’imposta di registro al collegamento e all’operazione economica nel suo complesso.
Il dubbio circa la corretta interpretazione dell’art. 20 implica delle conseguenze anche in ordine alla disciplina dell’attuazione.
In effetti, ogni contestazione motivata ex art. 20 sembra legittimamente poter essere richiesta anche tramite la cd. imposta principale postuma18, ancorché le argomentazioni evidenziate dalla Cassazione a fondamento della richiamata interpretazione “funzionale” sembrano piuttosto incompatibili con l’esercizio di poteri essenzialmente di “controllo di liquidazione” del tributo, apparendo più rispondente quella tipicamente di accertamento che conduce ad un recupero di imposta complementare.
Per le medesime ragioni dovrebbe essere sempre un’imposta complementare, di tipo residuale, quella con cui si richieda una maggior imposta sulla base di un accertamento motivato ex art.10 bis, non potendo essere considerata né imposta principale, né imposta suppletiva, stanti le definizioni previste dall’art. 42 del t.u. che sembrano necessariamente implicare una violazione di norma di legge o del contribuente o dell’amministrazione finanziaria.
Ed infatti, dal punto di vista sostanziale, il tipo di verifica dei presupposti dell’abuso del diritto rende di per sé necessaria un’attività che esula dal contesto dell’atto oggetto di registrazione; dal punto di vista procedimentale, la procedura necessaria, a pena di nullità dell’atto successivamente emanato, della «richiesta di chiarimenti» appare inconciliabile con le dinamiche e le finalità di adempimento unico e la successiva fase di controllo formale (in particolare, per la coincidenza del termine necessario di sessanta giorni per ottemperare al contraddittorio con il termine entro il quale è prevista a pena di decadenza l’azione di controllo in sede di adempimento unico che renderebbe sempre «mobile» il conseguente termine relativo al recupero dell’imposta e delle eventuali sanzioni).
Pertanto sia ragioni sostanziali che procedimentali portano a concludere che eventuali contestazioni degli uffici fiscali fondate sull’abuso del diritto o dell’elusione fiscale dovranno essere formulate ai sensi dell’art. 10 bis direttamente alle parti contraenti sub specie di imposta complementare.
Parte della dottrina19 ha, inoltre, ritenuto gravemente lesivo della certezza del diritto e delle garanzie del contribuente la mancanza di un termine specifico per l’esercizio del potere di accertamento in termini di abuso, ritenendo non sistematico un generico rinvio alla disciplina dei singoli tributi proprio in considerazione della atipicità del contenuto di tali atti amministrativi. Questa problematica si manifesta, ad avviso di chi scrive, in modo più marcato ed evidente proprio in relazione a quelle imposte sui trasferimenti connesse dunque a singoli contesti documentali e tradizionalmente articolate in ragione degli effetti degli “atti” e non già delle “operazioni”, così da prestarsi difficilmente ad adattamenti interpretativi di una disciplina dell’accertamento individuata in forza di un generico rinvio e ancor più difficilmente ad adattamenti di un sistema sanzionatorio tipizzato su singole violazione di legge.
Potrebbe allora essere utile ricordare che già la stessa amministrazione finanziaria nella nota citata prot. n. 2007/84127, con riferimento al sistema previgente alla disciplina dell’art. 10 bis, aveva concluso nel senso che «ai fini della notifica dell’avviso di liquidazione, in linea con gli indirizzi finora adottati in tema di imposta complementare residuale (diversa da quella da accertamento di maggior valore) appare applicabile, in conformità al disposto dell’art. 76 t.u. dell’imposta di registro il termine decadenziale di tre anni decorrenti dalla data di registrazione dell’ultimo atto». Occorrerà allora verificare che tale indirizzo sia confermato dall’Agenzia delle entrate anche nella nuova prospettiva, anche per ciò che concerne il conseguente aspetto sanzionatorio, che nell’ambito dell’imposta di registro si traduce in questo caso nella sanzionabilità solo del mancato pagamento nei termini dalla notifica dell’avviso di liquidazione20. Del resto la stessa disciplina di cui al co. 13 dell’art. 10 bis si limita a confermare l’applicazione di sanzione amministrative tributarie, senza introdurne di nuove o di specifiche in relazione all’operazione abusiva.
Note
1 L’art. 20 t.u. riproduce l’art. 19 del d.P.R. 26.10.1973, n. 634; si tratta di una formulazione coincidente a quella del previgente art. 8 del r.d. 30.12.1923, n. 3269 (e ancora prima dell’art. 7 l. 21.4.1862, n. 585) eccezion fatta per l’introduzione del termine “giuridici” a specificazione della rilevanza degli effetti dell’atto. Proprio questa esplicitazione era stata unanimemente interpretata – dalla dottrina e dalla giurisprudenza – quale radicale superamento, in via positiva, dell’acceso dibattito dottrinale, originato da Griziotti e dalla Scuola di Pavia, circa la considerazione economica dei fatti (cd. interpretazione funzionale) ai fini dell’individuazione del presupposto dell’imposta di registro (Griziotti, B., Lo studio funzionale dei fatti finanziari, in Riv. sc. fin. dir. fin., 1940, 306).
2 Cfr. Cass., 23.11.2001, n.14900 (si tratta di un atto di conferimento di immobile gravato da mutuo ipotecario accollato dalla società conferitaria e di un successivo atto di cessione delle quote dei conferenti alla società stessa, dei quali si assume il collegamento al fine di rinvenirvi un unico negozio traslativo relativo al bene), il cui principio viene successivamente riprodotto in molteplici pronunce; la medesima funzione viene ribadita dalla stessa Agenzia delle entrate nelle istruzioni agli uffici diramate dalla Direzione centrale accertamento con nt. 18.5.2007 n. 84127.
3 Cfr. Cass., 19.6.2013, n. 15319. Il contraddittorio trovava, infatti, applicazione necessaria solo per le contestazioni di elusione nell’ambito delle imposte sui redditi ex art. 37 bis del d.P.R. 29.9.1973, n. 600 e dei tributi armonizzati sulla base dei principi comunitari elaborati dalla giurisprudenza C. giust. UE.
4 Da ultimo Cass., 11.12.2015, n. 25005 e Cass., 11.5.2016, n. 9582.
5 Gallo, F., La nuova frontiera dell’abuso in materia fiscale, in Rass. trib., 2015, 1317 alla nt. 7 afferma «coerenza vorrebbe che la cassazione volendo mantenere questa sua giurisprudenza desse una giustificazione dell’art. 20 in termini antielusivi (e cioè con riferimento al principio non scritto antiabuso), anziché creare una sorta di tertium genus tra interpretazione strettamente civilistica e norma fiscale antielusiva».
6 Sempre più di frequente la dottrina denuncia un’inadeguatezza dell’attuale disciplina dell’imposta di registro rispetto alla complessità e all’evoluzione della giurisprudenza sul concetto di operazione economica; al riguardo si segnalano Fransoni, G., Sub art. 1 D.p.r. n.131/1986, in Codice delle leggi tributarie, Fedele, A.Mariconda, G.Mastroiacovo, V., a cura di, Torino, 2014, 6; Carinci, A., La rilevanza fiscale del contratto tra modelli impositivi, timori antielusivi e fraintendimenti interpretativi, in Rass. trib., 2014, 961.
7 In questa prospettiva critica si pone l’approfondita analisi della giurisprudenza in argomento condotta da Tabet, G., L’applicazione dell’art. 20 t.u. registro come norma di interpretazione e/o antielusiva, in Rass. trib., 2016, n. 4; nello stesso senso si segnalano Beghin, M., L’imposta di registro e l’interpretazione degli atti incentrata sulla sostanza economica nell’abracadabra dell’abuso del diritto, in GT, 2010, 158; Corasaniti, G., L’art. 20 del t.u. dell’imposta di registro e gli strumenti di contrasto all’elusione: brevi spunti ricostruttivi a margine di due contrastanti pronunce della giurisprudenza di merito, in Dir. prat. trib., 2010, II, 565; Girelli, G., Abuso del diritto e imposta di registro, Torino, 2012; Mastroiacovo, V., La nuova disciplina dell’abuso e dell’elusione fiscale nella prospettiva dell’imposta di registro, in Riv. not., 2016, 31; Canè, D., Brevi note sullo stato della giurisprudenza intorno all’art. 20 del T.U. Registro, in Rass. trib., 2016, 649.
8 Cfr. La Rosa, S., L’accertamento tributario antielusivo: profili procedimentali e processuali, in Riv. dir. trib., 2014, I, 499; sia consentito il rinvio a Mastroiacovo, V., L’abuso del diritto o l’elusione nell’imposta di registro e negli altri tributi indiretti, in Abuso del diritto ed elusione fiscale, Della Valle, E.Ficari, V.Marini, G., a cura di, Torino, 2016, 238.
9 In dottrina si rinvia, ex multiis, a Gallo, F., La nuova frontiera dell’abuso in materia fiscale, in Rass. trib., 2015, 1315; Ficari, V., Vizi e virtù della nuova disciplina dell’abuso e dell’elusione tributaria ex art. 10 bis della legge n. 212/2000, in Riv. trim. dir. trib., 2016, 313; Fransoni, V.G., Abuso ed elusione del diritto, in Libro dell’anno del Diritto 2015, Roma, 2015, 407.
10 I riferimenti sono innanzitutto a C. giust. UE, 21.2.2006, C255/02, Halifax e alle sentenze Cass., S.U., 23.12.2008, nn. 30056 e 30057, le quali hanno riconosciuto la sussistenza di un generale principio antielusivo la cui fonte «in tema di principi non armonizzati (…) va rinvenuta non nella giurisprudenza comunitaria quanto piuttosto negli stessi principi costituzionali che informano l’ordinamento tributario italiano».
11 Si rinvia a Azzaro, A.M., Il contratto frazionato e l’unità dell’operazione economica, in Giust. civ., 2008, 738, per cui occorre verificare, di volta in volta, se il frazionamento – così come il collegamento – abbia una funzione elusiva del profilo qualitativo o del profilo quantitativo stabilito dalla disciplina di tutela, ponendo quindi in risalto per contrasto il valore qualificante dell’operazione economica. Un valido esempio di tale prospettiva, in materia fiscale, sembra essere quello della cessione frazionata nel tempo dei beni aziendali che spesso l’amministrazione finanziaria e la Cassazione ha ritenuto legittimo “riqualificare” in cessione di azienda. Si segnala da ultimo, in senso positivo, Cass., 11.5.2016, n. 9575.
12 Sia consentito il rinvio a Mastroiacovo, V., L’efficacia nel tempo della disciplina dell’abuso del diritto e dell’elusione d’imposta: tra regole di diritto intertemporale e specifici regimi transitori, in Abuso del diritto ed elusione fiscale, cit., 201.
13 Cass., 26.8.2015, n. 17175; Cass., 16.3.2016, n. 5155.
14 Cass., 11.5.2016, n. 9582.
15 Particolarmente significativa in questo senso la già citata Cass. n. 9582/2016.
16 Così Cass. da ultimo citata; si veda inoltre nello stesso senso Cass. n. 25005/2015 e Cass., 29.4.2016, n. 8542.
17 Canè, D., Brevi note sullo stato della giurisprudenza, cit., 649.
18 Art. 3 ter del d.lgs. n. 463/1997. Nel fornire istruzioni agli Uffici fiscali circa i «margini» di tale potere di controllo, l’Agenzia del territorio con la circolare n. 3/T del 2002 aveva precisato che «qualora dal controllo eseguito, sulla base degli elementi desumibili dall’atto, risultino dovute maggiori imposte, gli uffici provvedono a recuperarle». Se dunque dalla formulazione della disposizione e dal documento di prassi si desume che detto potere di controllo deve avere delle caratteristiche pressoché corrispondenti a quello delle contestazioni ex art. 36 bis del d.P.R. n. 600/1973 in materia di accertamento delle imposte sui redditi, nella realtà talvolta si è assistito alla notificazione a notai di atti di recupero di maggiori imposte «principali» anche motivati sulla base dell’«abuso del diritto» o, genericamente, dell’elusione di imposta. Già prima della modifica normativa qui in commento si era sostenuta l’illegittimità di tale comportamento, ritenendo che tali recuperi dovessero essere effettuati a titolo di imposta complementare in capo ai contribuenti. Tale impostazione appariva del resto in conformità con quanto definito nella nt. 18.5.2007 n. 84127 della Direzione centrale accertamento dell’Agenzia delle entrate, ove si qualificava come imposta complementare quella richiesta all’esito dell’esercizio dell’attività interpretativa finalizzata ad accertare il reale effetto giuridico collegato agli atti sottoposti a registrazione.
19 La Rosa, S., L’accertamento tributario antielusivo, cit. 499; Tabet, G., L’applicazione dell’art. 20, cit.
20 Art. 13 d.lgs. 18.12.1997, n. 471 nella misura del 30 per cento del tributo non pagato.