Abuso del diritto
Il dibattito relativo all’operatività nel nostro ordinamento del divieto di a. del d. si è sviluppato mostrando andamenti fortemente ciclici: a periodi, anche lunghi, nei quali l’interesse, non solo scientifico, è parso scemare, sono seguiti altri caratterizzati dalla vigorosa tendenza a riaffermarne l’esistenza (Cataudella 2014).
Quella attuale è una fase di ritorno di interesse. Da alcuni anni a questa parte, infatti, si sono registrati importanti interventi della Cassazione che, unitamente al fiorire di una serie di studi dedicati al tema, sembrano aver creato i presupposti per una stagione nuova che, in alcuni particolari ambiti disciplinari, sta addirittura portando alla positivizzazione del divieto di abuso del diritto.
È il caso, quest’ultimo, del diritto tributario: e invero, in questo settore dell’ordinamento, dopo il disorientamento seguito all’avvento sulla scena di un principio di stretta derivazione giurisprudenziale (tale è, come si vedrà più avanti, il divieto di a. del d. tributario), è stata da poco varata una delega per la riforma del sistema tributario che, tra l’altro, prevede la revisione delle vigenti disposizioni antielusive «al fine di unificarle al principio generale del divieto dell’abuso del diritto» (cfr. art. 5, nella l. 11 marzo 2014 nr. 23).
In linea generale occorre notare come il paradigma dell’abuso corrisponda a uno schema logico-argomentativo così declinabile: un determinato atto/comportamento rientra nei poteri astrattamente conferiti dall’ordinamento a un soggetto; tuttavia, il modo nel quale tale potere è stato concretamente esercitato travalica le considerazioni in forza delle quali si può ritenere che l’ordinamento glielo abbia attribuito; questo travalicamento, allora, deve comportare il venir meno delle tutele e delle immunità dalle quali l’esercizio del potere è ordinariamente assistito per il fatto stesso di essere attribuito dall’ordinamento (in questo senso, tra gli altri, Barcellona 2014).
Trattasi comunque di declinazione nient’affatto pacifica. È ben vero, infatti, che alla fine dello scorso decennio si è registrata un’importante presa di posizione della Corte di cassazione che, nel rilanciare nel campo operativo il paradigma dell’abuso, ha affermato il principio secondo cui «si ha abuso del diritto quando il titolare di un diritto soggettivo, pur in assenza di doveri formali, lo eserciti con modalità non necessarie ed irrispettose del dovere di correttezza e buona fede, causando uno sproporzionato ed ingiustificato sacrificio della controparte contrattuale, ed al fine di conseguire risultati diversi ed ulteriori rispetto a quelli per i quali quei poteri o facoltà furono attribuiti» (così, testualmente, Cassazione civile, 18 sett. 2009 nr. 20106). Ma è anche vero che, proprio muovendo dall’analisi critica di tale posizione, in dottrina sono stati denunciati gli spazi di dissoluzione in cui rischia di dover essere relegata una categoria (quella dell’abuso appunto) che, a tutto concedere, finisce per essere «stritolata nella tenaglia di due contigui spazi logici» e, segnatamente, lo spazio dell’irrilevanza e quello, appunto contiguo, dell’illecito (in questo senso, in partic., Orlandi 2010, p. 159).
A queste posizioni se ne affiancano altre che, pur conservando un atteggiamento negativo in merito alla vigenza nel nostro ordinamento di un generale divieto di a. del d., non escludono l’operatività di singole ipotesi del divieto richiamando, tuttavia, l’attenzione degli interpreti sulla necessità di evocare con cognizione di causa un principio che non può essere sovrapposto ad altri, certamente vigenti nell’ordinamento (il riferimento è al principio di buona fede: diffusamente, sul punto, Cataudella 2014).
Ampio e articolato è dunque il ventaglio delle opzioni ricostruttive e ben lungi dal potersi dire sopito è il dibattito in ordine alla latitudine di un principio che, si perdoni il gioco di parole, è spesso fatto oggetto di impiego abusivo.
Per completezza di analisi occorre ricordare che la figura dell’abuso ha fatto capolino anche in ambito processuale laddove è stato affermato il principio secondo cui sussiste abuso del processo ogniqualvolta un’iniziativa giudiziaria non corrisponde a un concreto interesse della parte, il qua le interesse, eventualmente protetto sul piano sostanziale dall’ordinamento, venga utilizzato dalla stessa al solo fine di arrecare danno o molestia ad altri (cfr. ancora Cassazione civile nr. 20106/2009).
Ciò premesso, per quanto specificamente attiene all’a. del d. tributario, trattasi di fenomeno di grande interesse per almeno tre diverse ragioni. In primo luogo, perché è un tema su cui si registra oramai da qualche anno il notevole contributo creativo della giurisprudenza della Corte di cassazione. In secondo luogo, perché la sua affermazione si combina con la tendenza, non priva di forzature logico-sistematiche, a ricondurre a un’unica categoria concettuale fenomeni diversi tra loro (come, ad es., simulazione ed elusione). In terzo luogo, perché la sempre più frequente contestazione di condotte abusive da parte dell’amministrazione finanziaria introduce nel sistema un elemento di pesante condizionamento delle scelte imprenditoriali (tanto gestionali quanto strategiche), non potendosi evidentemente trascurare il deprecabile stato di incertezza che l’affermarsi del principio in parola ha finito con il conferire all’ordinamento tributario (già di suo instabile).
Ebbene, il fenomeno dell’a. del d. è sovrapponibile, quanto almeno ai profili definitori, all’elusione fiscale: e invero, tanto nell’uno quanto nell’altro caso, il contribuente non occulta il presupposto del tributo e, dunque, non evade; egli si limita, se così si può dire, ad adottare un comportamento che gli permette di conseguire un risparmio d’imposta altrimenti indebito, ossia di subire un prelievo tributario inferiore a quello cui andrebbe incontro in assenza del comportamento medesimo e ciò aggirando la norma tributaria, tradendone lo spirito.
Abuso ed elusione fiscale segnano, in particolare, il limite oltre il quale termina l’area della legittima pianificazione fiscale o del legittimo risparmio d’imposta. Essi convivono, infatti, con il principio per cui il contribuente ha diritto di comportarsi nel modo fiscalmente per lui più conveniente, diritto che, appunto, trova un limite proprio nell’abuso e nell’elusione.
Nel nostro Paese il contrasto ai fenomeni elusivi/abusivi, pur avendo radici antiche, si è manifestato nel corso del tempo in forme diverse e con intensità non sempre costante.
In una prima fase, in assenza di una clausola generale in grado di ostacolare comportamenti volti ad aggirare il carico tributario, si è ritenuto che, eccezion fatta per i casi in cui fosse prevista una specifica norma antielusiva, l’elusione non fosse di per sé fenomeno illecito e, come tale, inidoneo a produrre effetti in termini di inopponibilità al fisco.
A partire dagli anni Novanta si è fatta invece strada la necessità di rispondere adeguatamente alla proliferazione dei comportamenti elusivi/abusivi, oramai avvertiti dal comune sentire come deprecabili quanto l’evasione, e vengono adottate le prime contromisure. Un nuovo corso si è aperto con il 1° co. dell’art. 10, nella l. 29 dic. 1990 nr. 408, che, seppur in modo impreciso e settoriale, consentiva all’amministrazione finanziaria la possibilità di disconoscere, ai fini fiscali, gli effetti di talune operazioni «poste in essere senza valide ragioni economiche ed allo scopo esclusivo di ottenere fraudolentemente un risparmio di imposta».
Negli anni successivi la pratica operativa e la riflessione teorica hanno creato i presupposti per un progressivo affinamento della risposta dell’ordinamento e, con l’introduzione nel d.p.r. 29 sett. 1973 nr. 600 dell’art. 37 bis, si è espressamente prevista l’inopponibilità all’amministrazione finanziaria degli atti, dei fatti e dei negozi, anche collegati tra loro, «privi di valide ragioni economiche, diretti ad aggirare obblighi o divieti previsti dall’ordinamento tributario e ad ottenere riduzioni di imposte o rimborsi, altrimenti indebiti». Ciò peraltro soltanto in relazione ad alcune operazioni ritenute maggiormente pericolose per gli interessi erariali (tra queste le cosiddette operazioni straordinarie) e con riferimento ai soli tributi rientranti nell’orbita applicativa dell’anzidetta disposizione (Zizzo 2006).
Si è definita così compiutamente l’area dell’elusione fiscale disegnandone il perimetro. In particolare, ai sensi del citato art. 37 bis, è elusiva la condotta del contribuente quando volta a ottenere un vantaggio fiscale indebito in assenza di valide ragioni economiche extrafiscali.
Lo scenario cambia per effetto della giurisprudenza della Corte di cassazione che, virando rispetto al proprio pregresso orientamento, esclude che le operazioni elusive possano considerarsi legittime sol perché non riconducibili all’alveo del citato art. 37 bis. Prendendo, in particolare, le mosse dal principio comunitario antiabuso elaborato dalla Corte di giustizia in termini di dovere di lealtà reciproca tra contribuente e fisco (cfr. Corte di giustizia europea, 21 febbr. 2006, C-255/02, Halifax), la Cassazione, con questo nuovo indirizzo, ha generalizzato il principio comunitario in questione applicandolo tanto alle operazioni soggette a tributi armonizzati (si pensi, ad es., all’imposta sul valore aggiunto e alle accise), quanto alle operazioni soggette a tributi non armonizzati (è il caso del comparto delle imposte sui redditi), espressamente ricomprendendo tra le seconde anche le operazioni non riconducibili all’ambito di applicazione del citato art. 37 bis (cfr., tra le tante, Cassazione civile, 29 sett. 2006 nr. 21221).
Il punto debole di tale ragionamento consiste nel ritenere applicabile un principio di derivazione comunitaria, quello dell’a. del d., a comparti impositivi non armonizzati e, quindi, estranei alla sfera d’influenza dell’ordinamento comunitario.
Ed è proprio in considerazione di ciò che la Corte di cassazione, a sezioni unite, ha corretto il tiro, precisando in successivi arresti che la fonte del generale principio antiabuso, per quanto concerne i tributi non armonizzati, non va rinvenuta nella giurisprudenza europea quanto, piuttosto, negli stessi principi costituzionali che informano l’ordinamento tributario italiano e, segnatamente, nei principi di capacità contributiva e di progressività dell’imposizione; si afferma, in particolare, «che non può non ritenersi insito nell’ordinamento, come diretta derivazione delle norme costituzionali, il principio secondo cui il contribuente non può trarre indebiti vantaggi fiscali dall’utilizzo distorto, pur se non contrastante con alcuna specifica disposizione, di strumenti giuridici idonei ad ottenere un risparmio fiscale, in difetto di ragioni economicamente apprezzabili che giustifichino l’operazione, diverse dalla mera aspettativa di quel risparmio fiscale» (così, testualmente, Cassazione civile, sezioni unite, 23 dic. 2008 nr. 30055). Secondo la Corte suprema, dunque, le molte disposizioni antielusive espresse (sia generali sia specifiche), di cui è costellato l’ordinamento tributario, altro non sarebbero che il portato di un principio immanente al nostro sistema tributario.
Il dibattito teorico che ne è conseguito registra alcuni punti fermi. Il primo consiste in ciò, che radicare il fondamento del divieto di a. del d. tributario nel principio di capacità contributiva significa sovradimensionare l’art. 53 Cost., attribuendogli una funzione che allo stesso non compete: la funzione cioè di selezionare, attraverso la lente della capacità contributiva e in assenza di una disposizione di legge specifica, le fattispecie da accertare attraverso il principio del divieto di abuso e quelle che, invece, da tale accertamento devono restare immuni (in questo senso, Beghin 2013).
Il secondo consiste, come detto, nella sostanziale sovrapponibilità del fenomeno dell’elusione con quello dell’abuso. È sufficiente un rapido sguardo ai rispettivi profili definitori per rendersene conto: mentre il principio antiabuso di matrice giurisprudenziale si riferisce agli «indebiti vantaggi fiscali», il 1° co. dell’art. 37 bis fa riferimento a «riduzioni di imposta o rimborsi, altrimenti indebiti»; mentre il primo principio si fonda sull’«utilizzo distorto, pur se non contrastante con alcuna specifica disposizione, di strumenti giuridici», la seconda disposizione prende a riferimento «gli atti, i fatti e i negozi, anche tra loro collegati [...] diretti ad aggirare obblighi o divieti previsti dall’ordinamento tributario»; inoltre, mentre l’a. del d. ha a oggetto operazioni realizzate «in difetto di ragioni economicamente apprezzabili», la clausola antielusione ‘semigenerale’ di cui all’art. 37 bis riguarda gli atti «privi di valide ragioni economiche». E alla medesima conclusione (fattispecie sostanzialmente sovrapponibili) si giunge considerando il profilo degli effetti: e invero, in ambo i casi, il comportamento tenuto dal contribuente è inopponibile al fisco (Fransoni 2011). Si registra, dunque, un concorso di norme che, sulla scorta del principio di specialità, dovrebbe essere risolto applicando la norma di natura speciale e, quindi, in linea con quanto riconosciuto da attenta dottrina, la disciplina recata dall’art. 37 bis.
Sullo sfondo resta poi un enorme problema di certezza dei rapporti giuridici, certezza messa a repentaglio dalle oggettive difficoltà che si riscontrano nell’individuare la concreta latitudine del comportamento abusivo e dal moltiplicarsi, quasi esponenziale, di contestazioni che, sindacando nel merito le scelte compiute dagli operatori economici, escludono tout court la legittimità del risparmio d’imposta. Problema di certezza dei rapporti giuridici che investe anche il profilo sanzionatorio della condotta elusiva/abusiva. E invero, in mancanza di chiare indicazioni normative, il pendolo del dibattito è finora oscillato tra chi non ravvisa ragioni per differenziare, sul piano del diritto punitivo, le condotte in parola da quelle evasive e chi, all’opposto, ritiene non sanzionabili le condotte elusive/abusive. Per quanto riguarda specificamente la rilevanza penale, prevale nettamente in dottrina la posizione contraria, la quale si basa, tra l’altro, vuoi su una pretesa distinzione tra dolo di evasione e dolo di elusione, vuoi sulla particolare conformazione, sul piano meramente oggettivo, delle condotte incriminate dal d.lgs. 10 marzo 2000 nr. 74 (cfr. ancora Beghin 2013). Parzialmente diverso è l’avviso della giurisprudenza di legittimità che ha di recente preso posizione affermando la rilevanza sanzionatoria (penale) della sola elusione codificata ossia dell’elusione contrastata dal legislatore mercé specifiche disposizioni, appunto, antielusive (cfr. Cassazione penale, 28 febbr. 2012 nr. 7739, e 3 maggio 2013 nr. 19100).
Quali le prospettive di sistemazione della materia? Come si è sopra anticipato, nella primavera del 2014, in occasione del varo dell’ennesima legge delega per la riforma del sistema fiscale, si sono gettate le basi per un intervento legislativo organico volto alla «revisione delle vigenti disposizioni antielusive al fine di unificarle al principio generale del divieto dell’abuso del diritto» (cfr., in partic., il citato art. 5 l. 23/2014 rubricato «Disciplina dell’abuso del diritto ed elusione fiscale»).
Dalla lettura dei principi e dei criteri direttivi dettati al legislatore delegato si ricava un’impressione abbastanza netta: si vogliono ridurre i margini di incertezza che hanno fin qui caratterizzato il quadro di riferimento, riconducendo, nei limiti del possibile, il potere di accertamento della condotta elusiva/abusiva entro ambiti ben delimitati. E una chiara conferma in questo senso viene, ad es., dall’analisi dei riferimenti operati dalla delega alla necessità di «escludere la configurabilità di una condotta abusiva se l’operazione o la serie di operazioni è giustificata da ragioni extrafiscali non marginali» e di stabilire, al contempo, «che costituiscono ragioni extrafiscali anche quelle che non producono necessariamente una redditività immediata dell’operazione, ma rispondono ad esigenze di natura organizzativa e determinano un miglioramento strutturale e funzionale dell’azienda del contribuente» (art. 5, 1° co., lett. a, nr. 2).
Fermo ciò, non sembra comunque che la nuova disciplina dell’abuso del diritto o elusione fiscale, siccome delineata nell’ultima versione dello schema di decreto attuativo della l. 23/2014, apporti significative novità al quadro sopra tracciato.
E invero, l’unificazione, sotto l’ombrello dell’a. del d., di elusione e, appunto, abuso era nei fatti e nella giurisprudenza della Cassazione, e di tale giurisprudenza il legislatore delegato ha evidentemente tenuto conto anche rapportandosi, come prescritto dalla delega, alla raccomandazione della Commissione europea sulla pianificazione fiscale aggressiva nr. 2012/772/UE del dicembre 2012 (relativa alla sola imposizione diretta).
Il cuore dell’abuso doveva essere (e in effetti è nel nuovo art. 10 bis, l. 27 luglio 2000 nr. 212) il vantaggio fiscale indebito e le valide ragioni extrafiscali non marginali rappresentano un passaggio logico successivo e meramente eventuale (per così dire, un’esimente), cui non è necessario ricorrere allorquando il vantaggio fiscale non è affatto indebito o, secondo una felice espressione, «riprovato dal sistema».
Resta fermo il principio per cui il contribuente è libero di pianificare la propria attività nel modo fiscalmente più conveniente, scegliendo, come si legge nel 4° co. del suddetto art. 10 bis, «tra regimi opzionali diversi offerti dalla legge e tra operazioni comportanti un diverso carico fiscale».
Nell’articolato in fase di gestazione, cade, inoltre, la rilevabilità d’ufficio dell’abuso in ogni stato e grado del processo, profilo di grande rilevanza operativa che non poche questioni ha posto all’attenzione degli interpreti (per l’affermazione della rilevabilità d’ufficio, v., ad es., Cassazione civile, 11 maggio 2012 nr. 7393).
Da ultimo, viene espressamente disciplinata la distribuzione dell’onere della prova (o argomentativo) anche nei suoi riflessi sulla motivazione dell’atto impositivo (che deve essere specificamente dedicata alle riprese da abuso) e si chiarisce la sorte della rettifica ai fini sanzionatori ossia non vi è rilevanza penale, ma si applicano le ordinarie sanzioni amministrative (in parte qua l’articolato normativo dà attuazione al criterio direttivo fissato dall’art. 8, 1° co., l. 23/2014).
Questo in estrema sintesi il futuro quadro dell’a. del d. se nei prossimi mesi agli annunci seguirà il varo definitivo del decreto delegato così come oggi confezionato.
G. Zizzo, Elusione ed evasione tributaria, in Dizionario di diritto pubblico, diretto da S. Cassese, 3° vol., Milano 2006, ad vocem; G. Falsitta, L’interpretazione antielusiva della norma tributaria come clausola generale immanente al sistema e direttamente ricavabile dai principi costituzionali, in Elusione ed abuso del diritto tributario, a cura di G. Maisto, Milano 2009, pp.3-21; A. Dondi, Abuso del processo (diritto processuale civile), in Enciclopedia del diritto, Annali, 3° vol., t. 1, Milano 2010, ad vocem; M. Orlandi, Contro l’abuso del diritto (in margine a Cass.18 settembre 2009, n. 20106), «Rivista di diritto civile», 2010, parte II, pp. 147-59; G. Fransoni, Abuso di diritto, elusione e simulazione: rapporti e distinzioni, «Corriere tributario», 2011, pp.13-19; M. Miccinesi, Riflessioni sull’abuso del diritto, in Studi in onore di Enrico De Mita, 2° vol., Napoli 2012, pp. 593-606; F. Tesauro, Elusione e abuso nel diritto tributario italiano, «Diritto e pratica tributaria», 2012, parte I, pp. 683-706; M. Beghin, L’elusione fiscale e il principio del divieto di abuso del diritto, Padova 2013; M. Barcellona, L’abuso del diritto: dalla funzione sociale alla regolazione teleologicamente orientata del traffico giuridico, «Rivista di diritto civile», 2014, parte I, pp. 467-99; A.Cataudella, L’uso abusivo dei princìpi, «Rivista di diritto civile», 2014, parte I, pp. 747-63.