Abuso del processo e temerarietà attenuata
L’art. 96 c.p.c. (Responsabilità aggravata), è stato completato da un terzo comma, introdotto dalla l. n. 69/2009, che prevede la possibilità del giudice, in sede di pronuncia sulle spese nella definizione della lite, di condannare il soccombente al pagamento di una somma equitativamente determinata a favore della controparte. Il nuovo terzo comma dell’art. 96, apparentemente emancipato dall’elemento soggettivo del primo comma, concreterebbe un’ipotesi di temerarietà attenuata. La norma è stata al centro di un acceso dibattito, anche giurisprudenziale, contrapponendosi la tesi che mutua dai primi due commi i presupposti di applicabilità (dolo e colpa grave), e la tesi che ne fa una misura marcatamente sanzionatoria. Sembra possibile promuovere la disposizione, anche alla luce della recente introduzione di altri strumenti volti a deflazionare il contenzioso e a contrastare iniziative giudiziarie che, non corrispondenti ad un concreto interesse della parte, rendono difficoltoso il perseguimento dell’obiettivo della ragionevole durata del processo civile
Fin dalla sua entrata in vigore, il terzo comma dell’art. 96 c.p.c., come introdotto dall’art. 45, co. 12, della l. 18.6.2009, n. 69, è stato al centro di un acceso dibattito, e di applicazioni giurisprudenziali contrastanti. I presupposti di applicabilità della norma, che, nella sua non impeccabile formulazione, prevede la condanna, anche d’ufficio, della parte soccombente in causa al pagamento di un somma, e inoltre, la qualificazione della nuova misura, e le modalità di irrogazione della stessa, sono stati analizzati nell’arco dell’anno trascorso da un considerevole numero di contributi dottrinali, oltre che da una serie, sempre più consistente, di pronunce giurisprudenziali di merito. La nuova disposizione («In ogni caso, quando pronuncia sulle spese ai sensi dell’articolo 91, il giudice, anche d’ufficio, può altresì condannare la parte soccombente al pagamento, a favore della controparte, di una somma equitativamente determinata ») viene a completare l’art. 96 c.p.c. la cui rubrica è Responsabilità aggravata, all’interno del capo IV del libro I del codice di rito (Della responsabilità delle parti per le spese e per i danni processuali). I primi due commi, che risalgono alla formulazione codicistica originaria, rappresentano le conseguenze risarcitorie della cd. «lite temeraria», appellativo1 creato dalla giurisprudenza con precipuo riferimento alle due disposizioni, contraddistinte da elemento soggettivo qualificato. Il nuovo terzo comma, apparentemente emancipato dall’elemento soggettivo del primo comma, concreterebbe, per contro, ipotesi di «temerarietà attenuata»2. L’intervento legislativo ha lo scopo – sul che tutti i commentatori sono concordi – di rivitalizzare i primi due commi, scarsamente utilizzati a causa del non agevole soddisfacimento delle relative condizioni applicative, e, più in generale, di far leva sui costi del processo al fine di scoraggiare la controversia davanti al giudice: nell’intento innegabile, cui mirano le misure apportate dalla l. n. 69/2009, di agevolare il funzionamento della macchina giudiziaria civile, spesso inceppato da controversie inutili e defatiganti. La genesi della nuova disposizione è in un’altra norma (di cui generalizza la disciplina), l’art. 385, ult. co., c.p.c., a sua volta aggiunto dall’art. 12 d.lgs. 2.2.2006, n. 40 (e abrogato dall’art. 46, co. 20, della l. n. 69 /2009), che nell’intento di disincentivare i ricorsi per cassazione prevedeva la condanna al pagamento di una somma, equitativamente determinata, entro un limite massimo, nel caso di proposizione del ricorso (o di resistenza in giudizio) con colpa grave. La formulazione del terzo comma dell’art. 96 è generica e imprecisa, e tradisce l’indecisione del legislatore – oltre che la tecnica approssimativa – nell’adozione di misure sanzionatorie più drastiche, mantenendosi nell’ideologia risarcitoria della norma in cui si innesta. Alla riforma del 2009, certo non organica, ma corposa nei suoi interventi, hanno fatto seguito altri interventi (anche più incisivi), tutti comunque proiettati ad attenuare il fenomeno infausto della durata delle cause civili in Italia, su cui si appunta il maggior numero delle sentenze di condanna della Corte europea dei diritti dell’uomo, e che dà luogo a una vera e propria emorragia di denaro pubblico a seguito delle iniziative indennitarie rese possibili dalla l. 24.3. 2001, n. 89 (cd. legge Pinto). Il trend legislativo si sviluppa con interventi di carattere finanziario, dettati dall’esigenza di migliorare la competitività delle imprese – sui cui bilanci rifluisce negativamente la diuturna realizzazione giudiziale dei diritti di credito – o anche di contenere la spesa pubblica – nella specie quella per la riparazione dei danni per l’irragionevole durata – con manovre straordinarie e urgenti.
1.1 L’analisi letterale dell’innovazione legislativa
La scomposizione del dettato normativo viene operata con diretto riferimento ai significati innovativi che esso assume rispetto alla disciplina tradizionale della responsabilità aggravata, di cui ai primi due commi, e, più in generale, nel contesto della disciplina delle spese di causa, che è oggetto del capo IV del libro I del codice, in cui la nuova disposizione s’inserisce. Il terzo comma dell’art. 96 prevede che la condanna al pagamento di una somma venga comminata dal giudice «anche d’ufficio», discostandosi dalle fattispecie dei primi due commi, che costituendo ipotesi di responsabilità risarcitoria, sono correlati alla domanda della parte lesa. La condanna alla misura pecuniaria del terzo comma è adottata dal giudice «quando pronuncia sulle spese ai sensi dell’articolo 91», con innegabile avvicinamento della disposizione alla condanna alle spese di lite, che deve essere comminata dal giudice d’ufficio, quando chiude il processo davanti a sé. La misura è assunta «in ogni caso»: espressione da cui in gran parte dipende la qualificazione dell’intervento legislativo e l’ambito della sua applicabilità, se la casistica evocata sia quella dei primi due commi, dai cui presupposti dipenderebbe la propria incidenza, o se, al contrario, si voglia generalizzare la possibilità della pronuncia ad ogni ipotesi in cui il giudicante, chiudendo il processo, procede alla regolamentazione delle spese di lite, prescindendo, in particolare, dalla sussistenza di un illecito caratterizzato sul piano soggettivo da dolo o colpa grave. Il giudice può «altresì» condannare: anche su tale avverbio possono formularsi opzioni interpretative disparate, nel senso che la condanna, d’ufficio, alla somma di denaro, può aggiungersi alla condanna per responsabilità aggravata su domanda di parte, o nel senso opposto, che si tratti di una facoltà, pure esistente, diversa dalla condanna di cui ai primi due commi dell’art. 96, che si aggiunge alla condanna per le spese. Il pagamento va disposto «a favore della controparte»: la nuova disposizione persegue indubbiamente la tutela di un interesse di rilevanza pubblicistica, quello di deflazionare il contenzioso, e tuttavia la somma è corrisposta a favore della parte vittoriosa in giudizio, alla stessa stregua della condanna per lite temeraria prevista nella prima parte dell’art. 96. L’entità della somma non è stabilita dal legislatore, che fa generico riferimento al «pagamento ... di una somma equitativamente determinata ».
1.2 Il supporto dei lavori parlamentari
Il progetto di una norma «sanzionatoria» per le liti infondatamente proposte fa la sua comparsa in un primo d.d.l. cd. Mastella (presentato il 5 aprile 2007, AC 2508), che disponeva: «Nei casi previsti dai commi precedenti, il giudice condanna altresì la parte soccombente al pagamento, a favore della controparte, di una somma non inferiore alla metà e non superiore al doppio dei massimi tariffari». La l. n. 69/2009 trova però diretto antecedente in altro d.d.l., presentato nel 2008 come AC 1441, formulato «in ogni caso, il giudice, anche d’ufficio, condanna la parte soccombente al pagamento, a favore della controparte, di una somma non inferiore alla metà e non superiore al doppio dei massimi tariffari ». Nella relazione illustrativa si legge che lo strumento della responsabilità aggravata ha trovato scarsa applicazione, presupponendo la prova che la parte vincitrice abbia subito una danno in conseguenza della condotta processuale scorretta della parte risultata vincitrice. Lo strumento sanzionatorio da introdurre consisteva dunque in una condanna del soccombente al pagamento di una somma di denaro ulteriore rispetto alle spese di lite, che conseguisse ipso facto all’accertamento della condotta illecita: ferma restando la possibilità, per la parte danneggiata, di domandare la liquidazione del danno subito. Durante le letture parlamentari, nel testo della norma venne introdotto l’inciso «quando pronuncia sulle spese ai sensi dell’art. 91», e venne prevista la condanna come facoltà del giudice («può altresì condannare»); successivamente vennero aboliti i limiti quantitativi, di cui si sancì semplicemente il carattere equitativo.
1.3 Il vecchio testo dell’art. 96 c.p.c.
L’art. 96 c.p.c., cui la legge n. 69/2009 ha aggiunto il terzo comma, intitolato Responsabilità aggravata, integra una species di responsabilità civile, dalla marcata impronta soggettivistica: l’esercizio di un diritto fondamentale, quello di azione e difesa in giudizio, garantito dall’art. 24 Cost., può integrare un illecito, ogni volta che le modalità di esplicazione siano temerarie, perché caratterizzate da un atteggiamento di mala fede o colpa grave della parte o del difensore (co. 1). Il secondo comma sanziona le ipotesi particolari dell’esecuzione di provvedimento cautelare, della trascrizione di domanda giudiziale, dell’iscrizione di ipoteca giudiziale, dell’inizio o compimento dell’esecuzione forzata, ogni volta che il giudice riconosce l’inesistenza del diritto in base al quale tali attività sono state avventatamente compiute. I comportamenti ivi tipizzati – attuati unilateralmente, sulla base di un titolo non ancora definitivo, o addirittura senza titolo – sono apprezzati con maggiore severità (anche a titolo di colpa lieve) rispetto alla temerarietà in un giudizio di cognizione, caratterizzato da un iter più articolato e da maggiori garanzie3. Gli elementi che legittimano la condanna ex art. 96 sono costituiti dalla soccombenza del responsabile (che non può essere parziale), dalla male fede o colpa grave nell’intraprendere una lite o nel resistere in giudizio (dalla colpa lieve dell’ipotesi di cui al secondo comma), dalla domanda di risarcimento della parte che risulta vincitrice (l’intervento officioso è limitato alla liquidazione del danno), dal nesso causale tra lite temeraria e danno. A volersi limitare agli aspetti che maggiore utilità rivestono ai fini dell’interpretazione del terzo comma, aggiunto all’art. 96, è il caso di sottolineare che, riguardo alla mala fede, definibile come coscienza dell’infondatezza della propria pretesa, e alla colpa grave, ravvisabile nella mancanza di un minimo di diligenza nella valutazione dell’infondatezza, è necessario che la parte deduca e dimostri nel comportamento dell’avversario la ricorrenza dell’elemento soggettivo, nel senso della consapevolezza, o dell’ignoranza, derivante dal mancato uso di un minimo di diligenza, dell’infondatezza delle tesi sostenute4. L’elemento di maggior difficoltà concerne il danno, dovendo la parte farsi carico di provare, e non semplicemente allegare, sia l’an che il quantum debeatur (o almeno la concreta desumibilità di detti elementi dagli atti di causa) ancorché la liquidazione del danno possa effettuarsi anche d’ufficio5. Ove però dagli atti del processo non risultino elementi obiettivi dai quali desumere la concreta esistenza del danno, nulla può essere liquidato a tale titolo, neppure ricorrendo a criteri equitativi6. Negli ultimi anni la Suprema corte ha reso più agevole l’onus probandi, ammettendo che l’interessato possa dedurre, a sostegno della sua domanda, condotte processuali dilatorie o defatigatorie della controparte, così desumendosi il danno subìto da nozioni di comune esperienza, anche alla stregua del principio, ora costituzionalizzato, della ragionevole durata del processo (art. 111, co. 2, Cost.) e della l. n. 89/2001, in base alla quale, secondo l’id quod plerumque accidit, ingiustificate condotte processuali, oltre a danni patrimoniali (quali quelli di essere costretti a contrastare una ingiustificata iniziativa dell’avversario sovente in una sede diversa da quella voluta dal legislatore e per di più non compensata sul piano strettamente economico dal rimborso delle spese ed onorari liquidabili secondo tariffe che non concernono il rapporto tra parte e cliente), causano ex se anche danni di natura psicologica (attività di ricerca del difensore, preparazione della difesa, preoccupazioni e patemi d’animo connessi alla pendenza di una lite che si sa ingiusta), che per non essere agevolmente quantificabili, vanno liquidati equitativamente sulla base degli elementi in concreto desumibili dagli atti di causa7.
1.4 La lite temeraria come abuso del processo
La regolamentazione delle spese processuali è tradizionalmente ispirata alla regola della soccombenza, che ha un significato obiettivo, dovendosi guardare solo al fatto che siano o non siano state accolte alcune o tutte le ragioni fatte valere in giudizio: le spese non rappresentano quindi un danno, bensì un costo. Questa regola può essere resa più rigorosa, e trasformata nel suo fondamento giuridico, fino ad assumere i caratteri propri di un autentico risarcimento dei danni: è la fattispecie della responsabilità aggravata dell’art. 96 c.p.c. che configura un fatto illecito8. Le ipotesi di lite temeraria sono state sempre qualificate dalla pregnanza dell’elemento soggettivo, e per questo considerate ipotesi speciali di responsabilità civile. Solo nell’ultimo ventennio l’istituto viene oggettivato e ricondotto all’abuso del processo, categoria che per lungo tempo è apparsa estranea all’ordinamento, e anzi, intimamente configgente con una concezione liberale del processo civile, fondata sul dispiegamento del tutto libero delle attività di difesa tecnica realizzabili ad opera degli avvocati9. La nozione ha avuto difficoltà ad affermarsi, almeno fino alla riforma costituzionale del 1999, che ha dato luogo alla riformulazione dell’art. 111 Cost., e all’attuazione del principio della ragionevole durata del processo, con la l. n. 89/2001. In via di estrema sintesi, l’abuso del processo è ravvisabile quando un’iniziativa giudiziaria non corrisponde ad un concreto interesse della parte, che, eventualmente protetto sul piano sostanziale dall’ordinamento, venga utilizzato dalla stessa al solo fine di arrecare danno o molestia ad altri10. Sicché il diritto di difesa non può essere inteso in termini assoluti, quanto al suo esercizio11: ove al termine del processo dovesse risultare che la parte, ben consapevole del suo torto, ha agito per spirito di emulazione o ha resistito con intenti dilatori o defatigatori, questa situazione sarebbe rivelatrice di un abuso del diritto di difesa in giudizio e perciò di un comportamento illecito. La legge, nel prendere atto di questa illiceità, la pone a fondamento di un risarcimento dei danni, equiparandovi la colpa grave.
L’insoddisfacente formulazione della nuova norma è foriera di dubbi interpretativi. In primo luogo, la norma appare indeterminata nei presupposti, giacché se può essere comminata in ogni caso a chiusura di una lite, l’appartenenza al contesto dell’art. 96 sulla responsabilità processuale aggravata evoca in modo stringente le condizioni previste dai commi che precedono, in particolare riguardo alla connotazione dell’elemento soggettivo, con la prospettiva di imbattersi nelle rilevate difficoltà probatorie che tradizionalmente la giurisprudenza ha frapposto alla condanna al risarcimento per lite temeraria. Dal problema ora accennato discende anche l’impossibilità di una soddisfacente qualificazione della natura della norma, se riconducibile ad una responsabilità aquiliana, con tutte le regole che le sono connesse, o da essa si distacchi per rappresentare, puramente e semplicemente, una misura afflittiva. Il criterio di liquidazione è rimesso all’equità del giudice, e disancorato da ogni parametro, sicché, onde evitare che per reprimere l’abuso si commettano altri abusi, s’impone l’individuazione sistematica di criteri atti a tracciare linee applicative a sussidio della liquidazione. Tanto più che il carattere officioso della condanna contrasta con i principi fondamentali della giurisdizione civile, giacché deroga al principio della domanda, di cui all’art. 112 c.p.c. Lo iato che da più parti si è voluto riconoscere nell’espressione in ogni caso che apre il dettato della nuova disposizione, le attribuisce un obiettivo preciso, quello di porre un freno alle controversie che, sebbene non temerarie, siano comunque prive di reale contenuto e semplicemente esplorative o intimidatorie. Potrebbe opinarsi un’intenzione del legislatore di allontanare la condanna del nuovo terzo comma dell’art. 96 dalle ipotesi tradizionali di responsabilità processuale aggravata perché, ai fini della comminatoria della stessa, non è necessario che la parte vittoriosa abbia subito un danno a causa del processo, tanto più che l’iniziativa può essere officiosa, e non tiene conto dell’atteggiamento psicologico della parte soccombente.
2.1 L’incidenza dell’innovazione legislativa sulla pregressa disciplina
È indubbio che il terzo comma muta completamente lo scenario della responsabilità processuale, anche se le opzioni interpretative sul rapporto che s’instaura con le fattispecie tradizionali di cui ai primi due commi è ancora discusso. Non è chiaro se la finalità deflativa insita nel terzo comma sia collegata, quanto ai presupposti, alla responsabilità aggravata regolata dai primi due commi, ovvero se il giudice possa emettere una condanna supplementare ogni volta che pronuncia sulle spese. È indubbio che l’intervento legislativo, quale che sia il rapporto tra le norme, mira a rivitalizzare un istituto – come si legge nella relazione al Senato12 – oggi quasi inapplicato in relazione al difficile assolvimento dell’onere probatorio. È anche certo che se ne è voluto fare un serio deterrente nei confronti delle liti temerarie, quale rimedio all’eccesso di litigiosità che affligge l’ordinamento giuridico italiano. Nella riforma introdotta dalla l. n. 69/2009, parallelamente all’intervento sull’art. 96, si registra un irrigidimento delle norme che regolano le spese di lite, con la previsione di condanna della parte che ha rifiutato senza giustificato motivo la proposta in sede conciliativa, ove la domanda sia accolta in misura non superiore ad essa (art. 91, co. 1, ultima parte), e con la limitazione della possibilità della compensazione delle spese alla presenza di «gravi ed eccezionali ragioni» da esplicitare nella motivazione (art. 92, co. 2, c.p.c.). È evidente il trait d’union tra il terzo comma dell’art. 96 e le due innovazioni ora citate, nell’ottica di responsabilizzare le parti processuali e ancor prima di ammonirle nell’introdurre un giudizio senza la dovuta diligenza, ovvero per mera convenienza13.
Il nodo problematico preponderante è legato al significato dell’inserimento della nuova norma – come sopra si è illustrato – nel contesto dell’art. 96, sulla responsabilità aggravata, e se ciò in particolare costituisca una pregiudiziale, in termini di interpretazione della nuova norma e di presupposti per la sua applicazione. Dalla risposta a questo fondamentale interrogativo dipende, oltre che la definizione della natura dell’istituto, anche la soluzione di ulteriori, innumerevoli, profili applicativi, sui quali dottrina e giurisprudenza appaiono impegnate a fornire risposte coerenti all’impostazione che intendano assumere. Il problema del rapporto del terzo comma con i due che lo precedono, pone in rilievo la condotta processuale del soccombente, se essa debba essere caratterizzata da una particolare intensità o meno dell’elemento soggettivo, o se ciò costituisca elemento indifferente ai fini della condanna. Ancora collegato all’interrogativo di base è se la condanna pecuniaria del nuovo terzo comma sia cumulabile con il risarcimento irrogabile in virtù dei primi due commi. Su un altro piano, ci si chiede se siano da confermare le soluzioni professate riguardo ai tradizionali interrogativi sul momento di introduzione della domanda di risarcimento, sulla necessità del contraddittorio, sull’applicabilità della misura con riferimento ai riti processuali.
3.1 Le teorie sulla natura dell’istituto
La ricostruzione della natura dell’istituto ha finora conosciuto svariate elaborazioni, anche difficilmente riconducibili a poli di classificazione omogenea. All’orientamento tradizionale, che valorizzando il contesto di collocamento della nuova disposizione, considerata specificazione della tradizionale ipotesi di responsabilità aggravata, concepisce una tutela risarcitoria fondata sugli stessi presupposti della mala fede e della colpa grave, si contrappone un orientamento di rottura con il sistema previgente, che facendo leva sull’esclusivo riferimento al profilo condannatorio e sul carattere officioso dell’iniziativa, anche sull’an, opera il distacco dell’ultimo comma dell’art. 96 dai tradizionali criteri della tutela risarcitoria, con l’assunzione di spiccato carattere sanzionatorio in funzione deterrente. Prevale il carattere pubblicistico della misura, che nel disegno di scoraggiare l’introduzione di cause inutili, colpisce l’abuso processuale della parte, che strumentalizza il diritto di difesa in giudizio a proprio vantaggio, in violazione dei principi del giusto processo.
3.2 (Segue) La tesi sulla natura risarcitoria
La valorizzazione dell’inserimento nel contesto dell’art. 96 ha indotto a ritenere che la norma è stata concepita per superare gli ostacoli applicativi alla condanna al risarcimento per lite temeraria, connessi alla difficoltà di provare il quantum del danno subito14. L’inciso «in ogni caso» varrebbe come mero richiamo alla possibilità per il giudice di disporre la condanna al risarcimento senza istanza di parte, ferma restando la necessità di mala fede o colpa grave della parte soccombente15: l’imprinting codicistico sarebbe insuperabile, e la non reiterazione della formula risarcimento dei danni non varrebbe a giustificare una lettura diametralmente opposta a quella16. Al di fuori della mala fede non potrebbe riconoscersi un atteggiamento che comunque non possa essere inquadrato nell’esercizio del diritto di difesa: il processo civile persegue non solo l’interesse pubblico ad una giustizia giusta, ma anche quello privato ad una sentenza favorevole, di modo che il giudice deve sì assicurare il rispetto delle regole, ma non attribuire alle parti un dovere di collaborare alla realizzazione degli interessi generali, e al difensore un comportamento che trascenda l’interesse individuale, in nome di un interesse superiore dello Stato. Il diritto di accesso al giudice, come più volte enunciato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, costituisce il fondamento degli altri principi del giusto processo, che in mancanza sarebbero privi di ogni significato, ivi compreso quello della ragionevole durata, che norme come quella in esame mirano a tutelare17. L’attività del difensore è comunque lecita, al di fuori del dolo e della colpa grave18, il che legittimerebbe anche una ricostruzione della condanna di cui all’ultimo comma dell’art. 96, come «indennizzo per danno lecito da processo»19. I presupposti in forza dei quali il giudice può condannare una parte ad una somma equitativamente determinata, che non costituisce una pena (il cui provento, fra l’altro, avrebbe dovuto confluire nelle casse dello Stato) ma un risarcimento, non possono che essere quelli della rubrica della disposizione, in una lettura che coordini i primi due commi al terzo. L’illecito è privato e non pubblico.
3.3 (Segue) La tesi sulla natura sanzionatoria
La possibilità di condanna officiosa, indipendentemente dall’elemento soggettivo e dall’esistenza di un danno, distacca in modo netto il terzo comma dai primi due, e alla nuova disposizione non può che essere attribuito il carattere sanzionatorio proprio di un istituto che presiede a un interesse pubblicistico20. Se non c’è danno (l’oggetto della condanna è il «pagamento di una somma») non vi può essere risarcimento, sicché la condanna è strumento sanzionatorio21, per garantire il giusto processo ed evitarne un uso strumentale22. L’iniziativa officiosa della condanna, che peraltro si raccorda con i consolidati connotati della pronuncia sulle spese processuali23, configura una ratio del tutto diversa da quella dell’art. 96 nella precedente formulazione, conformemente al contemporaneamente abrogato quarto comma dell’art. 385 c.p.c.24 Il principio dispositivo, di per sé non a copertura costituzionale, soffre già di rilevanti eccezioni come, ad esempio, l’intervento iussu iudicis ex art. 107 c.p.c. La ratio dell’intervento legislativo risiede nella necessità di irrogare una sanzione che funga da deterrente rispetto al futuro verificarsi di condotte del medesimo tipo, intrinsecamente dannose sul piano della politica del diritto25. La condanna è indipendente dal risarcimento dei primi due commi, e potrà aggiungersi ad esso, come rivelato dall’avverbio «altresì», come misura di diversa natura. Si sarebbe così introdotta una fattispecie a carattere sanzionatorio che si discosta dall’illecito aquiliano per avvicinarsi alle condanne punitive (punitive damages) in funzione affittiva ma anche preventiva e inibitoria rispetto a nuovi possibili abusi26. Sulla scorta del nuovo grimaldello normativo il giudice può responsabilizzare la parte che abbia proposto una domanda giudiziale (o ad essa abbia resistito) senza sperimentare alcuna seria soluzione conciliativa e adducendo argomenti dai quali è possibile evincere un contegno tradottosi in un abuso dello strumento processuale27. La mancata riproposizione, nel testo dell’art. 96, co. 3, del riferimento alla mala fede e alla colpa grave dei primi due commi, o almeno alla colpa grave dell’art. 385, co. 4, c.p.c., potrebbe indurre all’opinione che la norma abbia introdotto una sorta di responsabilità processuale oggettiva del soccombente28, svincolando la condanna da ogni presupposto psicologico29. Una lettura ragionevole dovrebbe però recuperare un elemento sanzionabile30 recuperando valore precettivo al fondamentale dovere di osservare un comportamento processuale ispirato ai canoni della correttezza, imposto dall’art. 88 c.p.c. che prescrive alle parti e ai loro difensori «di comportarsi in giudizio con lealtà e probità», anche nell’ottica del contenimento di iniziative defatigatorie: il criterio-guida dovrebbe essere la condotta processuale del soccombente in ordine alla sua concreta incidenza sull’obiettivo del giusto processo di ragionevole durata31, dandosi comunque un significato alla collocazione della nuova norma nel contesto dell’art. 96, che esige anche requisiti soggettivi e quindi comportamenti imputabili, nel presupposto della mala fede o colpa grave32, o almeno sotto il profilo della colpa lieve33. La contemporanea abrogazione dell’art. 385, co. 4, che richiedeva la colpa grave, potrebbe significare che la responsabilità si configura anche per colpa lieve, per violazione dei doveri di correttezza di cui all’art. 88 c.p.c. La misura, intesa in senso sanzionatorio, presenterebbe assonanze con i punitive damages dell’esperienza anglosassone, che hanno funzione deterrente e sanzionatoria34, il cui innesto, tuttavia, nel tessuto ordinamentale italiano, è tutt’altro che agevole35. A tale concezione sembrano ispirarsi la più parte delle pronunce di merito, volte a ravvisare nella disposizione in oggetto una sanzione civile a carico del soccombente, mirata a evitare l’instaurazione di giudizi senza ragione, opposizioni meramente dilatorie, condotte processuali unicamente volte a ostacolare la realizzazione del diritto mediante l’abuso di una risorsa rara quale è il processo36, a scoraggiare comportamenti strumentali alla negazione del diritto37, a deflazionare il contenzioso fine a sé stesso, che, aggravando il ruolo del magistrato e concorrendo a rallentare i tempi di definizione dei processi, crea nocumento alle altre cause in trattazione mosse da ragioni serie o urgenti, nonché agli interessi pubblici primari dello Stato38. All’obiezione che la sanzione a tutela di un interesse pubblicistico avrebbe richiesto l’attribuzione alle casse dello Stato, si è risposto che trattasi di una scelta legislativa, che non viola alcun principio fondamentale39, analogamente all’art. 614 bis, c.p.c., ispirato alle astreintes dell’ordinamento francese, o anche all’art. 709 ter c.p.c.40
3.4 (Segue) La tesi sulla natura sanzionatorio-risarcitoria
La circostanza che la condanna viene disposta a favore della parte vincitrice, senza limiti edittali, induce la convinzione di una natura anche risarcitoria, e cioè di danno, se non presunto, punitivo41. Il danno, con funzione sia ristorativa, sia deterrente- sanzionatoria, corrisponde al coinvolgimento della parte in un processo evitabile con la normale diligenza processuale, in chiave di bilanciamento ai sensi dell’art. 111 Cost., del diritto di difesa con l’esigenza di assicurare alla collettività la ragionevole durata dei processi e i relativi costi42. Si è parlato di danno strutturato, in cui confluiscono una componente di responsabilità, di natura risarcitoria (l’iniziativa officiosa non esclude l’istanza di parte), e una componente liquidatoria, che ha anche carattere sanzionatorio43. La nuova previsione nel corpo dell’art. 96, e dunque, pur sempre, nella cornice della responsabilità aggravata, verrebbe a sanzionare la responsabilità per colpa comune, qualificata dalla violazione dei doveri di lealtà e probità di cui all’art. 88 c.p.c.44 Si è proposto un accostamento della misura così concepita ai general damages, intesi come pregiudizi patrimoniali che, salvo prova contraria, sono ordinariamente conseguenti alla condotta illecita45, e si distinguono dai punitive damages, per ristorare il danno non patrimoniale direttamente conseguente al dolore, alla sofferenza, alla deminutio della qualità della vita del danneggiato, derivanti dall’esser coinvolti in una vicenda processuale ingiusta.
3.5 Ulteriori problemi applicativi
Si è anticipato che dalla risposta che si voglia dare all’interrogativo sul rapporto tra i commi dell’art. 96 e sulla natura del nuovo istituto configurato dal terzo comma, discende la soluzione di ulteriori questioni applicative. L’attribuzione al giudice del potere officioso della condanna in caso di soccombenza, senza alcuna indicazione sui criteri e sui limiti quantitativi, è apparsa foriera di dubbi ex artt. 24, 111, e perfino riguardo all’art. 3, co. 2, Cost., per le disparità di trattamento dipendenti dal grado di tolleranza del singolo organo giudiziario di fronte agli abusi processuali46. Al riguardo si è osservato che anche l’art. 12 della l. 8.21948, n. 47, prevede una sanzione civile accessoria, per il caso del risarcimento del danno conseguente alla diffamazione a mezzo stampa, sulla cui legittimità non sono mai stati sollevati dubbi. Si è anche osservato che la mancata predeterminazione degli indici di liquidazione non costituisce violazione del principio di legalità, per la necessità di non vincolare il giudice a fronte di situazioni che per la loro mutevolezza non possono essere previamente determinate e di adeguare quanto più compiutamente il fatto concreto alla norma astratta47. Si sono formulati alcuni criteri che, non sempre idonei a limitare l’esercizio del potere equitativo48, e tutt’altro che omogenei, oscillano tra il valore della causa e il disvalore della condotta, la consistenza economica dei contendenti, «i costi sociali connessi al mancato recupero dei crediti di alcuni operatori economici, tra cui le banche, in grado di traslarne il peso sulla collettività, per mezzo dell’incremento del costo del credito»49. La natura del pregiudizio sotteso alla norma ha giustificato l’applicazione dei criteri di quantificazione del danno da violazione del diritto alla ragionevole durata del processo, utilizzati dalla Corte europea dei diritti dell’uomo50, pur se tale opzione valorizzerebbe solo un elemento dell’abuso processuale, quale la sua incidenza sulla durata del giudizio, finendo per attribuire una funzione risarcitoria all’istituto, mentre il riconoscimento della funzione sanzionatoria della condanna deve indurre a prendere in considerazione principalmente il criterio della gravità dell’abuso, recuperando a tali effetti l’intensità dell’elemento soggettivo51. La ratio deflativa ha invece suggerito che il giudice debba tener conto del carico del proprio ruolo e dell’effetto aggravante che il comportamento processuale della parte ha determinato52. Si è anche proposto l’utilizzo dell’art. 614 bis c.p.c., ove è indicata una serie di parametri per la determinazione della «somma di denaro dovuta dall’obbligato per ogni violazione o inosservanza successiva, ovvero per ogni ritardo nell’esecuzione del provvedimento»53. Altro problema è quello della cumulabilità delle condanne previste dai primi due commi e dal terzo dell’art. 96, prospettandosi soluzioni diverse a seconda della tesi che s’intenda adottare riguardo al rapporto tra le stesse norme, anche se l’avverbio «altresì », che precede la previsione della condanna al terzo comma, potrebbe far pensare ad una cumulabilità incondizionata. La diversa natura riconosciuta al nuovo istituto della condanna sanzionatoria, rispetto alla tradizionale responsabilità risarcitoria per lite temeraria, consente la liquidazione di entrambe le somme a favore della parte vittoriosa: la condotta temeraria provoca anche un diffuso pregiudizio per la collettività, costi sociali di non facile quantificazione che non pertengono alle parti in causa le quali, quindi, non hanno interesse a provarne l’esistenza. La sanzione sarà per questo cumulabile con il risarcimento54. Il rischio che il cumulo delle misure comporti un ingiustificato arricchimento di una parte a danno dell’altra ha consigliato ad altri di dare un’indicazione di non cumulabilità55. Ove si prosegua nell’applicazione delle regole da ultimo formulate dalla giurisprudenza, riguardo al danno da lite temeraria, che comprende anche la componente non patrimoniale, il maggior danno individualizzato conterrà quello statisticamente normale cui si deve rapportare l’ultimo comma56. Ove si ammetta alla condanna di cui al terzo comma una componente risarcitoria, va ritenuto che essa presieda al danno non patrimoniale connesso alla situazione di chi sopporta una lite ingiusta, riconducendosi invece alla condanna di cui al primo comma il risarcimento di ogni altro tipo di danno57. Nell’eventualità del cumulo sarà necessario evitare che le medesime esigenze di tutela incidano sia sulla liquidazione del danno a norma dell’art. 96, co. 1, sia sulla quantificazione della somma da versare al contendente vittorioso58. Si è ritenuto che la condanna prevista dalla norma sia applicabile con provvedimenti definitori diversi dalla sentenza, sia riguardo ai provvedimenti cautelari che si concludono con pronuncia sulle spese59, sia ai provvedimenti di volontaria giurisdizione che risolvano contrasti di posizioni soggettive60, sia riguardo al procedimento sommario previsto dall’art. 702 bis c.p.c.61. La condanna può essere irrogata anche nel contesto di una sentenza in rito, che comunque individui una parte soccombente, com’è stato pacificamente ritenuto riguardo all’art. 96, co. 162. Dal carattere di conseguenza sanzionatoria della condanna di cui al terzo comma, discende che sulla questione il giudice non deve attivare il contraddittorio secondo le modalità previste dall’art. 101 c.p.c.63. Non facendo riferimento il terzo comma alla parte costituita, potranno trovare rilievo condotte stragiudiziali abusive poste in essere dalla parte soccombente restata contumace, che risultino attestate in giudizio64. La condanna ex art. 96, co. 3, c.p.c. è applicabile al processo amministrativo sub specie dell’art. 26 c.p.a., che ne è ulteriore sviluppo65, ed anche al processo tributario66.
3.6 I nodi interpretativi da sciogliere
L’applicazione dell’art. 96 presenta ancora, nella prassi giudiziaria, una serie di nodi insoluti, principalmente per la mancanza di coordinamento tra le ipotesi di responsabilità aggravata di cui ai primi due commi ed il nuovo terzo comma: il problema dell’identificazione della condotta sanzionabile ai sensi del terzo comma è dunque lontano da una compiuta elaborazione. Per di più la formulazione complessiva dell’art. 96, non precludendo l’applicazione di entrambe le condanne, rischia di determinare un ingiustificato arricchimento di una parte a danno dell’altra, anche per l’assenza di criteri o limiti atti a circoscrivere l’uso equitativo del potere di condannare, che avviene per di più senza contraddittorio. Le incertezze derivano probabilmente dal fatto che il problema della responsabilità processuale è stato tradizionalmente affrontato, sulla linea dell’art. 96 ante riforma, in termini di prova del danno secondo i canoni della responsabilità civile, e che la casistica si è strutturata come esplicazione di dolo o colpa grave (temerarietà), più che intorno ad una ideologia ispiratrice di abuso del processo per violazione dell’art. 88 c.p.c., sotto il dogma della primazia del diritto costituzionale di difesa, che non tollera condizionamenti in nome dell’interesse generale. Occorrerebbe de iure condendo una previsione che consentisse al giudice di valutare l’eventuale violazione dell’interesse pubblico al giusto processo onde comminare una sanzione accessoria, di natura pecuniaria, da versare nelle casse dello Stato67, analoga a quella prevista dall’art. 616 c.p.p., e compresa tra un minimo e un massimo predeterminati dalla legge68, che supererebbe le perplessità sulle condanne a risarcimento punitive. Al fine di sciogliere definitivamente il nodo del rapporto tra il terzo e i primi due commi dell’art. 96 appare da valorizzare la visione pubblicistica, in considerazione dei principi del giusto processo, di cui all’art. 111 Cost., in primo luogo l’esigenza di assicurarne la ragionevole durata; e anche dell’art. 24, da intendersi quale norma diretta ad assicurare una tutela giudiziaria effettiva, e non rallentata da richieste infondate e defatigatorie; all’art. 2 si è fatto riferimento per censurare l’esercizio dei diritti con modalità tali da arrecare danno alla comunità69. La riforma del 2009 appare ancora timida. Si è osservato che la violazione dell’art. 88 c.p.c. trova nell’art. 96 sanzione ulteriore rispetto al 92, co. 1, secondo inciso, e s’inserisce nella circolarità degli artt. 91, 92, 96, che sintetizza la figura dell’abuso del processo70. E tuttavia i possibili riferimenti ad una coerente ideologia dell’abuso del processo appaiono ancora scarsi, variamente collocati, e in ogni caso indicativi piuttosto di una tendenza a conformare il processo a principi di efficienza e di economia, che non a specifici propositi di reazione efficace al fenomeno71. La stessa casistica giurisprudenziale, come già rilevato, appare magmatica e non ispirata a criteri uniformatori, se non il richiamo, peraltro generico, alla violazione dell’art. 88 c.p.c.
3.7 Prevedibili linee evolutive
La legislazione successiva alla riforma del 2009, con interventi frammentari, persegue l’obiettivo di attenuare il fenomeno infausto della durata delle cause civili in Italia, sembra intervenire in modo più drastico, rivelando senza compromessi la propensione a privilegiare l’interesse pubblico nel processo. L’art. 37 d.l. 6.7.2011, n. 98 convertito in legge, con modificazioni, dalla l. 15.7.2011, n. 111, intitolato Disposizioni per l’efficienza del sistema giudiziario e la celere definizione delle controversie, impone ai capi degli uffici giudiziari la redazione di programmi annuali per la gestione dei procedimenti civili, amministrativi e tributari pendenti, nello specifico obiettivo di «riduzione della durata dei procedimenti concretamente raggiungibili nell’anno in corso». L’art. 1 ter d.l. 13.8.2011, n. 138, come introdotto dalla legge di conversione 14.9.2011, n. 148, prevede la fissazione del calendario del processo civile, con esplicita indicazione «nel rispetto del principio di ragionevole durata del processo» (che non compariva nella formulazione dell’art. 81 bis disp. att. c.p.c.). L’art. 13 d.lgs. 4.3.2010, n. 28, attuando la delega in materia di mediazione finalizzata alla conciliazione delle controversie civili e commerciali, contenuta nell’art. 60 della stessa l. n. 69/2009, esclude la ripetizione delle spese sostenute dalla parte vincitrice che ha rifiutato la proposta, riferibili al periodo successivo alla formulazione della stessa, quando il provvedimento che definisce il giudizio corrisponde interamente al contenuto della proposta conciliativa avanzata dal mediatore. Il giudice, inoltre, condanna la medesima parte vittoriosa al rimborso delle spese sostenute dalla parte soccombente relative allo stesso periodo, nonché al versamento all’entrata del bilancio dello Stato di un’ulteriore somma corrispondente al contributo unificato dovuto. Se il provvedimento definitorio non corrisponde alla proposta, può comunque escludersi la ripetizione delle spese per l’indennità corrisposta al mediatore e per il compenso dovuto all’esperto. Analogamente, quale concessione al principio di causalità nella liquidazione delle spese, l’art. 92, co. 1, seconda parte, c.p.c., prevede, in caso di violazione dell’art. 88, la possibilità di condannare la parte che le ha causate, al rimborso all’altra. Da ultimo, l’art. 2, co. 35 sexies, d.l. n. 138/2011, cit., aggiungendo un periodo all’art. 8, co. 5, del d.lgs. n. 28/2010, in tema di mediazione, sanziona la parte che, senza giustificato motivo, si rifiuta di partecipare al tentativo di conciliazione. Il giudice potrà condannarla al pagamento di una somma di importo corrispondente al contributo unificato dovuto per il giudizio. Come si vede, l’intento è di rendere stringente il procedimento di mediazione al fine deflativo delle controversie giudiziarie, introducendo, ora in modo certo e coerente, misure sanzionatorie a favore delle casse statali. A meno di un’improbabile modifica migliorativa dell’art. 96, l’evoluzione legislativa induce all’interpretazione della norma in senso decisamente sanzionatorio, dato che l’abuso del processo, come ha riconosciuto la Cassazione penale, con riferimento all’azione civile strumentale nei confronti del c.t.u., «può trovare risposta efficace dall’applicazione attenta e coerente delle norme che il legislatore ha posto a contrasto dell’azione strumentale e temeraria», in particolare l’applicazione dell’ultimo comma dell’art. 96 c.p.c. costituisce «un ulteriore e specifico rimedio, la cui attivazione dipende solo dall’attenzione, comprensione e diligenza del giudice»72.
1 La locuzione compariva nell’art. 370 del codice di procedura civile del 1865.
2 L’espressione, che compare in Mandrioli- Carratta, Come cambia il processo civile, Torino, 2009, 31, e anche in Mandrioli, Diritto processuale civile, Torino, 2009, I, 411, è ripresa da Fradeani, Note sulla «lite temeraria attenuata» ex art. 96, comma 3, c.p.c., in Giur. it., 2011, 144.
3 Cass., 30.7.2010, n. 17902.
4 Cass., 30.6.2010, n. 15629; Cass., 7.5.2007, n. 10299.
5 Cass., 21.7.72006, n. 16751; Cass., 9.9.2004, n. 18169; Cass., 6.2.1998, n. 1200.
6 Cass., 1.12.1995, n. 12422.
7 Cass., 30.4.2010, n.10606; Cass., 23.1.2009, n. 1793; Cass., 27.11.2007, n. 24645.
8 Mandrioli, Diritto processuale, cit., 406.
9 Dondi, Abuso del processo (diritto processuale civile), in Enc. dir., Milano, 2010, Annali, III, 1.
10 Cass., 18.9.2009, n. 20106; Cass., 6.6.2002, n. 8251.
11 Porreca, La riforma dell’art. 96 c.p.c. e la disciplina delle spese processuali nella l. 69 del 2009, in Giur. mer., 2009, 1842.
12 Relazione al Senato d.d.l. S1082.
13 Mazzola, Responsabilità processuale e danno da lite temeraria, Milano, 2010, 88.
14 Scarselli, Il nuovo art. 96, terzo comma, c.p.c.: consigli per l’uso, in Foro it., 2010, I, 2238; Vestrucci, Il danno da lite temeraria: istituto e recenti sviluppi, in Foro pad., 2009, 396.
15 Morlini, Effettività della tutela, sanzione processuale e finalità deflativa, nella disciplina delle spese di lite, in Giur. mer., 2011, 2169.
16 Mazzola, Responsabilità processuale, cit., 98. Conf. Trib. Rovigo-Adria 7.12.2010, in www.altalex. com.
17 Giordano, Brevi note sulla nuova responsabilità processuale c.d. aggravata, in Giur. mer., 2010, 437.
18 Cass., 6.2.1984, n. 874.
19 Cons. St., sez. V, 31.5.2011, n. 3252, in Foro it., 2011, 388.
20 Dalla Massara, Terzo comma dell’art. 96 cod. proc. civ.: quando, quanto e perché, in Nuova giur. civ. comm., 2011, II, 69; Passanante, Il nuovo regime delle spese processuali, in Il processo civile riformato, a cura di Taruffo, Bologna, 2010, 252.
21 Cass., 30.7.2010, n. 17902 afferma obiter che l’inserimento del comma 3, fermi i presupposti oggettivi e soggettivi, ha introdotto una vera e propria pena pecuniaria, indipendente sia dalla domanda, sia dalla prova di un danno riconducibile alla condotta processuale dell’avversario.
22 Tallaro, Nuovi strumenti a garanzia del giusto processo. La disciplina delle spese di lite, in Giur. mer., 2010, 1997.
23 Porreca, L’art. 96, terzo comma, c.p.c., tra ristoro e sanzione, in Foro it., 2010, I, 2244.
24 In C. cost., 23.12. 2008, n. 435 si legge, a proposito della pretesa incostituzionalità dell’assenza di iniziativa officiosa riguardo all’art. 96 nel testo allora vigente, che ciò non è irragionevole o contrario ai principi del giusto processo, atteso il carattere risarcitorio della norma, rispetto alla quale l’art. 385 si poneva su un piano completamente difforme, come pena privata destinata a disincentivare il ricorso per cassazione.
25 Dalla Massara, Terzo comma, cit., 61.
26 Trib. Varese, 23.10.2010, in Giur. mer., 2010, 431; Trib. Varese, 30.10.2009, in Nuova giur. civ. comm., 2010, II, 488.
27 Buffone, Un «grimaldello normativo» in ambito civile per frenare la proliferazione di liti temerarie, in Guida dir., 2011, fasc. 3, 52.
28 Ghirga, La riforma della giustizia civile nei disegni di legge Mastella, in Riv. dir. proc. civ., 2009, 441; Cecchella, Il nuovo processo civile, Milano, 2009, 89; Monteleone, Manuale di diritto processuale, Padova, 2009, I, 176.
29 In tal senso TAR Umbria, 21.1.2010, n. 26, in Giur. mer., 2010, 1989.
30 Per l’illegittimità di condanna a pena pecuniaria (art. 616 c.p.p.), per condotta processuale incolposa, vedi C. cost., 13.4.2000, n. 186.
31 Acierno-Graziosi, La riforma del 2009 nel primo grado di cognizione: qualche ritocco o un piccolo sisma?, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2010, 167; Lupano, La «nuova» responsabilità aggravata, in Giur. it., 2011, 236.
32 Della Massara, Terzo comma, cit., 59. Conf. Trib. Piacenza, 22.11.2010, in Guida dir., 2011, fasc. 3, 48, Trib. Bari, 28.4.2011, in Foro it., 2011, I, 2171 e Trib. Verona, 21.3.2011, in Giur. mer., 2011, 2165.
33 Giordano, Brevi note, cit., 437.
34 Fradeani, Note, cit., 147.
35 Sull’impossibilità di delibazione, per contrarietà all’ordine pubblico interno, di sentenza statunitense di condanna a danni punitivi, v. Cass., 19.1.2007, n. 1183.
36 Trib. Roma, 11.1.2010, in Giur. mer., 2010, 2175; Trib. Prato, 6.11.2009, in Foro it., 2010, I, 2229.
37 Trib. Milano, 20.8.2009, in Foro it., 2010, I, 2229.
38 Trib. Varese-Luino, 23.1. 2010, in Foro it., 2010, I, 2229.
39 Fradeani, Note, cit., 148.
40 Giordano, Brevi note, cit., 436-7.
41 Porreca, L’art. 96, cit., 2244.
42 De Marzo, Le spese giudiziali e le riparazioni nella riforma del processo civile, in Foro it., 2009, V, 399.
43 Buffone, Il ricorso c.d. anomalo al credito costituisce abuso del diritto di difesa, sanzionabile mediante condanna per responsabilità processuale aggravata, in Giur. mer., 2010, 2186.
44 Trib. Terni, 17.5.2010, in Giur. it., 2011, 143.
45 Porreca, L’art. 96, cit., 2245.
46 Vaccari, L’art. 96, comma 3°, cod. proc. civ.: profili applicativi e prospettive giurisprudenziali, in Nuova giur. civ. comm., 2011, II, 77-78.
47 Trib. Milano, 4.3.2011, in Foro it., 2011, I, 2184.
48 L’abrogato art. 385, co. 4, c.p.c., stabiliva il limite massimo del doppio dei massimi tariffari. All’inizio dell’iter parlamentare di approvazione dell’art. 96, co. 3, la sanzione era stata individuata tra la metà e il doppio dei massimi tariffari, e successivamente tra 1.000 e 20.000 euro. Per l’Osservatorio Valore-prassi veronese, vale il riferimento alla somma liquidata in concreto a titolo di spese di lite, con il limite minimo di un quarto, e quello massimo del doppio.
49 Trib. Terni, 17.5.2010, cit.
50 Trib. Oristano, 17.11.2010, in Foro it., 2011, I, 2200.
51 Vaccari, L’art. 96, cit., 78-79.
52 Buffone, Il ricorso, cit., 2178.
53 Dalla Massara, Terzo comma, cit., 67-8.
54 Fradeani, Note, cit., 147-8; Della Massara, Terzo comma, cit., 69; Vaccari, L’art. 96, cit., 80; Buffone, Un «grimaldello normativo», Il ricorso, cit., 53.
55Morano Cinque, Lite temeraria: la condanna ex art. 96, comma 3, c.p.c., tra funzione punitiva e funzione risarcitoria, in Resp. civ. prev., 2010, 1847.
56 Porreca, La riforma, cit., 1843.
57 Mazzola, Responsabilità processuale, cit., 101.
58 Lupano, La «nuova» responsabilità, cit., 237, per il quale la funzione dell’art. 96, ult. co., è in parte indennitaria (non risarcitoria), ma prevalentemente sanzionatoria.
59 Trib. Verona., 21.3.2011, cit.
60 Trib. Milano., 4 .3.2011, cit., riguardo al procedimento ex art. 155 bis c.c.
61 Le pronunce di Trib. Varese- Luino, 23.1.2010, cit., e di di Trib. Piacenza, 22.10.2010, cit., sono rese all’esito di procedimenti sommari.
62 Cass., 19.2.2002, n. 2420.
63 Tallaro, Nuovi strumenti, cit., 1998; Lupano, La «nuova» responsabilità, cit., 237; Porreca, La riforma, 1845; Buffone, Un «grimaldello normativo», cit., 53.
64 Porreca, L’art. 96, cit., 2245.
65 Cons. St., sez. V, 31.5.2011, n. 3252, cit.
66 Manzon, La l. 69/09 (interventi sul processo civile) ed il processo tributario. Primi rilievi, in Riv. dir. trib., 2009, I, 885; Graziano, Le spese nel giudizio tributario, in Corr. trib., 2009, 2679.
67 Morano Cinque, Lite temeraria, cit., 1847.
68 Lupano, La «nuova» responsabilità, cit., 237; Fradeani, Note, 149; Vaccari, L’art. 96, cit., 73. Secondo Vanacore, Lite temeraria: il «canto del cigno» dell’art. 385, quarto comma, c.p.c. e la nuova responsabilità aggravata, in La responsabilità civile, 2009, 976, sarebbe auspicabile una riforma imperniata in termini oggettivistici (abuso del processo).
69 Si rammenta la sentenza Cass., 15.11.2007, n. 23726, relativa al frazionamento della domanda giudiziale.
70 Porreca, La riforma, cit., 1842.
71 Dondi, L’abuso del processo, cit., 8.
72 Cass. pen., sez. VI, 11.2.2011, n. 5300.