ABUSO (dal lat. abusus; fr. abus; sp. abuso; ted. Missbrauch; ingl. abuse)
Termine usato in diritto soprattutto nel senso di abuso di autorità. Le sanzioni stabilite dalla legge variano a seconda delle autorità che commettono l'abuso: dal punto di vista storico e del diritto vigente, i casi più caratteristici possono ridursi ai seguenti.
I. Appello per abuso.
Fu fondato dagli scrittori regalisti sul duplice principio che il principe, da un lato, è indipendente dalla Chiesa sul terreno temporale e nel caso di abusus gladii spiritualis a danno dello Stato può reprimere l'abuso, e, dall'altro lato, ha il diritto di protezione o di avvocazia sulla Chiesa, sicché deve intervenire quando l'autorità ecclesiastica non adempia il suo dovere. L'appello o ricorso per abuso, vale a dire il ricorso all'autorità dello Stato contro gli abusi commessi dall'autorità ecclesiastica, specialmente nell'esercizio della potestà penale o disciplinare, che la Chiesa ha considerato sempre come la più profonda ferita inflitta alla sua giurisdizione ed ha condannato e punito formalmente a cominciare dalla bolla In coena Domini (1627) fino al Cod. iur. can. (can. 2334 e 2336), si svolse primamente in Francia nel corso del secolo XV, e fu regolato nel secolo successivo da sparse disposizioni legislative, come uno dei mezzi diretti a difendere le "libertà della Chiesa gallicana". Gli appelli venivano proposti dal danneggiato o dal procuratore generale al parlamento, cioè alla più alta corte di giustizia della circoscrizione in cui si trovava la diocesi nella quale era stato commesso l'abuso; avevano in generale effetto sospensivo, eccetto che si trattasse di appelli interposti da ecclesiastici in materia di disciplina e di correzione di carattere puramente personale (ordinanza di Villers-Cotteret del 1539). I parlamenti giudicavano degli appelli di regola oralmente in seduta pubblica; la decisione dichiarava: il y a abus o il n'y a pas abus; in questo secondo caso, l'appellante veniva condannato ad una multa; nel primo caso, l'atto abusivo veniva annullato, e nel tempo stesso potevano venire imposte multe, per ottenere le quali si poteva ordinare il sequestro delle temporalità dell'ecclesiastico; contro la sentenza del parlamento era ammesso il ricorso al Consiglio del re. Rimasto in vigore fino alla Rivoluzione, il ricorso per abuso, del quale non è cenno nel concordato con la S. Sede del 23 fruttidoro anno IX (10 settembre 1801), venne conservato e regolato in modo unilaterale da Napoleone negli articoli organici, pubblicati l'8 aprile 1802 (18 germinale anno X) insieme col concordato. Secondo tali disposizioni, rimaste in vigore fino alla legge di separazione della Chiesa dallo Stato, del 9 dicembre 1905, il ricorso al Consiglio di stato, così da parte dell'interessato come d'ufficio da parte dei prefetti, era ammesso nei casi di usurpazione o eccesso di potere, di contravvenzione alle leggi della repubblica, d'infrazione alle regole consacrate dai canoni ricevuti in Francia, di attentato alle libertà, alle franchigie e alle consuetudini della Chiesa gallicana, e contro ogni atto che nell'esercizio del culto potesse compromettere l'onore dei cittadini, turbare arbitrariamente la loro coscienza, degenerare contro essi in oppressione o in ingiuria o in pubblico scandalo (artt. 6, 8).
L'istituto si svolse similmente in Spagna nel corso del secolo XVI e del XVII, sotto il nome di recurso de fuerza, anch'esso mezzo di difesa tanto contro abusi del potere penale e disciplinare della Chiesa, che invada la sfera del diritto dello Stato, quanto contro abusi che offendano il diritto stesso della chiesa; con la presentazione del ricorso veniva sospeso ogni ulteriore procedimento del giudice ecclesiastico; l'autorità statale non si pronunciava mai sulla questione, ma annullava l'atto che ritenesse abusivo; quanto ai mezzi per ottenere l'esecuzione della sentenza, la prassi spagnola si valeva del sequestro delle temporalità, della privazione della cittadinanza e dell'espulsione dal territorio.
Svolgimento diverso ebbe l'appello per abuso in Germania, dove, per la posizione di supremazia sulla Chiesa assunta dagli Stati, soprattutto in seguito alla Riforma, anche nei paesi cattolici; per la profonda ingerenza statale nel governo ecclesiastico e per la conseguente possibilità d'impedire direttamente gli abusi dell'autorità ecclesiastica, non si ebbe un ordinamento completo e sistematico dell'istituto. Soltanto nella seconda metà del Settecento anche per influenza della dottrina gallicana, diffusa specialmente dalla celebre opera di uno scolaro del van Espen, Giovanni Nicola von Hontheim, e poi, più largamente, nella prima metà dell'Ottocento, l'appello per abuso fu disciplinato in quasi tutti gli Stati della Germania e in modo particolarmente notevole in Baviera.
Per quanto riguarda l'Italia, l'appello per abuso fu introdotto dai dominatori spagnoli a Napoli (F. Scaduto, Stato e Chiesa nelle Due Sicilie dai Normanni ai giorni nostri, Palermo 1887, p. 203 segg.) e in Sardegna; dai Francesi in Savoia, dove poi l'istituto fu conservato e disciplinato da Emanuele Filiberto con il regolamento del 3 aprile 1560, che prevede quattro casi di abuso: la violazione dei diritti del re e dei privilegi e del bene pubblico dello Stato e dei sudditi, la deroga o il disprezzo delle leggi del re o delle sentenze civili; l'usurpazione della giurisdizione laica da parte della giurisdizione ecclesiastica, o l'usurpazione della competenza di un giudice ecclesiastico da parte di un altro giudice ecclesiastico; la contravvenzione a decreti, canoni e concilî ricevuti (F. Ruffini, Emanuele Filiberto - La politica ecclesiastica, estr. dal vol. pubbl. per il IV Centenario, Torino 1928, p. 32 segg.). Nella seconda metà del Settecento, l'appello per abuso fu introdotto da Leopoldo I in Toscana (F. Scaduto, Stato e Chiesa sotto Leopoldo I granduca di Toscana, 1765-90, Firenze 1885, p. 354), e disciplinato con varie disposizioni in Piemonte (P. C. Boggio, La Chiesa e lo Stato in Piemonte, Torino 1854, II, p. 79 segg., 257 segg.), mentre in Parma Filippo di Borbone istituiva il Tribunale supremo della r. giurisdizione, al quale spettava, tra l'altro, anche la conoscenza dei ricorsi degli ecclesiastici contro gli abusi dei superiori (U. Benassi, Guglielmo Du Tillot, V, Parma 1924, estr. dai voll. XXIV e XXV dell'Arch. stor. per le prov. Parmensi, p. 118 segg.). Pubblicato lo Statuto albertino, eliminato il dubbio che l'appello per abuso non fosse compatibile con il nuovo ordine di cose (si vedano i documenti pubblicati dal Boggio, op. cit., p. 237 segg., specialmente il parere del Consiglio di stato del 5 febbraio 1850, p. 309 segg.), esso continuò ad essere esercitato "secondo gli stessi usi e le stesse forme trasmesse dai tempi anteriori". Soltanto nel 1859 la materia fu regolata per legge (30 ottobre, n. 3707), disponendosi che la cognizione degli appelli per abuso spettasse al Consiglio di stato in assemblea generale, che esso, pronunciando sull'istanza, sul rapporto e sulle conclusioni del Pubblico Ministero, potesse rimuovere l'ostacolo dell'atto abusivo, o annullarlo, rimettendo le cose allo stato precedente, e potesse inoltre infliggere all'ecclesiastico, colpevole di abuso, il sequestro delle temporalità, o prendere contro di lui altri provvedimenti di pubblica sicurezza, come l'allontanamento da un dato luogo o il confino. L'istituto e il procedimento non vennero sostanzialmente modificati dalla legge 20 marzo 1865, n. 2248, all. D, sotto l'impero della quale, però, a quanto risulta, non fu promosso che un solo procedimento per abuso. Il principio della separazione della Chiesa dallo Stato condusse in fine con la legge delle guarentigie del 13 maggio 1871 (n. 214) alla soppressione dell'istituto. Dispone infatti l'art. 17 che "in materia spirituale e disciplinare non è ammesso richiamo od appello contro gli atti delle autorità ecclesiastiche", il che significa appunto l'abolizione di qualunque ricorso al Consiglio di stato contro atti dell'autorità ecclesiastica, sicché si deve ritenere che per mero errore la disposizione della legge del 1865, relativa all'appello per abuso, sia stata ripetuta nei testi unici delle leggi sul Consiglio di stato del 1889, del 1907 e del 1924, e non hanno consistenza i dubbî affacciati da qualcuno (L. Gerra e F. Ruffini nelle opere indicate qui sotto, rispettivamente a p. 167 e a p. 437 segg.) su una parziale sopravvivenza dell'appello contro atti dell'autorità ecclesiastica dopo la legge delle guarentigie (si vedano gli scritti di E. Pistoni e di L. Graziani citati qui sotto, rispettivamente a p. 67 segg. e 473 segg.; inoltre M. Falco in Riv. di dir. proc. civ., IV, 1927, p. 326 segg.).
Bibl.: E. Friedberg, Die Grenzen zwischen Staat und Kirche und die Garantien gegen deren Verletzung, Tubinga 1872; P. Hinschius, System des katholischen Kirchenrechts, Berlino 1897, VI, i, p. 208 segg., 266 segg.; E. Eichmann, Der recursus ab abusu nach deutschem Recht, Breslavia 1903, in Untersuchungen zur deutschen Staats- und Rechtsgeschichte a cura di O. Gierke, fasc. 66; L. Gerra, Abuso (Appello per) in Digesto italiano, Torino 1884, I, i, p. 136 segg.; E. Pistoni, Della competenza in ordine ai sequestri di temporalità beneficiarie in caso di malversazione in Archivio Giuridico, XXXIII (1884), p. 51 segg.; L. Graziani, Degli appelli ab abusu, ecc., ibidem, XLVI (1891), p. 473 segg.; E. Friedberg-F. Ruffini, Trattato del diritto ecclesiastico cattolico ed evangelico, Torino 1893, specialmente p. 435 segg.; A. C. Jemolo, L'amministrazione ecclesiastica, Milano 1916, p. 331 segg.
II. Abusi dei ministri dei culti.
Il vigente codice penale (capo V, articoli 182, 183, 184) prevede tre forme specifiche di reato di abuso dei ministri di culto: a) il pubblico biasimo o vilipendio delle istituzioni, leggi dello Stato e atti delle autorità (art. 182); b) l'eccitamento al dispregio delle istituzioni, delle leggi o delle disposizioni delle autorità, alla inosservanza delle leggi e disposizioni delle autorità o dei doveri inerenti ad un pubblico ufficio (art. 183); c) l'eccitamento ad atti o dichiarazioni contrarie alle leggi o in pregiudizio di diritti legalmente acquistati (art. 183).
Presupposto per l'applicazione delle sanzioni contenute nel capo V cit. del vigente cod. pen. è che l'agente sia ministro di un culto, ossia persona che abbia ricevuto gli ordini sacri secondo i canoni dei varî riti, e che pertanto possa celebrare messa, confessare, predicare, ecc. a differenza degli altri fedeli (Pagani, in Digesto italiano, 1906). Il papa, come è ovvio, anche per questa parte del codice penale, è coperto dalla prerogativa dell'assoluta irresponsabilità.
Esaminiamo ora gli estremi delle varie forme di reato prevedute dagli articoli 182 e 183 del vigente cod. penale.
A) Biasimo o vilipendio politico. - Occorre anzitutto per la imputabilità che il fatto sia commesso dal ministro di un culto nell'esercizio delle sue funzioni, ossia durante la celebrazione dei riti che sono proprî del suo culto (predica, pastorale, ecc.).
Il reato si manifesta col biasimo o col vilipendio. Biasimo e vilipendio, per essere incriminabili, devono esser compiuti con l'estremo della pubblicità, e devono essere diretti contro una istituzione dello Stato, qualunque essa sia, ovvero contro le leggi, compresi anche i regolamenti e gli atti, ossia i provvedimenti, generali o particolari, dell'autorità. La pena è la detenzione sino ad un anno, oltre la multa di lire mille.
B) Eccitamento al dispregio delle istituzioni, leggi, disposizioni dell'autorità, alla inosservanza delle leggi e doveri inerenti ad un pubblico ufficio (art. 183, 1-2 comma).
Presupposto comune per l'incriminabilità degli atti contemplati nell'art. 183 del cod. pen. è che il ministro di culto li commetta prevalendosi della sua qualità, cioè usando la forza morale, l'influenza derivantegli dal suo ministero. Non occorre quindi che egli li compia nell'esercizio delle sue funzioni.
a) L'eccitamento al dispregio suppone un'attiva ed efficace propaganda, senza la quale non si potrebbe nemmeno ravvisare un'apparenza di distinzione tra l'art. 182 e l'art. 183, perché il vilipendio pubblicamente commesso dal ministro di culto nell'esercizio delle sue funzioni implica già l'intenzione e l'effetto di eccitare al dispregio (Maino, Commento, 1, pp. 623-24). E quest'attività criminosa del ministro di culto dev'essere diretta a promuovere o ad alimentare nell'animo altrui sentimenti di disistima o di ostilità (Manzini, Trattato di diritto penale, V, p. 229).
b) L'eccitamento alla inosservanza delle leggi, delle disposizioni dell'autorità o dei doveri inerenti ad un pubblico ufficio, ha relazione con gli articoli 246 (istigazione a delinquere) e 247 (eccitamento alla disobbedienza alla legge). Si applica l'art. 183, se il ministro di culto eccita ad un inadempimento che non costituisce reato, ovvero eccita in privato ad una inosservanza che costituirà reato; se invece egli istiga pubblicamente a commettere un reato, gli si applica l'art. 246 con l'aggravante dell'art. 184. Se il ministro di culto, senza prevalersi della sua qualità, incita pubblicamente alla disobbedienza alla legge, gli si applica l'art. 247 (Manzini, Trattato cit., V, p. 231).
La pubblicità, a differenza di quanto è stabilito per il biasimo o vilipendio politico, non è elemento essenziale al reato di cui all'art. 183; costituisce soltanto un'aggravante. La pena infatti, che è la detenzione da tre mesi a due anni e la multa da lire cinquecento a tremila, può estendersi a tre anni di detenzione, se il fatto sia commesso pubblicamente.
Questa aggravante si applica solo quando la pubblicità non sia preveduta come elemento costitutivo di un delitto generico, nel quale sia compresa la specie contemplata dall'art. 183 (Manzini, Trattato, cit., V, p. 234).
Il reato è perfetto nelle due forme di eccitamento testé esaminate, anche se l'effetto non è stato raggiunto (delitti formali).
C) Eccitamento ad atti o dichiarazioni contrarie alle leggi o in pregiudizio dei diritti.
Il capoverso dell'art. 183 commina la stessa pena di cui al 1° comma per il ministro di un culto che, prevalendosi della sua qualità, costringe o induce alcuno ad atti o dichiarazioni contrarie alle leggi o in pregiudizio dei diritti in virtù di esse acquistati. Qui, a differenza delle altre due forme di eccitamento, si ritiene necessario alla consumazione del reato che il colpevole abbia conseguito lo scopo di ottenere dal soggetto passivo l'atto o la dichiarazione che disconosce una determinata legge o compromette e pregiudica diritti legalmente acquistati (delitto materiale).
Il costringere e l'indurre suppongono una coazione morale, che tolga all'atto o alla dichiarazione ogni carattere di spontaneità, coazione che può essere esplicita o implicita (Impallomeni, Codice penale illustrato, III, p. 202).
Aggravante per altri delitti commessi dai ministri di culto. - L'art. 184 infine dispone che quando il ministro di un culto, prevalendosi della sua qualità, commette un delitto diverso da quelli preveduti negli articoli precedenti, la pena stabilita per il delitto commesso è aumentata da un sesto a un terzo, salvo che la qualità di ministro di culto sia già considerata dalla legge.
Questi articoli di speciale riferimento ai ministri di culto, ritenuti offensivi alla dignità e al ministero sacerdotali, provocarono una solenne protesta di Leone XIII e dell'intero episcopato italiano.
Il progetto preliminare Rocco di un nuovo codice penale regola così tale materia all'art. 328: "Il pubblico ufficiale che, nell'esercizio delle sue funzioni, eccita al dispregio delle istituzioni, o alla inosservanza delle leggi, delle disposizioni delle autorità o dei doveri inerenti a un pubblico ufficio o servizio, ovvero fa l'apologia di fatti contrarî alle leggi, alle disposizioni dell'autorità o ai doveri predetti, è punito, quando il fatto non costituisca delitto più grave, con la reclusione fino a tre anni.
Alla stessa pena soggiace il pubblico ufficiale, che,....... nell'esercizio delle sue funzioni, vilipende le istituzioni o le leggi dello Stato o le disposizioni delle autorità.
"Le disposizioni precedenti si applicano anche..... al ministro di un culto".
Come appare dal citato articolo i ministri dei culti sono equiparati ai pubblici ufficiali e non vengono applicate loro particolari sanzioni.
L'aggravante si applica soltanto per i delitti; non anche per le contravvenzioni.
III. L'abuso di autorità nella legislazione militare.
Sotto questa denominazione - che non riflette l'abuso della qualità militare - il codice penale per l'esercito (parte I, lib. I, tit. II, capo VII) reprime il fatto: a) del militare, che usurpa (art. 166) un comando militare (se lo conservi contro l'ordine dei capi, la sanzione penale si aggrava, art. 167); si applicano le pene stabilite per i reati di tradimento o rivolta, se concorrano nel fatto (per gli estranei alla milizia, provvede l'art. 121 del cod. pen. comune); b) del comandante, che, senza speciale missione o autorizzazione e senza necessità, ordina un movimento di truppe (art. 166: abuso di comando); c) del militare, che usi vie di fatto contro un inferiore o un prigioniero di guerra. Il reato militare sussiste, sempre che sia dimostrato l'uso volontario e cosciente di vie di fatto (quali sono definite dagli articoli 124 esercito e 267 marina, escluso peraltro l'omicidio, che dottrina e giurisprudenza prevalenti ritengono punibile, in tempo di pace, a termini del cod. pen. comune e di competenza dei tribunali ordinarî) contro un prigioniero di guerra, o un inferiore in grado o in comando, in servizio o fuori, e quale che sia il movente, o la causa, estranea o no al servizio militare, la sanzione penale mirando a proteggere - non solo contro l'abuso di mezzi correttivi, ma contro ogni violenta infrazione del rapporto gerarchico immanente da parte del superiore - l'integrità fisica del subordinato, che in nessun caso è autorizzato a reagire. La necessità di provvedere alla difesa legittima di sé o di altri, o di mantenere la disciplina ad ogni costo, segna un limite logico all'incriminazione, di cui cessa pertanto la ragion d'essere, quando l'azione del superiore non ecceda l'adeguato uso di mezzi coercitivi per ridurre all'ordine il militare riottoso, o quando (articolo 168 esercito, parte 1ª) sia legittimata (anzi, per combinato disposto degli articoli 40 e 117 esercito, 42 e 138 marina, imposta con una comminatoria penale a titolo di connivenza) dalla necessità di usare ogni mezzo possibile per ricondurre nelle file fuggiaschi, frenare l'ammutinamento, la rivolta, il saccheggio, o la devastazione, o altro qualunque dei fatti particolarmente gravi, nei detti articoli indicati. La sfida a duello, sebbene dal regolamento sulla disciplina militare (n. 27) definita come abuso di autorità, non costituisce reato ai sensi di questo articolo.
Analoghe ipotesi - con più severa sanzione per l'usurpazione di comando e per la sua indebita ritenzione, attesa la maggiore pericolosità del fatto, se commesso da un individuo di marina - contempla il cod. pen. mil. marittimo nel capo IV (articoli 128 e 129), tit. II, lib. I, parte 1a, comprendendovi però, sotto la stessa denominazione (abusi di autorità), altre specie delittuose, che il cod. pen. per l'esercito prevede invece nel capo III (tit. cit.) sotto la rubrica dei reati in servizio, costituendo il diretto rapporto con questo la ragione determinante della loro incriminazione. Tale il fatto del comandante, che, violando una norma di lealtà sanzionata negli articoli 40 e 41 del regolamento annesso alla Convenzione dell'Aia 18 ottobre 1907, prolunghi arbitrariamente le ostilità, dopo aver ricevuto l'avviso ufficiale della conclusione della pace, di un armistizio o di una tregua (art. 81 esercito, 125 marina). Tale anche il fatto del comandante, che, con atti concreti di ostilità obiettiva, esponga lo stato ad un positivo pericolo di guerra, o all'interruzione dell'armistizio (art. 82 esercito, 126 marina; v. art. 113, p. p., codice pen. comune: la pena si aggrava, se i danni ivi specificati siansi verificati, e si attenua per l'assenza di pericolo o di pregiudizio); o che, con atti arbitrarî (anche se non direttamente ostili), abbia determinato rappresaglie (la circostanza che non siano seguite funge da diminuente) contro i sudditi, o chiunque goda della protezione delle leggi dello stato (art. 83 esercito, 127 marina; v. art. 113, capov. 1°, cod. pen. comune). La successiva approvazione governativa degli atti ostili o arbitrarî non elimina, nei due ultimi casi, il reato già perfetto. La provocazione, che pel comandante di terra funziona quale diminuente, ha invece effetto scriminante pel comandante marittimo, avuto riguardo alle condizioni di particolare difficoltà, in cui può trovarsi ad agire.
V'ha abuso di autorità nella concussione commessa dal militare, che, senza autorizzazione o necessità, anche in paese nemico, leva imposizioni di guerra o prestazioni forzate, o che volontariamente eccede la datagli facoltà (art. 277 esercito, 301 marina; vedi anche art. 48 segg. regolamento dell'Aia; 371 regol. servizio in guerra; 789 regol. servizio di bordo). Se commesso da un pubblico ufficiale, l'abuso di autorità costituisce infine aggravante nel reato di favoreggiamento a disertare (art. 162 esercito, 187 marina); e parimenti se ricorra, in tempo di guerra, nella subornazione, istigazione o altra forma di complicità nei reati di falsa o reticente testimonianza o perizia, o di subornazione di testimoni in procedimenti di competenza dei tribunali militari (art. 290 esercito, 314 marina).
Per gli articoli 37, n. 2, esercito, 39, n. 2, marina, è considerato come agente principale chi ha concorso nell'esecuzione del reato, inducendo altri, con abuso di potere o di autorità, a commetterlo.
Bibl.: G. Borsani e L. Casorati, Il Cod. di proc. pen. ital. comm., I, 247, Milano 1873; R. Genovesi, voce Abuso di Autorità (Dir. pen. mil.), in Digesto italiano, I, p. 228; V. Manzini, Comm. ai codici pen. militari per l'es. e la mar., I, Torino 1916; I. Mel, Codici pen. mil., Napoli 1880; G. Nappi, Trattato di dir. e proc. pen. mil., I, Milano 1917; O. Pio, in Riv. pen., XXII (1885), p. 285; Riv. pen., XXI, (1884), p. 327; P. Vico, Dir. pen. mil., in Encicl. del dir. pen. it., Milano 1917; A. Vismara, Abuso di autorità, in Encicl. giur. italiana, I, p. 125.
Per l'abuso di fiducia, v. appropriazione indebita.