ACAIA (A. T., 82-83)
Costituisce con l'Elide uno dei nomoi dell'odierna Grecia, e comprende la parte nord-occidentale del Peloponneso. Confina con la Messenia, con l'Arcadia e con l'Argolide, ed è una regione prevalentemente montuosa, con cime che superano i 2000 m. (M. Olenos, ant. Erimanto, 2224 m., M. Khelmós, antico Arcania, 2355 m.); queste montagne sono costituite essenzialmente di calcari del Cretacico e da esse traggono origine numerosi fiumi e torrenti, brevi di corso e assai precipitosi, asciutti nell'estate, che hanno scavato per lo più valli profonde e incassate. Con lo sfasciume che trasportano nelle loro piene, hanno costruito una breve piana costiera, in qualche parte paludosa e malsana. I più notevoli di questi corsi d'acqua sono il Gastoúnēs (ant. Peneo), il Kaminítsa e il Vostítsa.
Il nomos Acaia ed Elide ha una superficie di 4942 kmq. e una popolazione di 294.718 ab. (secondo il censimento del 1920). La densità è quindi di 58 ab. per kmq., notevolmente superiore a quella dell'intera Grecia (44 ab. per kmq.). Nel 1896 la popolazione risultò di 236.251 ab.: in un intervallo di 24 anni si è avuto perciò un aumento di oltre 58.000 ab. Le zone più popolose sono il bacino inferiore del Gastoúnēs e la costiera che guarda il golfo di Patrasso e quello di Corinto.
Le parti più elevate della regione, sopra gli 800-1000 m., sono occupate da boschi e da pascoli; le zone collinose e piane sono invece a coltura. Si producono principalmente olive e olio d'oliva, grano, arance, vino e uva passa. Le comunicazioni sono scarse. Una ferrovia percorre la fascia costiera, congiungendo Patrasso da una parte con la Grecia centrale, attraverso l'istmo di Corinto, dall'altra con le regioni del Peloponneso meridionale.
Capoluogo del nomos è Patrasso (v.) porto assai attivo (61.015 ab. nel 1920).
Storia. - L'Acaia greca. - Nell'antichità, A. ('Αχαΐα, Achaia) era detta la regione abitata dalla stirpe ellenica degli Achei, nome che nei poemi omerici come in epoca romana è esteso a significare tutta la Grecia; in senso geografico più stretto esso designava, sia la parte sud-orientale della Tessaglia, detta Acaia Ftiotide, considerata la patria originale degli Achei, sia specialmente la costa nord-occidentale del Peloponneso, soprannominata, per la sua posizione sul mare, Egialo. È questo un territorio montuoso, il cui confine naturale è formato a N. dal mare, a S. dalle catene che si estendono dal massiccio dell'Erimanto al Cillene, mentre, verso O., una striscia di pianura alluvionale si spinge fino all'estremo promontorio del golfo di Corinto, occupato dallo sperone dell'Araxos; solo a oriente ha variato nella storia il suo confine, che occasionalmente ha incluso anche il territorio di Sicione. Oltre alle catene montuose sopra nominate, che formano il confine coll'Arcadia e con l'Elide, la regione comprende un massiccio montuoso autonomo, il Panacaico, ed è solcata trasversalmente da numerosi fiumicelli che sboccano nel golfo di Corinto, i quali, a causa delle piccole pianure alluvionali formatesi ai loro sbocchi, hanno dato alla costa un caratteristico aspetto frastagliato. Le pendici delle catene di monti erano nell'antichità, come sono oggi, assai adatte alla coltivazione; le cime più alte erano coperte da un denso manto boschivo; perciò fra gli dèi, accanto a Zeus e Posidone erano onorati dagli Achei Dioniso, Demetra e Artemide.
Secondo l'antica tradizione ellenica, tale regione, originariamente abitata da un vetusto ceppo eolico, sarebbe poi stata occupata dagli Achei, fuggiti dalle loro sedi primitive nella parte orientale e meridionale del Peloponneso, sotto la pressione delle invasioni doriche; la leggenda nomina come loro capo l'Orestide Tisameno, che avrebbe inseguito gli Ioni vinti in battaglia fino alla loro maggiore città, Elice, e avrebbe costretto la maggior parte di essi a emigrare in Attica. Gli Achei, tuttavia, mantennero la lega fra i dodici cantoni della regione già fondata dagli Ioni, senonché alle komai indifese degli Ioni si sostituirono ora città fortificate, rette da governo monarchico; tali città sono: Pellene, Egira, Ege, Bura, Elice, Egio, Ripe, Patre, (Patrasso), Fare, Oleno, Dime e Tritea; in Elice, la città maggiore, aveva sede forse un sommo re; come ultimo, nella lista dei re, è nominato Ogige.
Storicamente, dunque, gli abitanti dell'Acaia sarebbero il residuo della più antica popolazione che avrebbe abitato il Peloponneso prima dell'invasione dorica, e che durante l'ultimo periodo dell'età micenea avrebbe, più o meno direttamente, partecipato allo sviluppo e alla diffusione dell'estrema fase della civiltà minoica. Ma tutta la questione dei primitivi Achei è ancora immersa nella nebbia che avvolge la protoistoria ellenica, ed è soggetta a vivi dibattiti scientifici: infatti una recente teoria nega la veridicità di tutta la tradizione sulle migrazioni doriche, e identifica la stirpe dei Dori con quella degli Achei, che avrebbero soltanto, in un certo momento, mutato nome.
Dopo la caduta della monarchia, subentrò in Acaia una federazione democratica dei dodici cantoni con sede centrale a Elice e adunanze periodiche presso il santuario di Posidone Eliconio; per lunghi secoli la popolazione dell'Acaia, piuttosto rozza e incolta, come dimostrano le sue rare e scorrette iscrizioni, visse appartata dalla vita della Grecia, ed ebbe importanza unicamente per la larga partecipazione alla colonizzazione dell'Italia meridionale. Soltanto quando il dissidio fra Atene e Sparta divise la Grecia in due campi opposti, anche l'Acaia fu trascinata a parteggiare per l'uno o per l'altro contendente; già nel 454 a. C., Pericle costrinse gli Achei a entrare nell'alleanza ateniese; durante la guerra del Peloponneso, Pellene cominciò con lo schierarsi dalla parte degli Spartani, mentre nel 418 Patre fu persuasa da Alcibiade a prendere le difese di Atene; verso la fine della guerra del Peloponneso l'Acaia entrò definitivamente nell'orbita della politica spartana, e per Sparta gli Achei combatterono strenuamente, soprattutto nelle guerre beotiche, distinguendosi nella sanguinosa battaglia di Nemea (394 a. C.), finché da Epaminonda furono costretti a sottomettersi all'egemonia tebana. Nel 373 a. C. la loro capitale, Elice, fu inghiottita dal mare in seguito a uno spaventoso terremoto. Gli armosti tebani dell'Acaia tentarono di cacciare i governi oligarchici delle singole città, formatisi secondo il modello dell'alleata Sparta, e d'introdurre dei governi democratici; ma gli oligarchici riuscirono a riprendere presto il dominio perduto: le lotte fra oligarchici e democratici finirono peraltro col disgregare, in breve tempo, l'antica lega achea. Le città confederate tentarono ancora di opporsi all'invadente dominio macedonico; numerose forze achee combatterono anche nella battaglia di Cheronea (338 a. C.); ma, dopo le contese e le devastazioni dei diadochi e degli epigoni, la maggior parte delle città achee era ormai caduta nelle mani dei capitani di ventura, strumenti della politica macedone, elevatisi dappertutto al grado di piccoli tiranni: la ribellione delle singole città contro tali tiranni portò alla formazione della nuova lega achea.
L'Acaia romana. - I Romani col nome di Acaia (Achaia, 'Αχαΐα), designarono la Grecia assoggettata dopo la vittoria sullo Pseudofilippo e sulla lega achea e dopo la distruzione di Corinto nel 146 avanti Cristo. (v. Acaica, guerra). Avvenuta l'occupazione romana, l'Acaia non formò subito una provincia, ma fu riunita alla Macedonia e formò con questa la provincia denominata Macedonia et Achaia. Con la Macedonia e l'Epiro rimase unita fino all'anno 27 a. C., in cui fu da Augusto costituita come provincia a sé e data a governare al senato (Dio Cass., LIII, 12; Strab., XVII, p. 840). L'Acaia diviene così una delle provinciae senatus o populi, e come tale è affidata ad un proconsole. Questo regime subì due interruzioni: la prima nel periodo che corre dal 15 al 44 d. C., durante il quale fu nuovamente riunita alla Macedonia e governata con questa da un legatus Augusti, fino a che Claudio non l'ebbe di nuovo da essa separata, restituendola al senato (Tacit., Ann., I, 76; Dio Cassius, LVIII, 24, LX, 24; Sueton., Claud., 25); la seconda, allorché Nerone ebbe solennemente annunziato ai Greci adunati in Corinto la loro piena indipendenza e l'esenzione da ogni tributo (Sueton., Nero, 24; Plut., Flamin., 13; Plin., Nat. Hist., IV, 22; Dio Cass., LXIII, 11; Pausan., VII, 17, 2; Eckhel, Doctr. numm., II, p. 256). Vespasiano poco prima del 74 ridusse nuovamente la Grecia a provincia senatoria governata da un proconsole. In tutto il lungo periodo che va fino a Diocleziano, durante il quale è da ricordare come evento di una certa importanza politica l'editto di Caracalla, che diede la cittadinanza romana a molti provinciali, la Grecia non subì più profonde variazioni nella sua costituzione, salvo qualcuna secondaria e parziale. Nell'ordinamento dioclezianeo-costantiniano l'Acaia venne a far parte della diocesi della Macedonia, inclusa nella praefectura Illyrici; il suo capoluogo rimaneva sempre Corinto. Fino al sec. V e VI sentiamo parlare di proconsoli. La stessa organizzazione troviamo ancora nel sec. VI, al tempo di Giustiniano, sotto il quale è ricordata una provincia dell'Ellade o dell'Acaia, governata da un proconsole e comprendente 78 città (Hierocles, Synecd., 643-649, ed. Burckhard).
I confini che ebbe l'Acaia dopo che fu costituita a provincia sono tutt'altro che sicuri. Si è discusso se si estendesse soltanto fino all'Oeta e alle Termopili, e in tal caso suoi territorî estremi sarebbero la Locride Epicnemidia e la Focide; o se comprendesse anche la Tessaglia, l'Epiro e l'Acarnania. Comunque sia, l'Epiro, in un'epoca non ben precisabile appartenne all'Acaia; e così dovette appartenervi la Tessaglia. Invece, sotto gli Antonini, quest'ultima con la Ftiotide faceva parte della Macedonia (Ptolem., III, 12, 42-43), e l'Epiro con l'Acarnania e le isole Ionie (Corcira, Cefalonia, Ericusa, Scopelo, Leucade, le isole Echinadi, Itaca, Letoia, Zacinto) formava una provincia imperiale governata da un procuratore (Arrian., Epict. diss, III, 4; Ptolem. III, 13, 9), provincia che arrivava fino al fiume Acheloo, il quale deve aver costituito insieme col monte Oeta e con le Termopili il confine definitivo dell'Acaia. Adunque la Tessaglia e l'Epiro, dopo aver appartenuto in un primo periodo all'Acaia, le devono essere stati tolti. Nel mare Egeo le isole Sporadi, oltre ad Amorgo, appartengono all'Asia; Sciro, Pepareto, Sciato, Lemno alla Macedonia (Ptolem., III, 12, 44); Imbro, Samotrace e Taso alla Tracia (Ptolem., III, 11, 8). Nel sec. III la maggior parte delle Cicladi fu assegnata alla provincia Insularum (Marquardt, II, pp. 249-262). Nel sec. VI, sotto Giustiniano, le isole di Imbro e di Lemno, secondo Ierocle (Synecd., 649, 1-2, p. 7), fanno di nuovo parte dell'Acaia.
L'Acaia forma, salvo le interruzioni viste, una provincia senatoria; ha quindi per governatore un vir praetorius che porta il titolo di proconsul (ἀνϑύτατος, ἀντιςτράτηγος) con sede in Corinto, colonia romana. Suoi ufficiali erano: a) il legatus pro praetore (πρεσβευτής, πρεσβευτὴς καὶ ἀντιστράτηγος), personaggio anch'esso dell'ordine senatorio nominato dal senato tra i pretori; una delle sue funzioni era quella di adsessor (πάρεδρος); b) il quaestor (ταμίας), per l'amministrazione della cassa provinciale e la riscossione delle imposte. Accanto al proconsole erano i seguenti funzionarî: a) il procurator Augusti o provinciae (ἐπίτροπος Καίσαρος), esattore delle imposte destinate al fiscus Caesaris; b) il procurator XX hereditatium; c) il procurator rationis purpurarum. Essendo questi tre ultimi veri funzionarî imperiali, vengono scelti tra personaggi dell'ordine equestre dall'imperatore stesso. Al tempo di Traiano, per il controllo finanziario delle città libere, versanti in gravi ristrettezze, fu istituita una nuova carica, introdotta poi anche in altre provincie: il corrector (δικαιοδότης o λογιστής) o legatus Augusti propraetore, in seguito corrector civitatum liberarum (ἐπανορϑωτὴς τῶν ἐλευϑέρων πόλεων). Nel periodo che va dal 14 al 44, quando cioè l'Acaia fu unita alla Macedonia, fu governata dal legatus Augusti propraetore della Mesia.
I Romani portarono varie modificazioni al quadro politico della Grecia. Alcune città rimasero in una condizione privilegiata: vennero riconosciute come civitates liberae et immunes, e alcune ingrandite anche a spese delle città vicine, come Atene, che ricevette la città beotica di Aliarto, e Sicione, che ebbe una parte del territorio corinzio. Alcune di esse sono foederatae; la loro libertà riposa cioè sopra un trattato stretto anticamente con Roma e l'immunità è la conseguenza della libertà. Atene appartiene a questo tipo di città libere, mentre per quel che riguarda le altre città libere la libertà e l'immunità fu loro donata per lo più in varie epoche per senatusconsultum o per speciali concessioni di imperatori. Le civitates liberae conservarono la loro antica costituzione, salvo a mutarla in una timocrazia colà dove esisteva prima dell'età romana la democrazia. In base a un tale ordinamento la piena cittadinanza era riservata solo ai possessores (οἱ τὰ χρήματα ἔχοντες: Paus., VII, 16, 6; Liv., XXXIV 51, 6). In una tale condizione si trovavano le due più celebri città della Grecia, Atene e Sparta, oltre a poche altre città, come i comuni degli Eleuterolaconi, Sicione, Delfi, Tespie, Tanagra, Farsalo, ecc. Ma la maggioranza delle città greche fu ridotta alla condizione di stipendiariae (τὸ ὑπήκοον). Sono questi i territorî che unitamente alle coloniae formavano la vera e propria provincia; pagavano infatti un tributo a Roma ed erano sottoposti al governatore. La loro condizione non era regolata singolarmente né da un foedus, né da una legge speciale, ma dalle clausole generali della lex provinciae. Nel rimanente anche queste città conservano le loro istituzioni e poco differiscono in pratica dalle liberae et immunes.
Oltre alle città peregrinae erano nel territorio greco anche alcune coloniae civium Romanorum. Esse erano:
a) la nuova Corinto (Colonia Laus Julia Corinthus), fondata da Cesare;
b) Patrae o Colonia Augusta Aroe Patrae, fondata da Augusto e popolata, oltre che coi soldati della X e XII legione, anche con Greci (Strab., VIII, 7, 5; Paus., VII, 18, 7; Corp. inscr. latin., III, 504, 507, 509) città che diventò una delle più importanti;
c) Dyme, anch'essa colonizzata sotto Augusto dopo che già Pompeo l'aveva popolata con prigionieri (Plin., Nat. Hist., IV, 5, 13; Paus., VII, 17, 5). In Epiro erano le colonie di Nicopolis e Buthrotum (Plin., Nat. Hist., IV, 1, 4).
Benché le leghe o κοινά esistenti in Grecia nel II sec0lo a. C come la confederazione dei Beoti, la lega achea, ecc., fossero state tutte sciolte dai Romani, i quali proibirono anche il commercium o ἔγκτησις tra le singole città (Paus., VII, 16, 6-7), più tardi troviamo di nuovo esistenti in Grecia molte assemblee federali, che naturalmente non hanno un carattere politico ma prevalentemente sacrale, connesso col culto dell'imperatore affidato agli ἀρχιερεῖς τῶν Σεβαστῶν, che sono appunto dignitarî dei κοινά. A questa attività nel campo sacro sono da aggiungere anche altre insignificanti competenze, come la facoltà di poter onorare, insieme o singolarmente, questo o quel personaggio.
Accanto alle confederazioni, delle quali le più notevoli sono quella degli Achei, comprendente tutto il Peloponneso (κοινὸν τῶν 'Αχαιῶν), e dei Beoti, ricostituita poco dopo l'occupazione della Grecia, rimane in vita l'anfizionia Pileo-Delfica che, esclusi nel 189 a. C. gli Etoli dal collegio degli ieromnemoni, fu completamente riordinata sotto Augusto. I Magneti, i Malei, gli Eniani, i Perrebi, gli Achei vennero uniti ai Tessali e cessarono di avere voti separati. Al posto dei Dolopi, non più autonomi, subentrò la città di Nicopoli. I rappresentanti, ἀμϕικτύονες, si riunivano sotto la direzione di un presidente (ἐπιμελητὴς τοῦ κοινοῦ τῶν 'Αμϕικτυόνων) a Delfi o alle Termopili. Vi partecipa la maggioranza delle città greche, le quali mandano complessivamente 30 rappresentanti ripartiti in maniera ineguale secondo l'importanza dei singoli stati; Nicopoli, la Macedonia e la Tessaglia hanno 6 deputati ciascuna, complessivamente 18; la Beozia, la Focide e Delfi 2 ciascuna; la Doride, i Locri Ozoli ed Epicnemidi e l'Eubea un rappresentante ciascuno; Megara con Corinto uno complessivamente, e così Argo con Sicione; Atene uno. Un'altra assemblea di carattere nazionale era il Panellenio, istituito da Adriano. Quest'assemblea comprendeva tutte le città, sia autonome sia soggette, della provincia d'Acaia, i cui rappresentanti si riunivano in Atene sotto la presidenza dell'ἄρχων τῶν Πανελλήνων o ‛Ελλαδάρχης (Dio Cass., LXIX, 16; Philostr., Vitae soph., II, 5, 17). L'attività dei panelleni come degli anfizioni si limitava all'ordinamento e alla direzione delle feste e dei giuochi in onore di Zeus Panellenio, culto fondato in Atene da Adriano stesso. Connesse in parte con l'anfizionia e con le forme di confederazione, scarna sopravvivenza delle antiche anfizionie e dei κοινά, rimanevano ancora in Grecia le gloriose feste nazionali. Le olimpiche, come le pizie, durarono fino al sec. V (Iulian., Epist. pro Argiv., pag. 35). Da documenti epigrafici ci facciamo un'idea della straordinaria magnificenza con la quale venivano nel sec. II a. C. celebrate dagli Ateniesi le pitaidi (πυϑαΐδες), processioni che di quando in quando erano inviate al santuario di Delfi (Dittenberger, Sylloge, 696-699, 711 F; Darenberg-Saglio, Dictionnaire des antiq., IV, 1, s. v. Pythia, p. 793; M. G. Colin, Le culte d'Apollon Pythien à Athènes, 1905). Dopo la distruzione di Corinto, i Sicionî ottennero la presidenza delle istmie e la conservarono fino a che non dovettero cederla nuovamente a Corinto, dopo la sua ricostruzione (Paus. II, 2, 2). Le aziache (Actia), feste in onore di Apollo Actius, celebrate ogni due anni presso il tempio di questo dio sul promontorio di Actium, divennero, dopo la celebre battaglia e la fondazione di Nicopoli per opera di Augusto, una delle più importanti tra le grandi feste nazionali. Quest'imperatore infatti istituì nuovi giuochi sotto la presidenza dell''Ακτιακὴ βουλή risiedente in Nicopoli, fece celebrare le Actia ogni quattro anni il 2 settembre, anniversario della battaglia, e fece contare per aziadi (ἀκτιάδες) come per olimpiadi. Anche le aziache sono ricordate ancora alla fine del sec. IV (Mamertin., Paneg., IX, n. 1). Accanto alle leghe e alle assemblee di carattere sacro e ristrette a un numero più o meno grande di città esisteva nell'Acaia, come nelle altre provincie, la dieta provinciale (Commune, concilium, κοινόν), alla quale prendono parte le città dediticiae della provincia. Quest'assemblea delle città greche porta nelle iscrizioni varî nomi: τὸ κοινὸν 'Αχαιῶν καὶ Βοιωτῶν καὶ Λοκρῶν καὶ Εὐβοέων καὶ Φωκέων oppure πάντες οἱ "Ελληνες, o σύνοδος τῶν ‛Ελλήνων, ecc., e non è da confondere, stante l'analogia delle denominazioni, con la lega achea né con il Panellenio. Questa dieta ha anch'essa un carattere sacro, essendo il suo presidente anche il capo del culto imperiale nella provincia; ma le appartengono anche funzioni amministrative.
Quanto al sistema tributario, è noto come le città greche sotto il dominio romano lo conservassero invariato, solo che il governo proconsolare prelevava per l'erario da ciascuna città una quota proporzionale alle entrate. È probabile che la dominazione romana portasse un maggior gravame e una più spiccata distinzione tra possessores e nullatenenti, e che a quelli soli venisse applicata l'imposta fondiaria. Riscuotere dalle πόλεις il tributo era ufficio del questore, sotto la repubblica, laddove sembra che sotto l'impero quest'ufficio passasse ai procuratores Augusti. Accanto al tributo, le entrate più importanti di una provincia son quelle derivanti dall'ager publicus o demanio, costituito specialmente dagli agri vectigales e dalle miniere (metalla). Gli agri vectigales sono i territorî delle città vinte, tolti agli antichi proprietarî e passati nel dominio del popolo romano: tali sono i territorî di Corinto, della Beozia e di altre città che avevan resistito ai Romani. L'ager publicus, non potendo essere oggetto di proprietà quiritaria, parte era dato in affitto dal censore, in Roma, ai publicani, parte era lasciato agli antichi proprietarî che ne avevano solamente il possesso e pagavano un canone. Qualche porzione ne fu data in dono a città libere, come il territorio di Aliarto donato ad Atene, e una parte di quello di Corinto, dato a Sicione per sostenere le spese dei giuochi istmici. I vectigalia, che spettando all'aerarium erano riscossi dal questore, passarono col tempo al fisco e furono amministrati anch'essi dal procurator. Le miniere facevano parte della res privata dell'imperatore. Erano perciò amministrate da suoi procuratorw, non dell'ordine equestre, ma servi o liberti, che si confondevano col personale addetto alle miniere stesse (cfr. Corpus inscr. lat., VI, 8486).
L'Acaia, così remota dai confini dell'impero romano, e più per la pace che, dopo il torbido periodo delle guerre civili, Augusto e i suoi successori avevan saputo garantire all'Oriente, non ebbe bisogno di guarnigioni stabili. Vigeva ancora nelle città greche l'istituto dell'efebia, alla quale però di un vero e proprio servizio militare rimaneva ormai pochissimo; essa era più che altro un'associazione ginnico-sportiva della gioventù. Tuttavia gli efebi scortavano le già menzionate pitaidi ateniesi. Roma poi non impose alle stremate popolazioni greche l'obbligo di fornire contingenti e le esentò così dal servizio militare. In tal modo le città della provincia d'Acaia, che sotto la repubblica avevano sofferto specialmente per la guerra mitridatica, per le incursioni dei pirati e per le guerre civili, poterono sotto l'impero, stante la lunga èra di pace, rifiorire e godere d'una relativa sicurezza e benessere. L'invasione dei Costoboci, avvenuta al tempo di Marco Aurelio, non fu che una tempesta passeggera; poiché essi giunsero fino ad Elatea ma furono respinti da Mnesibulo (Paus., X, 34, 5). Solo nella crisi che subì l'impero nel sec. III, cominciò a rovesciarsi sulla Grecia il flagello dei barbari. Sotto Gallieno (260-8), Atene, Corinto, Argo, Sparta furono saccheggiate dagli Alemanni e dai Goti, mentre anche i mari, non più sicuri, venivano percorsi da legni di pirati goti ed eruli provenienti dal Mar Nero. Gli abitanti delle città greche furono costretti a provvedere da se stessi alla propria difesa: i cittadini di Atene tesero un'imboscata, sotto la guida di Dexippo, ai barbari mentre si ritiravano, e causarono loro rilevanti perdite. Gallieno attaccò poi i barbari in Tracia e li disfece. Nel 395 Alarico invase la Grecia e poté percorrerla in tutti i sensi senza trovar resistenza. Tebe fu salva per le sue salde mura, ma Sparta, Corinto, Argo, Tegea, Megara e Atene furono prese. Nella seconda metà del sec. V, i Vandali, che, fondato un regno in Africa con capitale Cartagine, eran divenuti audaci pirati, non risparmiarono le coste e le città marittime della Grecia. L'èra di pace era ormai finita: la Grecia doveva per oltre un millennio restare aperta ad innumerevoli invasioni e passare da una dominazione all'altra.
Che la Grecia fosse ridotta a provincia fino dal 146 a. C., vale a dire che la maggior parte delle sue città, divenute stipendiariae, fossero passate sotto la dipendenza di un governatore romano, è provato dal fatto che in molte è introdotta l'èra della provincia macedonica, che conta gli anni appunto dal 146 a. C.; il qual fatto, cioè un analogo modo di contar gli anni dalla data della loro costituzione, si trova in uso in molte altre provincie; cfr. Marquardt, II, p. 227. Inoltre è certo che nel 146 la Grecia si trovava sotto l'autorità del proconsole della Macedonia. E che l'Acaia non avesse ancora al tempo di Lucullo un governatore proprio è dimostrato da Plutarco (Cim. 2), e da Cicerone (In Pis. 40, 96).
Che cosa abbia spinto Vespasiano a restituire all'Acaia l'antico ordinamento non si sa con precisione: ma evidentemente né i Greci avevano mezzi sufficienti per governarsi indipendenti, né l'imperatore volle rinunziare più oltre ai tributi che si riscuotevano dalle città stipendiarie della Grecia. Che la ricostituzione della provincia d'Acaia avvenisse, al più tardi, nel 74 d. C. è dimostrato dal fatto che la Sardegna, già provincia imperiale, data al senato nel 67 in compenso dell'Acaia, che esso perdeva, è di nuovo nel 74 provincia imperiale (Corp. inscr. lat., X, 8023-8024): evidentemente la Sardegna veniva rivolta al senato nel momento stesso che gli si restituiva l'Acaia.
Il principato di Acaia. - Nella spartizione dei territorî bizantini dopo la IV crociata, Venezia si era riserbate le provincie marittime della Grecia, i porti e le isole; la parte continentale era toccata a Bonifacio, marchese di Monferrato. Iniziata l'occupazione dei suoi dominî, il marchese era giunto davanti a Nauplia, nella primavera del 1205, quando comparve nel suo campo un giovane nobile franco, Goffredo di Villehardouin, nipote dell'omonimo capocrociato e futuro storico della conquista. Sbarcato in Grecia, nel ritorno dalla Siria, dopo aver preso parte alle lotte di alcuni arconti greci, offrì a Bonifacio la conquista della Morea. Si unì a lui il crociato Guglielmo di Champlitte, a patto di essere il signore delle terre conquistate: Goffredo avrebbe avuto parte della conquista come feudatario. Con cento cavalieri e poche centinaia di fanti, i due audaci occuparono successivamente Patrasso, Andravida, Avarino, Metone, Corone, Calamata, Veligosti, Nikli, senza curarsi dell'opposizione dei Veneziani. Lo Champlitte si chiamò principe d'Acaia, il Villehardouin ricevette in feudo il paese di Calamata e d'Arcadia. Ma tornato in Francia lo Champlitte, e morto lui e il nipote Ugo che era rimasto in Grecia al suo posto, Villehardouin, il più potente dei baroni, si fece dai colleghi eleggere balivo, e poi, nel 1210, riconoscere come vero principe dai feudatarî, dall'imperatore e dal papa.
Goffredo ultimò l'organizzazione dello stato, iniziata dallo Champlitte, secondo i principî feudali dell'Occidente, già adottati nel secolo precedente negli stati latini di Siria: più tardi, al principio del sec. XIV, si ebbe la codificazione nel cosiddetto Libro dei costumi dell'impero di Romania. Il paese fu suddiviso in feudi, raggruppati in dodici baronie; i baroni formarono il consiglio del principe o alta corte dei Pari. Numerosi castelli furono costruiti dai feudatarî per tenere sottomesse le popolazioni greche e slave, che conservarono verso i Franchi l'atteggiamento passivo tenuto già verso l'aristocrazia bizantina. Parallela all'organizzazione feudale, si formò quella dell'episcopato latino: e sorsero numerose fondazioni monastiche, per sorvegliare gli indigeni e influire su di essi. Il Villehardouin riconobbe la supremazia dell'imperatore latino di Costantinopoli e nel 1209 intervenne al parlamento di Ravenika, ottenendo da Enrico I la dignità di senescalco. Curò l'intesa col limitrofo feudatario, il signore di Atene, Ottone de la Roche, che partecipò fra il 1210 e il 1212 all'occupazione di Nauplia ed Argo, ricevendole poi in feudo dal principe. Così, solo Monemvasia rimase, all'estremo sud, nelle mani dei greci fedeli ai re (βασιλεῖς) di Nicea.
Goffredo I morì nel 1218: gli succedette il primogenito Goffredo II e, alla sua morte (1245), il fratello più giovane, Guglielmo. È il periodo d'oro dell'Acaia franca. Consolidata l'organizzazione feudale, il principe impone la sua egemonia ai despoti d'Epiro, ai conti di Cefalonia, ai baroni dell'Eubea; ripetutamente interviene per salvare, dalle mani dei Greci di Nicea, Costantinopoli, che Balduino II mal difendeva. Centro del governo fu allora la grande fortezza di Clarenza, Clermont, il Castel Tornese degli Italiani. Il principe Guglielmo, il quale era nato in Morea, si considerava semigreco. Per assicurare le sorti del principato, egli conquistò, con l'aiuto della flotta veneziana, la fortezza di Monemvasia e tutta la Zaconia; costruì le fortezze di Mistrà, di Beaufort, di Maina, e diede ai Greci la convinzione che la signoria franca fosse salda e sicura. Nell'anno 1248, Guglielmo di Villehardouin raggiunse a Cipro Luigi IX di Francia, che era in viaggio per la Siria; e al ritorno lasciò a Rodi un corpo d'armati in appoggio ai Genovesi, che combattevano con i Greci. La pace interna favorì lo sviluppo economico della Morea: numerosi vi furono i commercianti italiani, apprezzato fu il tornese principesco battuto a Clermont, e la corte di Lacedemonia, o La Creimonie, divenne famosa per il raffinato costume cavalleresco.
Convintosi di poter pretendere a un'egemonia sul mondo francolevantino, sostituendo il crollante impero latino di Costantinopoli, Guglielmo di Villehardouin si lasciò in fine portare ad imprese arrischiate che gli costarono scacchi umilianti. Mortagli nel 1255 la seconda moglie, Carintana dalle Carceri, della nota famiglia veronese dominante nell'Eubea, il principe cercò di assorbire quella signoria, urtando nella resistenza dei Consignori (Terzieri) dell'isola, sostenuti da Venezia; e, dopo una faticosa lotta, in cui fu appoggiato da Genova, dovette riaccordarsi con Venezia e ristabilire lo statu quo. Credette, allora, di indennizzarsi vendicandosi del signore d'Atene, Guido de la Roche, che, sebbene vassallo suo, gli aveva rifiutato aiuto in Eubea; perciò invase l'Attica, nel 1258, e sconfisse l'avversario a Monte Karidi, fra Megara e Tebe. Ma la Corte dei Pari si rifiutò di concedere al principe la desiderata confisca dei feudi del La Roche, e si accontentò di deferire questo al giudizio del re di Francia, che a sua volta lo assolse. Frattanto, Guglielmo di Villehardouin sposava Anna Angelo, figlia del despota d'Epiro, e si decideva a intervenire nel conflitto fra i Greci d'Epiro e i Greci di Nicea, per impedire la caduta di Costantinopoli nelle mani di Michele VIII Paleologo. Ma a Pelagonia, nell'ottobre 1259, venne sconfitto e fatto prigioniero; e solo nel 1262 ricuperò la libertà, Ledendo all'imperatore greco Monemvasia, Maina e Mistrà. La formazione di una provincia bizantina in Morea segna l'inizio della decadenza del principato. Conflitti di confini determinano uno stato permanente di agitazione. Frequenti scorrerie turbarono profondamente l'agricoltura e il commercio. Le popolazioni greche si sentirono nuovamente attratte da Costantinopoli; mentre l'aristocrazia franca, dopo il massacro di Pelagonia, apparve diminuita di forze e di numero.
Guglielmo di Villehardouin morì nel 1278. Resistendo alle seduzioni di Michele VIII, il principe aveva sposato, nel 1267, la figlia maggiore Isabella a Filippo d'Angiò, cadetto di Carlo I, re di Sicilia, che già era diventato il superiore feudale del principe, per i diritti sulla corona di Romania cedutigli da Baldovino II. Gli Angioini di Napoli erano i soli che potessero arrestare lo sviluppo dell'impero dei Paleologi. Il principe promise il suo appoggio contro i Greci e combatté a Tagliacozzo contro Corradino di Svevia. Morto nel 1276 Filippo d'Angiò senza eredi, il principato passò a Carlo I, che assunse il titolo di principe alla morte di Guglielmo, governando il nuovo acquisto per mezzo di balivi inviati da Napoli o scelti fra i baroni franchi d'Acaia. Ma nel 1289 Carlo II dovette cedere alle insistenze dei sudditi d'Acaia e restituire il principato ad Isabella di Villehardouin, la quale, dopo vent'anni di semiprigionia a Napoli, fu sposata ora a Florent d'Avesnes dei conti di Hainaut, connestabile del Regno di Napoli. Preso solennemente possesso dell'Acaia, Isabella e Florent attesero a farvi scomparire le tracce della pesante amministrazione angioina; ma già nel 1297 Isabella rimase vedova, con una bambina promessa in sposa a Guido II de la Roche, duca d'Atene.
Bisognosa di sostegno, Isabella sposò a Roma in terze nozze, nel 1301, Filippo di Savoia, figlio di Tommaso III e signore del Piemonte. Ma il malcontento dei baroni e quello di Carlo II costrinsero Filippo ed Isabella a rinunciare ad ogni tentativo di affermazione della loro autorità in Acaia e a cedere nel 1307 ogni diritto a Carlo II, in cambio della contea d'Alba Fucense e di annue 600 once d'oro. Le clausole del contratto non ebbero tuttavia esecuzione; ed Isabella, morendo nel 1311, poté lasciare i suoi diritti alla figlia Mahaut (Matilde), mentre Filippo di Savoia li riaffermava per sé e per la figlia natagli da Isabella, Margherita. Così, mentre il governo dell'Acaia era praticamente nelle mani dei balivi angioini o dei pochi baroni franchi, del tutto indipendenti, varie famiglie si contendevano la signoria nominale del principato. Carlo II ne investì il figlio Filippo di Taranto, che nel 1313 cedette i suoi titoli a Matilde d'Hainaut, già vedova di Guido II, duca d'Atene, ed ora sposata a Ludovico di Borgogna. Al loro tentativo di occupare la penisola nel 1316, si oppose Ferdinando d'Aragona, del ramo di Maiorca, che aveva sposato Isabella di Sabran, figlia di Isnardo di Sabran e di Margherita, secondogenita di Guglielmo, ultimo dei Villehardouin. Ferdinando di Maiorca morì nella battaglia di Manolada; il vincitore Ludovico di Borgogna venne a morte poco dopo. La principessa Matilde fu allora invitata da Roberto, re di Napoli, a sposare il fratello suo Giovanni di Gravina. Essa rifiutò; ma, avendo sposato Ugo de la Palisse senza l'autorizzazione sovrana, venne dichiarata decaduta dai suoi diritti, arrestata e chiusa in Castel dell'Ovo, ove morì nel 1331. Roberto d'Angiò assegnò allora il feudo al fratello Giovanni, che nel 1333 lo cedette a Roberto di Taranto, figlio di Filippo e di Caterina di Valois-Courtenay, imperatrice nominale di Romania. Roberto cercò d'imporsi ai feudatarî d'Acaia, assistito dai consigli e dal denaro di Nicolò Acciaiuoli (v.); ma trovò ostilità nel partito che favoriva l'impero bizantino, e in un altro che pensava a Giacomo di Maiorca, figlio di Ferdinando e di Isabella di Sabran.
Alla morte di Roberto di Taranto (1364), la vedova Maria di Bourbon sperò assicurarsi la successione nel principato a favore del figlio natole dalle sue prime nozze con Ugo IV re di Cipro, Ugo principe di Galilea; ma dovette cedere al cognato Filippo di Taranto, che, morendo nel 1373, lasciò i suoi diritti alla sorella Margherita, sposata a Francesco di Baux, duca d'Andria, e al figlio Giacomo. Ma i baroni d'Acaia respinsero i Baux ed offrirono l'omaggio alla regina di Napoli, Giovanna I, che investì del principato il suo quarto marito Ottone di Brunswick. Questi, a sua volta, lo cedette ai Cavalieri di Rodi per il canone annuo di 4000 ducati. La caduta di Giovanna I e di Ottone nel 1382, per opera di Carlo III, offrì a Giacomo di Baux la possibilità di tentare la conquista con l'aiuto di una compagnia di ventura, detta dei Navarresi; ma, morto il pretendente nel 1383, i capi della compagnia, Mahiot di Coquerel e Pedro di San Superan, eliminati i Cavalieri di Rodi, rimasero di fatto i padroni della penisola, contro tutti i pretendenti. Solo Ladislao di Durazzo riuscì nel 1396 ad intendersi con il San Superan, che acconsentì ad essere investito del principato come vassallo del re di Napoli. Nel 1402, all'avventuriero spagnolo succedette il cognato Centurione Zaccaria II, barone di Kyparissia, che nel 1415 dovette acconsentire a pagare tributo al despota greco di Mistrà. La figlia Caterina sposò poi il despota Tommaso Paleologo, che, nel 1432, raccolse la successione di Centurione. Così la Morea desolata da tante guerre, corsa e ricorsa da avventurieri franchi, catalani, turchi, slavi, si ricongiunse all'impero bizantino. Ma questo era vicino a crollare e Maometto II poté facilmente, dopo caduta Costantinopoli, occupare la regione.
Fonti: Il principale documento è la Cronica di Morea, arrivataci in varie redazioni: greca (Τὸ χρονικὸν τῆς Μορέως, ed. Schmitt, Londra 1904); francese (Le livre de la conqueste, ed. Buchon, Parigi 1845; o Livre de la Conqueste de la Princée de l'Amorée, ed. Longnon, Parigi 1911); aragonese (Libro de los fachos et conquistas del principado de la M., ed. Morel-Fatio, Ginevra 1885); italiana (Cronaca di Morea, edizione Hopf in Chroniques gréco-romanes, Berlino 1873). Il Libro dei costumi è in Canciani, Barbaror. Leges Antiquae, IV, Venezia 1785.
Bibl.: Brandis, in Pauly-Wissowa, real-Encycl. der class. Altertumswiss., I, col. 156 segg.; J. Beloch, Griech. Gesch., 2ª ed., I, ii, pp. 76 segg., 83 segg. Hermann-Swoboda, Griech. Staatsaltertümer, Tubinga 1913, III, p. 370 segg.; L. Pareti, Storia di Sparta arcaica, Firenze 1917, p. 66 segg. Per l'Acaia romana: E. De Ruggiero, Dizionario epigrafico di antichità romane, I, s. v.; Th. Mommsen, Le provincie romane da Augusto a Diocleziano, trad. ital. di E. De Ruggiero, Torino e Roma 1887, p. 236 segg.; G. F. Hertzberg, Histoire de la Grèce sous la domination des Romains (trad. francese di Bouché-Leclercq), voll. 2, Parigi, 1887; Th. Mahaffy, The Greek world under Roman Sway, Londra 1890; J. Marquardt, Organisation de l'empire romain (traduzione francese), Parigi 1892; W. Miller, The Romans in Greece, in Westminster Review, (1903) pp. 186-210; R. v. Scala, Das Griechenthum seit Alexander dem Grossen, 1904; V. Chapot in Darenberg-Saglio, Dictionnaire des Antiquités s. v. provincia, IV, i, p. 727; L. Friedländer, Griechenland unter den Römern, in Deutsche Rundschau, C (1899), pp. 251-274, 402-430; G. Colin, La Grèce et Rome, Parigi 1905, p. 639 segg.; Niccolini, La Grecia provincia, in St. stor. per l'ant. classica, II (1905), p. 344 segg. e La confederazione achea, Pavia 1914, p. 313 segg.; G. Cardinali, Sulla condizione tributaria della Grecia, in St. storici cit., III (1910), p. 31 segg.; V. Costanzi, La condizione giuridica della Grecia in Riv. di filologia, XLV (1917), p. 402 segg.
Per il principato di Acaia vedi J. A. Buchon, Recherches historiques sur la Principauté française de Morée, Parigi 1845, e Nouvelles recherches ecc., Parigi 1843; K. Hopf, Geschichte Griechenlands von Beginn des Mittelalters, in Ersch e Gruber, Allgemeine Encyklopädie, Lipsia 1867; De Mas Latrie, Les Princes de Morée, in Miscellanea R. Deputazione veneta, s. I, Venezia 1883, voll. 2; Miller, The Latins in the Levant, Londra 1908; Rennel Rodd, The Princes of Achaia and the Chronicles of Morea, Londra 1907; F. Cerone, La sovranità napolitana sulla Morea, in Arch. stor. nap., n. s., II-III (1916-17), Datta, Storia dei principi di Savoia del ramo d'Acaia, Torino 1832; R. Cessi, Amedeo di Acaia ecc., in Nuovo archivio veneto, n. s., XXXVII (1919).