accademie nella storia della lingua
In un paese come l’Italia, per lunghi secoli senza unità politica e ancora oggi vivacemente policentrico e multilingue, le accademie, in particolare quelle sorte tra Cinquecento e Seicento, hanno avuto un ruolo fondamentale dal punto di vista linguistico e culturale. Proprio agli inizi del Cinquecento, infatti, per ragioni diverse (in parte materiali, legate all’invenzione e diffusione della stampa, e in parte simboliche e identitarie, legate alla perdita dell’indipendenza politica) e con una forza impensabile fino agli ultimi decenni del Quattrocento, emerge il bisogno di rifondare la lingua volgare su nuove basi, molto più sicure rispetto a quelle di un passato anche recente, su regole grammaticali condivisibili, su un repertorio lessicale autorevole e facilmente riproducibile, su un canone definito di testi letterari filologicamente affidabili e linguisticamente omogenei.
Ma costruire gli strumenti della nuova alfabetizzazione, scrivere cioè un numero veramente imponente di grammatiche e di vocabolari e sviluppare un’attività capillare e omologante di tipo editoriale (attraverso i correttori di tipografia) non appare sufficiente. È necessario inventare un nuovo modello pedagogico, formare in modo diverso le nuove generazioni, orientare diversamente i comportamenti, le abitudini di lettura, il gusto di un pubblico sempre più vasto. È necessario, in primo luogo, rendere tutti consapevoli dei valori della nuova lingua, non considerabili per nulla inferiori rispetto a quelli ritenuti propri delle lingue classiche, in particolare del latino. È necessario, in particolare, creare una nuova socialità, attraverso una rete di istituzioni capaci di essere nello stesso tempo territoriali, nazionali e internazionali.
Le università, che avevano avuto, fin dal medioevo, il compito di formare la nuova classe di amministratori e professionisti, almeno fino al Settecento continuarono a farlo servendosi del latino, la lingua della tradizione, quella che permetteva l’immediata comunicazione nazionale e internazionale. Le accademie, che nel corso del Cinquecento nascono numerosissime in tutta Italia, con strutture organizzative e ritualità diverse, ma generalmente meno rigide e formali delle università, diventano invece i soggetti e i luoghi privilegiati di elaborazione, riflessione e diffusione della lingua volgare, il fiorentino-italiano che aspira ad essere nazionale, a diventare la lingua-tetto al di sopra dei tanti dialetti quotidianamente parlati e a diffondersi in nuovi campi del sapere (filosofia, scienza, diritto) fino a quel momento dominio esclusivo del latino.
Ma caratteristiche fondamentali delle accademie d’Italia sono, oltre alla fitta capillarità, la varietà di tipologie e di campi di interessi, la capacità di adattamento a situazioni e bisogni culturali diversi e la durata nel tempo. Nella Storia di Maylender (1926-30) vengono censite oltre 2000 accademie italiane, alcune delle quali mantengono lo stesso nome in città diverse, come ad es. l’Accademia degli Accesi o quella degli Affidati. Se si osservano la mappa delle accademie cinque-seicentesche si nota la presenza di accademie pubbliche (per es., l’Accademia fiorentina, Firenze 1541) e accademie private (si tratta della stragrande maggioranza: dall’Accademia degli Affidati, Pavia 1525, all’Accademia degli Infiammati, Padova 1540, all’Accademia degli Alterati, Firenze 1564), accademie impegnate sul fronte delle arti figurative (per es., l’Accademia delle arti del disegno, Firenze 1563), del teatro (Accademia degli Intronati, Siena 1525), della lingua (Accademia della Crusca, Firenze 1583) o della nuova scienza (Accademia dei Lincei, Roma 1603; Accademia del Cimento, Firenze 1657).
In molti casi si tratta solo di preferenza per un certo campo culturale, in quanto gli intrecci e le connessioni tra saperi e attività sono molto frequenti, anche perché una delle caratteristiche delle accademie è la forte esigenza divulgativa che si accompagna alla ‘festosità’, al gusto del ritrovarsi anche per occasioni di svago, di intrattenimento o di cerimonie. Le accademie rappresentano «una storia esemplare: di fortissimo rilievo culturale (anche in senso antropologico), di rilevantissima portata modellizzante. […] uno dei macrosegni, tra i più nitidi e disseminati, del primato italiano tra Quattro e Cinquecento» (Quondam 1982: 824-825). Alla fine del Seicento (1690) è fondata a Roma, per iniziativa di Gravina e di Crescimbeni, un’accademia letteraria particolare, con chiare finalità antibarocche, l’Arcadia, che si diffonde, attraverso colonie, in tutta Italia. Nel corso del Settecento, poi, nascono molte nuove accademie (alla fine del secolo e agli inizi dell’Ottocento, anche per impulso napoleonico, come l’Istituto lombardo di scienze, lettere e arti e l’Istituto veneto di scienze, lettere e arti), mentre quelle preesistenti tendono a trasformarsi, rispecchiando così una nuova fase della storia culturale italiana, ‘illuminata’, più europea, aperta all’enciclopedismo e quindi a un nuovo modello accademico, quello francese che si diffonde in tutta Europa.
Le accademie hanno un precedente immediato nei cenacoli umanistici, sorti in tutta Italia nel Quattrocento sul modello dell’antica Accademia platonica; il loro carattere prevalente è quello di riunioni informali tra amici e studiosi, che liberamente scelgono di dibattere temi di interesse comune (De Caprio 1982). Appare emblematico che le origini della ➔ questione della lingua si possano quasi far coincidere con uno di questi cenacoli, gli Orti Oricellari a Firenze, in quanto proprio qui il vicentino Gian Giorgio Trissino fa conoscere ai letterati fiorentini, in gran parte increduli, il De vulgari eloquentia dantesco, da lui da poco riscoperto, poi pubblicato e tradotto (1529) e destinato a suscitare polemiche e discussioni molto accese e durature.
Le accademie, che si affermano soprattutto nei decenni successivi, rispetto ai cenacoli hanno un’organizzazione formale molto meglio definita, con leggi, ‘imprese’, simboli, figure guida, ma in ogni caso rappresentano, come appare fin dal nome, il recupero di un’istituzione classica, seppure profondamente trasformata, in relazione non solo ai nuovi modelli culturali, ma anche a nuovi contenuti. Questo adattamento alla modernità appare ben documentato dal vasto ed eterogeneo corpus di testimonianze proveniente dalle accademie stesse (statuti, verbali, lezioni), che è arricchito da una trattatistica, per lo più celebrativa, di grande interesse e di lunga durata (a cominciare da Scipione Bargagli, Delle lodi delle Accademie, 1569). Si coglie un diffuso sentimento, quasi un sincero orgoglio per la riproposizione di questo antico istituto che permette
uno adunamento di liberi e virtuosi intelletti […] con honesta, utile e amichevole emulatione al saper pronti; li quali sotto diterminati lor leggi e istatuti [statuti], in diversi e honorati studi e principalmente di lettere, hora imparando e hora insegnando, s’essercitino […] e ristringendosi insieme divengon poi quasi un solo huomo che et molti piedi et molte mani et molte sentimenta ritegna (Bargagli 1569: 13-14)
Le questioni di tipo linguistico appaiono centrali in molte accademie italiane cinque-seicentesche, in relazione a quel bisogno di lingua e di regole di cui si è già detto. Durante le riunioni si fa in primo luogo esercizio di lingua:
con acconcia maniera e somma perfettione s’insegna il vero modo dello ’mprendere e del dichiarare le scritture de’ buon poeti, degli ornati retorici e degli altri simili ottimi scrittori […] è aperta tutta la forza delle parole, notata la grandezza e maestà delle sentenze, scoperto l’artificio (Bargagli 1569: 28)
Si discute di riforma alfabetica, di grammatica, di lessico, di metodi di traduzione, di problemi di filologia e di interpretazione di testi antichi e moderni. Il senese Claudio Tolomei afferma di essere contrario a una riforma ortofonica, che pure giudica astrattamente in sé opportuna («vestire giubbone o scarpe d’altri le quali non essendo fatte a suo dosso sempre o le stringono o le stroppiano»: Tolomei, Il Polito, 1525; cfr. Richardson 1984: 90), in quanto la considera destinata all’insuccesso, soprattutto se promossa da una singola persona:
quant’io de le lettere ragionai fu solo per mostrarvi quai siano le varietà de’ suoni toscani, quai siano le forze de le lettere latine: che cosa l’Academia nostra pensasse, che giudicasse che deliberasse. Et s’ella che pur di molti et gentilissimi spiriti era ripiena non volse questa tanta invidia sopra le spalle sue follemente recarsi, pensi tu che così stolto sia ch’i’ vogli di così pericolosa impresa farmi solo o capitano o maestro? (Tolomei 1547: 224)
Quest’idea di accademia come soggetto collettivo, in sé autorevole e capace di imporre precise soluzioni grammaticali o lessicografiche e quindi un certo orientamento alle vicende linguistiche complessive, ritorna più volte nei decenni successivi del Cinquecento. L’esempio più notevole in proposito è senza dubbio rappresentato dall’Accademia fiorentina, strumento della politica culturale e linguistica medicea (Plaissance 1973). Cosimo I, infatti, riprendendo da Lorenzo il Magnifico il progetto di rafforzare il prestigio dello Stato attraverso il prestigio della lingua, trasforma un’accademia preesistente, quella degli Umidi, in un’accademia pubblica, statale, l’Accademia fiorentina appunto, retta da un console, al quale conferisce lo stesso stipendio e la stessa autorità del rettore dell’università. L’accademia è esplicitamente incaricata di occuparsi di lingua volgare e di traduzioni. Chiarissimo in proposito l’atto costituivo del 23 febbraio 1541 (in stile comune 1542):
E desiderando come ottimo Principe della città sua che i fedelissimi suoi popoli ancor si facciano ricchi e si onorino di quel buono e bello che Iddio Ottimo Massimo ha dato loro, cioè l’eccellenza della propria lingua la quale oggi da gran parte del mondo è tenuta in grandissimo pregio e per la bellezza e nobiltà e grazia sua molto desiderata. E acciocché quei virtuosi e nobilissimi spiriti, che oggi si trovano e per i tempi si troveranno nella sua felicissima Accademia fiorentina, a gloria di S.E., onore della patria, ed esaltazione di loro stessi, aiutati da quella con ogni onestissimo e meritatissimo favore, possano più ardentemente seguitare i detti loro esercizi, interpretando, componendo e da ogni altra lingua ogni bella scienza in questa nostra riducendo: hanno osservato da osservarsi e tenuto partito, secondo gli ordini deliberato e dichiarato, che l’autorità onore e privilegi gradi salario ed emolumenti ed ogni tutto che ha conseguito e si appartiene al rettore dello Studio di Firenze da ora innanzi si appartenga e sia pienamente del magnifico consolo della già detta Accademia (Nencioni 1983: 216; corsivi aggiunti)
La creazione dell’Accademia fiorentina cambia il quadro generale dell’Italia linguistica cinquecentesca, ridando a Firenze quella centralità che nei primi decenni del secolo avevano avuto Venezia e il Veneto. Sono chiamati a farne parte filologi, linguisti e letterati di grande valore, fra i quali Benedetto ➔ Varchi, richiamato dall’esilio padovano. E proprio Varchi trasferì a Firenze molte idee ed esperienze positive che erano maturate a Padova nella coeva Accademia degli Infiammati, animata da personaggi illustri come Pietro ➔ Bembo e Sperone Speroni. Quest’ultimo ne fu presidente nel 1542, proprio lo stesso anno della pubblicazione del suo Dialogo delle lingue, nel quale rivendica la necessità e l’urgenza delle traduzioni: «Dio volesse […] che tutti i libri di ogni scienza, quanti ne sono greci e latini e ebrei, alcuna dotta e pietosa persona si desse a fare volgari» (Speroni 1998: 321-322; sull’antiumanesimo dello Speroni, cfr. Bruni 1969). E all’interno dell’Accademia fiorentina si svolge un’intensa attività di traduzione (per es. da parte di Cosimo Bartoli, che porta un notevole arricchimento al lessico volgare, traducendo le opere latine di Leon Battista ➔ Alberti), si commentano testi fondamentali (fra cui la Poetica aristotelica), si recupera pienamente Dante dopo la censura del Bembo, si riflette in modo articolato sulla lingua (dalla riforma ortofonica di Neri Dortelata ai Capricci del Bottaio del Gelli). Alle letture partecipa un pubblico vastissimo, come risulta dalla interessante testimonianza di Cosimo Bartoli, a proposito delle lezioni del filosofo Verino:
immaginatevi che quel vecchio ne impazzava per l’allegrezza e quando ei s’accorgeva e vedeva che gli huomini vi si voltavano spontaneamente, anzi per dir meglio, con tanto ardore che o alle sue lezzioni o a quelle degli altri comparivano duomila persone ad ascoltare […] [e poco più avanti] gli sentii dire infinite volte che questo era un essercizio mediante il quale gli huomini della età futura potrebbon fare in breve grandissimi frutti (Bartoli 1567: 7r)
Lionardo Salviati, allievo del Varchi, chiamato a recitare un’orazione all’Accademia fiorentina a soli 24 anni, dimostra di avere perfettamente capito il ruolo fondamentale che essa avrebbe potuto svolgere nella politica di sostegno e di espansione della lingua volgare perseguita da Cosimo:
Questa Accademia darà le regole della lingua. Questa dell’altre lingue caverà le scienze, nella sua trasportandole. Questa farà nostro cittadino Aristotile, e ogni parte della filosofia nella nostra favella fedelmente trasporterà. Per questa insomma tutta la Medicina, tutta la professione delle leggi, tutta la sacra Teologia nel Fiorentino idioma puramente tradotta si leggerà (Salviati 1575: 35; cfr. Maraschio 2001: 193).
Se l’Accademia Fiorentina non produsse mai la grammatica che Cosimo e Salviati avrebbero voluto, a Firenze un’altra accademia, quella della Crusca, nata per iniziativa di un piccolo gruppo di transfughi dalla prima (Giovan Battista Deti, Anton Francesco Grazzini, Bernardo Canigiani, Bernardo Zanchini, Bastiano de’ Rossi, ai quali si unì Lionardo Salviati), realizzò il più importante vocabolario di una lingua nazionale fino a quel momento pubblicato, modello di tutti i grandi vocabolari europei.
Il passaggio da ‘brigata’ ad accademia, ossia da una libera associazione di amici, che si riuniscono per leggere insieme e per divertirsi, a un organismo regolato che si pone precise finalità culturali e di studio, è testimoniato molto bene dal resoconto, vivace e dettagliato, della riunione in cui fu decisa la trasformazione, voluta da Lionardo Salviati, della Brigata dei Crusconi in Accademia della Crusca. Il nome Crusconi deriva dal fatto che i loro argomenti leggeri, bizzarri e inconsueti erano definiti appunto cruscate e il loro leggere in crusca significava «leggere per burla», con uno spirito volutamente antipedantesco e antiaccademico. Ma ecco le parole del Salviati:
havendo io considerato l’animo di tutti voi, le vostre operazioni e a che fine esse tendano, il tutto mi è parso eccellente e ammirabile fuor ch’una cosa sola ch’è questa: che voi senz’ordine e senza scopo principale esercitiate sì nobile opera com’è questa di ritrovarsi insieme spesso a virtuosamente rallegrarci. E in verità mi pare cosa poco convenevole ch’huomini, come voi siete, forniti di tanto giudizio e di così pregiata letteratura, spendiate il tempo in cose onorate senza fine particolare e, per così dire, senza saper perché. Ora non sarebbe molto migliore cosa, più eccellente, con grazioso e piacevole ordine dar a questa nostra brigata nome d’Accademia, creare uno agl’altri superiore, leggere, censurare e esercitare tutti gl’altri ofici accademici? […] Né vi crediate per questo ch’io vi conforti a voler mutar natura, di voler vestir nuova persona co’l darvi di stolta gravità, né a legarvi in modo veruno; ma che solo seguitando il nome di Crusca e vivendo allegramente quelle medesime operazioni virtuose che si fanno ora si facciano con ordine ordinato, […] in maniera che sia con nostra commodità, e piacere; che noi non più Crusconi ci facciamo chiamare, ma Accademici della Crusca (in Maraschio 2008: 193)
L’Accademia della Crusca, a differenza dell’Accademia fiorentina, si connota subito come un’accademia specializzata in campo filologico e linguistico. Nel 1595 pubblica infatti un’edizione critica della Divina Commedia, depurata da tutti gli errori (o presunti tali) apportati al testo dagli stampatori cinquecenteschi, realizzando in questo modo una delle idee fondamentali espresse dal Salviati nell’Orazione: quella che i fiorentini dovessero usare Dante («quello miracolo che noi tutti vediamo») come i greci avevano usato Omero, per esaltare cioè la loro lingua e «metterla in cielo» (Salviati 1575: 32). E dopo oltre venti anni di lavoro collegiale, nel 1612 pubblica a Venezia, per le cure di Bastiano de’ Rossi, la prima edizione del Vocabolario degli Accademici della Crusca che, ispirato dal Salviati, rappresenta, grazie alle sue cinque edizioni distribuite lungo l’arco dei secoli e via via modificate e arricchite (1612, 1623, 1691, 1729-38, 1863-1923), non solo il punto di riferimento fondamentale e concreto per la diffusione della lingua italiana in Italia e all’estero, ma anche uno straordinario strumento di identità nazionale. Il Vocabolario trasmette infatti in Italia e in Europa
la convinzione che la compilazione del dizionario fosse il mezzo migliore per conoscere la lingua nazionale e per dimostrare alla nazione che essa era la voce sua propria e legittima. […] strumento per la formazione di quella che giustamente è stata chiamata coscienza linguistica nazionale (Nencioni 1989: 442)
Colpisce nella ricca documentazione pervenutaci dall’Accademia della Crusca, tra le molte altre cose, il grande valore attribuito dagli accademici al lavoro collegiale, come dimostra emblematicamente la risposta perentoria, data all’inizio dei lavori del Vocabolario, al quesito se dentro l’opera si dovesse far menzione dell’accademia o degli accademici: «si faccia menzione dell’Accademia ma non degli accademici» (Parodi 1974: 300).
Il Vocabolario, nonostante le critiche, si impose per l’ampiezza e la ricchezza assolutamente non comparabili con i lessici precedenti, per la quantità degli spogli, il taglio e l’accuratezza delle citazioni dai testi, lo scrupolo filologico, la qualità delle definizioni, la sicurezza interpretativa, le scelte di tecnica lessicografica, la raggiunta omogeneità ortografica (Maraschio & Poggi Salani 2008: 50)
L’intera tradizione lessicografica italiana ne fu grandemente influenzata (➔ lessicografia).
Nell’Italia postunitaria molte delle accademie preesistenti continuano a esistere, a svolgere attività spesso importanti (incontri scientifici di alto livello e pubblicazioni di tipo periodico e monografico) e a tutelare, valorizzare e arricchire il proprio patrimonio bibliografico e archivistico, per lo più di grandissimo valore. La tipologia prevalente delle accademie, anche nel nostro paese, è attualmente quella che prevede una distinzione in due o più classi, scientifica e umanistica, che interagiscono utilmente tra loro (Accademia delle scienze di Torino; Istituto lombardo di scienze e lettere; Istituto Veneto: scienze fisiche e matematiche, scienze morali e politiche, lettere e belle arti; Accademia dei Lincei: scienze fisiche, matematiche e naturali; scienze morali, storiche e filologiche).
Molte accademie dopo l’Unità non hanno avuto vita facile per diverse ragioni, alcune connesse alla loro difficoltà di rinnovamento e adeguamento a un quadro culturale profondamente mutato, altre, durante il fascismo, alla politica accentratrice del regime, che mal tollerava la loro autonomia (➔ fascismo, lingua del). Per es., l’antica Accademia pontaniana di Napoli sopravvive legata alla Biblioteca nazionale, grazie all’iniziativa di Benedetto Croce (suo presidente nel 1917 e 1923) ed è ripristinata come ente autonomo solo nel 1944 con un decreto del comando alleato. In ogni caso, tutte le accademie sparse nella penisola, nel corso del Novecento, hanno dovuto affrontare l’esigenza di trovare una loro, nuova, collocazione accanto alle altre istituzioni culturali e formative, in primo luogo le università e gli istituti specializzati di ricerca. Dal punto di vista della storia linguistica italiana hanno un rilievo particolare l’Accademia della Crusca e l’Accademia d’Italia (1926/29-1944), che nel 1929 assorbì l’Accademia dei Lincei, poi rifondata nell’immediato dopoguerra.
Quanto alla Crusca, nel 1863 inizia a pubblicare la V edizione del suo Vocabolario, dedicandola al Re, Vittorio Emanuele II, come «il gran libro della nazione». Isidoro del Lungo (1841-1927), ultimo arciconsolo e primo presidente, agli inizi del XX secolo, si impegna a rinnovare profondamente la vita dell’accademia. Nella Memoria presentata al ministro nel 1911 egli prospetta, tra l’altro, oltre alla prosecuzione del Vocabolario, la compilazione di un Vocabolario minore sulla lingua dell’uso, di alcuni Vocabolari dialettali, «in cui i vocaboli e i modi delle parlate regionali abbiano gli esatti corrispondenti della lingua comune fondata sull’uso toscano», e un’attività di consulenza sulla nomenclatura tecnica e sui neologismi (Fanfani 2000: 77). Due anni prima aveva suggerito di chiamare la Crusca Accademia della lingua d’Italia, per sottolinearne il ruolo nazionale e mettere in evidenza la sua capacità di «accentrare […] le funzioni linguistiche del paese, così le storiche come le operative, così le riflettenti il passato come le inerenti alle odierne necessità» (Fanfani 2000: 72-73). Nel 1923 è pubblicato l’XI volume del Vocabolario, dedicato alle lettere N-O, ma il protrarsi dei lavori (per problemi metodologici, ma soprattutto per le scarse risorse economiche di cui l’accademia poteva disporre) causa molte polemiche, dà forza al partito degli oppositori (fra i quali spicca De Lollis) e suscita una campagna di stampa anticruscante molto violenta. L’11 marzo 1923, appena cinque mesi dopo la marcia su Roma, un decreto del ministro Gentile dispone per l’accademia un nuovo ordinamento e l’interruzione dell’attività lessicografica. La Crusca, al cui interno è creato (con regio decreto nel 1937) un Centro di filologia italiana, avrebbe dovuto da quel momento occuparsi soprattutto di «promuovere lo studio e l’edizione critica degli antichi testi e degli scrittori classici della letteratura dalle origini al secolo XIX» (Parodi 1983: 171).
Nel frattempo viene istituita l’Accademia d’Italia, che nel 1929 inizia un’intensa attività lessicografica, lavorando in un primo tempo a un dizionario di arti e mestieri, formato di volumetti settoriali, il cui primo titolo è un Dizionario di marina, pubblicato nel 1937, cui fa seguito un Dizionario di aeronautica, completato nel 1941 e rimasto inedito (Raffaelli 2005: 266-267). Ma l’impegno maggiore è per un grande dizionario della lingua italiana, fortemente voluto da Benito Mussolini: «l’Accademia deve dare alla nazione il vocabolario completo e aggiornato della lingua italiana e ciò nel termine di cinque anni» (Raffaelli 2005: 268; Marazzini 2009: 386). Sono coinvolti nell’impresa molti linguisti e letterati illustri, molti redattori e molti corrispondenti e il primo e unico volume (A-C) è pubblicato nel 1941. Il lavoro lessicografico si basa su nuovi spogli, ma anche su alcuni vocabolari preesistenti. Il tentativo di acquisire le schede lessicografiche già compilate dagli accademici della Crusca, dalla P alla Z, fallisce per la tenace opposizione di Guido Mazzoni, che «non tenne conto né del parere di Mussolini né di un’ingiunzione del Ministro dell’educazione nazionale Francesco Ercole e impedì nel gennaio 1935 che le schede P-Z dell’ultima Crusca e del Glossario fossero trasferite a Roma» (Raffaelli 2005: 270). L’Accademia d’Italia, con Bertoni e Ugolini, interviene anche in altre questioni linguistiche e in particolare si occupa di normalizzare la pronuncia e l’ortografia dell’italiano, pubblicando per la radio (allora EIAR), nel 1939, un Prontuario di pronuncia e ortografia, basato sul modello fiorentino-romano, secondo la celebre formula dell’asse Firenze-Roma.
L’Accademia della Crusca nell’adunanza del 22 gennaio 1953 decide di studiare la possibilità di riprendere l’attività lessicografica, discutendo l’anno successivo la Relazione all’Accademia della Crusca sul Vocabolario della lingua italiana presentata da Giovanni Nencioni. Nel 1965, sotto la presidenza di Giacomo Devoto, è avviato il progetto di un nuovo vocabolario storico italiano, finanziato dal CNR, e creata a questo fine una struttura, l’Opera del vocabolario italiano (OVI), che dal 2001 diventa un istituto del CNR (direttore Pietro Beltrami), legato all’accademia da una convenzione di stretta collaborazione scientifica. L’Opera del vocabolario italiano è attualmente impegnata della compilazione del Tesoro della lingua italiana delle origini.
Come si è potuto vedere, alcune delle accademie italiane nate alcuni secoli fa sono attive ancora oggi. Non si tratta naturalmente di un fenomeno peculiare del nostro Paese: basti pensare all’Académie française (1635), alla Real academia española (1713) e all’Accademia delle scienze russa (1724). Anzi, nell’attuale momento storico, caratterizzato da un’evidente accelerazione delle trasformazioni culturali che investono tutti i settori della convivenza civile e interessano in particolar modo la scuola e l’università, le grandi accademie sembrano rappresentare punti di riferimento essenziali per chiunque voglia orientarsi nel presente e progettare il futuro. Tutti i grandi temi della contemporaneità, a cominciare da quello linguistico, trovano infatti nelle accademie un terreno particolarmente fertile di discussione ed elaborazione. Grazie alla solidità delle proprie tradizioni, all’autorevolezza della propria storia e alla rete di rapporti nazionali e internazionali nella quale sono da sempre inserite, le accademie riescono infatti a collocarsi al di sopra del movimento, talvolta convulso, del presente e possono ancora avere una funzione socialmente rilevante nel panorama contemporaneo. Importante in tal senso il ruolo di coordinamento svolto da organismi sovranazionali come l’Unione accademica internazionale e, sul piano della politica linguistica europea, quello della Federazione delle istituzioni linguistiche nazionali (EFNIL). È molto significativo, per ritornare all’Italia, che i nostri padri costituenti abbiano deciso di mettere nella Costituzione repubblicana le accademie sullo stesso piano delle università: «le istituzioni di alta cultura, università ed accademie, hanno il diritto di darsi ordinamenti autonomi nei limiti stabiliti dalle leggi dello Stato» (art. 33, comma 6).
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