accanimento terapeutico
accaniménto terapèutico locuz. sost. m. – Pratica, molto discussa, di prosecuzione non richiesta dal paziente di terapie straordinarie non sintomatiche, pur nell'evidenza di condizioni cliniche ormai disperate. Identificare con sicurezza tale pratica può apparire difficile, perché vari tipi di interventi potrebbero diventare a. t.: una cura chemioterapica, una rianimazione ripetuta e così via. Questa ambiguità è legata alla profonda trasformazione subita dalla medicina: se per la medicina tradizionale, di stampo ippocratico, prolungare la vita rappresentava un bene, per quella attuale allungare a tutti i costi la durata della vita può non essere un reale beneficio, se questa vita è ormai ridotta a pura sopravvivenza biologica priva di connotati umani.
Il principio della proporzionalità della cura. – La persona va protetta contro il tecnicismo eccessivo rappresentato dall’abuso dei mezzi terapeutici, affermando il diritto di morire con dignità. La questione riguarda quindi la proporzionalità delle cure, ossia se certi interventi medici sono appropriati alla gravità delle condizioni del paziente. Decidere fino a che punto le cure sono dovute e a partire da quale momento diventano invece un accanimento rappresenta un problema non solo medico, ma morale e giuridico. Attualmente si distingue tra mezzi proporzionati e sproporzionati: è necessario tenere nella massima considerazione i desideri del malato e dei suoi familiari, nonché il parere dei medici chiamati a giudicare se le tecniche messe in opera appaiano sproporzionate rispetto ai risultati prevedibili e se impongano al paziente sofferenze e disagi maggiori degli eventuali benefici. Tra i criteri proposti per definire l’a. t. vi sono quindi l’inutilità, ossia l’inefficacia sotto il profilo della terapia, e la penosità, e quindi la grave sofferenza inflitta al malato senza realistiche prospettive di miglioramento. Al malato dovranno essere in ogni caso somministrate le cure proporzionate e assicurata un’assistenza piena e continua. Il codice di deontologia medica ribadisce il dovere del medico di continuare a offrire la propria assistenza morale, limitando la sua opera alla «terapia atta a risparmiare inutili sofferenze, fornendo al malato i trattamenti appropriati a tutela, per quanto possibile, della qualità della vita» (art. 37).
Il rapporto medico/paziente. – Il dibattito relativo all’a. t. testimonia un profondo mutamento culturale relativo al rapporto tra medico e paziente, grazie all’affermazione del principio di autonomia che sancisce il diritto della persona di decidere in merito ai trattamenti medici, e quindi anche di rifiutarli se non corrispondono ai propri valori e alla propria visione della qualità della vita. Le decisioni cliniche appaiono quindi sempre più come scelte concordate tra medico e paziente. Del resto, nel codice deontologico dei medici italiani si legge: «Il medico non può non tener conto di quanto precedentemente manifestato dal malato» (art. 34). Nel 1997 la Convenzione europea di bioetica si è espressa nettamente a favore delle dichiarazioni anticipate, ossia dei desideri espressi dal paziente in merito a un intervento medico, da tenere in considerazione se il paziente, al momento dell'intervento, non è in grado di esprimere la propria volontà (art. 9). Alle stesse conclusioni è arrivato il Comitato nazionale per la bioetica nel documento Dichiarazioni anticipate di trattamento (2003), in cui si menziona esplicitamente la richiesta da parte del paziente di non attivare alcuna forma di a. t., il che rappresenta la rinuncia a trattamenti che appaiono sproporzionati o ingiustificati. Si tratta di una chiara apertura al testamento biologico, documento mediante il quale una persona può liberamente indicare i trattamenti sanitari che intende ricevere oppure, al contrario, a cui intende rinunciare, nel caso non sia più in grado di prendere decisioni autonome.