Accanimento terapeutico
Accanimento, futilità: due percorsidi riflessione
Il problema di porre alcuni limiti a ciò che la medicina può fare a beneficio di un malato, prolungando la vita in condizioni che a un certo punto cambiano di segno fino a diventare una condanna a vivere, peggiore del morire, è comune a tutta la pratica medica dell’area dello sviluppo. La riflessione, tuttavia, si è svolta al di qua e al di là dell’Atlantico sotto l’egida di due parole diverse che sintetizzano altrettanti differenti approcci allo stesso problema: mentre in Europa si è parlato di accanimento terapeutico, nell’area linguistico-culturale dell’America Settentrionale il dibattito si è concentrato intorno alla futilità delle cure. Possiamo dire che in Europa ci si è interrogati prevalentemente riguardo al confine che la cura non dovrebbe superare se non vuole creare situazioni mostruose, mentre in ambito anglosassone la preoccupazione dominante è stata quella di un uso ragionevole ed equo delle risorse.
L’estraneità della parola accanimento rispetto alla terminologia in uso nel dibattito bioetico anglosassone è stata rilevata da Daniel Sulmasy nella relazione sul tema delle direttive anticipate, tenuta nel simposio promosso dalla 12a Commissione Igiene e Sanità del Senato della Repubblica (29 marzo 2007). Oltre sul tono fortemente critico insito nell’espressione accanimento terapeutico, Sulmasy avanza diverse altre riserve. L’accanimento sposta il baricentro della decisione sul medico, mentre l’approccio morale tradizionale enfatizzava il punto di vista del paziente. Inoltre, il termine indica che è necessario raggiungere uno standard molto elevato prima che l’intervento possa essere interrotto. E ancora: l’accanimento si concentra eccessivamente sulle sofferenze causate dal trattamento stesso, piuttosto che sulla sofferenza complessiva associata al proseguimento delle cure (Sulmasy 2007).
Nell’analisi accurata dei significati denotativi e connotativi dell’espressione accanimento terapeutico, Sulmasy non manca di annotare che il suo uso nell’ambito dei comportamenti medici si deve far risalire al gesuita Patrick Verspieren il cui libro, Face à celui qui meurt. Euthanasie, acharnement thérapeutique, accompagnement, pubblicato nel 1984 (trad. it. 1985), consente di ricostruire il contesto nel quale si è diffuso questo neologismo. Il presupposto è costituito da un dibattito che aveva cominciato a prendere forma alla fine degli anni Settanta, all’interno del Centre Laennec di Parigi, un luogo di incontro per studenti di medicina. La rivista del centro – pubblicata anch’essa con il nome dell’illustre clinico René Laennec – aveva ospitato alcuni articoli di Verspieren intorno ai limiti da porre alle possibilità di intervento sulla vita umana. La riflessione si era sviluppata senza nascondere una certa tensione dialettica con il corpo medico. Quest’ultimo, infatti, mostrava una vischiosa resistenza in tutti i dibattiti che avevano un forte impatto sociale e richiedevano un cambiamento di paradigma. In quegli anni in Francia la professione medica veniva sollecitata a schierarsi a favore di una medicina socializzata, aderendo a una convenzione nazionale tra il corpo medico e la Sécurité sociale. I medici non politicizzati si opponevano, barricandosi dietro la concezione della medicina come professione liberale alla quale non potevano essere imposti vincoli. Non meno ostili si dimostrarono i medici nei confronti di coloro che avanzavano riserve di natura etica sulle decisioni cliniche: l’etica medica tradizionale faceva corpo con il sapere medico ed era sostanzialmente autoreferenziale; i medici pretendevano di darsi le regole in modo autonomo, senza il bisogno di interventi filosofici e teologici dall’esterno.
Nella rivista «Laennec» e nel periodico ufficiale dei gesuiti francesi, «Études», Verspieren prese posizioni che non potevano conciliargli la benevolenza dei ‘mandarini’ della medicina. Aveva un’affinità spirituale solo con pochi spiriti liberi che osavano mettere in discussione le certezze trionfalistiche della medicina, come Jean Hamburger che nel 1972 aveva pubblicato La puissance et la fragilité, un’analisi filosofico-sociale della medicina in cui venivano posti in discussione molti luoghi comuni e la pratica medica veniva coniugata anche con l’incertezza e la fragilità. Lo scontro più duro con quella parte della corporazione medica che era insensibile al nuovo si verificò, a metà degli anni Settanta, proprio sul tema che sarebbe stato designato con il neologismo accanimento terapeutico. Verspieren era giunto a riflettere sul giusto limite del prolungamento della vita, considerando con attenzione le reazioni di numerose famiglie che si lamentavano per ciò che veniva fatto ai loro congiunti nella fase terminale della malattia. Rilevato il profondo malessere connesso con la morte e il morire nell’era tecnologica, si dedicò alla ricerca di modalità diverse di gestire le cure per i morenti. L’espressione accanimento terapeutico venne quindi utilizzata in una prima fase per contestare certi comportamenti diffusi in medicina e proporre pratiche alternative, note come cure palliative.
Una prima sensibilizzazione era passata attraverso gli scritti di Elisabeth Kübler-Ross (On death and dying, 1969; trad. it. 1976), dedicati all’esplorazione psicologica delle fasi del morire. Nel 1975, con un gruppo di giovani medici e studenti di medicina gravitanti intorno al Centre Laennec, Verspieren si recò in Inghilterra, al St. Christopher hospice, dove era stato messo a punto un modo di accompagnare i pazienti alla morte unendo medicina e umanità. Alla scuola di Cecily Saunders, creatrice del primo hospice e ispiratrice della filosofia del trattamento del dolore fatta propria da tutto il movimento delle cure palliative, Verspieren scoprì che era possibile accompagnare il malato che andava verso la morte in modo diverso rispetto a quanto si faceva nel suo Paese e ne divenne subito un sostenitore entusiasta. Un cahier monografico della rivista «Laennec» venne dedicato alla terapia del dolore e alla cura dei malati terminali; il centro inglese e l’approccio innovativo delle cure palliative furono presentati, con articoli molto elogiativi, come alternativa alla diffusa insensibilità, da parte del corpo medico, verso i problemi etici e relazionali posti dall’assistenza ai morenti.
Nello stesso periodo, in Francia, il dibattito sull’accanimento terapeutico stava crescendo, sollecitando su un versante e sull’altro posizioni estreme. Da una parte, i medici tendevano a rifiutare ogni tentativo di rimettere in discussione le pratiche correnti sottolineando esclusivamente il dovere deontologico del medico di fare quanto era in suo potere per sconfiggere la malattia e prolungare la vita del malato; i richiami alla moderazione o all’astensione in certi casi venivano screditati agitando il fantasma dell’eutanasia. Dall’altra, la reazione a quella che veniva identificata come hybris medica, tesa a calpestare il legittimo interesse del malato di porre dei limiti a ciò che gli veniva fatto, mobilitava posizioni anch’esse estremistiche. In pratica si voleva erigere una barriera legale allo strapotere dei medici. Così va letto il progetto di legge presentato dal senatore Henri Caillavet nel 1978, identificato dall’opinione pubblica come tutela del cittadino rispetto all’accanimento terapeutico. Caillavet mirava a ottenere il riconoscimento legale del ‘testamento di vita’, mediante il quale i cittadini, sani o malati, venivano autorizzati a chiedere che la loro vita non fosse prolungata artificialmente, una volta effettuata una diagnosi di malattia incurabile. La legge prevedeva il diritto per ogni persona maggiorenne e sana di mente di «dichiarare la propria volontà che nessun mezzo medico o chirurgico, oltre a quelli destinati a calmare la sofferenza [venisse] utilizzato per prolungare artificialmente la vita, se […] colpita da un’affezione accidentale o patologica incurabile». Caillavet era intenzionato a far riconoscere esplicitamente da un testo di legge che ogni essere umano ha il diritto di «rifiutare la tecnologia medica se questa gli sembra eccessiva, disumanizzante, generatrice di dolori supplementari, e soprattutto tragicamente inutile, quando l’esito fatale non può essere evitato».
Verspieren intervenne nel dibattito per mettere in evidenza le carenze del progetto di legge. Il vizio principale della proposta era insito nell’espressione «prolungare artificialmente la vita»: era vaga e dal contenuto incerto. Quali sono, infatti, in medicina i limiti dell’artificiale? Verspieren era inoltre perplesso per il fatto che venissero fissati per legge i limiti delle cure da impartire ai malati ritenendo che il solo linguaggio adeguato a proposito del rifiuto dell’accanimento terapeutico fosse quello etico. Il passaggio dall’ambito etico alla formulazione giuridica non presentava solo la difficoltà di definire quali comportamenti dovessero essere esclusi in quanto ascrivibili all’accanimento terapeutico, ma anche il pericolo di sostituire una medicina ‘ostinata’ con una lassista.
Il dibattito sviluppatosi in origine attorno all’accanimento terapeutico aveva una valenza, se non antigiuridica, quanto meno di freno rispetto alla tendenza ad affidare alla legge il compito di definire i comportamenti appropriati verso quelle persone che la medicina può tenere in vita in condizioni ritenute non accettabili. Un secondo aspetto importante del dibattito era l’esigenza implicita di una ridefinizione dell’etica medica. Il richiamo alla centralità dell’etica al fine di trovare risposte misurate e sagge riguardo l’uso della tecnologia medica nella fase terminale della vita non equivale a una delega di giudizi di questo genere al medico. I professionisti medici tendono a difendersi dall’intervento di giuristi ed esperti di etica come da un’intrusione indebita, contrapponendo ai progetti di legiferazione il vecchio adagio secondo cui spetta al medico decidere ‘in scienza e coscienza’. La formula è ambigua e potrebbe essere intesa nel senso che spetta al medico, e solo a lui, decidere, senza alcun accordo con persone estranee al corpo medico. In questo senso difensivo i medici fanno talvolta appello alla deontologia medica come struttura normativa sufficiente a guidarli nelle decisioni. Se l’appello alla ‘coscienza’ può giustificare ogni decisione presa essenzialmente affidandosi alla soggettività del medico, quanto meno la formula ha il merito di riconoscere che la ‘scienza’ da sola non è sufficiente per risolvere situazioni dubbie. Per rispettare il malato e la sua volontà, il sapere scientifico non basta: sono necessarie altre qualità umane.
Proprio il rispetto della volontà del malato, indispensabile per conferire all’atto medico una struttura etica, apre nuovi scenari per la pratica della medicina, soprattutto quella relativa al segmento finale della vita. Molto spesso il paziente non è più in grado di prendere decisioni quando le tecniche mediche con finalità curative si rivelano inutilmente aggressive nella fase terminale della malattia. Lo sforzo cui sono tenuti tutti coloro che hanno una parte di responsabilità è di cercare di interpretare la volontà profonda del malato o – se questo non è possibile – di decidere al posto suo, tenendo conto di tutti gli elementi che avrebbero influenzato la sua decisione se fosse stato in grado di essere informato e di decidere da solo. Il fatto che sopporti male il trattamento, il desiderio fermamente espresso in precedenza di morire a casa sua, il fatto che abbia una famiglia premurosa che voglia assisterlo negli ultimi istanti sono tutti elementi ‘non scientifici’ di cui è necessario tener conto se si è animati da un vero rispetto nei confronti del malato e della sua volontà. Con tali fattori si deve confrontare la ‘coscienza’ del professionista sanitario.
L’etica medica dalla quale ci si aspettano le risposte che la legge non può dare non deve essere confusa con il corpo di regole che tradizionalmente porta questo nome, né si deve identificare con l’ethos di un solo corpo professionale. L’aggettivo medica, con cui si connota il termine etica, non va inteso come dei medici, bensì come della medicina quale campo d’azione dove sono attive diverse professioni, ognuna dotata di un sapere scientifico peculiare, e soprattutto nell’ambito della quale i cittadini assumono un ruolo attivo, sconosciuto nella pratica medica del passato. Questo nuovo assetto di regole presuppone l’empowerment del cittadino, alternativo alla sua tradizionale subalternità al potere medico. Per evitare equivoci, tale nuova etica medica nella maggior parte degli ambiti linguistici ha ricevuto un nome nuovo: bioetica (a eccezione della Francia, che preferisce l’espressione éthique médicale). Per quanto riguarda invece l’accanimento terapeutico, la Francia, pur avendo contribuito in modo decisivo al successo del neologismo, l’ha progressivamente abbandonato perlomeno nella terminologia ufficiale. Nel Code de la santé publique francese, la l. 370 (22 aprile 2005) parla di «ostinazione irragionevole», definendola come l’erogazione di trattamenti «inutili, sproporzionati o non aventi altro effetto che il solo mantenimento artificiale della vita».
Nel periodo in cui si sviluppò il dibattito intorno all’accanimento terapeutico, in ambito anglosassone si effettuò un’analoga riflessione utilizzando un altro termine fortemente evocativo: la futilità (futility) delle cure. In un articolo apparso in «The New England journal of medicine» nel 2000, si ricostruiscono le fasi iniziali, lo sviluppo e il declino del movimento della futilità (Helft, Siegler, Lantos 2000). Secondo gli autori dell’articolo di bilancio, la curva dell’interesse per il tema dei trattamenti futili si estende tra il 1987 e il 1996. Mentre prima del 1987 il concetto era praticamente ignorato dalla comunità medica, l’interesse raggiunse il suo apice nel 1995, per poi attenuarsi. Come indicatore viene assunto il numero di articoli sul tema reperibili con una ricerca sul data-base Medline. L’obiettivo del movimento della futilità era quello di convincere la società che è possibile ricorrere al sapere medico, sotto l’aspetto del giudizio clinico e delle competenze epidemiologiche, per determinare se un particolare trattamento è futile – vale a dire inefficace o non benefico – in una determinata situazione clinica; con la conseguenza che, qualora un trattamento sia qualificato come futile, il medico è autorizzato a non attivarlo o a sospenderlo, qualunque sia l’opinione del paziente stesso. Nell’articolo del 2000, gli autori della rassegna si sentivano autorizzati ad affermare che il risultato dell’appassionato dibattito stesse ormai inclinando piuttosto nella direzione contraria: a differenza di quindici anni prima, infatti, i medici erano semmai meno legittimati a stabilire unilateralmente quando un trattamento può essere considerato futile.
Il dibattito ha incontrato insuperabili difficoltà nel tentativo di definire la futilità sulla base di concetti statistici, di livelli di probabilità, di rigorose misurazioni fisiologiche di natura quantitativa, dovendo infine accettare che la validità di un risultato può determinarsi a volte secondo criteri del tutto soggettivi (come, per es., la possibilità di rimanere in vita tanto a lungo da poter rivedere un proprio familiare). Rivelatasi illusoria la possibilità di definire in modo oggettivo la futilità di un trattamento, il dibattito si è spostato sugli aspetti dell’etica procedurale, ovvero su chi ha il diritto, o il potere, di decidere a tale riguardo. Lo scenario ha visto contrapporre l’autonomia del paziente a quella del medico. Una possibilità di chiarimento risiede nel fatto di considerare l’autonomia come un complesso intreccio di obblighi relazionali che possono essere negoziati in modi diversi, a seconda di come cambiano le circostanze. La conclusione dell’articolo di bilancio del lungo dibattito – «Parlare ai pazienti e ai loro familiari deve restare l’obiettivo centrale verso cui concentrare i nostri sforzi» (Helft, Siegler, Lantos 2000, p. 296) – è anche l’esito paradossale di un movimento che si era proposto di rafforzare il potere medico circa le decisioni sui trattamenti. Nel dibattito sulla futilità è diventato evidente il cambiamento sociale in atto nell’autorità medica. Nelle decisioni i medici partecipano come una voce tra le altre; la domanda decisiva non è: «Che cosa ritengono appropriato i medici?», bensì: «Come possono condividere la loro saggezza?».
Un altro risultato importante è stato la raggiunta consapevolezza che, se è problematico applicare il giudizio di futilità ai trattamenti curativi (ingl. to cure), tale giudizio non può mai essere esteso a quelli di accudimento e conforto (ingl. to care) in quanto il fatto di prendersi cura non può mai essere futile. In questo senso, anche la riflessione sviluppatasi sulla futilità, così come quella sull’accanimento terapeutico, rimanda alle cure palliative quale elemento essenziale della medicina di fine vita. I professionisti sanitari non sono mai autorizzati ad abbandonare il malato, quand’anche si raggiungesse la convinzione che trattamenti ulteriori rientrano nella categoria della futilità o dell’accanimento. Infine, il dibattito sulla futilità ha portato a privilegiare le procedure rispetto ai principi. Soprattutto negli Stati Uniti, tutte le istituzioni sono state indotte ad adottare policies che prevengano i conflitti e aiutino a risolverli quando sorgono. Poiché anche i tribunali tendono a non sostenere più le decisioni unilaterali dei medici, si assiste attualmente a un ricorso sistematico ai comitati competenti per l’etica clinica quale passaggio obbligato prima della via giudiziale. L’etica medica trova in questo modo il suo baricentro nella ‘conversazione’, piuttosto che nella valutazione unilaterale.
Norme deontologiche e regole giuridiche
I nodi irrisolti nell’ambito del dibattito intorno ai criteri per identificare l’accanimento terapeutico non hanno tuttavia impedito che il termine fosse recepito dal Codice di deontologia medica, già fin dal 1989. Nella versione del 1995 l’accanimento – anche se la qualifica di cosiddetto tradisce l’imbarazzo per l’imprecisione che accompagna questo termine – viene escluso dai comportamenti professionalmente corretti: «Il medico deve astenersi dal cosiddetto accanimento diagnostico-terapeutico, consistente nella ostinazione in trattamenti da cui non si possa fondatamente attendere un beneficio per il paziente o un miglioramento della qualità della vita» (art. 13).
Il concetto di qualità della vita veicola implicitamente il superamento di una valutazione dell’accanimento con criteri esclusivamente oggettivi: la qualità, infatti, non si può decidere senza il punto di vista soggettivo. Il cammino verso l’assunzione della soggettività è diventato esplicito nella più recente redazione del Codice di deontologia medica (dicembre 2006): «Accanimento diagnostico-terapeutico. Il medico, anche tenendo conto delle volontà del paziente laddove espresse, deve astenersi dall’ostinazione in trattamenti diagnostici e terapeutici da cui non si possa fondatamente attendere un beneficio per la salute del malato e/o un miglioramento della qualità della vita» (art. 16).
Insieme a una certa esitazione nei confronti del termine accanimento, menzionato nel titolo dell’articolo ma sostituito nel corpo dello stesso con il sinonimo ostinazione, notiamo il vincolo posto dalla volontà del malato. È una posizione coerente con quanto il Codice formula circa l’autonomia del cittadino e le direttive anticipate (art. 38), alle quali viene riconosciuta piena cittadinanza etica. Accolto, anche se con qualche riserva, nel Codice di deontologia medica, l’accanimento terapeutico gode invece di molta popolarità in formule stereotipate, che sono passate al grande pubblico. La posizione che pretende di prendere la distanza dagli estremi – ‘né eutanasia, né accanimento terapeutico’ – collocandosi idealmente in un’aurea medietas, dove si presuppone abiti la razionalità, è stata enfaticamente proposta come soluzione conciliativa. Ma queste attese sono naufragate quando si sono scontrate con casi clinici molto problematici.
Analogamente a quanto è avvenuto negli Stati Uniti, anche in Italia il dibattito sull’accanimento terapeutico ha raggiunto l’opinione pubblica attraverso la risonanza mediatica di alcuni casi clinici. Il corrispettivo delle vicende di Karen Ann Quinlan, Nancy Beth Cruzan o Terry Schiavo, in Italia sono state quelle di Piergiorgio Welby ed Eluana Englaro. Anche in questi due casi i percorsi giudiziari, che hanno condotto a sentenze di diversi gradi di giudizio, hanno prodotto un rigoroso confronto con le regole giuridiche. Nel caso Welby la magistratura è stata chiamata in causa mediante un ricorso d’urgenza volto a ottenere il distacco del respiratore artificiale sotto sedazione terminale. All’opinione pubblica la richiesta di Welby è stata presentata come una rinuncia all’accanimento terapeutico, sulla base della natura volontaria dei trattamenti sanitari, diritto riconosciuto dall’art. 32 della Costituzione italiana. Sul carattere di accanimento le valutazioni sono destinate a divergere. Il Consiglio superiore di sanità, sollecitato dal ministro della Salute, affermava come «nel caso specifico del Signor Piergiorgio Welby il trattamento sostitutivo della funzione ventilatoria mediante ventilazione meccanica non configuri, allo stato attuale, il profilo dell’accanimento terapeutico» (seduta del 20 dicembre 2006).
Nel percorso giudiziario vanno segnalate due ordinanze nei confronti del dottor Mario Riccio, che ha eseguito il distacco del respiratore richiesto da Welby. Iscritto nel registro degli indagati in ordine al delitto di ‘omicidio del consenziente’, il dottor Riccio è stato oggetto di valutazioni giuridiche contrastanti. L’ordinanza del 28 maggio 2007 sosteneva l’imputazione, ridimensionando il principio della libertà di cura alla luce di quello di indisponibilità della vita umana. Secondo il giudice delle indagini preliminari, il pubblico ministero avrebbe dovuto formulare l’imputazione nei confronti del dottor Riccio per omicidio di consenziente. In seguito però l’udienza del 23 luglio 2007 ribaltava l’ordinanza del 28 maggio: il giudice dell’udienza preliminare dichiarava il non luogo a procedere nei confronti del medico imputato, perché «il fatto non costituisce reato» (sentenza n. 2049/07, depositata il 17 ottobre 2007).
Il dispositivo della sentenza esclude che nel caso di Welby sia rinvenibile l’ipotesi di accanimento terapeutico: «Non è l’esistenza dell’accanimento terapeutico a connotare di legittimità la condotta del medico che lo faccia cessare, bensì è la volontà espressa dal paziente di voler interrompere la terapia a escludere la rilevanza penale della condotta del medico che interrompa il trattamento». La sentenza riconosce che chi rifiuta in modo consapevole i trattamenti sanitari salvavita esercita un diritto soggettivo garantito dalla Costituzione: un’interpretazione coerente dell’art. 32 (secondo cui «nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge») da parte sia della giurisprudenza costituzionale sia di quella di legittimità, riconosce che la volontà consapevole di rifiutare un trattamento sanitario deve essere rispettata.
Anche la vicenda giudiziaria del caso di Eluana Englaro ha lasciato tracce importanti nelle diverse pronunce che si sono susseguite nei vari gradi di giudizio. Il padre della giovane donna, in stato di coma vegetativo irreversibile da più di quindici anni, ha chiesto l’interruzione dell’alimentazione forzata che manteneva in vita la figlia, in quanto «trattamento invasivo della sfera personale, perpetrato contro la dignità umana». Dopo il passaggio nelle corti territoriali – Tribunale di Lecco e Corte di appello di Milano – il caso è approdato alla Cassazione. Le sentenze di primo e secondo grado hanno rigettato la richiesta con l’argomento che le decisioni di fine vita sono un diritto personalissimo, non suscettibile di rappresentazione; pertanto nessuno può pronunciarsi in merito, anche se nominato dal paziente stesso.
Con sentenza n. 21748 del 16 ottobre 2007, la Cassazione ha annullato i giudizi precedenti e ha rinviato la causa a una diversa sezione della Corte di appello di Milano. Il principale appunto rivolto alla corte territoriale è stato l’omissione nell’accertare se la richiesta di interruzione del trattamento formulata dal padre in veste di tutore (curatore speciale) riflettesse gli orientamenti di vita della figlia. La Cassazione è partita dal presupposto che ogni persona capace possa decidere a quali trattamenti sottoporsi, in armonia con il proprio concetto di vita degna. Facendo un passo ulteriore, qualora la persona diventi incapace, il giudice, ricostruendo la personalità del malato, può arrivare alla conclusione che le condizioni in atto non corrispondono alla volontà del malato.
Il principio di diritto affermato dalla sentenza prevede che il giudice possa autorizzare la disattivazione di un presidio salvavita quando sia stata verificata la presenza di due presupposti: che il paziente si trovi in una condizione valutata in base a rigorosi criteri medici come stato vegetativo irreversibile e che l’istanza di interruzione sia espressiva, con elementi di prova chiari, univoci e convincenti, della voce del paziente stesso, «tratta dalle sue precedenti dichiarazioni ovvero dalla sua personalità, dal suo stile di vita e dai suoi convincimenti». Il tutore deve agire nell’esclusivo interesse dell’incapace, decidendo non al posto dell’incapace o per lui, ma con l’incapace. La ricostruzione della presunta volontà del paziente incosciente è perciò condizione indispensabile per assicurare la legittimità della decisione. La Cassazione ha respinto invece la richiesta al giudice di autorizzare il distacco del sondino nasogastrico in quanto «forma di accanimento terapeutico» poiché questo trattamento è stato valutato come «presidio proporzionato». Il giudice deve limitarsi a esprimere una forma di controllo della legittimità della scelta nell’interesse dell’incapace, secondo i due criteri dell’irreversibilità dello stato vegetativo e della volontà certa del paziente. Nell’uno come nell’altro caso giudiziario si riscontra l’inadeguatezza del concetto di accanimento terapeutico a guidare le decisioni dei giudici. È piuttosto la volontà della persona – espressa nel caso di Welby, o presunta (ma ricostruibile attraverso una rigorosa analisi delle testimonianze) nel caso di Eluana Englaro – che fonda il diritto a richiedere oppur e a rifiutare le cure, comprese quelle salvavita.
Accanimento: un criterio per le decisioni cliniche?
Il dibattito intorno all’accanimento terapeutico ha fatto emergere una serie di dubbi: quelli delle persone coinvolte in decisioni cliniche dalle quali dipende la sopravvivenza, ma che hanno un costo in qualità della vita spropositato; i dubbi della società, che non sa se è opportuno intervenire in questo ambito con regole stabilite per legge e che si chiede quale sia, eventualmente, il confine tra il lecito e l’illecito; i dubbi degli stessi professionisti sanitari, che sentono vacillare i criteri tradizionalmente proposti dall’etica medica. In una ricerca svolta tra medici e infermieri di reparti di terapia intensiva sulle loro decisioni di fine vita, un medico intervistato dichiarava: «Io in certi momenti non riesco a capire bene [...] se facciamo del bene» (Scelte sulla vita, 2007, p. 133). L’incertezza confessata è duplice: di ordine pratico, cioè se sia un bene – per il malato – l’impiego di tutto il potenziale di intervento di cui oggi la medicina intensiva dispone o se l’eccesso di trattamenti non rischia di infrangere il precetto ippocratico fondamentale primum non nocere e di ordine cognitivo, ossia dove tracciare il confine tra le azioni moralmente giustificabili e quelle censurabili, nonché il confine stesso tra il lecito e l’illecito dal punto di vista giuridico.
Da alcuni anni si stanno conducendo studi epidemiologici sulle decisioni di fine vita (ELD, End of Life Decisions). Uno studio europeo (Eureld) è stato realizzato nel 2001-02 e pubblicato su «The lancet» l’anno successivo (van der Heide, Deliens, Faisst et al. 2003; cfr. Miccinesi, Fischer, Paci et al. 2005). Il progetto di ricerca, sviluppato in sei Paesi, intendeva misurare l’estensione della variabilità delle pratiche riconducibili a decisioni di fine vita. Risultava che nei Paesi in questione, prescindendo dalle morti intervenute in maniera improvvisa e totalmente inaspettata (circa un terzo del totale), più della metà delle rimanenti morti nel periodo preso in esame erano sopravvenute dopo che erano state prese decisioni mediche. Una seconda parte dello studio, condotta alcuni mesi dopo, considerava le opinioni dei medici nei confronti delle decisioni di fine vita. Le differenze nelle opinioni risultavano coerenti con le differenze nelle pratiche.
Una ricerca analoga, tesa a conoscere le pratiche dei medici nell’assistenza ai pazienti alla fine della vita e le loro opinioni su questi temi, è stata condotta in Italia nel secondo trimestre del 2007 (Itaeld), promossa dalla Federazione degli Ordini dei medici (Paci, Miccinesi 2008). Il dato macroscopico relativo all’Italia è la crescente medicalizzazione del processo del morire, già evidenziata a livello europeo dallo studio Eureld: circa un decesso su quattro è accompagnato da decisioni mediche capaci di accorciare (o non prolungare) la vita. Nel loro insieme queste pratiche includono le cure di fine vita (come il trattamento del dolore e la sedazione continua profonda), le morti medicalmente assistite (suicidio assistito ed eutanasia) e le decisioni di non trattamento (astensione o sospensione dei trattamenti; desistenza terapeutica). La valutazione etica delle diverse pratiche e le opinioni dei medici circa questioni cruciali come il diritto di anticipare la propria fine sono molto differenziate. Si registra, tuttavia, una tendenza verso posizioni a favore dell’autonomia delle scelte da parte dei pazienti.
Un ambito clinico specifico in cui si è articolato più di recente il dibattito sull’accanimento terapeutico è quello del trattamento dei neonati nati molto prematuri. È un fatto che i progressi della neonatologia hanno reso possibile la sopravvivenza di neonati che in passato sarebbero certamente morti per l’estrema precocità. Il miglioramento della prognosi ha però il suo lato d’ombra: interventi molto aggressivi rendono possibile la sopravvivenza di una certa percentuale di prematuri, ma lasciano uno strascico di gravi handicap sensoriali e intellettivi. Non manca chi ritiene una forma di accanimento terapeutico la rianimazione dei prematuri al di sotto di 24-25 settimane di vita. Nel 2002 l’università olandese di Groningen ha elaborato le linee guida di un documento (noto come Protocollo di Groningen) in cui si affronta anche il tema del trattamento dei prematuri di 22-26 settimane; la linea di confine tra trattamenti rianimatori o solo palliativi viene indicata intorno alla 25ª settimana. Ampio dibattito ha suscitato in Italia la cosiddetta Carta di Roma: un documento redatto da neonatologi delle università romane in coincidenza con la Giornata nazionale della vita (febbraio 2008). Il principio affermato è che «un neonato vitale, in estrema prematurità, va trattato come qualsiasi persona in condizioni di rischio». È una posizione che si differenzia da quella di società scientifiche di neonatologi che si orientano verso il limite della 24ª settimana di gestazione, ritenendo che prima di quella data gli interventi rianimativi forzino i limiti della natura. Abbandonato il criterio del numero delle settimane di gestazione, la decisione riguardo l’opportunità di un intervento aggressivo dipende dalla valutazione del caso specifico.
Dal canto suo anche il Consiglio superiore di sanità, consultato dal ministro, ha indicato una linea di azione che assicuri da parte dei neonatologi «le appropriate manovre rianimatorie, al fine di evidenziare eventuali capacità vitali, tali da far prevedere possibilità di sopravvivenza, anche a seguito di assistenza intensiva. Qualora l’evoluzione clinica dimostrasse che l’intervento è inefficace, si dovrà evitare che le cure intensive si trasformino in accanimento terapeutico» (relazione del 4 marzo 2008). La linea di demarcazione non è costituita dalle settimane di gestazione del feto, ma da una valutazione globale delle condizioni cliniche del neonato. L’accanimento terapeutico perde così la possibilità di essere definito in termini oggettivi-cronologici; chi si interroga sui confini dell’azione in chiave etica va alla ricerca di altri criteri.
In generale, dobbiamo riconoscere che il ricorso alla categoria dell’accanimento non offre ai clinici una guida attendibile per le loro decisioni. Anzi, a ben vedere l’uso corrente dell’espressione è viziato da un prevalere di pathos, che ne fa uno dei cavalli di battaglia di chi accusa la medicina di «disumanizzazione». In pratica, quando gli sforzi di salvare la vita a un malato non producono i risultati attesi, vengono definiti come accanimento terapeutico e sui medici viene gettato il sospetto di comportarsi come tecnici disumani, che prolungano un’azione inutile mirando a fini personali più che al bene del malato. Se, invece, l’intervento medico ha successo, i sanitari vengono lodati per la loro perizia e dedizione alla causa della guarigione del malato, vista come fine unico della medicina. Si tratta, quindi, di un giudizio ex post e non di un’accurata descrizione del delicato processo di decisione clinica, dove al medico è richiesto di trovare ex ante la giusta misura per il suo intervento, in un precario equilibrio tra l’eccesso e la carenza, tra il ‘troppo’ e il ‘troppo poco’, tra l’ostinazione cieca e l’abbandono prematuro del paziente, in quella condizione di incertezza che è intrinseca a ogni decisione medica.
È comprensibile che i medici reagiscano per lo più con irritazione all’accusa approssimativa di accanimento terapeutico. Soprattutto quando viene filtrata da un’informazione vorace e spettacolare che deforma il contesto in cui vengono prese le decisioni. La facile etichettatura di accanimento terapeutico ferisce inoltre i medici che lottano per tenere in vita i malati, perché misconosce il fatto che i risultati positivi in medicina sono il frutto di molta tenacia. Se quindi, dopo aver mobilitato tutte le energie della mente e del corpo per contrastare la morte, il medico si sente rivolgere l’accusa di aver indulto all’accanimento terapeutico, l’alleanza tacita tra il terapeuta e il paziente, che costituisce per tradizione la colonna portante della pratica medica, viene messa in discussione.
L’accanimento terapeutico è, dunque, solo il frutto di malintesi? Dipende esclusivamente dall’incompetenza degli informatori e dei cittadini, che equivocano sul significato degli sforzi medici per prolungare la vita dei malati? Va quindi accantonato come un falso problema? Ciò che possiamo dire con certezza è che l’uso di un termine accusatorio e colpevolizzante, quale è appunto accanimento, non aiuta a una corretta collocazione della questione, che è quella della giusta misura. Possiamo verificarlo confrontando ciò che avviene nell’ambito della diagnosi con quanto è caratteristico della terapia. Anche nella diagnosi si può eccedere la misura appropriata, ma l’argomento non viene problematizzato utilizzando l’arma linguistica implicita nel termine accanimento. Lo scenario è completamente diverso: non ci sono mobilitazione dei media, scambi di accuse e difese tra professionisti e cittadini, sotto la spinta di forti emozioni. Raramente capita che qualcuno si lamenti per l’eccessivo numero di indagini diagnostiche. Visto dalla parte del paziente, l’eccesso diagnostico non sembra un pericolo per la salute, né un attentato alla propria autonomia. Eppure la ricerca della giusta misura è comune tanto alla diagnosi quanto alla terapia.
Sia l’uno sia l’altro ambito vengono modificati quando si introduce in medicina un punto di vista che abitualmente non era tenuto in considerazione: quello del paziente stesso. Tradizionalmente, finché l’unico criterio sul quale doveva misurarsi la qualità morale del comportamento del medico era la sua capacità di realizzare il «bene del paziente», questo veniva praticamente a coincidere con l’ambito delle possibilità stesse della medicina (le quali, peraltro, erano molto più limitate rispetto a quanto i medici amassero far sapere ai pazienti). La prima seria divaricazione tra il possibile e l’auspicabile è avvenuta con l’acquisizione della possibilità di mantenere in vita un paziente mediante le tecniche di respirazione artificiale, verso la metà del 20° secolo.
Già nell’ambito dell’etica medica tradizionale si erano registrati i primi tentativi di introdurre distinzioni che fossero d’aiuto ai medici nelle decisioni che erano costretti a prendere. Negli anni Cinquanta del 20° sec. fu molto apprezzata la distinzione, proposta dal magistero pontificio di Pio XII, tra ‘mezzi ordinari’ e ‘mezzi straordinari’. Secondo tale criterio, gli sforzi rivolti a salvare la vita o a prolungare uno stato di particolare sofferenza possono essere lecitamente tralasciati quando hanno un carattere di straordinarietà. La distinzione ha avuto molto successo ed è stata ampiamente adottata anche dall’etica sviluppatasi senza riferimenti religiosi. Mira a individuare gli interventi medici ritenuti obbligatori – identificati con quelli ordinari – distinguendoli da quelli che possono essere omessi senza colpa morale. Era una distinzione corrente tra i teologi moralisti, in particolare nella casistica promossa dalla morale cattolica (A.R. Jonsen, S. Toulmin, The abuse of casuistry. A history of moral reasoning, 1988). I discorsi ufficiali di Pio XII rivolti ad assemblee di medici hanno fatto circolare la distinzione al di fuori dell’ambito ecclesiastico.
Nella pratica sanitaria, il criterio della straordinarietà dei mezzi è di difficile utilizzazione, a meno che non sia abbinato a qualche altro criterio come, per es., valutare se l’intervento terapeutico previsto prolunghi la vita o soltanto il processo del morire. Progressivamente, nell’ambito dell’etica medica si è avvertita l’inadeguatezza della distinzione tra mezzi ordinari e mezzi straordinari a guidare le decisioni in situazioni di conflitto. Nella stessa morale cattolica si è sentito il bisogno di un superamento di quella distinzione. La Dichiarazione sull’eutanasia (1980) della pontificia Sacra congregazione per la dottrina della fede ha registrato e ratificato il cambiamento di parametro di valutazione: «Finora i moralisti rispondevano che non si è mai obbligati all’uso di mezzi ‘straordinari’. Oggi però tale risposta, sempre valida in linea di principio, può forse sembrare meno chiara, sia per l’imprecisione del termine che per i rapidi progressi della terapia. Perciò alcuni preferiscono parlare di mezzi ‘proporzionati’ e ‘sproporzionati’».
L’idea di proporzionalità rimanda necessariamente a un fine, a una gerarchia soggettiva di valori, a una valutazione del tipo di vita che la persona considera conciliabile o inconciliabile con il proprio modello di ‘buona vita’. Si rinvia così a un giudizio di qualità di vita che non può essere posto al di fuori dei valori di riferimento del soggetto. Questo orizzonte è proprio della prospettiva etica della modernità, in quanto integra il valore dell’autonomia individuale nel disegnare ciò che è appropriato all’ideale personale del singolo. L’autodeterminazione del paziente entra a far parte costitutivamente di quella ricerca della giusta misura che determina la qualità dell’atto medico, in un delicato equilibrio tra il troppo e il troppo poco. Su questa linea si muove il nuovo Codice deontologico dell’infermiere (2009), destinato a sostituire quello precedente risalente al 1999. Rinunciando alla categoria dell’accanimento terapeutico, propone il criterio di proporzionalità: «L’infermiere tutela la volontà dell’assistito di porre dei limiti agli interventi che non siano proporzionati alla sua condizione clinica e coerenti con la concezione da lui espressa della qualità di vita» (art. 36).
Assumendo esplicitamente il riferimento alla valutazione soggettiva di vita accettabile, viene superata la definizione, proposta dal Comitato nazionale per la bioetica nel documento dedicato alle questioni di fine vita, di accanimento terapeutico come «trattamento di documentata inefficacia in relazione all’obiettivo, a cui si aggiunga la presenza di un rischio elevato e/o una particolare gravosità per il paziente con un’ulteriore sofferenza, in cui l’eccezionalità dei mezzi adoperati risulta chiaramente sproporzionata agli obiettivi della condizione specifica» (Comitato nazionale per la bioetica 1995, p. 29). I tre criteri proposti per identificare l’accanimento terapeutico – documentata inefficacia, gravosità del trattamento, eccezionalità/sproporzione dei mezzi utilizzati – combinano elementi oggettivi e altri soggettivi, lasciando però indeterminato il relativo peso specifico.
L’indeterminatezza dei criteri con cui valutare le scelte finali permette di dar corpo al fantasma che, sotto la denominazione di accanimento terapeutico, turba tanti nostri contemporanei. Esso nasce dal timore che il proprio metro di valutazione dei trattamenti possibili venga disatteso da un mondo di professionisti sanitari sintonizzati unicamente sui valori del prolungamento della vita. Non è necessario immaginare chissà quale disumano infierire su un corpo incapace di difendersi per attivare la fantasia dell’accanimento: basta la preoccupazione di una decisione presa su di noi, invece che con noi. Conseguentemente, la risposta positiva alla possibile deriva della pratica medica verso questa violazione della persona e del rispetto che le è dovuto non si restringe a qualche limitazione nell’impiego dell’intero arsenale terapeutico quando il malato ha iniziato il processo irreversibile del morire. La risposta adeguata inizia prima, mediante l’accettazione della prospettiva teorica e pratica proposta dalle cure palliative. Ciò implica la pari dignità tra la medicina finalizzata a invertire il corso della malattia, o a contrastare la morte, e quella che ha come obiettivo il prendersi cura del paziente e accompagnarlo nel cammino inevitabile, lenendo i sintomi e rendendo possibile la ‘buona morte’. La filosofia sottostante alle cure palliative è l’antidoto appropriato a quelle forme di abuso alle quali ci si riferisce quando si parla di accanimento terapeutico.
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