accento grafico [prontuario]
In italiano l’➔accento grafico assolve a molteplici scopi e il suo impiego obbedisce a regole che sintetizzano esigenze tra loro distinte.
Mentre nella scrittura a mano l’accento ha spesso forma semicircolare, la stampa prevede tre diversi accenti: l’acuto ‹´›, il grave ‹`› e, di uso più raro, il circonflesso ‹^› per doppia i o j in fine di parola: principî, studî.
L’accento può porsi su tutte le vocali ed è obbligatorio in tutte le parole che hanno l’ultima sillaba accentata (dette ossitone o tronche), Quando è sulle vocali ‹a›, ‹i›, ‹u›, l’accento è, per convenzione, sempre grave: libertà, colibrì, virtù, ecc. (alcune case editrici per i e u prevedono invece l’accento acuto). Nel caso di ‹e› e ‹o› l’accento grave indica il timbro aperto del fonema corrispondente, come in caffè o però; mentre l’accento acuto indica il timbro chiuso, come in perché o nell’interiezione romanesca ahó (non ci sono parole italiane uscenti in ‹ó›).
Quanto ai possibili errori, va posta attenzione praticamente solo alla distinzione tra -è ed -é (quest’ultimo limitato a qualche francesismo, adattato e no, e ai composti con -che: perché, benché, affinché, e così via).
La distinzione tra i due accenti è però di data relativamente recente. Non deve stupire, qualora si leggano volumi stampati non troppo tempo fa, la presenza di accenti gravi al posto di acuti e viceversa: da un lato gli editori erano un tempo più attenti alla coerenza interna al testo e più fedeli alle proprie prassi che ai dettami dell’ortografia; dall’altro, una fortissima spinta all’uniformità di impiego è venuta solo con la capillare diffusione della videoscrittura.
Complici le parlate locali che spesso presentano timbri diversi dallo standard (nel caso, ad es., dell’italiano di Sicilia i timbri chiusi, anche in finale di parola, sono prodotti con grande sforzo e fuori dalla spontaneità), un ruolo non trascurabile nell’alimentare confusione svolge la scuola se trascura di indirizzare gli studenti a evitare, nelle scritture autografe, l’accento detto ‘a barchetta’: esso confonde in un solo tratto acuto e grave, inducendo a non distinguere il corretto timbro vocalico; propriamente, è segno sconosciuto al sistema grafico italiano. Pertanto sono errori a tutti gli effetti, e da evitarsi, grafie come felicită, bebĕ, abbiccĭ, andrŏ, Perŭ, e così via.
Un’altra funzione importante dell’accento consiste nel risolvere ambiguità. Il caso più evidente è quello della copula, cioè della terza persona singolare del presente indicativo del verbo essere: si scrive ‹è›, non ‹e› né ‹é›; identica lettera, dunque, ma funzione diversa (come il timbro, chiuso qui, aperto nella copula) , trattandosi non di copula ma di congiunzione: Mario non è venuto e Anna ne ha sofferto. Quando la copula è maiuscola ad inizio di paragrafo, frase o dopo punto fermo, il segno corretto è l’accento (grave), non l’apostrofo: ‹È›, non ‹E’›. È consigliabile evitare l’impiego dell’apostrofo anche nel caso di intere parole scritte in maiuscolo accentate sull’ultima vocale: no, quindi, a scritture come IMMUNITA’, COMPILO’, ecc.
L’accento acuto svolge funzione distintiva tra coppie di termini che è opportuno non confondere; tra tutte hanno rilevanza e alta frequenza d’uso due:
(a) la distinzione tra né congiunzione e ne pronome clitico: non verranno né Lucia né Renzo; buono questo caffè: ne hai altro?; né io né te ne sappiamo abbastanza;
(b) la distinzione tra sé pronome rispetto a se congiunzione (o forma del pronome si quando in combinazione con altri: Maria se ne va): è essenziale fidarsi di sé; se vieni avvisaci prima; se parla tra sé e sé non si capisce nulla.
Nel caso di sé in combinazione con stesso/-i o medesimo, è dibattuta la correttezza dell’impiego dell’accento: di solito si sceglie la soluzione senza accento: se stesso/-i, se medesimo; ma, siccome questa soluzione non ha motivazione né grafica né fonologica (► sé stesso / se stesso), in molti casi il sé di sé stesso si scrive con accento (come in questa Enciclopedia).
Altre coppie di parole di diverso profilo e frequenza sono:
(c) lì e là avverbi rispetto a li e la pronomi (o articolo singolare femminile): non li dare a Marco, posali lì;
(d) dà terza persona singolare del presente indicativo di dare rispetto a da preposizione: Carlo dà questo foglio al terzo soldato da sinistra;
(e) dì «giorno» rispetto a di preposizione: c’è aria da dì di festa, in strada.
Tutte le parole citate sono ➔ monosillabi: diverso l’impiego dell’accento se disambigua parole polisillabiche il cui significato differisce a seconda della posizione della sillaba fonicamente più marcata (accentata). D’uso assai più sistematico in passato, l’accento in queste evenienze è ora limitato ai soli casi in cui occorra, in contesti non del tutto trasparenti o ambigui, il termine meno frequente o appropriato della coppia: àncora di notte non si leva; oppure quando intenzionalmente si voglia giocare con le parole: cose che càpitano, signor capitano; restituì il compito con fare compìto; nelle scritture molto accurate si incontra dànno come voce del verbo dare.
In altri casi l’accento può entrare in concorrenza con l’➔apostrofo e creare confusione. Se con e maiuscola come copula l’accento è necessario e corretto, e ad essere improprio è semmai l’apostrofo, le parti si invertono nel caso di po’, per il quale è necessario l’apostrofo, in quanto ci si trova innanzi alla caduta della seconda delle due sillabe che compongono il termine ‘integro’ poco.
Hanno l’apostrofo e non l’accento anche le forme dell’imperativo presente di seconda persona singolare dei verbi fare, andare, dare, dire e stare: erronee sono quindi le forme, anch’esse assai diffuse, fà, và, dà (è presente!), stà. Le forme imperative corrette sono fa’, va’, da’, di’, sta’.
Da ultimo, va segnalato come l’accento possa essere impiegato a sproposito su parole che debbono esserne prive: qui/qua e non quì/quà (ma lì e là); su e non sù (ma giù e lassù); fa e non fà (entrambi da non confondere con fa’ imperativo); va e non và (entrambi da non confondere con va’ imperativo); sta e non stà (entrambi da non confondere con sta’ imperativo). Accade per analogia con monosillabi che presentano l’accento per diversa motivazione (di’ il Padrenostro tre volte al dì) e, soprattutto, in virtù del loro portare, di norma, un forte accento intonativo: di andare a scuola oggi proprio non mi va; tirati su, non mi va di vederti accasciato qui.