accento grafico
L’accento grafico è il segno diacritico che si pone sopra le vocali per evidenziarne la maggiore intensità fonica e, talvolta, il grado di apertura (➔ vocali). L’italiano ha tre tipi di accento grafico: l’acuto (′), il grave (‵) e il circonflesso (^); solitamente, sulle vocali di cui non si distingue l’apertura, l’accento grafico è grave (à, ì, ù), mentre è grave o acuto sulle altre vocali, a seconda che indichi la variante chiusa o quella aperta: /e/ ‹é› o /ε/ ‹è›, /o/ ‹ó› o /ɔ/ ‹ò›. Altri sistemi accentuativi sono descritti, per es., nel manuale di Camilli (19653: 183-189) o in Serianni 1997: si può trovare, ad es., l’accento acuto sulle vocali chiuse (‹í›, ‹é›, ‹ú›, ‹ó›) e il grave per tutte le aperte (‹à›, ‹è›, ‹ò›). A differenza del francese, l’accento grafico circonflesso in italiano è di impiego limitato e facoltativo e non segnala un fatto fonico: è ormai desueto nel plurale degli aggettivi e dei nomi in -io (podio, podî), dove tuttavia poteva essere utilizzato per distinguere gli omografi (odî plurale di odio ~ odi voce del verbo odiare).
Tutte le parole italiane, esclusi i ➔ clitici, hanno almeno un accento tonico che viene indicato graficamente solo nei seguenti casi:
(a) sulla vocale finale dei polisillabi tronchi (bontà, portò), anche quando sono composti da monosillabi che da soli non lo richiederebbero (trentatré, Oltrepò, nontiscordardimé);
(b) in corpo di parola per distinguere, se non disambiguati dal contesto, gli omografi differenziati dalla posizione dell’accento o dall’apertura o chiusura della vocale (àncora-ancóra, légge-lègge).
Inoltre, l’accento grafico va sempre segnato sui monosillabi che si prestano a essere confusi con omografi (come dà verbo / da preposizione) e sui monosillabi che, per il fatto di contenere un dittongo o di presentare una i diacritica (come più, già, giù), senza accento grafico potrebbero essere letti come parole piane. A proposito dell’accento grafico su sé seguito da stesso o medesimo è oggi in linea generale condivisa l’idea di «non introdurre inutili eccezioni» (Serianni 1997: 41) e di scrivere, quindi, sé stesso e sé medesimo; ma questa regola, già proposta da linguisti come Migliorini (1957) e Camilli (19653), fatica ad affermarsi in conseguenza della secolare condanna della forma accentata (➔ grafia).
La storia dell’accento grafico inizia con le lingue classiche, tradizionalmente con Aristofane di Bisanzio (circa 257-180 a.C.), che intendeva, attraverso spiriti e accenti, facilitare l’esatta conoscenza della lingua greca nelle terre che avevano fatto parte dell’impero alessandrino. Per quanto riguarda il latino, le opere dei grammatici contengono sezioni dedicate agli accenti grafici (De accentibus in Prisciano, De tonis in Donato), trattati insieme a segni come l’apostrofo e le quantità. In latino gli accenti grafici (gravi, acuti e circonflessi, presi dal greco) non segnalavano l’intensità della vocale, bensì il timbro grave o acuto della voce; solo dal II secolo d.C. circa prevale il valore intensivo dell’accentazione proprio delle lingue romanze.
Nei volgari, questa tradizione viene ereditata e trasformata per rappresentare la fonetica delle nuove lingue. Per i secoli che precedono la codificazione grammaticale del volgare è impossibile dare un quadro omogeneo dell’uso degli accenti grafici dato che gli scriventi li inserivano piuttosto liberamente. Secondo Castellani (1995: 14-15), fino al XII secolo gli accenti grafici sono ampiamente attestati e si può già individuare qualche caso di accento grafico sulle vocali toniche, per esempio nei testi delle prediche volgari. Nei secoli XIII e XIV gli accenti grafici tendono, invece, a sparire, sia dai testi classici sia da quelli volgari, per ricomparire nel XV secolo in seguito alle riforme grafiche dell’umanista fiorentino Niccolò Niccoli.
Nella seconda metà del secolo inizia a diffondersi l’accentazione diacritica di á preposizione, é verbo o articolo e ó vocativo (presente già nell’autografo del Decameron); nel 1480, poi, Giovanni Ridolfi dà uno dei primi esempi sistematici di uso di accento grafico sulle toniche, inserendo nel suo glossario milanese-toscano l’accento grave sulle parole tronche e l’acuto in corpo di parola. Nella scrittura del latino è diffuso l’accento su alcuni avverbi (come eó e uná) e sulla vocale che precede l’enclitica (stabiliréque).
Il primo testo a presentare un sistema accentuativo «alla greca», diretto precedente di quello italiano è un testo latino, il De Aetna di Pietro ➔ Bembo (1496). Nelle edizioni di ➔ Petrarca (1501) e di ➔ Dante (1502) da lui curate, però, gli accenti grafici sono ancora sporadici, benché compaia stabilmente il grave sulla terza persona singolare del presente di essere. Alla luce di questa variabilità, non stupisce che l’edizione del 1532 dell’Orlando furioso, normalizzata in base alle regole bembiane, sia priva di accenti grafici. Verso la metà del secolo, tuttavia, si generalizza l’uso dell’accento grave sulle parole tronche, anche se non mancano tentativi di riforma come quello di Pier Francesco Giambullari, del 1544, che proponeva il circonflesso come diacritico per alcuni monosillabi e per le parole tronche.
Nei secoli XVII e XVIII permane l’irregolarità di alcuni usi, anche nella trattatistica. Per esempio, nel testo di Daniello Bartoli Dell’ortografia italiana (1670) l’accentazione di monosillabi come più e giù, contenenti dittongo o con i diacritica, è data come facoltativa: bisognerà aspettare le Regole ed osservazioni della lingua toscana di Salvatore Corticelli del 1745 per trovarne sancita l’obbligatorietà. Ancora nel XIX secolo, poi, molti tentativi di riforme grafiche senza seguito, come quelle di Giovanni Gherardini e di Policarpo Petrocchi, proposero nuovi e vari criteri nell’uso dell’accento grafico (descritti in Maraschio 1994: 220-225) e solo nella prima metà del XX secolo si stabilizza la moderna normalizzazione, nella manualistica e nell’uso.
Tuttavia, ancora all’inizio del Novecento non sono mancate proposte di innovazioni (presto accantonate), come quella di introdurre l’accento grafico al posto della h etimologica nelle voci del verbo avere (ò per ho, à per ha, ecc.), suggerita, per es., nella grammatica di Pier Gabriele Goidanich (19674: 8), già promotore di una proposta di riforma. Malgrado la sua bizzarria, quest’uso prese piede per qualche tempo anche presso scrittori illustri.
Oggi, l’uso dell’accento grafico è sostanzialmente limitato alle parole tronche (virtù, città, bontà e così via) e ad alcuni monosillabi. Nell’uso corrente, le forme degli accenti sono raramente distinte in grave e acuto, dato che si è persa quasi del tutto la sensibilità per l’apertura vocalica e, anche nelle aree d’Italia in cui questa rimane, si sta perdendo l’abitudine di indicarla graficamente. Alle barrette inclinate è, molte volte, sostituito un tratto personalizzato dallo scrivente, simile a una ◟ variamente orientata che mantiene comunque il valore di marcatore di intensità fonica. Computer e cellulari, tuttavia, conservano nella tastiera la distinzione acuto-grave e, in alcuni casi, la correggono automaticamente (per es., nei casi della è verbo e in congiunzioni come perché, poiché).
Tra gli errori più frequenti nell’uso dell’accento grafico vi è l’introduzione per analogia su monosillabi che non lo richiedono: forme come stò, quà, fù compaiono non di rado anche in testi di scriventi di buona cultura. È molto comune, anche nella stampa, l’uso dell’accento su un po’ (= poco), sempre più spesso scritto, erroneamente, pò o pó, a testimonianza della perdita di coscienza del troncamento e del calo della qualità dell’alfabetismo in Italia.
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In italiano l’➔accento grafico assolve a molteplici scopi e il suo impiego obbedisce a regole che sintetizzano esigenze tra loro distinte.
Mentre nella scrittura a mano l’accento ha spesso forma semicircolare, la stampa prevede tre diversi accenti: l’acuto ‹´›, il grave ‹`› e, di uso più raro, il circonflesso ‹^› per doppia i o j in fine di parola: principî, studî.
L’accento può porsi su tutte le vocali ed è obbligatorio in tutte le parole che hanno l’ultima sillaba accentata (dette ossitone o tronche), Quando è sulle vocali ‹a›, ‹i›, ‹u›, l’accento è, per convenzione, sempre grave: libertà, colibrì, virtù, ecc. (alcune case editrici per i e u prevedono invece l’accento acuto). Nel caso di ‹e› e ‹o› l’accento grave indica il timbro aperto del fonema corrispondente, come in caffè o però; mentre l’accento acuto indica il timbro chiuso, come in perché o nell’interiezione romanesca ahó (non ci sono parole italiane uscenti in ‹ó›).
Quanto ai possibili errori, va posta attenzione praticamente solo alla distinzione tra -è ed -é (quest’ultimo limitato a qualche francesismo, adattato e no, e ai composti con -che: perché, benché, affinché, e così via).
La distinzione tra i due accenti è però di data relativamente recente. Non deve stupire, qualora si leggano volumi stampati non troppo tempo fa, la presenza di accenti gravi al posto di acuti e viceversa: da un lato gli editori erano un tempo più attenti alla coerenza interna al testo e più fedeli alle proprie prassi che ai dettami dell’ortografia; dall’altro, una fortissima spinta all’uniformità di impiego è venuta solo con la capillare diffusione della videoscrittura.
Complici le parlate locali che spesso presentano timbri diversi dallo standard (nel caso, ad es., dell’italiano di Sicilia i timbri chiusi, anche in finale di parola, sono prodotti con grande sforzo e fuori dalla spontaneità), un ruolo non trascurabile nell’alimentare confusione svolge la scuola se trascura di indirizzare gli studenti a evitare, nelle scritture autografe, l’accento detto ‘a barchetta’: esso confonde in un solo tratto acuto e grave, inducendo a non distinguere il corretto timbro vocalico; propriamente, è segno sconosciuto al sistema grafico italiano. Pertanto sono errori a tutti gli effetti, e da evitarsi, grafie come felicită, bebĕ, abbiccĭ, andrŏ, Perŭ, e così via.
Un’altra funzione importante dell’accento consiste nel risolvere ambiguità. Il caso più evidente è quello della copula, cioè della terza persona singolare del presente indicativo del verbo essere: si scrive ‹è›, non ‹e› né ‹é›; identica lettera, dunque, ma funzione diversa (come il timbro, chiuso qui, aperto nella copula) , trattandosi non di copula ma di congiunzione: Mario non è venuto e Anna ne ha sofferto. Quando la copula è maiuscola ad inizio di paragrafo, frase o dopo punto fermo, il segno corretto è l’accento (grave), non l’apostrofo: ‹È›, non ‹E’›. È consigliabile evitare l’impiego dell’apostrofo anche nel caso di intere parole scritte in maiuscolo accentate sull’ultima vocale: no, quindi, a scritture come IMMUNITA’, COMPILO’, ecc.
L’accento acuto svolge funzione distintiva tra coppie di termini che è opportuno non confondere; tra tutte hanno rilevanza e alta frequenza d’uso due:
(a) la distinzione tra né congiunzione e ne pronome clitico: non verranno né Lucia né Renzo; buono questo caffè: ne hai altro?; né io né te ne sappiamo abbastanza;
(b) la distinzione tra sé pronome rispetto a se congiunzione (o forma del pronome si quando in combinazione con altri: Maria se ne va): è essenziale fidarsi di sé; se vieni avvisaci prima; se parla tra sé e sé non si capisce nulla.
Nel caso di sé in combinazione con stesso/-i o medesimo, è dibattuta la correttezza dell’impiego dell’accento: di solito si sceglie la soluzione senza accento: se stesso/-i, se medesimo; ma, siccome questa soluzione non ha motivazione né grafica né fonologica (► sé stesso / se stesso), in molti casi il sé di sé stesso si scrive con accento (come in questa Enciclopedia).
Altre coppie di parole di diverso profilo e frequenza sono:
(c) lì e là avverbi rispetto a li e la pronomi (o articolo singolare femminile): non li dare a Marco, posali lì;
(d) dà terza persona singolare del presente indicativo di dare rispetto a da preposizione: Carlo dà questo foglio al terzo soldato da sinistra;
(e) dì «giorno» rispetto a di preposizione: c’è aria da dì di festa, in strada.
Tutte le parole citate sono ➔ monosillabi: diverso l’impiego dell’accento se disambigua parole polisillabiche il cui significato differisce a seconda della posizione della sillaba fonicamente più marcata (accentata). D’uso assai più sistematico in passato, l’accento in queste evenienze è ora limitato ai soli casi in cui occorra, in contesti non del tutto trasparenti o ambigui, il termine meno frequente o appropriato della coppia: àncora di notte non si leva; oppure quando intenzionalmente si voglia giocare con le parole: cose che càpitano, signor capitano; restituì il compito con fare compìto; nelle scritture molto accurate si incontra dànno come voce del verbo dare.
In altri casi l’accento può entrare in concorrenza con l’➔apostrofo e creare confusione. Se con e maiuscola come copula l’accento è necessario e corretto, e ad essere improprio è semmai l’apostrofo, le parti si invertono nel caso di po’, per il quale è necessario l’apostrofo, in quanto ci si trova innanzi alla caduta della seconda delle due sillabe che compongono il termine ‘integro’ poco.
Hanno l’apostrofo e non l’accento anche le forme dell’imperativo presente di seconda persona singolare dei verbi fare, andare, dare, dire e stare: erronee sono quindi le forme, anch’esse assai diffuse, fà, và, dà (è presente!), stà. Le forme imperative corrette sono fa’, va’, da’, di’, sta’.
Da ultimo, va segnalato come l’accento possa essere impiegato a sproposito su parole che debbono esserne prive: qui/qua e non quì/quà (ma lì e là); su e non sù (ma giù e lassù); fa e non fà (entrambi da non confondere con fa’ imperativo); va e non và (entrambi da non confondere con va’ imperativo); sta e non stà (entrambi da non confondere con sta’ imperativo). Accade per analogia con monosillabi che presentano l’accento per diversa motivazione (di’ il Padrenostro tre volte al dì) e, soprattutto, in virtù del loro portare, di norma, un forte accento intonativo: di andare a scuola oggi proprio non mi va; tirati su, non mi va di vederti accasciato qui.
Bartoli, Daniello (1833), Dell’ortografia italiana. Trattato riscontrato con la prima impressione e corredato di note, Reggio, Tip. Torreggiani (1ª ed. 1670).
Corticelli, Salvatore (18402), Regole ed osservazioni della lingua toscana ridotte a metodo ed in tre libri distribuite, Torino, Tipografia e libreria Canfari (1ª ed. 1745).
Camilli, Amerindo (19653), Pronuncia e grafia dell’italiano, a cura di P. Fiorelli, Firenze, Sansoni (1ª ed. 1941).
Castellani, Arrigo (1995), Sulla formazione del sistema paragrafematico moderno, «Studi linguistici italiani» 21, 1, pp. 3-47.
Goidanich, Pier Gabriele (19674), Grammatica italiana, con note aggiunte dell’autore ed una introduzione di L. Heilmann, Bologna, Zanichelli (1ª ed. Grammatica italiana ad uso delle scuole. Con nozioni di metrica, esercizi e suggerimenti didattici, 1918).
Maraschio, Nicoletta (1994), Grafia e ortografia: evoluzione e codificazione, in Storia della lingua italiana, a cura di L. Serianni & P. Trifone, Torino, Einaudi, 3 voll., vol. 1° (I luoghi della codificazione), pp. 139-227.
Migliorini, Bruno (1957), Note sulla grafia italiana nel Rinascimento, in Id., Saggi linguistici, Firenze, Le Monnier, pp. 197-225 (già in «Studi di filologia italiana» 13, 1955, pp. 259-296).
Richardson, Brian (2008), Dalla metà del Quattrocento alla metà del Cinquecento, in Storia della punteggiatura in Europa, a cura di B. Mortara Garavelli, Roma - Bari, Laterza, pp. 99-121.
Serianni, Luca (1997), Italiano. Grammatica, sintassi, dubbi, con la collaborazione di A. Castelvecchi; glossario di G. Patota, Milano, Garzanti.