accento grave e acuto
L’accento grave è un tipo di ➔ accento grafico, cioè un segno diacritico che, in forma di barretta obliqua orientata in alto verso sinistra (‵), si pone sulle vocali per segnalarne la messa in evidenza fonica. Secondo la norma più diffusa nelle grammatiche, in italiano l’accento grave si pone sulle vocali la cui pronuncia non si distingue in aperta o chiusa (a, i, u) e sulle varianti aperte della e /ɛ/ e della o /ɔ/, mentre l’accento acuto (′) si pone sulle varianti chiuse delle vocali toniche e /e/ e o /o/.
In alcuni casi, la differenza di apertura, segnalata nello scritto dall’accento acuto, serve a distinguere parole omografe come bótte (contenitore) ~ bòtte (percosse), chiése (verbo) ~ chièse (plurale di chiesa), nei casi in cui il contesto non basti a disambiguarle. Anche sulle vocali finali delle parole tronche, ove l’accento grafico in italiano è obbligatorio, si può trovare l’accento grave o l’accento acuto: l’accento grave si colloca su a, i e u (per esempio in parole come verità, così, virtù) e sulla o, che come vocale finale di parola tronca è sempre aperta (può, andò, però); la e, invece, può essere aperta o chiusa anche in fine di parola tronca: si hanno, quindi, a seconda delle parole, l’accento acuto (per es., perché, finché e congiunzioni simili, sé, né) o l’accento grave, come nel caso dei noti esotismi di antica acquisizione caffè e tè.
L’origine dell’accento grave va fatta risalire all’antichità, con un impiego, però, differente da quello moderno. Anche nel greco e in latino, infatti, l’accento grave si contrapponeva all’acuto, ma per ragioni timbriche di elevazione o abbassamento tonale della voce. A quest’origine si collega anche il nome dei segni di accento: come si legge nell’opera del grammatico Prisciano, infatti, l’accento gravis è chiamato così «quod deprimat aut deponat» («perché abbassa o abbatte») la sillaba su cui si colloca, diversamente dall’acutus, che «acuat sive elevet» («rende acuta o innalza» la sillaba) (Prisciano Cesariense 1961: 520). Già in età tardo-antica, però, l’accentazione si avvia ad acquisire il valore intensivo che ha tutt’oggi.
Durante i primi secoli dell’era volgare, la collocazione e la direzione degli accenti grafici sono oscillanti, nei manoscritti degli scriventi sia colti sia comuni. Non è, infatti, ancora fissata una norma stabile e l’accento grave e quello acuto, ereditati dalle lingue classiche, compaiono sporadicamente nei testi sia in volgare sia in in latino in risposta all’esigenza di marcare la tonicità delle parole, di evidenziarle o di disambiguarle (cfr. Castellani 1995: 30). Come ricorda Migliorini (1957: 223), l’indicazione dell’accento grave sulle parole tronche si generalizza verso metà Cinquecento: la prima edizione a stampa del De principatibus di Machiavelli (Blado, 1532), per es., presenta piuttosto regolarmente accento grave sulle parole tronche e sulla è voce del verbo essere. Tuttavia, compare ancora l’accento grave diacritico sulla preposizione a (nella seconda riga si legge «ne ragionai à lungo»), secondo un’abitudine all’epoca piuttosto comune, che si andrà presto perdendo. L’accento grave sulla è godeva di una buona diffusione nei testi a stampa già a inizio Cinquecento, come si nota dalla sistematicità con cui ricorre nelle edizioni di Dante e di Petrarca curate da ➔ Pietro Bembo (1501-1502).
Migliorini spiega che «per l’accento acuto o grave, gli stampatori del Cinquecento avevano seguito una norma ricalcata sul greco: accento acuto all’interno della parola, accento grave alla fine. Ma siccome nel corpo della parola l’accento non s’usava quasi mai, l’accento più frequente era il grave» (Migliorini 1990: 32). Per questa ragione, nella storia della lingua italiana e della sua normalizzazione, la questione della distinzione dei tipi di accenti è stata percepita come davvero rilevante solo di recente, parallelamente al manifestarsi del problema della retta pronuncia della lingua nell’Italia unita. Per esempio, nel trattato Dell’ortografia della lingua italiana di Daniello Bartoli (1670) sono elencate le regole d’uso solo per l’accento su vocale in fine di parola, tronca o monosillabica, e l’unico ad esser rappresentato sulle parole portate come esempi è proprio l’accento grave. Ancora nel 1745, nelle Regole ed osservazioni della lingua toscana, Salvatore Corticelli si atterrà sostanzialmente alla regola dell’accentazione greca, proponendo sempre l’uso di accento grave a fine parola e l’acuto in corpo di parola.
La distinzione dei casi d’impiego dell’accento grave si può dire compiuta solo tra XIX e XX secolo, quando nella manualistica inizia ad affermarsi l’attuale distinzione degli usi. Anche nel Novecento, però, non mancano proposte alternative come quelle di Pier Gabriele Goidanich che, nella sua grammatica del 1918, indica l’uso dell’accento acuto e non dell’accento grave su í ed ú «sempre strette» (Goidanich 19624: 73) in parole come cosí o giú (grafia, questa, che ha sostenitori ancora oggi) e suggerisce l’adozione dell’accento grave sulle voci del verbo avere (ò, ài, à), in luogo della h etimologica. Intanto, sia nelle scritture individuali sia nei testi a stampa, almeno per tutta la prima metà del secolo, persiste l’abitudine di scrivere l’accento grave su parole come perchè e nè e di accentare quà per analogia con là.
Il 1939 è un anno cruciale per l’accento grave: il Prontuario di pronunzia e di ortografia di Giulio Bertoni e Francesco A. Ugolini si apre, infatti, proprio con un capitolo sulla grafia dell’accento, sancendo l’uso dell’accento grave sulle «tre vocali a, i, u toniche, qualunque sia il loro posto» (Bertoni & Ugolini 19396: 16). Quest’uso sarà quello più accreditato dalle grammatiche e più comune nella prassi. Ancora oggi, però, alcuni studiosi, come il fonetista Luciano Canepari, propongono di usare l’acuto sulle vocali i e u, chiuse per la loro stessa natura articolatoria; questa fu, ad esempio, la modalità accentuativa usata da Giosuè Carducci e ad essa si attengono a tutt’oggi, per es., le norme di redazione della casa editrice Einaudi.
Attualmente, per quanto riguarda gli scriventi comuni, la generale perdita di sensibilità per l’apertura e la chiusura delle vocali si riflette nella scrittura in una tendenza all’omologazione dei segni di accento: nella scrittura manuale, quasi sempre, accento grave e accento acuto sono ugualmente resi con un segno personalizzato dello scrivente, mentre nei programmi di videoscrittura di computer e telefoni cellulari è prevista la differenziazione, e spesso la correzione automatica, della direzione degli accenti.
Bartoli, Daniello (1833), Dell’ortografia italiana, Reggio, Tip. Torreggiani (1ª ed. 1670).
Corticelli, Salvatore (18402), Regole ed osservazioni della lingua toscana, Torino, Tipografia e libreria Canfari (1ª ed. 1745).
Prisciano Cesariense (1961), Prisciani grammatici Caesarensis institutionum grammaticarum libri XVIII, in Grammatici latini, Hildesheim, Olms, 5 voll., voll. 2°-3° (rist. dell’ed. Lipsiae, 1855-1880).
Bertoni, Giulio & Ugolini, Francesco A. (19396), Prontuario di pronunzia e di ortografia, Torino, E.I.A.R.
Castellani, Arrigo (1995), Sulla formazione del sistema paragrafematico moderno, «Studi linguistici italiani» 21, 1, pp. 3-47.
Goidanich, Pier Gabriele (19624), Grammatica italiana, con note aggiunte dell’autore ed una introduzione di L. Heilmann, Bologna, Nicola Zanichelli (1ª ed. Grammatica italiana ad uso delle scuole. Con nozioni di metrica, esercizi e suggerimenti didattici, Livorno, R. Giusti, 1918).
Migliorini, Bruno (1957), Note sulla grafia italiana nel Rinascimento, in Saggi linguistici, Firenze, Felice Le Monnier, pp. 197-225 (già in «Studi di filologia italiana» 13, 1955, pp. 259-296).
Migliorini, Bruno (1990), La lingua italiana nel Novecento, a cura di M.L. Fanfani, con un saggio introduttivo di G. Ghinassi, Firenze, Le Lettere.
Serianni, Luca (1997), Italiano. Grammatica, sintassi, dubbi, con la collaborazione di A. Castelvecchi; glossario di G. Patota, Milano, Garzanti.