ACCENTO (fr. accent; sp. accento; ted. Akzent; ingl. accent)
Nell'unirsi dei suoni in sillabe, delle sillabe in parole e delle parole in proposizioni, si produce una gradazione ritmica dipendente dalla varia forza e durata della corrente espiratoria, e una gradazione melodica dipendente dalla varia altezza dei suoni. Della durata o quantità dei suoni si occupa la prosodia, della forza o intensità e dell'altezza dei suoni si occupa la teoria dell'accento. Il quale, perciò, è di due specie: dinamico o espiratorio, se riguarda la forza o intensità relativa dei suoni; musicale o cromatico (tono), se riguarda l'altezza relativa di essi.
Il nome accentus è traduzione del greco προσῳδία da πρὸς ᾠδήν "ad cantum", ossia, come scriveva il grammatico Diomede: Accentus est dictus ab accinendo, quod sit quasi quidam cuiusque syllabae cantus. Apud Graecos quoque προσῳδία dicitur, quia προσᾴδεται ταῖς συλλαβαὶς. Infatti nella lingua greca antica l'accento era (prevalentemente) musicale, come attestano anche i nomi di ὀξεῖα "acuto" e βαρεῖα "grave". In processo di tempo l'accento greco mutò natura fino a divenire, nel greco moderno, un accento prevalentemente espiratorio, onde si spiega anche il mutamento di significato della parola prosodia, che passò a designare la teoria della quantità dei suoni. Quando si parla di lingue moderne, la parola accento si applica generalmente alla gradazione dinamica.
Ambedue le specie di accento si trovano in tutte le lingue, ma in alcune prevale l'accento dinamico, in altre l'accento musicale. Nelle moderne lingue d'Europa, che hanno accento prevalentemente espiratorio, l'intonazione musicale può diventare sensibilissima nel parlare affettivo, e nella interrogazione ed esclamazione (p. es. sì?, sì!). In molte lingue dell'Africa e dell'Estremo Oriente l'accento musicale ha grandissima importanza, poiché esso serve a distinguere parole che altrimenti sarebbero identiche.
L'accento si può considerare nella sillaba, nella parola e nella proposizione. Trattandosi di gradazione, il numero dei gradi è naturalmente illimitato, ma tre gradi principali si sogliono distinguere: accento espiratorio forte, medio, debole; accento musicale alto (acuto), medio, basso (grave). Nella sillaba la forma dell'accento può variare passandosi da un massimo d'intensità a un minimo, o viceversa; e da un tono alto ad un tono basso, o viceversa. E si hanno anche varie combinazioni di accenti semplici nella stessa sillaba, come alto-basso, basso-alto, ecc.
L'accento musicale è indipendente dall'espiratorio, benché spesso coincida con esso. In una domanda come Wirklich? in tedesco l'intensità va scemando dal principio alla fine della parola, mentre l'altezza del tono va aumentando. Nel verso greco antico il tempo forte o ictus si mostra indipendente dall'accento, che era musicale. E l'accento è anche indipendente dalla quantità in molte lingue (per es. greco βέβηκα), mentre in moltissime altre tra l'accento espiratorio e la quantità delle sillabe v'è un nesso reciproco. Così nel Kotto abbiamo óge oppure õge "ramo", fógar oppure fogár "ano", nel Malese kū???da "cavallo", kudê-ku "cavallo mio".
Diamo ora un rapido sguardo all'accentuazione nei varî gruppi linguistici.
1. Nel Bantu l'accento dinamico stava originariamente sulla sillaba radicale, che in tal modo veniva distinta dalle sillabe accessorie (prefissi e suffissi). Esso non suole allungare la sillaba. Accanto a tale accento primitivo ne sorse meccanicamente uno secondario che sta sulla penultima, in alcune lingue sull'antipenultima, e suole render lunga la sillaba. In alcune lingue coesistono ambedue gli accenti, in altre il secondario ha fatto scomparire il primario, come nel Suaheli. Il secondario, rinforzato dall'allungamento, viene da noi più facilmente avvertito.
Non poche lingue bantu, specialmente della sezione di nord-ovest, hanno un accento musicale molto sviluppato. Nel Bena i verbi bisillabi con vocale breve hanno tono basso, i bisillabi con vocale lunga hanno tono medio, per es. lăla "essere rauco" (tono basso sulla prima), lāla giacere" (tono medio sulla prima). Spesso vi è accordo nei toni anche tra lingue lontanissime, p. es. Shambala u-γàngà "medicina": Jaunde n-ga "incantesimo"; Shambala õingó "collo": Jaunde kíñ "id." Con la tendenza al monosillabismo propria della sezione di nord-ovest si accompagna la formazione dei toni composti. Così nel Jaunde da fágà "pettine" si ha fâk (quasi fáàk), da mètagá "grandine" si ha metâk. In tal modo, come osserva Nekes, le sillabe finali non si perdono senza lasciar traccia, poiché perdurano nei loro toni.
Ma i toni acquistano la massima importanza in molte lingue sudanesi. Nello Ewe, per esempio, la sillaba può avere fino a cinque toni diversi e le parole cambiano totalmente di significato col cambiamento del tono, p. es. ka "disperdere", ká "toccare", kâ "il quale", ecc. Variando la melodia, varia il significato della frase; p. es. élè àfî "egli è qui", élè àfí "egli si fregò con cenere", élé àfì "egli acchiappò un topo".
2. Nelle lingue camitosemitiche pare che il tono musicale abbia assai scarsa importanza. L' Ottentoto tuttavia distingue accuratamente i toni, cosa che Meinhof ascriverebbe ad influenza del Boscimano. Il variare dell'accento produce modificazioni di significato, p. es.: χoá "grattare, incidere": χóa "scrivere".
La massima importanza ha dunque l'accento dinamico. Ora il fatto che nel Camitosemitico mancano in generale i gruppi consonantici iniziali dimostra che la vocale della prima sillaba si conservò intatta, e questa conservazione noi dobbiamo attribuirla all'azione preservatrice dell'accento che, come nel Bantu, doveva in origine posare sulla sillaba radicale, cioè sulla prima sillaba della parola. L'arabo classico qátala "egli ha ucciso" conserva certamente l'accentuazione originaria sulla sillaba radicale (qat-), mentre un accento secondario doveva posare sull'ultima vocale (qátalà), che perciò poté conservarsi. Ma quando l'accento si spostò in avanti, come in qatál-ta "tu hai ucciso" e nell'etiopico qatála, la vocale finale s'indebolì e si dileguò, come nell'ebraico qāṭál.
3. Nelle lingue caucasiche il tono ha pure scarsa importanza. L'accento dinamico, invece, dovette essere assai forte, onde si spiega la grande abbondanza di gruppi consonantici, che dà specialmente alle parlate delle regioni montuose un carattere molto aspro. Tali gruppi, infatti, sorsero per il dileguarsi delle vocali atone. Nell'odierno georgiano, veramente, l'accento è debole, ma è questa una quiete dopo la tempesta, come si espresse H. Schuchardt: "Il debole accento dell'odierno georgiano centrale somiglia al mare appianato dopo la tempesta: nel georgiano, come nel francese, dominò un tempo un accento assai forte". Infatti le vocali atone si dileguarono assai più spesso che nell'Indoeuropeo, p. es.: s-ma da *su-má "il bere", tba: mingrelio tobe "lago".
Importante è notare che allo spostamento dell'accento si accompagna spesso un'alterazione consonantica. Ciò si osserva molto spesso nel Kürino: p. es.: med, plur. metér "sciroppo", met, plur. methér "ginocchio". Fenomeni simili si osservano anche nel gruppo linguistico precedente, per es. Bilin tit "filo", individuale tir-ê "un singolo filo".
4. Lingue indoeuropee. In quel lontano periodo preistorico della unità linguistica indoeuropea, in cui si produssero tante riduzioni ed elisioni di vocali (p. es. *sénti "sunt" da *esénti), l'accento dovette essere fortemente espiratorio; ma sembra che, prima che la detta unità fosse sciolta, l'accento avesse acquistato un carattere prevalentemente musicale, essendosi come fuso l'accento forte col tono alto e il debole col tono basso. Con ciò si spiegherebbe il carattere musicale dell'accento nell'antico indiano e antico greco. Ma basti qui questo cenno, giacché altri tratta qui sotto più ampiamente dell'Indoeuropeo. Ricorderemo soltanto ancora, per la sua grande importanza, il mutamento protogermanico delle spiranti sorde f, θ, χ, s nelle corrispondenti sonore in dipendenza dell'accento ("legge di Verner").
5. Nella lingua fondamentale ugrofinnica l'accento forte nei bisillabi stava alternativamente sulla prima e sulla seconda sillaba, essendo la sede determinata in parte dall'essere le sillabe aperte o chiuse e in parte dalla qualità delle vocali. Lo spostamento dell'accento cagionò una gradazione (Stufenwechsel) delle vocali e delle consonanti mediane, p. es. finnico akka "donna, moglie": gen. aka-n, magiaro vēr "sangue": vere-è "rosso".
Nelle odierne lingue ugrofinniche varia la sede dell'accento, ma prevale l'accentuazione sulla prima sillaba. Nel ramo ugro (Magiaro, Vogulo, Ostjaco ad eccezione del dialetto Tawda), negli idiomi finnici e nel Lappone l'accento sta sempre sulla prima sillaba, così pure di regola nel Mordvino Modraka e nella maggior parte dei dialetti del Sirjeno.
6. Nelle lingue dravidiche l'accento dinamico sta sulla sillaba radicale, cioè sulla prima sillaba della parola, poiché la derivazione si fa esclusivamente per mezzo di suffissi. Poco o nulla si sa dell'accentuazione nelle altre lingue del gruppo dravidico-australiano.
7. Nelle lingue maleopolinesiache l'accento sta generalmente sulla penultima e si sposta in avanti quando, nella derivazione, si aggiungono sillabe in fine della parola: Samoa úfi "coprire", passivo ufi-ufí-a; Hawail láwe "prendere", passivo lawe-ía; Maori púri "togliere", passivo puritía. Il Figi ha val "casa" con vocale finale abbreviata e oscurata, ma vale-ñgn "casa mia", kere "pregare", ma kere-kére. "mendicare". Nel Malese e in altre lingue dell'Indonesia l'accento produce allungamento della vocale, p. es. Malese kū???da "cavallo" kudê-ku "cavallo mio", Dayak kêyu "legna", kayū???-an "bosco".
8. Nelle lingue indocinesi e nell'Annamito grande importanza hanno i toni musicali. Si possono distinguere tre sistemi, il Tibeto-Birmano e Lolo, il Cinese e il Thai-Annamito. Benché i principî fondamentali siano i medesimi, ciascuno di essi ha qualche caratteristica speciale. Il principio fondamentale comune consiste nella connessione fra i toni e le iniziali, poiché alle iniziali sorde corrisponde un tono alto, alle iniziali sonore corrisponde un tono basso. Ognuno dei sistemi tonici è di formazione antichissima, e il Maspero ritiene che l'evoluzione sia avvenuta da sistemi ricchi a sistemi poveri. Attualmente i sistemi sarebbero in piena decadenza e destinati a scomparire.
9. Nell'America settentrionale i linguaggi del nord-ovest, dal Tlinkit al gruppo dell'Oregon, hanno un carattere aspro o asprissimo per l'abbondanza dei cumuli di consonanti, conseguenza del dileguo di vocali atone cagionato dal forte predominio dell'accento dinamico. Dileguandosi le vocali atone, le parole tendono a ridursi a monosillabi, come nel gruppo linguistico indocinese. Tra le lingue americane hanno manifesta tendenza al monosillabismo quelle del gruppo Othomí e affini. A ciò si accompagna nel Tewa dei Pueblos lo sviluppo dei toni musicali. Anche nelle lingue Athapaska e nel Tlinkit esistono i toni, come nelle lingue dell'Estremo Oriente.
Restano da farsi alcune considerazioni generali sull'accento (e s'intenderà il dinamico, salvo indicazione contraria). Quanto alla posizione originaria di esso, si nota che nella maggior parte delle lingue la sillaba più forte è la prima della parola o la sillaba radicale. Ciò si osserva nei gruppi linguistici bantu-sudanese, camitosemitico, uralo-altaico, munda-polinesiaco. Le radici o parole primitive erano appunto per la maggior parte bisillabe, con accento forte sulla prima, tipo kápà (v. A. Trombetti, Elementi di glottologia, Bologna 1923, p. 233). Spostamenti avvennero spesso per l'aggiunta di elementi prefissi o suffissi, p. es.: Arabo qátala "egli ha ucciso", qatêl-ta "tu hai ucciso"; Nuba ágil "bocca", agíl-lo "nella bocca", Malese lòhat "vedere", ka-lihêt-an "aspetto". Spesso le parole formali o gli elementi formativi attirano l'accento su di sé; così nel Bari abbiamo ló-but buono, ná-but buona, kó do con te, í hak sulla terra (cfr. in greco πρός με, ὑπέρμορον, in latino de-nuo, in russo o-kolo "in giro, attorno", ecc.).
Interessanti sono i casi in cui, variando la posizione dell'accento, varia anche il significato della parola. Nel Hausa abbiamo kaifáfa "essere acuto": káifafa "rendere acuto", banbánta "essere diverso": bánbanta "mettere separatamente", birkíta "tornare indietro": bírkita "rivoltare", nel Nama χóa "scrivere": χoá "grattare" (tono), nel Somali ína o ínan "ragazzo", inê o inê "ragazza". Nel Toba (gruppo maleopolinesiaco) húndul "sedere" ha l'accento sulla prima sillaba perché indica azione non prodotta da altri, invece tanóm "essere sepolto" ha l'accento sull'ultima perché indica azione prodotta da altri. Maya lubúl "cadere": lúbul "caduto", nakál "alzarsi": nákal "alzatosi", Klamath kaní "chi?": káni "qualcuno" (cfr. greco τίς e τὶς). Fenomeni simili si osservano nelle lingue indoeuropee anche ad accento musicale, per es. greco λεῖπε "lascia" (durativo), λιπέ "id." (momentaneo), μητρο-κτόνος (per -κτονός) "uccisore della madre": μητρό-κτονος "ucciso dalla madre", κρατερός "forte" Κράτερος "Cratero", ϑνητός "mortale": ϑάνατος "morte", sanscr. dê-man- n. "il dare": dā-mán m. "dono, datore", dê-tā "dans": dā-tê "dator", inglese to protést: thP prótest.
Le antitesi del tono (accento musicale) determinano spesso antitesi di significato per il fenomeno della polarità (v.). Nella lingua Ewe gli aggettivi, quando si riferiscono a oggetti grandi, hanno il tono basso e la vocale finale lunga, quando si riferiscono a oggetti piccoli, hanno il tono alto e la sillaba finale breve. Nella medesima lingua il tono serve a stabilire un'antitesi tra pronomi di prima e di seconda persona e tra pronomi di seconda e di terza, p. es. mí "noi": mi (tono medio) "voi", è "tu": é negli", wò "tuo": wó "suo". Similmente nel Sotho ò "tu" ó "egli", nel Kamba wè "tu": wé "egli".
Nelle lingue Kru i pronomi "io" e "tu" hanno forme uguali, ma "io" è breve e ha tono alto, "tu" è lungo e ha tono basso. Secondo Delafosse (Les langues du Monde, Parigi 1924, p. 474) molte lingue dei negri africani hanno toni con valore etimologico o grammaticale con la seguente ripartizione:
tono alto: negazione − diminutivo − singolare − io
tono basso: affermazione − aumentativo − plurale − tu.
L'accento espiratorio è causa di grandi mutamenti fonetici, poiché la sillaba fortemente accentata tende a concentrare i polisillabi in monosillabi affievolendo e facendo dileguare le vocali atone. Conseguenza del dileguarsi delle vocali è poi la formazione di gruppi consonantici spesso instabili; p. es. da kalá si può avere kla, quindi klja donde lia, oppure kja donde ča ecc. Ma anche sulle consonanti può esercitarsi l'azione dell'accento, di che offre un cospicuo esempio la legge di Verner per le lingue germaniche. Così l'accento diviene un fattore importantissimo nella evoluzione fonetica delle parole.,
Indoeuropeo. - I fatti della comparazione ci hanno messo in grado di scoprire che le lingue indoeuropee, per quanto dialettalmente differenziate già nel periodo unitario, storicamente presentavano tutte un accento fondamentale del quale è possibile precisare in parte la sede ed in parte la forma. Già coincidenze non casuali dell'accento dei Vedās dell'antico indiano con l'accento greco tanto nelle formazioni lessicali (p. es. ant. ind. gnê, gr. γυνή, russ. žená; ant. ind. dhūmás, gr. ϑυμός; ant. ind. gharmás, gr. ϑερμός; ant. ind. mánas, gr. μένος; ved. saptá, gr. ἑπτά; ant. ind. yaj???nás, gr. ἁγνός; ant. ind. dātê, gr. δοτήρ; ant. ind. çanitê, gr. γενετήρ, ecc.) quanto all'interno della flessione (p. es.: ant. ind. nom. sing. pêt, gen. padás, loc. padí, acc. pêdam: gr., rispett. dor., πώς, ποδός, ποδί, πόδα; ant. ind. pitê, pitáram: gr. πατήρ, πατέρα; dêtāram: δώτορα; ved. gáàm: gr. dor. βῶν; ant. ind. śrutás: gr. κλυτός; antico ind. bhárāmas: gr. dor. ϕέρομες, ecc.) fornivano qualche indicazione della sede e qualità dell'accento indoeuropeo. Ma indicazioni più ampie e precise vennero dalla cosiddetta legge di Verner, ossia dopo la scoperta che - nell'ipotesi che la duplice forma di spostamento fonetico (Lautverschiebung), cioè aspirata sorda e spirante sonora, con cui il germanico rende (spesso all'interno dello stesso paradigma) la stessa consonante sorda, sia in relazione dell'accento, secondo che preceda o segua la detta consonante - codesto accento viene sorprendentemente a coincidere con un accento il quale, mentre è diverso dall'accento iniziale storico del germanico (p. es. nei riflessi germanici di ved. bhrêtā: pitā; got. brüîar: faßar; perf.1. sing. didáśa: 1 pl. didiśimá; dáśa "10": saptá, "7", ecc.), concorda soitanzialmente con quello detto udātta, è possibile ricostruire la sede e la forma dell'accento indoeuropeo nella formazione delle parole, nelle classi nominali e nella flessione.
Più difficile e complesso è determinarne la natura. Dalla conservazione della durata, intensità e timbro delle vocali delle sillabe, dalla rarità dell'indebolimento e della sincope, dalle concordanze delle lingue storiche, specialmente dell'antico indiano, del greco e dello slavo-baltico, dalle definizioni dei grammatici si argomenta che l'accento della parola indoeuropea era un accento intensivo-vocale, che non si esercitava a scapito dell'intensità e del tono delle altre sillabe di essa, ed a cui aggiungeva eventualmente vigore, incidendo, l'accento della frase. La parola aveva un'accentazione ortotona solo nel semplice o a principio di gruppo, giacché in questo la seconda parte si appoggiava all'accento della parola precedente. Nel gruppo venivano principalmente raccolte e concentrate sotto unico accento o le parti nominali e adnominali del soggetto e dell'oggetto o le parti preverbiale e verbale del predicato. Secondo gli atteggiamenti attributivi o predicativi delle parti si poteva, p. es., avere una proposizione come *Dëēus ùesêsüm dotár esti = omer. Ζεὺς ἐ???ων δοτήρ ἐστι o un'altra come *Dëáum ëagoëmai ùesêsüm-dütòrəm = omer. Ζῆν ἅζομαι ἐ???ων-δώτορα. Il verbo era, come nell'ant. indiano, enclitico nel corpo o alla fine della proposizione; era ortotono solo a principio di essa. Di questa diversa condizione sono certamente prodotto biformità, come p. es. ant. ind. perf. jajâna (= indoeuropeo õeõúna) e ßaßêna, gr. γέγονα (da indoeur. ′õeõúna). Per la natura e qualità dell'accento della sillaba, oltremodo significative sono le coincidenze del greco con l'antico indiano da una parte e col lituano dall'altra. Come il greco, il vedico, oltre a brevi discendenti e lunghe ascendenti (p. es. gr. ἐστώς da -αώς), ossia ad un solo vertice, perfettamente corrispondentisi in determinate sedi della flessione (per esempio gr. ϑεοί, ϑεώ, lit. gerë′-, gerê′-), conosceva lunghe a doppio vertice, ossia ascendenti-discendenti (΄`) e cioè tonalmente inflesse o circonflesse (~): p. es. ved. metr. gáàm (cod. gêm, indoeur. gnoü[ú]m), gr. dor. βῶν; padêm = ποδῶν. Come il greco, il lituano, oltre a far distinzione tra accento acuto ed accento grave, ha forme come gen. sing. aùgõs, etimologicamente e morf0logicamente corrispondente a gr. dor. ἀλϕᾶς "del lucro" . (cfr. ϑεά, gen. ϑεᾶς con lit. mergà, gen. mergõs "della fanciulla"); κυνῶν, lit. gen. pl. szunú "dei cani"; ϑεῶι, lit. paskuê; ϑεοῖς, lit. vilkaês, ecc. Col suo vario alternare nel semplice e nel composto l'accento intensivo produsse variazioni profonde nella durata e nel timbro delle vocali, da cuí tutta una serie di variazioni apofonetiche dello stesso tema o parola. Di virtuosità tonali nel subordinarsi dell'accento della parola a quello del gruppo, sono prodotti cristallizzati, nelle lingue storiche, riflessi come gr. πατέρα: -πάτορα, ant. ind. pitáras: tvát-pitāras (cfr. gr. εὐπάτορες), dātêram (δοτῆρα): dêtāram (δώτορα); gr. ἀκμῆνα (ant. ind. aśmênam): ἄκμονα (ant. ind. áśmānam); lat. pedem, gr. πόδα; lat. nex, ma enclitico noceü; terra: *éxtorris, gr. ϕέρω: ′ϕορο-ς.
Da questi indici risulta che l'accento intensivo indoeuropeo era associato ad una inflessione così musicale della parola e delle sillabe, che ad ogni variazione di esso andavano armonicamente congiunti effetti d'intensità e di timbro su tutte le vocali atone, ma principalmente su quelle già fornite di accento ortotono nella forma semplice della parola. Turbato in seguito il primitivo stato di cose, cambiato l'atteggiamento e l'accento della frase, rallentata in conseguenza l'unità accentuativa del gruppo e determinatasi una nuova autonomia delle parole, che però avevano forma eventualmente differente da quella del primitivo semplice, varie possibilità si delinearono. In alcune lingue il doppione venne eliminato con la soppressione di una delle due forme o termini dell'allotropia, p. es. *πέδα in greco e *podem in latino; in altre, dove venne eliminata la differenza tra le vocali di maggiore apertura e, o, a a favore di un'uniforme a, come nel gruppo indoiranico, tra le due forme vocalicamente così assimilate si produssero mistioni e compromessi varî, in cui traccia dell'antica biformità resta solo nel posto oscillante dell'accento vedico, p. es. dêtāram: dātêram; áśmānam: aśmênam o nella eventuale differenza quantitativa della vocale del controaccento: così pitáram: πατέρα, contro tvát-pitāras: εὐπάτορες; jajêna (da *õeõúna): jajêna (da *õeõŏna). Con la ricostruzione in semplice del secondo membro del composto andò naturalmente congiunta (probabilmente nell'indoeuropeo stesso) quella del suo accento: indiano, greco e italico presentano indizî concordi che alla forma già enclitica della parola venne dato accento iniziale, cioè quanto più era possibile lontano dalla fine della parola, la quale in ogni caso, per la struttura stessa della parola indoeuropea, non contava ordinariamente più di tre sillabe; p. es. ant. ind. dêtāram, gr. δώτορα, ecc.; gr. πότερος, osc. pútúrúspíd = *pót(e)rospid; i vocativi come ved. pítar, gr. πάτερ; ἄδελϕε, ϑύγατερ, δέσποτα, πόνηρε, ἄνερ; i verbi, come, p. es., ϕέρομεν, a. ind. bhárāmas. Pensando che il nuovo accento di questi trisillabi enclitici poteva ripercuotersi sui composti sopravvissuti allo scioglimento dei gruppi in modo che anche un nome come acc. βωτορα (a. ind. purú-) si dovesse ridurre a πολυβώτορα (accentazione poi estesa anche a composti sprovvisti di analogo semplice: es. εὐ-πάτορα, πολυᾱ???νορα, ἀγήνορα), di qui è forse da ripetere la più alta origine del trisillabismo greco, che in sé non è se non una tendenza a far gravitare l'intensità, congiunta all'atto elocutivo, dal principio sulla fine della parola. Del resto forse nell'indoeuropeo stesso si era venuta profilando la tendenza a vincolare la illimitata libertà dell'accento, (di cadere il più lontano possibile dalla fine della parola), alla quantità delle ultime sillabe, giacché il fatto che l'accento classico indiano cade sulla terzultima se la penultima è lunga, e cade sulla quart'ultima se terzultima e penultima sono brevi, pare sviluppatosi da una tendenza esistente, secondo constatazioni tecniche, già in età vedica, ed il fatto che l'antico indiano dà, p. es., forma di trocheo ad esiti come *bháramaṇas 〈 bharamāṇas, tvát-pitāras, ecc. e che il greco dà forma di dattilo ad esiti come *σοϕοτατος > σοϕώτατος (cfr. πολυᾱ???νορα) deve pur avere il suo significato, e cioè che l'esito dattilico con la lunga di terzultima costituiva eventualmente uno dei richiami dell'accento e dell'intensità, quando già non vì si trovasse d'origine, dal principio verso la fine di parola. Poiché grammatici indiani, grammatici e musici greci per questo nuovo accento parlano esclusivamente di altezza di tono e non d'intensità, anche questo accento, intensivo nella sostanza, era nei suoi modi prevalentemente musicale.
La legge e condizione storica dell'accento (acuto) greco è dunque ch'esso non può cadere oltre la terzultima sillaba ed anche in questo caso soltanto quando l'ultima sia breve (clausola ??? ??? ??? ). Se l'ultima è lunga, l'accento si sposta ancora verso la fine della parola, formula empirica che non annulla la legge generale, se pensiamo che, p. es., un gen. dor. δάμω, ion.-att. δήμου comparativamente è dal protoell. *δ???μοσι̯ο (cfr. ant. ind. vr???kasya). Alla legge generale si riduce anche la fommula che l'accento circonflesso cade sulla penultima solo quando questa sia lunga per natura e l'ultima breve, poiché, essendo la lunga sottesa dal circonflesso, come si è detto, una vocale di due tempi, cioè una doppia vocale con l'acuto sulla prima, la clausola resta sostanzialmente ??? ??? ???, alla quale in greco è assimilata anche l'altra ??? ??? ???, condizione in cui il greco si rivela insensibile alla lunghezza della sillaba postonica. Se invece pensiamo che nom. du. ϑεώ è da ϑεώ(υ), cfr. a. ind. devêu, nom. sing. Λητώ da Λητώ(ι̯), e che in λόγων τινῶν il circonflesso è in certo qual modo ridato alla sillaba, trattandosi di parola enclitica, si avrà una delle prove di quanto il greco fosse sensibile non solo alla quantità, ma anche al genere dell'accento che geneticamente spettava all'ultima sillaba della parola. Ai termini acuto (ὀξεῖα προσῳδία), grave (βαρεῖα πρ.) e circonflesso (ὀξυβαρεῖα o περισπωμένη πρ.) corrispondono presso grammatici e musici greci, sia nell'accentazione di sillaba, sia in quella di parola, valori sillabico-accentuativi ugualmente reali e precisi. Da luoghi di Aristosseno e di altri musici si deduce persino che, mentre nella parola cantata i toni erano esattamente localizzabili su una determinata scala, nella parola parlata l'accento di sillaba, acuto o grave, esprimeva un movimento tonale assai più modulato e virtuoso, una vicenda di toni alti e toni bassi armonicamente associata ad una vicenda ritmica di tempi lunghi e brevi, forti e deboli. Il periodo o clausola ritmo-melodica delle tre sillabe si ripeteva, infatti, se anche un po' più meccanicamente, nell'accentazione delle enclitiche e cioè quando il confine della parola venisse spostato oltre l'ultima sillaba, p. es. ἄνϑρωποί τινες, λόγων τινῶν, λόγοι τινὲς, ma però anche ἧς τινος, καλῶν τινων, αὖ πως, ἤκουσά τινων.
Questi i fatti ed i concetti fondamentali dell'accentazione greca.
Discutibile è invece col Wackernagel se, posta l'enclisia generale tlel verbo indoeuropeo, l'accento di terzultima sia sorto da un contraccento e che un ′ϕερὸμεϑα esprima la condizione originale, non avendo modo di constatare che nella sede indicata dal grave il protoellenico avesse un contraccento. Comparativamente più fondata è l'ipotesi di accentazioni iniziali in concorrenza ϕέρομεν: ϕέρομεϑα = ant. ind. bhárāmas: bhárāmahe, onde ϕερόμεϑα. Discutibile col Brugmann è, nella originaria enclisia di tutto il verbo greco (la ritrazione dell'accento ne è l'indice più significante), se nelle eccezioni ἰδέ, ἐλϑέ, εὑρέ, λαβέ, εἰπέ, πιέ, ϕαλέ, ϕαϑί, rispetto alla generale parossitonia di tutti gli altri imperativi bisillabi (ἴϑι, λίπε, δάκε, ecc.), si tratti di residui di forme ortotone (infatti nonostante l'identica accentazione di imperativi aoristi bisillabici vedici, anch'essi eventualmente enclitici, nelle dette eccezioni greche non si può scorgere una condizione diversa da quella dell'accentazione puramente grammaticale dei bisillabi enclitici ϕημί, ἐσμέν, ecc., evidentemente desunta dall'accentazione di enclitiche bisillabe dopo parossitoni). Discutibile finalmente col Wheeler è la legge: ossitoni con esito dattilico divengono parossitoni, potendosi nell'assenza di ossitoni corrispondenti dimostrare che negli esempî addotti l'accento o è analogico (ἡδύλος su ἡδύς; ἀγκύλος su tutta la categoria βαρύς, πολύς, ant. ind. gurúṣ, purúṣ, aíhúṣ, ecc., ὀϕρύς, -ύος, ant. ind. bhrús, -vás, su bisillabi del tipo ἰλύς, -ύος) o è spostamento dell'accento di terz'ultima (che nei limiti del trisillabismo è il più antico e l'unico giustificato dall'accentuazione indoeuropea sul primo membro del composto e dalla conseguente forma apofonica del secondo membro) sulla penultima per l'analogia del semplice (βουληϕόρος accanto a ϕόρος, ἑκατηβόλος accanto a βόλος, come ψυχοπομπός accanto a πομπός contro ϑεόπομπος), e ciò anche in composti di esito non dattilico: omer. δημοβόρος, σκυτυτόμος ecc., sulla cui analo.ia anche αἰόλος accanto ad Αἴολος, ecc.
La ricostruzione dell'accento indoeuropeo ci mette nella possibilità di conoscere e valutare ciò che avvenne nell'italico e nel germanico: i rami che storicamente più si sono allontanati dalla condizione libera dell'accento indoeuropeo, salvo che nei casi in cui la sede di esso coincideva con quella (iniziale) dell'innovazione, mentre lo slavo-baltico rispetta forse di più le condizioni originarie ed il lituano eventualmente persino l'intonazione e l'inflessione tonale connesse all'accento. A giudicarne dall'indebolimento o dalla sincope delle vocali mediane, comune al latino ed all'osco-umbro, il protoitalico ebbe accento incondizionatamente iniziale. Parole come hibernus, legimini, optimus, sacrificium, hospitem nella loro fonetica non si spiegano se non da forme e accentazioni come *heím(e)rinos contro gr. χειμερινός; *légomenoi contro gr. λεγόμενοι, cfr. ant. ind. bháramāṇas (ϕερόμενος); *óp(i)-temos; *sácro-faciom; *hóstipotem. Contro tutti i dubbî e le incertezze dei tecnici bisogna subito dire che questa inizialità si conservò nei dialetti italici fino al loro assorbimento nel latino, giacché forme come le osche Pupdiis accanto a Púpidiis da *Pópidios, lat. Pupidius; Niumsis da *Númasios, prenest. Numasioi, lat. Numisius; gen. da nom. xNúmasidios; embratur imperator da *éndo-părātor, lat. arc. induperator; teremníss da *térm(e)nef(o)s "terminibus"; meddixu d abl. = méddikëdüd "*meddiciü", lucan. métsed, ecc., non si spiegano con accentazione di penultima, se la corrispondente penultima accentata del latino in alcuni esempî è persino scomparsa. Intensità iniziale, sincope, certo dopo previo indebolimento vocalico, insensibilità a lunga di penultima ancora in età storica dimostrano i relitti dialettali delle più antiche genti italo-ausoniche stanziate nell'Italia meridionale o passate nella Sicilia orientale: νοῦμμος da gr. νόμιμος, ὀγκία, οὐγκία da *oín(i)cia "unità monetale", lat. uncia, -oncia; ἄβολλαι περιβολαὶ ὑπὸ Σ., da *ámbh(i)-ùolùā, κάτῖνον contro lat. cat???nus (cfr. lat.-italiot. crépĭda da κρηπῖδα(ν) contro crep???do) e, nonostante l'accentazione greca, ἀρβίννη κρέας Σ. *árvīn(n)a, lat. arv???na; πάτανα τρύβλιον, lat. patĭna; λέπορις, κύβιτον, κότταβος, κάρκαρον "carcer" ecc., quando invece una nuova condizione era subentrata nel latino.
Questa nuova condizione è: l'accento iniziale protoitalico in latino si è spostato sulla terzultima quando la penultima sia breve, sulla penultima se essa sia lunga. È anche questo un trisillabismo, ma per cronologia, natura e condizioni quantitative assolutamente diverso dal greco, salvo forse dove l'adozione storica della metrica greca portò ad utilizzare alcune convenienze particolari o comuni. Poiché la terzultima sotto l'accento iniziale italico tendeva ad indebolirsi o sparire, causa adeguata del richiamo dell'accento o intensità dal principio verso la fine della parola non può essere stata se non l'intensità o contraccento d'una penultima lunga, p. es. in *cónfēci, onde confÿci, accento che restava sulla stessa sillaba anche quando nel corso della flessione essa si trovasse ad essere terzultima, onde anche cónfăciü 〈 cónfĕciü 〈 cónficiü 〈 confíciü, il che contribuì a generalizzare la terzultima come più lontana sede dell'accento, ma con residui come exádvorsum, voc. Váleri, ecc., attestate dai grammatici, o fácilia, séquimini sotto l'ictus del senario. Che questo nuovo accento di natura spiccatamente quantitativa non possa essere più antico del sec. V a. C. è indicato da più ragioni:1. dalla sopravvivenza di accentazioni come Céthēgus, Cámillus (Quintil., I, 5, 22), ricordi d'antiquaria che non possono riferirsi a pronunzie anteriori al primo o secondo secolo della repubblica; 2. dal fatto che parole come balneum da balineum da βαλανεῖον, talentum da τάλαντον, il cui vocalismo è prodotto di accentazione iniziale, non possono esser penetrate a Roma se non con la conoscenza diretta e la cultura del mondo greco dopo il sec. VI a. C.; 3. da nomi geografici come Agrigentum, Tarentum: conosciuti forse insieme con la loro accentazione iniziale (acc. *"Ακραγαντα, Τάραντα) non prima della caduta della dominazione etrusca sulla Campania (474-420 a. C.), si trovano ancora assoggettati nel Lazio al trattamento fonetico proprio delle voci sotto accento iniziale; 4. che mentre a Preneste nel sec. VI (fibula di Manios) troviamo ancora forme come Númasios, féfaked, con vocalismo medio inalterato, troviamo poi Alixentrom "Αλεξανδρον" Corp. Inscr. Lat., I2, 553, 556 in monumenti non posteriori al sec. V a. C. (così Casentera Κασσάνδρα, Ateleta 'Αταλάντα).
Quanto alle condizioni storiche che determinarono da parte delle popolazioni italiche l'abbandono dell'accento indoeuropeo le opinioni sono diverse: accettando il principio che un mutamento così radicale d'accento non possa derivare se non da profonda mistione etnico-dialettale, due sono le cause più probabili: 1. l'influsso sul latino dell'accento etrusco, sicuramente dimostrato iniziale; 2. la reazione dell'accento dei sostrati eteroglotti sull'italico. La prima ipotesi è da scartare: 1. perché l'inizialità è comune a tutti gl'Italici, anche a quelli più lontani dall'Etruria; 2. perché l'accento iniziale decade nel latino proprio quando maggiore è, secondo gli storici, l'influsso culturale dell'Etruria sul Lazio (sec. VI-V a. C.). Che si tratti di influsso di lingue dei popoli preindoeuropei del centro dell'Europa sugl'Italici prima che entrassero nella penisola è impossibile perché: 1. prodotto di accento libero e musicale è la fonetica delle parole celtiche (Γαβρῆτα ὕλη; *paravérēdus, onde ted. Pferd, contro neolatino verÿdus, paraverÿdus "palafreno", Vercingetorix, Viridomārus, Nemetodurum) e 2. dell'accento iniziale germanico si sa che è posteriore alla Lautverschiebung. Nella ricerca delle cause resta, dunque, unicamente possibile la inizialità generale dell'accento del sostrato glottico preindoeuropeo di tutta la penisola, di cui è concordemente prodotto fonetico la forma plurisincopata delle parole etrusche e quella parte della onomastica e toponomastica preitalica di tutta la penisola che riuscì a sottrarsi alle leggi della accentazione greca e latina.
Sicilia. - Sican. "Ελωρος, "Ινδαρα, Μίσκηρα, "Υκκαρα, Μάζαρα, Σύμαιϑος, "Αλαισος, Κάναλα, Τρίαλα, "Ινησσα, *Μάκελλα, *"Αβολλα, *"Εντελλα, *"Ατελλα; Καμάρινα, *Κάτανα (Cátina), Γαλάρινα, Κάυκανα, Νόνυμνα, acc. Σολοῦντα (Sólunto, Sólanto), Μοτύκη (Módica), "Εγεστα, *"Ακραγαντα ('Ακράγας) e così, *"Ιμαχαρα, *Μύτιοτρατον; nomi di persona Σόλνμος, Κώκαλος, "Αδρανος.
Bruzio. - Αἴσαρος, Semirus (Símmari), Σύβαρις, Μάταυρος, Τέρινα, Λάτυμνον, acc. Κρώτονα, Κρίμισα, Λάμητος, Sábatus (Savuto), Ναύαιϑος, Κόκυνϑος, Μάταυρς, *Τέμ(ε)σα (Tempsa); Λάρισα.
Lucania-Campania. - Σίλαρος, Τάμαρος, (cfr. Tímmari) (come laz. Crémĕra, "Αστυρα) Sár(i)na, Atina (luc. Atena), Μάρκινα, Τύρσητα, Sabatus (Sábbato), Cimetra (laz. "Εχετρα, Velītrae, ma etr. Vélaϑri, Volterra), Cáletra, Σύραπος, acc. 'Αλύβαντα da "Α-.
Puglie. - Acc. Τάραντα, *Βρέντεσιον (Brindisi); Hútrentum (‛Υδροῦς Ótranto), Sámmarus fl. (Sámari); Κάρβινα, *Γάλαισος (Gálaso), *Σάλαπια (Sálpi), Arpa-, Arpī, "Αρποι da *"Αργυριπα (cfr. sic. Κεντύριπα da Κέντ-), cfr. messap. Argorapan(i)des, "Αργ(ν)ρ(ι)πα, Arpa, Arpī "Αρποι; nome di pers: Δαζιμος da Δάζαμος.
I tipi accentuativi del Lazio e dell'Etruria son così noti che è superfluo addurre esempî.
Neolatino. - L'accento latino è continuato nelle lingue romanze con una persistenza che si fa sempre più sorprendente di mano in mano che progrediscono gli studî di linguistica romanza. Si può affermare, in linea generale, che la sillaba accentata ai tempi di Cicerone è accentata tutt'ora. Gli spostamenti, che si notano sopra tutto nei nomi di luogo, hanno ragioni peculiari. Così, Táranto risale a pronunzia preromana, e, in Francia, i nomi di Nîmes, Gap, Troyes sono derivati dal gallico con pronuncia proparossitona (Némausum, Váppincum, Trícasses), perché non pare che il celtico della Gallia abbia avuto costantemente, con regolarità perfetta, l'accentazione latina retta dalla penultima.
Altri spostamenti, in nomi comuni, richiedono spiegazioni diverse. In viginta, triginta, quadriginta, ecc. (ital. venti, trenta, quaranta, franc. vingt, trente, quarante, ecc.) abbiamo probabilmente un residuo di un'antichissima pronuncia in posizione proclitica; nell'ital. érgere abbiamo non una continuazione del lat. erigere ma un infinito rifatto sul presente érgo, érge, ecc.; nel rum. crúnt "sanguinoso", non avremo un crúentus ma un cruént, cruúnt, crunt, ecc. Presenta un altro problema l'ital. fégato dal lat. ficātum, il cui accento forse va spiegato per via di un incrocio col sinonimo gr. συκωτόν.
Ma gli spostamenti più noti d'accento, che si riflettono nel neolatino, sono d'altra natura e cioè:
1. La penultima breve di un proparossitono chiama l'accento quando sia seguita da muta + liquida (r), senza cambiare di quantità (tenúbrae, intúgrum, colŭ???brum, ecc.). La spiegazione più plausibile è la seguente. Si può ritenere che prima del periodo letterario anche il nesso costituito da muta + liquida formasse posizione; onde, quando un pérfactum, a ragion d'esempio, divenne perféctum, anche tenébrae, ecc. diventò tenébrae, ecc. Poi, perdutosi il valore di posizione per questo nesso, la vocale rimase breve e nel latino letterario l'accento si ritrasse, mentre ciò non accadde nel latino volgare.
2. L'accento si sposta nelle voci in -íolus -éolus (filiólu, ecc.). Anche qui abbiamo probabilmente un resto nel latino volgare di accentazione paleolatina (fíliòlu). Altrettanto si dica di pariéte e muliére.
3. Soppressione di ù, con ritrazione d'accento, in casi come bátuere, hábuerunt, cónsuere.
All'influsso dell'accento tonico va poi richiamato il fenomeno della dittongazione delle vocali aperte e chiuse, in sillaba libera, in gran parte del campo romanzo (é??? in ie, ó??? in uo, é??? in èi, ecc.). Non è qui il luogo di fermarsi su questo problema, nkdi chiederci quale sia stata e sia l'area di questo dittongamento e quali i centri di irradiazione. All'accento, infine, si deve se le lingue romanze hanno una tendenza spiccata verso una maggiore libertà e scioltezza sillabica di fronte al latino, con la loro risoluzione, in mezzo di parola e fra parola, di complicazioni consonantiche, come si osserva in particolar modo nel francese.
Come Segno ortoepico e ortografico. - Nell'epoca classica, i Greci notavano solo gli spiriti; l'introduzione degli accenti si attribuisce ad Aristofane di Bisanzio. Alla fine del secolo IV, sant'Epifanio enumera i dieci segni diacritici che allora si usavano: l'accento acuto, lo spirito aspro, l'accento grave, lo spirito dolce, l'accento circonflesso, l'apostrofo, la lunga, il segno di unione (ὑϕέν), la breve, il segno di separazione.
Di regola l'epigrafia non fa uso di accenti propriamente detti Nell'epigrafia greca se ne hanno esempî tardi e sporadici. Nell'epigrafia latina romana furono in uso due segni, l'apexed il sicilicus, che possono essere considerati come segni di accentuazione, di un determinato valore.
L'apex è un accento acuto che si faceva figurare nelle iscrizioni dei primi secoli dell'impero e che serviva ad indicare le vocali lunghe per natura (p. es. LÉGÁTUS, LÍBÉRTUS). L'uso dell'apice cominciò all'età di Silla e si mantenne sino alla fine del sec. III; fu più frequente nel sec. I e II. Il regno di Gallieno (253-268) si può considerare come il periodo nel quale l'uso dell'apice declina fino quasi a cessare del tutto. Posteriormente l'apice non appare più che come eccezione sui testi epigrafici. È bene notare che questa forma di accento si incontra talvolta anche su vocali brevi (p. es. nel Monumentum Ancyranum, VI, 29) e perfino sulle consonanti (cfr. le iscrizioni del Corpus Inscriptionum Latinarum, VI, 12442, 13226). In questi casi, del resto molto rari ed eccezionali, occorre ammettere che vi sia stato da parte del lapicida o quadratario un errore, che può essere attribuito a negligenza o ad ignoranza; non si intese certamente di dare a quei segni fuori tli posto un valore ortografico o fonetico. Nell'epigrafia cristiana l'uso degli accenti in genere e dell'apice è rarissimo e senza una regola fissa; onde più che accenti possono dirsi capricci dei lapicidi (v. Corpus Inscriptionum Latinarum, VIII, 2309; De Rossi, Inscriptiones christianae Urbis Romae, 33).
L'altro segno simile ad un accento detto sicilicus ebbe due forme diverse. Talvolta si incise sul marmo nelle iscrizioni come un accento circonflesso. L'uso più frequente fu quello di metterlo su di una lettera per indicare che l'ortografia della sillaba richiedeva il raddoppiamento: esso si trova più spesso sulle consonanti, talvolta anche sulle vocali (sús "suus"). Era dunque un segno di abbreviazione piuttosto che un accento. Il suo uso fu molto raro nell'età di Augusto e nei primi secoli dell'impero. Si fece più frequente nei secoli posteriori, fino a divenire di uso quasi costante nel Medioevo (v. abbreviazione: Epigrafia).
Una lunga trattazione degli accenti si ha in un De accentibus liber, attribuito a Prisciano; trattazione che ricalca molto da vicino le regole date dai grammatici greci.
Il momento decisivo per la fissazione degli accenti nelle lingue moderne si ha con la grafia adottata dagli editori del principio del Cinquecento, e specialmente da Aldo Manuzio. Aldo espone le regole dell'accentuazione nel suo scritto Institutionum grammaticarum libri IV (Venezia 1508, più volte ristampato). Domina in queste regole il principio della distinzione (una pronome, unà avverbio) conservato fino ad oggi nella nostra grafia (di, dì, di', ecc.).
I primi accenti in francese furono introdotti dai grandi tipografi del Cinquecento, specialmente da Enrico Stefano, partendo dalle regole di Aldo. Solo con l'edizione del dizionario dell'Accademia del 1740 si adottò sostanzialmente il sistema oggi in uso.
Mentre in alcune lingue (come il francese e lo spagnolo), gli accenti grafici si adoperano con quasi inderogabile rigore, in italiano l'uso è in molti casi oscillante.
Altre lingue (p. es. l'ungherese) si servono del segno dell'accento acuto per indicare non l'accento tonico ma la lunghezza della vocale.
Bibl.: Di carattere generale: H. Hirt, Der indogermanische Akzent, Strasburgo 1895, con altri suoi articoli nelle Indogermanische Forschungen, I, VII, XVI; K. Brugmann, Grundriss der vergleichenden Grammatik der idg. Sprachen, I, pp. 944-992; articoli di P. Kretschmer, in Zeitschrift für vergleichende Sprachforschung, XXXI, p. 325 segg.; A. Meillet, in Mémoires de la Société de Linguistique de Paris, XIX, p. 65 segg.
Di carattere speciale. Per l'antico indiano: J. Wackernagel, in Altindische Grammatik, I, pp. 281-297 (riassuntivo e critico di tutta la produzione anteriore al 1896); F. Ribezzo, La legge del Brugmann: indoeur. ŏ = a. i. ā in sillaba aperta, Napoli 1907 (sulle oscillazioni dell'accento vedico e sul valore apofonetico delle forme concernenti) e Rivista Indo-greco-italica, IX, p. 235. Per il greco: J. Wackernagel, Der griech. Verbalakzent in Zeitschr. vergl. Sprachf., XXXIII, p. 457 segg.; id., Beitr. zur Lehre v. griech. Akzent, Bsailea 1893 (cfr. Bezzenberger, in Beitr., XXX, p. 167 segg.); B. I. Wheeler, Der griech. Nominalakzent, Strasburgo 1885 (cfr. Allinson, in Amer. Journ. of Philology, XII, p. 49 segg.); J. Vendryes, Traité d'accentuation grecque, parigi 1904; K. Brugmann, Griechische Grammatik, 4ª ed., Monaco 1913, p. 176 segg.; N. Ehrlich, Untersuchungen über die Natur der griech. Betonung, Berlino 1912; A. Bally, Accent grec, védique indoeuropéen, in Mélanges de linguistique... Ferd. de Saussure, parigi 1908; A. Schmitt, Akzent des Griechischen und Lateinischen in Untersuchungen zur allgemeinen Akzentlehre, Heidelberg 1924, pp. 171-209; P. Hantschke, De accentuum Graecorum nominibus, Bonn 1914. Per il latino e l'italico: Weil et Benloew, Théorie générale de l'accentuation latine, Parigi 1855; Ahlberg, Studia de accentu latino, Lund 1905; J. Vendryes, Recherches sur l'intensité initiale en latin, Parigi 1902; C. Juret, Dominance et résistence dans la phonétique latine, Heidelberg 1913; articoli di Meillet, in Mém. Soc. de Ling. de Paris, XX, p. 165 segg.; F. Skutsch, Glotta, IV, p. 187 segg. (sulla derivazione etrusca dell'accento iniziale latino), su cui ora F. Ribezzo, Le origini mediterranee dell'accento iniziale italo-etrusco in Rivista Indo-Greco-Italica, XII (1928); G. Herbig, Indogerm. Forsch., Anzeiger, XXXVII, pp. 18-40; M. Lenchantin De Gubernatis, Rivista Indo-Greco-Italica, XII (1928); G. Herbig, Indogerm. Forsch., Anzeiger, XXXVII, pp. 18-40; M. Lenchantin De Gubernatis, Rivista Indo-Greco-Italica, VI, pp. 85 segg., 247 segg., VII, p. 63 segg.; R. Thurneysen, Glotta, I, p. 240 segg. (a favore dell'accentuazione iniziale dei dialetti italici, ma con argomenti insufficienti; criticato da F. Muller, Zur Worthet. in den osk.-umbr. Dialekten, in Indogerm. Forsch., XXXVII, dove a p. 188 contro la etruscità dell'accento latino). Riassuntivi e critici: F. Sommer, Handbuch der lateinischen Laut- und Formenlehre, 2ª-3ª ed., p. 83 segg.; Erläuterungen alla stessa opera p. 24 seg.; M. Leumann in Stolz-Schmalz, lateinische Grammatik, pp. 180 e 83.
Per il germanico fa epoca K. Verner, Eine Ausnahme der ersten Lauterverschiebung: Zeitschr. vergl. Sprachforsch., XXIII, p. 97, seguìto da Kluge, Das germ. Akzentgesetz. Beitr. z. Gesch. d. germ. Konj.; Kock, Zur urgerm. Betonungslehre in Beitr. di Paul e Braun, XIV, p. 75. Per lo slavobaltico tra i lavori meno speciali da segnalare: F. N. Fink, Über das Verhältniss des baltisch-slavischen Nominalakz. zum Urindogerm., Marburgo 1925; K. H. Meyer, Slavische und idg. Intonation, Heidelberg 1920.
Sulla presunta unità italo-celto-germanica, v. Thurneysen, Rev. Celtique, VI, p. 312 segg.; Hirt, Indogerm. Forsch., IX, p. 284 segg.
Per la diversità d'accentuazione, e sui rapporti generali e particolari tra accento latino e neolatino: F. Abbot, The Accent in Vulgar and Formal Latin in Classical Philology, II, p. 444; Baehrens W. A., Sprachlicher Kommentar zur Appendix Probi, 1923.
Sull'accento neolatino, G. Paris, Étude sur le rôle de l'accent latin dans la langue française, Parigi 1862; W. Meyer-Lübke, Betoung im Gallischen in Sitzungsberichte der Akademie, Vienna CXLIII, 1901; E. Hermann, Zur lateinischen und romanischen Betonung in Zeitschrift f. vergl. Sprachforschung, XLVIII, 1917; Meyer-Lübke, Introducción á la lingüística romànica (traduz. spagn. dal ted. di A. Castro), Madrid 1927.
Musica. - L'accento segna il limite degli aggruppamenti ritmici; esso determina le proporzioni di durata dei suoni, in guisa da renderle facilmente distinguibili al senso. L'accento può coincidere col tempo forte della misura, ma può essere anche in contrasto con quello; in ogni modo dev'essere considerato come affatto indipendente dalla misura. Quando occorra, l'accento viene indicato col segno >:
Altro valore ha la parola accento (accentus, in opposizione a concentus), che, nella tecnica del canto gregoriano, viene adoperata per significare il recitare della salmodia su una corda media. Esso coincide col tenor sul quale viene cantato, quasi recitando, il versetto. L'intonazione del tenor corrisponde al grado della dominante. Tale il carattere tecnico delle letture liturgiche solenni cantate, come le orazioni, le epistole, i vangeli, ecc., che hanno per lo più testi in prosa e sono destinate ai sacerdoti ed ai ministri dell'altare. Costituite da una recitazione per solito su una sola nota (la "dominante" del modo o tono), segnano la divisione e la fine delle frasi e dei periodi di testo con più o meno semplici formule cadenzali d'interpunzione, fondate sull'accento delle parole cantate. Gli accentus sono tra i più chiari segni di trapianto nella chiesa cristiana della tradizione liturgica israelitica, nata palesemente dalla modulazione musicale della lettura parlata.