Accesso alla dirigenza e cittadinanza
Investita dell’esame di questioni di massima inerenti alla legittimità dell’ammissione di candidati di Paesi UE privi della cittadinanza italiana ad una selezione concorsuale per il conferimento di incarico di direttore di museo pubblico di rilevanza nazionale, l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato analizza le specifiche problematiche sulla riserva di nazionalità per l’accesso a posizioni organizzative di dirigenza statale, pervenendo ad enucleare, attraverso un’interpretazione evolutiva, improntata alla primauté del diritto eurounitario, regulae juris, che, oltre a definire la controversia oggetto di rimessione, sono destinate ad orientare de futuro attività e valutazioni di giudici ed interpreti in ordine all’accesso alla funzione pubblica, anche per la specifica efficacia di principi di diritto enunciati nell’interesse della legge (art. 99, co. 5, c.p.a.).
Con sentenza del 25.6.2018, n. 9 l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato ha escluso, per gli aspiranti direttori di musei statali di rilevante interesse nazionale e di istituti di cultura di pari rilievo, l’inderogabilità del requisito della cittadinanza italiana, poiché i compiti che essi saranno chiamati a svolgere in concreto non comportano, in ragione della specifica posizione organizzativa, il prevalente esercizio di funzioni autoritative. Tale pronuncia si innesta su un quadro normativo e di principi interessato da cambiamenti profondi e radicali in ordine alla riserva di cittadinanza per l’accesso al pubblico impiego in forza di un processo che nell’ordinamento interno non si sarebbe tuttora compiutamente attuato, se il Supremo consesso della giurisdizione amministrativa ha ravvisato i presupposti per la necessaria «non applicazione» di norme regolamentari nazionali (art. 1, co. 1, lett. a, d.P.C.m. 7.2.1994, n. 174 e art. 2, co. 1, d.P.R. 9.5.1994, n. 487) perché in contrasto con norme e principi dell’ordinamento eurounitario (art. 45, par. 4, TFUE), per giunta inerenti a libertà fondamentali, come quella di circolazione dei lavoratori nel territorio degli Stati membri dell’Unione.
Sin dal testo unico sugli impiegati civili dello Stato del 1908 (R.d. 28.11.1908, n. 693) la cittadinanza italiana era richiesta quale requisito necessario per l’assunzione in un rapporto di servizio e per la presupposta partecipazione ai pubblici concorsi1. Analoga previsione era dettata dal successivo testo unico, d.P.R. 10.1.1957, n. 3, ai sensi degli artt. 2 e 70. Alla base di tale pressoché inderogabile necessità (non intaccata nella sua valenza di regola di principio da sporadiche eccezioni – ad esempio, a proposito di reclutamento di professori universitari – considerate, tuttavia, deroghe) v’era il presupposto convincimento della compartecipazione inevitabile all’esercizio della funzione pubblica, costituente obiettivo e ragion d’essere ad un tempo dell’amministrazione, da parte di coloro che, attraverso la propria attività di servizio, ne supportassero, sul piano organizzativo e strumentale, l’attuazione. Talora la correlazione necessaria tra cittadinanza e rapporto di servizio professionale era considerata espressione di una concezione nazionalista – e perciò storicistica – della stessa funzione pubblica e dei suoi obiettivi, riduttivamente confinati all’interno della dimensione statuale. A non diversa chiave di lettura erano tendenzialmente ricondotte le norme di cui agli artt. 51 e 54 Cost. che, equiparando, quanto alla disciplina dell’accesso, uffici pubblici e cariche elettive, ne avrebbero riservato la garanzia a tutti i cittadini, ma soltanto ad essi, poiché questi ultimi, destinatari di doveri di fedeltà verso la Repubblica e di rispetto della Costituzione e delle sue leggi, avrebbero potuto assicurare l’adempimento di funzioni pubbliche «con disciplina ed onore», secondo un’interpretazione volta a valorizzare il dibattito svoltosi in seno all’Assemblea costituente. Tale interpretazione è stata peraltro sottoposta a revisione da parte della Corte costituzionale e il significato complessivo degli artt. 51 e 54 Cost., inteso non già in senso preclusivo, bensì di apertura su basi paritarie, di eguaglianza e non discriminazione, condiviso e valorizzato dall’A.P. ai fini della ricostruzione dei presupposti del principio di diritto che ha sancito l’incompatibilità eurounitaria delle norme regolamentari interne che «impediscono in assoluto ai cittadini di altri Stati membri dell’U.E. di assumere i posti dei livelli dirigenziali delle Amministrazioni dello Stato…».
Il quadro normativo di rango primario rilevante prende corpo con l’art. 37 d.lgs. 3.2.1993, n. 29, la cui disciplina è stata poi trasfusa nell’art. 38 d.lgs. 30.3.2001, n. 165, t.u. delle norme sul pubblico impiego cd. privatizzato2. La norma, prevedendo che «i cittadini degli Stati membri dell’Unione europea possono accedere a posti di lavoro presso le Amministrazioni pubbliche che non implicano l’esercizio diretto o indiretto di pubblici poteri, ovvero non attengono alla tutela dell’interesse nazionale» (co. 1), affranca dal pregiudiziale e generalizzato requisito della cittadinanza italiana l’accesso a rapporti di lavoro con pubbliche amministrazioni da parte di soggetti appartenenti all’U.E., contestualmente rinviando ad un successivo d.P.C.m. di natura regolamentare l’individuazione di posti e funzioni «per i quali non può invece prescindersi dal possesso della cittadinanza italiana…». Tali «posti» sono stati così individuati nel d.P.C.m. n. 174/1994 (art. 1), riprendendo pedissequamente la formula legislativa sull’imprescindibilità della cittadinanza italiana in capo agli aspiranti: «a) i posti dei livelli dirigenziali delle amministrazioni dello Stato, anche ad ordinamento autonomo … nonché i posti dei corrispondenti livelli delle altre pubbliche amministrazioni; b) i posti con funzioni di vertice amministrativo delle strutture periferiche delle amministrazioni pubbliche dello Stato, anche ad ordinamento autonomo, degli enti pubblici non economici, delle province e dei comuni nonché delle regioni e della Banca d’Italia; c) i posti dei magistrati ordinari, amministrativi, militari e contabili, nonché i posti degli avvocati e procuratori dello Stato; d) i posti dei ruoli civili e militari della Presidenza del Consiglio dei Ministri, del Ministero degli affari esteri, del Ministero dell’interno, del Ministero di grazia e giustizia, del Ministero della difesa e del Ministero delle finanze e del Corpo forestale dello Stato, eccettuati i posti a cui si accede in applicazione dell’art. 16 della legge 28 febbraio 1987, n. 56» (titolo di studio non superiore alla scuola dell’obbligo). L’art. 2 della medesima norma determina per tipologie le funzioni il cui esercizio postula la riserva di cittadinanza, vale a dire: «a) funzioni che comportano l’elaborazione, la decisione, l’esecuzione di provvedimenti autorizzativi e coercitivi; b) funzioni di controllo di legittimità e di merito». A sua volta, il regolamento sull’accesso agli impieghi nelle p.a. e le modalità di svolgimento di concorsi, di cui al d.P.R. n. 487/1994, dispone che il requisito della cittadinanza non è richiesto per i soggetti appartenenti all’UE «fatte salve le eccezioni di cui al decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri 7 febbraio 1994, n. 174». Ed è proprio su tali eccezioni e sulla generalizzazione di tali limiti, attraverso il riferimento a posizioni organizzative indicate in astratto e per categorie, che si articolano gli snodi del percorso motivazionale attraverso il quale l’A.P. addiviene all’affermazione dell’illegittimità de jure communitario, con conseguente disapplicazione, delle richiamate norme regolamentari, nonché alla «diretta applicazione delle pertinenti previsioni del diritto interno e di quello eurounitario».
A sua volta il quadro normativo di riferimento di matrice europea3 espone complessità tutt’altro che trascurabili; il che rende ancor più significativo il ruolo dirimente svolto dall’A.P. attraverso un’interpretazione “di sistema” effettuata in chiave tutta versata nella direzione del diritto europeo.
L’art. 45 TFUE, dopo aver assicurato «la libera circolazione dei lavoratori all’interno dell’Unione» (par. 1); indicato le implicanze derivanti in modo immediato e diretto dalla garanzia di tale libertà («abolizione di qualsiasi discriminazione, fondata sulla nazionalità, tra i lavoratori degli Stati membri, per quanto riguarda l’impiego, la retribuzione e le altre condizioni di lavoro») (par. 2); esplicitato le specificazioni dei diritti ad essa correlate («a) di rispondere a offerte di lavoro effettive; b) di spostarsi liberamente a tal fine nel territorio degli Stati membri; c) di prendere dimora in uno degli Stati membri al fine di svolgervi un’attività di lavoro, conformemente alle disposizioni legislative, regolamentari e amministrative che disciplinano l’occupazione dei lavoratori nazionali; d) di rimanere, a condizioni che costituiranno l’oggetto di regolamenti stabiliti dalla Commissione, sul territorio di uno Stato membro, dopo aver occupato un impiego») (par. 3); individuato le cause di limitazione della medesima libertà («motivi di ordine pubblico, pubblica sicurezza e sanità pubblica») (par. 3); al par. 4 precisa: «Le disposizioni del presente articolo non sono applicabili agli impieghi nella pubblica amministrazione». La testuale esclusione degli «impieghi nella pubblica amministrazione» dall’ambito di applicazione di tutte le norme dettate nell’intero articolato dell’art. 45 (implicanze della libertà di circolazione, diritti e cause di legittima limitazione) sembrava indicare una deroga generale ed onnicomprensiva alla libertà di circolazione, con conseguente area di riserva alla disciplina nazionale estesa all’intero settore pubblico. Ciò del resto, in conformità ad una tecnica di regolamentazione ampiamente sperimentata dalla Comunità economica europea, volta ad escludere dall’ambito di applicazione della fonte comunitaria istituti giuridici non sufficientemente noti alla sua esperienza e non in linea con le libertà da essa riconosciute, come nel caso verificatosi a proposito della trattativa privata, esclusa dalla disciplina della prima direttiva comunitaria appalti (71/305) e ricompresa in quelle successive (nella forma della procedura negoziata). In non diversa direzione potrebbe sospingere la considerazione che l’esclusione/deroga al principio della libera circolazione dei lavoratori nei Paesi UE per gli «impieghi nella pubblica amministrazione» compare, nell’identica formulazione testuale, nel par. 4, dell’art. 48 del Trattato di Roma, istitutivo della Comunità economica europea del 25.3.1957; nell’art. 39 del TCE e nell’art. 45 TFUE, quasi a conferma di una persistente volontà di conservare invariato l’ambito della deroga, siccome originariamente individuato, malgrado le ripetute occasioni di adeguamento della norma alle interpretazioni di giudici ed organismi eurounitari che restringevano progressivamente i margini dell’area di riserva degli Stati membri ai propri cittadini nell’accesso ad «impieghi nella pubblica amministrazione». Ma poiché le fonti di matrice europea vincolanti per gli Stati membri non sono circoscritte alle norme dei Trattati, ma si estendono alle direttive, ai regolamenti, ai principi desunti dalle sentenze della Corte di giustizia ed alle altre, pur se di valore ricognitivo (comunicazioni, raccomandazioni, ecc.), la circostanza del mancato adeguamento dei Trattati sul punto vede affievolita l’iniziale rilevanza dell’argomentazione.
Invero, sul versante dell’ambito e dell’estensione della deroga di cui al par. 4, art. 45 TFUE, la giurisprudenza comunitaria, sin dagli anni ‘70 del secolo scorso, ha interpretato in senso restrittivo l’eccezione alla libertà di circolazione prevista dal par. 4, art. 39 TCE, omologo all’attuale par. 4, art. 45 TFUE, circoscrivendo l’ambito dell’autonomia organizzativa degli Stati membri di riservare ai propri cittadini l’accesso al lavoro presso p.a. entro margini sempre più ristretti. Corte di giustizia CE, 26.5.1982, Commissione c. Regno del Belgio, C149/79, delimitava l’ammissibilità della riserva di nazionalità ai soli impieghi nell’amministrazione pubblica «che hanno un rapporto con attività specifiche della pubblica amministrazione in quanto incaricata dell’esercizio dei pubblici poteri e responsabile della tutela degli interessi generali dello Stato…», richiedendosi, comunque, il duplice presupposto rispettivamente inerente alla natura dell’impiego ed alla tipologia delle mansioni dallo stesso implicate (impieghi «che implicano la partecipazione, diretta o indiretta , all’esercizio dei pubblici poteri ed alle mansioni che hanno ad oggetto la tutela degli interessi generali dello Stato o delle altre collettività pubbliche», C. giust. CE, 17.12.1980, Commissione c. Regno del Belgio, C149/79; in senso analogo, C. giust. CE, 2.7.1996, Commissione c. Repubblica ellenica, C290/94). Ma – si sottolinea – mentre nel 1988 (comunicazione 88/C 72/02) la Commissione europea aveva ricondotto nell’ambito della deroga genericamente «i posti nei ministeri statali, presso autorità governative regionali, enti locali, banche centrali e altri organismi di diritto pubblico, che si occupano della preparazione degli atti legislativi, della loro attuazione, del controllo della loro applicazione e del controllo degli organismi subordinati», nel 2002 (comunicazione 11.12.2002, COM2002, 694) la stessa Commissione ritiene di adottare «un approccio più rigoroso» e, onde evitare il rischio di una riserva generalizzata ed estesa a «tutti i posti collegati a queste attività», puntualizza che, ferma la legittimità della scelta degli Stati membri attestata sul requisito della cittadinanza «dello Stato membro ospitante» per «funzioni amministrative e decisionali che comportano l’esercizio dell’autorità pubblica e la salvaguardia dell’interesse generale dello Stato», «ciò non riguarda tutti gli impieghi nello stesso settore», neppure nei settori “sensibili” oggetto della deroga espressa di cui al par. 3, dell’art. 45 TFUE.
Inoltre, il concetto di “amministrazione” quale sedes rilevante ai fini dell’individuazione degli impieghi esclusi dall’applicazione del principio generale del libero accesso si colloca in un ambito ricompreso tra l’autonomia organizzativa degli Stati membri e l’esigenza di evitare ricadute limitative dell’efficacia e della portata delle norme del Trattato sulla libera circolazione dei lavoratori derivanti dalle diverse nozioni di pubblico impiego e di pubblica amministrazione utilizzate negli ordinamenti degli Stati membri (C. giust. CE, 12.2.1974, Sotgiu c. Deutsche Bundespost, C152/73). Di qui l’affinamento dei criteri della riserva di nazionalità attestati progressivamente su compiti di interesse pubblicistico caratterizzati da una «partecipazione diretta e specifica all’esercizio di pubblici poteri» (C. giust. CE, 31.5.2001, Commissione c. Repubblica italiana, C283/99); su un’applicazione della riserva nei limiti strettamente necessari alla tutela dell’interesse nazionale sotteso alla norma sostanziale (C. giust. CE, 30.9.2003, Colegio de Oficiales de la Marina Mercante Española c. Administración del Estado, C405/01); sull’esclusione di tale riserva in relazione ad «impieghi che, pur dipendendo dallo Stato o da altri enti pubblici, non implicano alcuna partecipazione ai compiti spettanti alla pubblica Amministrazione propriamente detta» (C. giust. UE, 10.9.2014, Haralambidis c. Casilli, C270/13); sull’irrilevanza ex se di poteri d’imperio eventualmente in titolarità del soggetto pubblico, essendo necessario verificarne la prevalenza nell’ambito dei compiti complessivi inerenti all’impiego e persino l’esercizio in concreto (ivi).È con questi criteri, mai consegnati in una norma in via generale, formulati in singole pronunce in modo non sempre rigoroso sul piano tecnico-giuridico, sia per la loro natura, non rapportabile ai caratteri peculiari di alcuni degli Stati membri, sia per le inevitabili incertezze derivanti da problemi di uniformazione linguistica e di traduzione, che si è misurata l’A.P. con la sentenza in rassegna, aggiungendo ulteriori anelli interpretativi per la soluzione della specifica questione dell’apertura ai cittadini europei della funzione pubblica affidata ai direttori dei musei nazionali.
Per comprendere nella sua rilevanza l’impatto effettivo dispiegato dalla sentenza dell’A.P. n. 9/20184 sulla configurazione futura della funzione pubblica sotto il profilo soggettivo, per il tramite delle soluzioni offerte alle varie problematiche implicate dall’ammissione di candidati stranieri a selezioni pubbliche per il conferimento di incarichi di dirigenza di musei di rilevanza nazionale ed istituti pariordinati, mette conto considerare i termini del contrasto interpretativo venutosi a determinare non soltanto tra giudice amministrativo di primo grado e giudice d’appello, nell’ambito dell’ordinaria dialettica sottesa al doppio grado di giudizio, ma altresì in seno alla medesima Sezione VI del Consiglio di Stato5. L’analisi dei precedenti consente, infatti, di verificare come sono state impostate e risolte le problematiche implicate dalla questione di base trasfusa nel secondo quesito posto dalla Sezione VI nell’ordinanza remittente: «se sussistano o meno i presupposti per disapplicare in parte qua il d.P.C.M. 7 febbraio 1994, n. 174 (per la parte in cui riserva ai soli cittadini italiani i posti dei livelli dirigenziali delle amministrazioni dello Stato, anche ad ordinamento autonomo) e il d.P.R. 9 maggio 1994 n. 487 (il quale ha espressamente ribadito e richiamato le limitazioni di cui al d.P.C.M. 174, cit.), previa valutazione di coerenza della richiamata normativa secondaria nazionale con gli artt. 51 e 54 della Costituzione e con la normativa eurounitaria». Il che involge presupposti aspetti problematici concernenti l’eventuale sussistenza attuale di una riserva di cittadinanza italiana quale regola per l’accesso agli impieghi presso p.a., rispetto alla quale l’apertura ad aspiranti di Stati UE si ponga come deroga; o se, invece, una riserva siffatta debba ritenersi derogatoria; su quali fonti il requisito della cittadinanza trovi fondamento ed entro quali limiti sia tuttora applicabile; come debba interpretarsi il limite all’accesso costituto dalla posizione organizzativa presupponente la compartecipazione a pubblici poteri alla luce della normativa (art. 45 TFUE) e della giurisprudenza UE, per dar luogo ad una legittima riserva; se le normative costituzionale, primaria e regolamentare siano conformi al diritto UE.
Giova premettere che, ai sensi dell’art. 14, co. 2-bis, d.l. 31.4.2014, n. 83, conv. con l. 29.7.2014, n. 106, «Al fine di adeguare l’Italia agli standard internazionali in materia di musei e di migliorare la promozione dello sviluppo della cultura» si è prevista l’individuazione con regolamento di «poli museali» e di «istituti della cultura statali di rilevante interesse nazionale», precisando che essi «costituiscono uffici di livello dirigenziale»6. Secondo la medesima norma, «I relativi incarichi possono essere conferiti, con procedure di selezione pubblica, per una durata da tre a cinque anni, a persone di particolare e comprovata qualificazione professionale in materia di tutela e valorizzazione dei beni culturali e in possesso di una documentata esperienza di elevato livello nella gestione di istituti e luoghi della cultura, anche in deroga ai contingenti di cui all’articolo 19, comma 6», d.lgs. n. 165/2001 s.m.i. (10% dotazione organica dirigenti di I fascia, 8% d.o. dirigenti della II).
Istituite le nuove strutture della cultura ed indette le procedure concorsuali per l’individuazione dei direttori, il bando e gli atti dei rispettivi procedimenti erano impugnati da aspiranti cittadini italiani e da associazioni di categoria ed annullati per illegittimità nella parte in cui avevano ammesso alla partecipazione alla selezione candidati non italiani. Il TAR Lazio, sez. II-quater, sottende alle diverse sentenze di annullamento la legittimità della riserva di cittadinanza per la copertura dell’incarico di direttore di museo di rilevanza nazionale, ma sulla base di presupposti interpretativi in parte non coincidenti. Nella sentenza 24.5.2017, n. 6171 (Palazzo ducale di Mantova e Galleria estense di Modena) l’illegittimità dell’apertura a candidati stranieri della selezione concorsuale si fonda integralmente sull’art. 38 d.lgs. n. 165/2001 s.m.i. e sulla regola generale del requisito della cittadinanza italiana tratta da tale norma. Una sorta di libertà di accesso che nasce, nell’ordinamento interno, “conformata” e che preclude ai cittadini non italiani – in assenza di una deroga espressa
– di concorrere per l’assegnazione di un incarico di funzioni dirigenziali in una struttura amministrativa del nostro Paese (posto che l’accesso in questione è caratterizzato «proprio dall’esercizio di tali funzioni dirigenziali»). Tale deroga non sarebbe ravvisabile negli obiettivi dell’attività dei direttori dei musei, riguardanti invece la dimensione degli standard da attingere e la competenza ed esperienza professionale maturata dai candidati, senza incidere sulla disciplina di “arruolamento”. Si tratta di soluzione tutta interna all’ordinamento, fondata sull’interpretazione ed applicazione dell’art. 38 d.lgs. n. 165/2001, presupponente in via ordinaria il requisito della cittadinanza italiana (regola) e sulla necessità, per l’ammissione di stranieri, di una deroga espressa, nella specie ritenuta non sussistente; e che conduce alla legittimità della riserva di cittadinanza italiana nelle selezioni pubbliche per il conferimento di incarichi dirigenziali nella p.a. ed alla speculare illegittimità dell’apertura, considerata ultra vires, a selezioni internazionali non sorrette da norme derogatorie sull’estensione dell’ammissione. Non si considerano, tuttavia, in tale pronuncia il d.P.C.m. n. 174/1994 e il d.P.R. n. 487/1984, né v’è verifica della coerenza e compatibilità della ricostruzione con l’ordinamento eurounitario “vivente”. Più ampio ed articolato è l’ambito delle problematiche affrontate da TAR Lazio, sez. II, 7.6.2017, n. 6719 (Parco archeologico del Colosseo). La conclusione secondo la quale «la normativa italiana pone un chiaro ed insormontabile sbarramento alla partecipazione di soggetti non provvisti del requisito della cittadinanza italiana a procedure concorsuali nella pubblica amministrazione in relazione a posti di livello dirigenziale generale comportanti esercizio di poteri autoritativi» fonda sull’art. 38 d.lgs. 165/2001, che ha recepito la normativa europea e sulla giurisprudenza della Corte di giustizia stratificatasi sull’interpretazione dell’art. 45 TFUE, nonché sul d.P.C.m. n. 174/1994 e sul d.P.R. n. 487/1994 che ne costituiscono attuazione. Ne risulta che: a) il «sistema normativo di diritto interno» non può ritenersi in contrasto con il TFUE, perché fa salva, rispetto alla libera circolazione dei lavoratori, la disciplina degli impieghi nella pubblica amministrazione e delle attività comportanti l’esercizio anche occasionale di pubblici poteri, riservando all’autonomia degli Stati membri la regolamentazione della materia; b) non vi sono presupposti per la disapplicazione in presenza di una «chiara normativa interna di sbarramento» e in assenza di una «chiara norma europea di segno contrario»; c) la fattispecie della riserva di cittadinanza in favore del direttore di parco archeologico rientra nella deroga prevista nell’art. 38 d.lgs. n. 165/2001 e nel d.P.C.m. n. 174/1994, sia per il divieto espresso posto dalla normativa interna per gli incarichi dirigenziali, sia per l’esercizio in concreto di rilevanti poteri pubblicistici, natura effettiva delle funzioni svolte dai direttori di musei, anche per la rilevanza del sito archeologico in relazione agli interessi dello Stato.
È, questa, una conclusione di piena conformità delle norme interne di rango primario e regolamentare al diritto eurounitario, attinta sulla base della riconducibilità della riserva di cittadinanza italiana negli incarichi dirigenziali in argomento nell’ambito della deroga alla libertà di circolazione fisiologicamente riferibile, secondo tale indirizzo interpretativo, all’incarico dirigenziale di direttore di parco archeologico del Colosseo in ragione dei rilevanti poteri pubblicistici inerenti alla sua funzione istituzionale anche in rapporto alla «rilevanza, sul piano dell’interesse nazionale (culturale ed economico), dell’Area archeologica». Giova sottolineare che entrambe le impostazioni richiamate, ampiamente criticate dalla dottrina, sono state sottoposte al vaglio del Consiglio di Stato in sede d’appello, come si illustrerà a breve.
Nel senso dell’inderogabilità del possesso del requisito della cittadinanza italiana per la copertura dell’incarico di presidente dell’Autorità portuale, ente pubblico economico non sottoposto alla disciplina del d.lgs. n. 29/1993, ma affidatario ex lege di «poteri pubblici nella loro più elevata declinazione», si era espresso TAR Puglia, Lecce, 26.6.2012, n. 1138: ciò in forza dell’assoluta prevalenza di poteri pubblicistici e delle modalità del loro perseguimento, che avrebbe postulato la necessaria riserva ai cittadini italiani, a mente dell’eccezionalità dell’accesso di stranieri ad uffici pubblici ed a cariche elettive, desumibile dalla disciplina dettata dall’art. 51, co. 2, Cost. per «italiani non appartenenti alla Repubblica».
Con sentenza del 10.9.2014, cit., la Corte di giustizia UE7 – cui erano state deferite in via pregiudiziale le questioni concernenti il «se l’impossibilità per il cittadino di altro Stato membro di accedere alla carica di presidente di un’autorità portuale italiana integri una discriminazione fondata sulla nazionalità» e come tale in violazione dell’art. 45 o 49 TFUE, della direttiva sulla libera circolazione dei servizi (2006/123/CE) o degli artt. 15 e 21, co. 2, della Carta dei diritti fondamentali dell’UE –, rilevata la marginalità rivestita dai poteri autoritativi nell’attività del presidente dell’Autorità portuale, che, sulla base di informative ministeriali, presentava «in generale un carattere tecnico e di gestione economica che non può essere modificato dal loro esercizio», concludeva che «In tale contesto, un’esclusione generale dell’accesso dei cittadini di altri Stati membri alla carica di presidente di un’autorità portuale italiana costituisce una discriminazione fondata sulla nazionalità vietata dall’articolo 45, paragrafi da 1 a 3, TFUE». Con sentenza 10.3.2015, n. 1210, la Sezione IV del Consiglio di Stato concludeva in senso conforme la controversia che aveva originato il rinvio pregiudiziale.
A conclusioni specularmente opposte in ordine alle problematiche sottostanti alla quaestio del rapporto riserva di cittadinanza italiana/apertura derogatoria ai cittadini UE dell’accesso ad incarichi dirigenziali presso p.a. o libertà di circolazione dei lavoratori UE/ambito e limiti della deroga di riserva di cittadinanza italiana pervengono due pronunce del Consiglio di Stato. Cons. St., sez. VI n. 3666/2017 (Parco archeologico del Colosseo), in riforma di TAR Lazio n. 6719/2017, afferma che è legittimo il bando della selezione pubblica internazionale per il conferimento dell’incarico di direttore del Parco archeologico del Colosseo, nella parte in cui ammette anche cittadini non italiani. Ciò in quanto: a) l’art. 38 d.lgs. n. 165/2001, fonte primaria nell’ambito della normativa applicabile, «è conforme alla normativa europea, così come interpretata dalla Corte di giustizia»; b) il d.P.C.m. n. 174/1994, invece, «nella parte in cui prevede che ‘i posti dei livelli dirigenziali delle amministrazioni dello Stato’ sono riservati ai soli cittadini italiani» è difforme dalla suddetta normativa e va, pertanto, disapplicato, senza necessità di rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia, trattandosi di evidente divergenza. Nell’iter ricostruttivo e motivazionale il giudice amministrativo assume le seguenti posizioni sulle varie problematiche implicate:
a) in conformità a Cons. St., sez. II, parere 20.1.1990, n. 234, muove da un’interpretazione “aperturista” e non “preclusiva” degli artt. 51 e 54 Cost., che non vanno disapplicati perché non contengono alcuna riserva in favore dei cittadini italiani nell’accesso a pubblici uffici;
b) richiama la cittadinanza europea riconosciuta dall’art. 20 TFUE, come nozione derivata da quella nazionale e perciò affidata, nella declinazione del suo perimetro effettivo, alla competenza dei singoli Stati membri, ma nel rispetto dei principi generali del diritto europeo;
c) evoca la centralità del principio della libera circolazione dei lavoratori che reca, nell’applicazione della giurisprudenza eurounitaria, l’interpretazione restrittiva delle deroghe ammissibili;
d) ripercorre la vicenda interpretativa, in sede europea, dell’art. 45, par. 4, TFUE: dall’iniziale volontà del legislatore di sottrarre al principio della libera circolazione l’intero settore dei lavoratori alle dipendenze di una p.a. riveniente dall’ampiezza della formula normativa, ai limiti progressivamente imposti dalla Corte di giustizia UE all’autonomia organizzativa degli Stati membri di individuare nozioni di p.a. eccessivamente estese tali da vanificare il principio di libera circolazione;
e) applica alla fattispecie dell’accesso di stranieri alla dirigenza dei musei e luoghi di cultura statali i criteri restrittivi della deroga al libero accesso, ricostruiti attraverso le fonti di diritto UE, traducendoli in altrettanti parametri applicativi così sintetizzabili: e.1) divieto di accesso dei cittadini europei limitato a «quanto strettamente necessario per salvaguardare gli interessi tutelati dal divieto stesso»; e.2) irrilevanza ex se di eventuali compiti autoritativi se esercitati in modo «sporadico» e «marginale» nell’ambito della complessiva attività svolta; e.3) necessità di «rifuggire da generalizzazioni escludenti» e di «guardare allo specifico caso concreto», seguendo l’ausilio interpretativo della Commissione europea che ha indicato alcuni settori «campo di elezione di funzioni pubbliche sovrane» (forze armate, polizia, altre forze dell’ordine pubblico, magistratura, amministrazione fiscale, diplomazia) ed altri (quelli in cui si esplica un’attività economica, come i servizi di interesse economico generale o l’attività di utilizzazione di beni pubblici) esclusi dalle funzioni pubbliche, epperò dalla riserva di cittadinanza in deroga alla libera circolazione;
f) pur riconoscendo la peculiarità della posizione del dirigente nell’ambito dei musei ed istituti di cultura statali, siccome figura organizzativa atta a cumulare i ruoli di «lavoratore alle dipendenze della P.A.» e di «organo di rilevanza esterna» attraverso il quale la p.a. agisce nell’ambito delle proprie competenze per realizzare gli obiettivi indicati dagli organi politici, ponendo in essere «provvedimenti amministrativi, contratti, accordi, comportamenti espressione di poteri pubblici, meri comportamenti materiali», precisa che «non è sufficiente affermare l’esistenza di un atto amministrativo perché si possa ritenere che il lavoratore ponga in essere una funzione sottratta al principio di libera circolazione, ma occorre guardare sempre al regime e alla natura dell’attività conseguente all’adozione di quell’atto»;
g) attraverso l’esclusione di una rilevanza autonoma alla tipologia di posizione organizzativa (criterio strutturale-statico) valorizza la considerazione della natura dell’attività (compiti attribuiti al dirigente) quale criterio funzionale dinamico per «valutare se gli stessi si inseriscano nell’ambito di funzioni pubbliche, che giustificano la previsione della cittadinanza italiana, ovvero di funzioni aventi carattere tecnico o di gestione economica»;
h) applicando tale metodologia alle competenze («mansioni») del direttore di museo o istituto della cultura previste dalla normativa di settore, ne valuta la natura prevalentemente gestionale, economica e tecnica, espressione di «attività essenzialmente finalizzata ad assicurare una migliore utilizzazione, nella prospettiva della valorizzazione, di beni pubblici»;
i) esamina le singole competenze implicanti, per l’esercizio, l’adozione di atti amministrativi, ne valuta la sporadicità e la riconducibilità alla gestione economica e tecnica, nonché la «valenza marginale nella valutazione complessiva di tutte le funzioni spettanti al Direttore»;
l) per concludere sulla necessità della risoluzione della controversia attraverso la «non applicazione» della norma regolamentare nazionale (d.P.C.m. n. 174/1994) e un «confronto ‘diretto’ degli atti amministrativi impugnati con le fonti europee» rispetto alle quali si pone in contrasto l’esclusione «in modo generalizzato, che i dirigenti statali possano essere cittadini non italiani», anche per l’assenza di clausole restrittive della partecipazione in sede di bando e della normativa di riferimento.
Nettamente in contrasto nei risultati e nel percorso ricostruttivo è la sentenza-ordinanza del Cons. St. n. 677/2018, resa in sede d’appello su TAR Lazio n. 6171/2017, che definisce integralmente la controversia con riferimento all’incarico di direttore della Galleria estense di Modena, mentre in modo parziale per l’incarico dirigenziale inerente al Palazzo ducale di Mantova, con rinvio all’A.P., avendo ritenuto che:
a) in forza delle norme dell’ordinamento UE e di quelle nazionali (art. 1, lett. a, d.P.C.m. n. 174/1997, tuttora vigente) la cittadinanza italiana sia tuttora richiesta indistintamente per tutti «i posti dei livelli dirigenziali dello Stato» (premessa maggiore);
b) i poli museali e gli istituti della cultura statali di rilevante interesse nazionale «costituiscono uffici di livello dirigenziale» ai sensi dell’art. 14, co. 2-bis, d.l. n. 83/2014 e gli incarichi relativi riguardano perciò «uffici di livello dirigenziale» ai sensi dell’art. 30 d.P.C.m. n. 171/2014 (premessa minore);
b.1) che ciò sia confermato dalla natura e dalle funzioni del direttore del museo pubblico (art. 34, co. 2, d.P.C.m. n. 171/2014) riguardanti «tutte le attività di gestione, valorizzazione, comunicazione e promozione del sistema museale nazionale nel territorio regionale»: competenze delle quali si effettua una lettura strettamente correlata alla funzione pubblica che ne costituisce l’obiettivo e coerente con i compiti di organi di vertice di tale figura dirigenziale; attribuzioni derogabili solo con legge;
c) si conclude nel senso che l’«espresso e testuale divieto normativo» (contenuto nel d.P.R. n. 174/1994 e nel d.P.R. n. 187/1994) per i cittadini dell’UE di partecipare a concorsi per il conferimento di incarichi dirigenziali si applichi anche agli aspiranti direttori di istituti e luoghi di cultura nazionali e di poli museali di rilevante interesse nazionale.
Si assume, inoltre, la piena conformità al diritto europeo del divieto riveniente dalla normativa nazionale, risultando esso coerente con gli artt. 51 e 54 Cost.; conformità non contraddetta da C. giust. UE 10.9.2014, cit. Le norme costituzionali, infatti, disponendo una riserva di cittadinanza per i «pubblici uffici» e per le «funzioni pubbliche» oltreché per le cariche elettive, avrebbero consentito a leggi ordinarie di non richiedere lo status civitatis soltanto per l’accesso a posizioni di pubblico impiego non caratterizzate dall’esercizio di pubblici poteri. D’altro canto, i principi affermati dal giudice europeo, che marginalizzano la rilevanza dell’esercizio sporadico di pubblici poteri, si riferiscono a «soggetti estranei all’Amministrazione statale», che non attuano l’indirizzo politico dello Stato, le cui posizioni dirigenziali possono perciò anche esser ricoperte da non cittadini, a differenza di quanto deve ritenersi per «pubblici poteri facenti parte degli apparati ministeriali», riconducibili alla nozione di impieghi nella pubblica amministrazione senza necessità di verifiche sugli specifici poteri, poiché essi implicano «un potere decisionale che esorbita dal diritto comune e si traduce nella capacità di agire indipendentemente dalla volontà di altri soggetti o anche contro la loro volontà» (C. giust. UE, 22.10.2009, Commissione c. Portogallo, C438/08), come accade per i posti di livello dirigenziale e per quelli con funzione di vertice amministrativo. Del resto, la deroga alla riserva di cittadinanza implicherebbe cessioni di quote di sovranità consentite dall’art. 11 Cost. solo in condizioni di parità con gli altri Stati: condizione che nella specie non sarebbe soddisfatta poiché non risulta che in altri Paesi UE siano ammessi cittadini italiani ad incarichi di pari livello. Le pronunce richiamate evidenziano, dunque, contrasti radicali nei percorsi interpretativi e nei risultati, nelle valutazioni sulla compatibilità totale o parziale della normativa interna con il diritto UE e su ambito, presupposti e limiti della sua disapplicabilità: con effetti diametralmente opposti in relazione alla questione di principio sulla quale si è innestato il contenzioso.
L’A.P. risolve le questioni oggetto di rimessione enunciando i seguenti principi di diritto: «1. ‘Il Giudice amministrativo provvede in ogni caso a non dare applicazione a un atto normativo nazionale in contrasto con il diritto dell’Unione europea’; 2. ‘L’articolo 1, comma 1 del d.P.C.M. 174 del 1994 e l’articolo 2, comma 1 del d.P.R. 487 del 1994, laddove impediscono in assoluto ai cittadini di altri Stati membri dell’UE di assumere i posti dei livelli dirigenziali delle amministrazioni dello Stato e laddove non consentono una verifica in concreto circa la sussistenza o meno del prevalente esercizio di funzioni autoritative in relazione alla singola posizione dirigenziale, risultano in contrasto con il paragrafo 2 dell’articolo 45 del TFUE e non possono trovare conseguentemente applicazione’». Nella specie, può ravvisarsi una funzione quasi nomopoietica8 sia nel percorso ermeneutico che nell’enunciazione dei principi di diritto, atteso che, attraverso un processo esegetico condotto sulla base del diritto consolidato della giurisprudenza europea, l’A.P. enuclea tutti i principi pertinenti stratificatisi nelle fonti eurounitarie sull’interpretazione dell’art. 45 TFUE e della libertà ivi sancita, sulla natura derogatoria del par. 4 rispetto al principio generale e sulla conseguente interpretazione restrittiva dell’ambito dell’esclusione dei non cittadini dall’accesso al pubblico impiego (portando a compimento quella progressiva “svalutazione” della formulazione letterale della norma avviata sin dalla fine degli anni ‘70 e successivi in sede comunitaria). Ricostruisce la normativa nazionale di rango legislativo (art. 38) in termini di piena coerenza rispetto ai principi UE considerando i limiti alla libera circolazione come derogatori e di stretta interpretazione (aspetto funzionaledinamico dei compiti implicati dalla posizione organizzativa presso la p.a.), nonché di esclusione di qualunque preclusione generalizzata, ammettendo uno “spacchettamento” dei compiti e dei poteri del dirigente al fine di valutarne il peso nell’economia generale dell’attività. Ricostruisce ed interpreta la normativa regolamentare nel senso che essa, considerando i livelli di dirigenza come «posti» in senso statico, si traduce in impedimento assoluto per i cittadini di Paesi membri UE.
Rivisita la giurisprudenza UE più recente (Autorità portuale) e quella del Consiglio di Stato (2015 e 2017) e perviene ai principi ed alle regole del caso concreto e di quelli futuri che danno sostegno alla soluzione della fattispecie entro i limiti di stabilità derivanti dalla necessità di una disapplicazione di norme interne, peraltro risultanti dall’evocazione della necessità di un intervento del legislatore. La novità sta nell’aver relegato i margini di “sostenibilità” dei divieti entro limiti assai esigui: per differenza, soltanto una forte caratterizzazione “imperativa” nelle norme e nella storia applicativa dell’attività inerente all’incarico dirigenziale (scelte, decisioni e controllo con effetti “coercitivi”) può indurre a ritenere coessenziale la riserva in favore di cittadini italiani dell’accesso alla dirigenza pubblica. Ma ciò può verificarsi soltanto allorché vengano in considerazione posizioni organizzative implicanti poteri inerenti a funzioni pubbliche essenziali per lo Stato, tabellate per categorie indicate nel par. 3, dell’art. 45 TFUE. Se le norme interne non lo consentono, allora vanno sempre e comunque disapplicate; se, invece, sopportino un’interpretazione conformativa, questa è l’unica che consenta di continuare a ravvisare limiti rispettosi della regola generale dell’accesso. A tale processo la pronuncia dell’A.P. fornisce un significativo contributo innovativo applicando direttamente norme e principi di diritto europeo in materia di libera circolazione dei lavoratori alla dirigenza pubblica presso l’Amministrazione statale dei beni culturali, che, nello specifico settore, a quanto risulta, non era stato fatto oggetto di precedenti pronunce della Corte di giustizia UE. Il quid novi è nell’estensione alla dirigenza pubblica statale dei beni culturali di ciò che per l’addietro era stato applicato prevalentemente a lavoratori subordinati o autonomi e, nella p.a., per mansioni amministrative di livello esecutivo o, al più, “di concetto”, mentre per la dirigenza pubblica ad enti diversi dallo Stato (Autorità portuale). Inoltre, nella traduzione di tale estensione in principi di diritto, che hanno una specifica “forza”, pur senza attingere il valore vincolante del precedente, ai sensi dell’art. 99, co. 3 e 4, c.p.a., nonché nella qualificazione degli stessi principi siccome resi «nell’interesse della legge» (art. 99, co. 5, c.p.a.), in tal modo riconoscendo alla questione di massima rilevanza e valenza tali da giustificarne trattazione e decisione anche per aspetti non espressamente contenuti nella sentenza-ordinanza di rimessione e nondimeno meritevoli di esser considerati ex officio dalla stessa A.P. Sul piano degli effetti, l’A.P. risolve in modo definitivo la controversia specifica inerente alla nomina dei dirigenti museali ricollegata a quella tornata concorsuale, che appariva orientata verso soluzioni contrastanti alla luce dei due orientamenti emersi in seno al Consiglio di Stato (sez. VI nn. 3666/2017 e 677/2018) in ordine all’interpretazione delle stesse norme e dello stesso sistema complessivo.
Privilegia l’interpretazione di Cons. St. n. 3666/2017, senza, tuttavia, uniformarsi integralmente ad essa; ne arricchisce anzi le motivazioni sul piano sistematico, anche attraverso richiami comparatistici alla giurisprudenza francese.
Esclude la natura di «funzioni di vertice» di compiti di direzione di museo e ogni rilevanza del principio di reciprocità, rivestendo l’accesso dei cittadini UE ad incarichi dirigenziali, adempimento di obbligo inderogabile imposto dall’UE.
Nel mentre disattende motivatamente le prospettazioni di Cons. St. n. 677/2018, ricostruisce ed enuncia altrettanti criteri interpretativi sull’accesso agli impieghi nella p.a. e sulle questioni implicate suscettibili di applicazione futura a fattispecie anche differenti di accesso agli impieghi ed in special modo alla dirigenza pubblica.
Sicché si può affermare che l’A.P. delinei un quadro di norme e di principi applicabili a tutta la dirigenza pubblica (statale e non) che – ispirati al principio della generalità dell’accesso e della residualità estrema dei casi di esclusione – è atto ad innescare un processo di profondo mutamento nella composizione della nazionalità di tutte le figure dirigenziali e dell’intero impiego pubblico privatizzato.
Assicura, al di là del caso concreto, l’effettività dell’applicazione delle regole così ricostruite trasfondendole in principi di diritto resi anche nell’interesse della legge.
L’estensione delle norme comunitarie – accolta con favore dalla dottrina, pur se talora ritenuta eccessivamente “spinta” rispetto agli esiti della giurisprudenza europea – apre una serie di prospettive e di correlati problemi.
Tutta la dirigenza pubblica è, potenzialmente, a libero accesso, non diversamente da qualunque altro mero impiego pubblico, in base ad una «non applicazione» del d.P.C.m. n. 174/1994, che per essere espunto definitivamente dall’ordinamento richiederebbe comunque un intervento legislativo.
Ai direttori generali di musei è ora riservato un trattamento speciale, quanto all’accesso, perché essi sono stati posti al di fuori della deroga prevista dall’art. 38 d.lgs. n. 165/2001 con una norma “interpretativa” (art. 22, co. 7 e 7-bis, d.l. 27.4.2017, n. 50, conv. con l. 21.6.2017, n. 96) la cui effettiva natura (non innovativa) era stata posta in dubbio dal Consiglio di Stato nella sentenza-ordinanza di rimessione; questione bypassata dall’A.P. con una valutazione di irrilevanza ai fini della formazione del convincimento, fondato non sul diritto interno, ma sull’applicazione diretta del diritto europeo.
Il che significa che, mentre le altre funzioni dirigenziali richiedono una verifica in concreto, i compiti di direttore di museo statale non implicano ex se l’esercizio di poteri autoritativi (art. 38 d.lgs. n. 165/2001). Ma, va considerato che, se compiti e funzioni sono determinati da norme di legge, l’esclusione dalla deroga non può assumere carattere assoluto, ipotecando future misure organizzative di segno diverso, implicanti attribuzioni “prevalenti” di poteri autoritativi agli stessi direttori di musei. Se, poi, si sia inteso affermare che la funzione di cura, gestione e responsabilità del patrimonio culturale di un direttore di museo, anche di rilevanza nazionale, sia, sempre e comunque, di natura “non autoritativa”, è evidente che tale presunzione riaffermerebbe proprio quel legame “statico” posto-funzione che l’A.P. ha ritenuto incongruo; inoltre supererebbe largamente il criterio della “prevalenza” dei poteri autoritativi, indice prefigurato dalla C. giust. UE 10.9.2014, cit., quale parametro per la deroga sostenibile alla libertà di circolazione, implicando una precisa e consapevole presa di posizione dello Stato sul piano generale dell’esercizio della funzione pubblica in materia di beni culturali, rispetto a tutte le altre funzioni pubbliche (soggette a quella deroga, sia pur intesa in senso restrittivo). L’aspetto della “prevalenza” di poteri non autoritativi e quello dell’opposta “marginalità” di quelli autoritativi attestano su criteri quantitativi la caratterizzazione di una funzione pubblica che può ricevere, invece, proprio dagli aspetti qualitativi di alcune decisioni il suo elemento qualificante: se è vero che la cultura non ha confini, tuttavia il decidere se autorizzare o no il prestito della Vergine delle rocce o di qualunque altro bene culturale identitario non può essere inteso quale mero fatto tecnico-gestionale o di rilievo economico, come del resto i compiti di tutela, pure implementati per i dirigenti museali con d.m. 29.2.2016, n. 449.
1 Sulla riserva di cittadinanza nei concorsi pubblici, cfr. Cassese, S., Stato-nazione e funzione pubblica, in Giorn. dir. amm., 1997, 88 ss.; Merloni, F., Introduzione. L’etica dei funzionari pubblici, in Merloni, F.Cavallo Perin, R., a cura di, Al servizio della Nazione. Etica e statuto dei funzionari pubblici, Milano, 2009, 15 ss., spec. 2728; Cavallo Perin, R., L’etica pubblica come contenuto di un diritto degli amministrati alla correttezza dei funzionari, ivi, 147 ss., spec. 149158; Racca, G.M., Disciplina e onore nell’attuazione costituzionale dei codici di comportamento, ivi, 250 ss.; Gnes, M., Oltre la cittadinanza nazionale, in Gli stranieri, 2012, 24 ss.; Battini, S., Al servizio della nazione? Verso un nuovo modello di disciplina della dirigenza e del personale pubblico, in Astrid, 2016, nonché in AA.VV., L’Italia che cambia: dalla riforma dei contratti pubblici alla riforma della pubblica amministrazione, Milano, 2017, 641 ss.; Marra, A., L’amministrazione imparziale, Torino, 2018, spec. 15 ss. e passim.
2 Sul pubblico impiego privatizzato e sulla dirigenza pubblica nei profili evolutivi e comparatistici, cfr. D’Alberti, M., a cura di, La dirigenza pubblica, Bologna, 1990; Id., a cura di, L’alta burocrazia. Studi su Gran Bretagna, Stati Uniti d’America, Spagna, Francia, Italia, Bologna, 1994; D’Alessio, G., La nuova dirigenza pubblica, Roma, 1999; Id., Dirigenza pubblica [dir. amm.], in Diritto on line, Treccani, 2012; Chirulli, P., Dirigenza pubblica (riforma della), in Enc. giur. Treccani, Roma, 2000; Id., Dirigenza pubblica (nuova riforma della), in Enc. giur. Treccani, Roma, 2002; Merloni, F., Dirigenza pubblica e amministrazione imparziale. Il modello italiano in Europa, Bologna, 2006; Gardini, G., Autonomia della dirigenza pubblica, in Libro dell’anno del Diritto 2012, Roma, 2012; Russo, C., Dirigenza pubblica [dir. lav.], in Diritto on line, Treccani, 2014; Id., La dirigenza pubblica, in Libro dell’anno del Diritto 2015, Roma, 2015; Mattarella, B.G., Burocrazia e riforme. L’innovazione nella pubblica Amministrazione, Bologna, 2017, spec. cap. V; Fiorillo, V.L., Il diritto del lavoro nel pubblico impiego, Padova, 2018, spec. 130, 87104, 265285.
3 Sul principio di libera circolazione dei lavoratori e sulle deroghe nel diritto europeo, cfr. Traina, D.M., Libertà di circolazione nella Comunità economica europea e pubblico impiego in Italia, in Riv. trim. dir. pubbl., 1991, 349 ss.; Caranta, R., La libertà di circolazione dei lavoratori nel settore pubblico, in DUE, 1999, 45 ss.; Ziller, J., Free Movement of European Union Citizens and Employment in the Public Sector.Current Issues and State of Play Part II Country Files, Report for the European Commission, 2010, spec. 75 ss.; Gagliardi, B., La libera circolazione dei cittadini europei e il pubblico concorso, Napoli, 2012; Tesauro, G., Diritto dell’Unione europea, VII ed., Padova, 2012, spec. 444-495; Giubboni, S., Libera circolazione [dir. lav.], in Diritto on line, Treccani, 2014; Spaventa, E., The Free Movement of Workers in the Twenty First Century, in The Oxford Handbook of European Union Law, 2015, spec. 457 ss.; Adam, R.Tizzano, A., Manuale di diritto dell’Unione europea, II ed., Torino, 2017, spec. 373-410, 479-489.
4 Su A.P. n. 9/2018, cfr. Amorosino S., La conclusione della “telenovela” giurisdizionale sui direttori stranieri dei musei, in Urb. app., 2018, 441 ss.; Arena, A., La «riserva di nazionalità» nell’accesso agli incarichi pubblici di rango dirigenziale alla luce della sentenza 9/2018 dell’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, in DUE, 2018, 1 ss.; Greco, Gin., I direttori dei musei non sono titolari di veri e propri pubblici poteri, in Eurojus, 2018.
5 Sul contenzioso suscitato dall’accesso di cittadini europei alla direzione dei musei statali, cfr. Amorosino, S., La riforma dell’ordinamento dei musei statali, in Urb. app., 2015, 997 ss.; Id., Direttori “stranieri” dei musei e parco archeologico del Colosseo, ivi, 2017, 465 ss.; Id., Il Consiglio di Stato salva il Parco archeologico del Colosseo (ed i direttori stranieri dei musei), ivi, 2018, 11 ss.; Gnes, M., L’apertura della direzione dei musei italiani ai cittadini europei, in Giorn. dir. amm., 2017, 493 ss.; Id., La dirigenza pubblica e il requisito della cittadinanza, ivi, 2018, 143 ss.; Monaco, M.P., L’annullamento della nomina dei direttori dei musei, la vicenda processuale, ivi, 2017, 500 ss.; Albisinni, F.G., I direttori dei musei: funzioni europee o solo domestiche?, ibidem, 508 ss.; Liguori, A., Il requisito della cittadinanza italiana nell’esercizio della funzione pubblica: il caso delle direzioni museali, in Giust. amm., 2017; Liguori, F., La public service exception tra norma e giudice: il caso dei direttori stranieri dei musei italiani, in Riv. giur. lav. prev. soc., 2018, 33 ss.; Luciani, V., La riforma dei musei e la controversa apertura ai direttori stranieri, in Esposito, M.Luciani, V.Zoppoli, A.Zoppoli, L., La riforma dei rapporti di lavoro nelle pubbliche amministrazioni, Torino, 2018, 466 ss.; Busico, L., Direttori di musei e cittadinanza, in Lavoro Diritti Europa, 2018.
6 Sull’organizzazione dei musei, cfr. Casini, L., Ereditare il futuro, Bologna, 2016, spec. parte III; Lucarelli, A.Ferrara, L.Savy, D., a cura di, Il governo dei musei tra Costituzione, funzione sociale e mercato, Napoli, 2017.
7 Su cittadinanza e presidenza di autorità portuale, cfr. Gnes, M., Per la posizione di presidente di autorità portuale sufficiente il possesso di cittadinanza europea, in Quot. giur., 2015, 13 ss.; Prudenzano, L., Sulla “nazionalità” della funzione pubblica e la libertà di circolazione dei lavoratori, in Riv. it. dir. pubbl. com., 2015, 970 ss.
8 Sulla funzione dell’enunciazione dei principi di diritto da parte dell’A.P., cfr. Oggianu, S., Giurisdizione amministrativa e funzione nomofilattica. L’adunanza plenaria del Consiglio di Stato, Padova, 2011; Pesce, S., L’adunanza plenaria del Consiglio di Stato e il vincolo del precedente, Napoli, 2012; Id., L’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato diventa giudice di common law?, in Il nuovo dir. amm., 2014; Id., Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, in Diritto online, Treccani, 2018; Follieri, E., L’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, in Follieri, E.Barone, A., a cura di, I princìpi vincolanti dell’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato sul codice del processo amministrativo 2010-2015, Padova, 2015, 25 ss.; Barone, A., La vocazione “unitaria” delle giurisdizioni, ivi, 1 ss. Sul significato peculiare dei principi di diritto nell’interesse della legge, cfr. Angiuli, A., L’adunanza plenaria e l’enunciazione del principio di diritto nell’interesse della legge, in Francario, F.Sandulli, M.A., a cura di, Profili oggettivi e soggettivi della giurisdizione amministrativa, Napoli, 2017, 117 ss.
9 Barbati, C., Organizzazione e soggetti, in AA.VV., Diritto del patrimonio culturale, Bologna, 2017, 125 ss.