Giustizia, accesso alla
Un'analisi dei principali avvenimenti e delle grandi tendenze evolutive negli ordinamenti giuridici contemporanei, altrove condotta, ha messo in luce tre fondamentali movimenti di azione e di pensiero: onde si è parlato di tre 'dimensioni' del diritto e della giustizia nel mondo contemporaneo (v. Cappelletti e Tallon, 1973, pp. 661 ss. e 773). Si tratta, anzitutto, della dimensione 'costituzionale', che si traduce nella ricerca di taluni valori fondamentali che molti ordinamenti moderni hanno affermato con norme aventi forza di lex superior, vincolante anche per il legislatore (ordinario), spesso imponendone il rispetto mediante forme e meccanismi speciali giurisdizionali. Si è avuto così il fenomeno della grandiosa diffusione delle giurisdizioni costituzionali, fenomeno che ha trovato nei decenni successivi alla seconda guerra mondiale il suo massimo sviluppo, raggiungendo un numero crescente di paesi tra cui - oltre all'Italia - la Germania Federale, l'Austria, la Iugoslavia, il Giappone, in larga misura anche la Francia, e da ultimo la Spagna, la Grecia e il Portogallo, senza dire di paesi come gli Stati Uniti d'America, nei quali il fenomeno è più antico (ma anche in questi la straordinaria espansione del fenomeno stesso rappresenta uno sviluppo dell'ultimo dopoguerra).
Una seconda dimensione è quella 'transnazionale', il tentativo cioè di superare i rigidi criteri delle sovranità nazionali, con la creazione del primo nucleo di una lex universalis e con la costituzione quindi del primo nucleo di un 'governo universale' o transnazionale, il world government auspicato, tra gli altri, da Arnold Toynbee in Cities on the move, London 1970, pp. 195-247. Questo tentativo si riflette, in particolare, nella Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo del 1948 e nei Patti che della Dichiarazione stessa - documento meramente politico-filosofico, non avente forza giuridica - hanno tentato una prima attuazione concreta: ossia il Patto internazionale sui diritti civili e politici e il Patto sui diritti economici, sociali e culturali, adottati entrambi dall'Assemblea generale dell'ONU nel 1966, ed entrambi entrati in vigore nel 1976 quando fu raggiunto il numero minimo richiesto di 35 ratifiche nazionali. Questi Patti, diversamente dalla Dichiarazione, sono riconosciuti come giuridicamente vincolanti per gli Stati che li hanno ratificati; essi prevedono anche alcune forme di sorveglianza da parte di organismi internazionali al fine di assicurare il rispetto delle loro disposizioni. Bisogna riconoscere peraltro che si tratta di forme e organismi tuttora di assai scarsa efficacia: il movimento verso un effettivo bill of rights universale è ancora, se non proprio utopistico, del tutto embrionale.
Entrambe queste dimensioni del diritto rappresentano la risposta che l'umanità ha dato, o sta cercando di dare, ai problemi di giustizia più gravi che si sono andati imponendo nella realtà sociale contemporanea. Si tratta dei problemi del rapporto fra l'individuo e lo Stato (dimensione costituzionale) e del rapporto degli Stati fra di loro (dimensione transnazionale), problemi, entrambi, che nel nostro secolo hanno condotto a crisi di portata senza precedenti, culminate in due tragiche guerre mondiali e nell'oppressione esercitata da forme odiose di tirannia di uomini, di partiti e di nazioni.
Una terza dimensione del diritto e della giustizia è quella 'sociale', che nella sua manifestazione più avanzata può esprimersi nella formula, in questi ultimi anni divenuta d'uso corrente, dell'accesso al diritto e alla giustizia. È in particolare di questa dimensione che intendiamo occuparci brevemente in questo scritto, non senza sottolineare peraltro fin d'ora la stretta connessione intercorrente fra quest'ultima dimensione e le altre due sopra menzionate. Per comprendere tale connessione basterà considerare, da un lato, come un aspetto essenziale della dimensione sociale del diritto e della giustizia sia rappresentato appunto dall'emergere dei 'diritti sociali' accanto ai tradizionali diritti individuali di libertà e a rafforzamento dei medesimi (v. cap. 2 e § 3a), onde è la stessa dimensione costituzionale che è venuta ad assumere anche una dimensione sociale; e dall'altro lato, come quella che abbiamo chiamato dimensione transnazionale consista essenzialmente nel tentativo di affermare e proteggere un corpus di diritti fondamentali, individuali e sociali, anche al di là delle frontiere degli Stati nazionali e al di sopra della logica della sovranità di questi Stati (cfr. M. Cappelletti, Giustizia costituzionale soprannazionale, in "Rivista di diritto processuale", 1978, pp. 1 ss. e Nécessité et légitimité de la justice constitutionnelle, in "Revue internationale de droit comparé", 1981, pp. 625 e 647-657).
Se le dimensioni costituzionale e transnazionale rappresentano dunque il tentativo di dare una risposta ai grandi problemi della libertà dell'individuo di fronte al pubblico potere e dei limiti e doveri dello Stato nei confronti sia dell'individuo che degli altri Stati - nell'ambito di una più vasta Comunità delle genti -, la dimensione sociale rappresenta a sua volta il tentativo di rispondere a un problema e a una crisi di proporzioni non meno gigantesche. Si tratta del problema e della crisi derivanti dalle profonde trasformazioni delle società industriali e postindustriali moderne, in cui la domanda di giustizia è venuta a significare, sempre più decisamente e per moltitudini sempre più vaste, domanda di uguaglianza non soltanto formale, ma reale - effettiva uguaglianza di possibilità di sviluppo della persona e uguale dignità dell'uomo. Alla luce di questa nuova domanda di giustizia va intesa la filosofia politica del moderno 'Stato sociale', o 'promozionale', o Welfare State e delle 'economie miste' che ne sono derivate (cfr., ad esempio, N. Bobbio, Sulla funzione promozionale del diritto, in "Rivista trimestrale di diritto e procedura civile", 1969, pp. 1313 ss.; T. Koopmans, Legislature and judiciary. Present trends, in Nouvelles perspectives d'un droit commun de l'Europe (a cura di M. Cappelletti), Leyden-Bruxelles 1978, pp. 309 e 313 ss.). Questa filosofia si è tradotta, anzitutto, in un enorme apparato di legislazione economico-sociale, corrispondente agli interventi dello Stato in settori sempre più numerosi, per l'innanzi largamente lasciati all'iniziativa e all'autonomia dei privati: lavoro, produzione, scambi, scuola, casa, igiene, consumi, ambiente, ecc. È così che i compiti dello Stato sociale si sono enormemente estesi. Al ruolo tradizionale di mera protezione da, e repressione di, violazioni dei diritti individuali tradizionali - lo Stato come mero gendarme o night watchman della filosofia politica di laissez faire - si sono aggiunti i compiti di promozione e di attuazione dei nuovi diritti sociali, i quali tipicamente comportano un impegno dello Stato di fare, operare, intervenire. Ma questa sempre più vasta e complessa funzione promozionale dello Stato moderno ha ovviamente comportato forme spesso pericolose ed esse stesse potenzialmente oppressive di gigantismo governativo: gigantismo legislativo anzitutto, come s'è visto, accompagnato peraltro, inevitabilmente, anche dal gigantismo di quell'apparato amministrativo e burocratico, senza del quale la legislazione sociale non poteva e non può essere attuata.Il problema dell'accesso si presenta pertanto in due aspetti principali: da un lato come effettività dei diritti sociali, che non debbono restare al livello di dichiarazioni meramente teoriche ma debbono effettivamente incidere sulla situazione economico-sociale dei membri della società, ciò che richiede un vasto apparato governativo di attuazione; ma dall'altro lato anche come ricerca di forme e di metodi, spesso nuovi e alternativi a quelli tradizionali, per la razionalizzazione e il controllo di tale apparato e quindi per la protezione contro gli abusi di cui esso stesso può farsi causa, diretta o indiretta.
L'ideale di uguaglianza è un prodotto relativamente recente nella storia della civiltà occidentale. Le 'rivoluzioni borghesi' americana e francese se ne fecero portatrici nella loro lotta contro i regimi coloniali e feudali (cfr., ad esempio, A. de Tocqueville, L'ancien régime et la Révolution, Paris 1856, passim e spec. l. I, cap. 5), ma l'idea di uguaglianza così affermatasi venne ad assumere un significato che, per quanto profondamente innovatore, è apparso insufficiente in epoca a noi più vicina (v. Calamandrei, 1968, pp. 183-210). L'égalité, quale si è configurata fino all'emergere, nel nostro secolo, dello Stato sociale, significava essenzialmente abolizione delle differenze giuridico-formali di status: l''uguaglianza di tutti di fronte alla legge'. Ma come un insigne sociologo osservava incisivamente vari decenni fa, "più il ricco e il povero sono trattati sulla base delle stesse regole giuridiche, e più il vantaggio del ricco si accentua" (cfr. E. Ehrlich, Grundlegung der Soziologie des Rechts, München-Leipzig 1913). Quella concezione dell'uguaglianza, se ne affrontava l'aspetto giuridico-formale, non affrontava invece affatto l'aspetto economico-sociale e 'di fatto' dell'uguaglianza medesima: essa trascurava cioè il fatto che sulla strada dell''accesso' alla legge - e alle istituzioni, ai benefici, ai diritti da essa regolati - si incontrano usualmente barriere di vario tipo, che sono più o meno gravi a seconda delle capacità economico-sociali dei vari individui e gruppi. Ad esempio, benché le porte dei tribunali siano formalmente aperte ugualmente a tutti, resta il fatto che tale accesso è ben diverso per chi abbia una sufficiente informazione sui propri diritti, possa farsi rappresentare da un buon avvocato, e abbia la possibilità di attendere i risultati spesso tardivi delle procedure giurisdizionali, e chi manchi invece di tali requisiti economico-culturali. I nuovi 'diritti sociali', emersi con il moderno Stato sociale, sono appunto quelli che si preoccupano di siffatti ostacoli sociali, economici, culturali, ambientali, e che pertanto intendono promuovere una maggiore uguaglianza reale - o una minore disuguaglianza di fatto -, almeno sul piano delle opportunità.
Il movimento per l''accesso alla giustizia' è dunque un aspetto centrale del moderno Stato sociale o Welfare State. Si noti che non si tratta di un movimento limitato alla giustizia nel suo significato giudiziario; esso abbraccia al contrario aree ben più vaste, come l'accesso all'educazione, al lavoro, al riposo, alla salute, ecc. Va peraltro riconosciuto che l'aspetto giudiziario è tra quelli che più chiaramente e vivacemente hanno attirato l'attenzione degli studiosi e dei riformatori in un numero crescente di paesi. Giudici e tribunali sono così diventati elementi fondamentali dello Stato sociale, ond'è che si è parlato di un 'gigantismo giurisdizionale' che ha fatto seguito al gigantismo delle branche 'politiche' - legislativa e amministrativa. Ed è proprio nel campo giurisdizionale che è stata individuata una successione, fors'anche cronologica, quasi a forma di 'ondate' riformatrici (v. Cappelletti, 1978-1979, vol. I, pp. 1-124; v. Blankenburg, 1980, pp. 2-3; v. Cappelletti, 1981, pp. 4-20 e passim). Una prima 'ondata' è stata quella che ha tentato di superare gli ostacoli rappresentati dalla povertà, con interventi dello Stato intesi ad attuare forme più efficaci di assistenza giudiziaria per i poveri (v. Cappelletti e altri, 1975), mentre in una seconda 'ondata' gli ostacoli che si è cercato di superare sono stati più complessi e articolati. Si è trattato qui infatti di rendere accessibile la tutela giurisdizionale di quei diritti e interessi che sono emersi come particolarmente importanti, e specialmente vulnerabili, nelle società industriali moderne, quali quelli dei consumatori, quelli attinenti alla protezione contro l'inquinamento dell'ambiente, e in generale quelli di collettività, categorie e gruppi non organizzati o difficilmente organizzabili. Questi diritti e interessi sono spesso troppo 'frammentati' e 'diffusi' perché si possa ricorrere alle forme tradizionali - tipiche del 'processo a due parti' - di procedura e di tutela giurisdizionale. Se si vuole ottenere una tutela effettiva, e non meramente nominale, di questi diritti e interessi non meramente individuali ma tipicamente collettivi, è necessario invece consentire e perfino incoraggiare e aiutare l''accesso' a rappresentanti (pubblici e privati) di questi gruppi disorganizzati e dai contorni imprecisati e spesso imprecisabili - ad esempio i consumatori di certi prodotti industriali -, rappresentanti che staranno pertanto in giudizio non per se stessi, ma per l'intera classe o categoria dei portatori dell'interesse diffuso di cui si fanno difensori (cfr. un'ampia dimostrazione in M. Cappelletti, Governmental and private advocates for the public interest in civil litigation: a comparative study, in "Michigan law review", 1975, LXXIII, pp. 793 ss.).
Va ribadito che questi interessi diffusi sono ormai diventati d'importanza fondamentale, a causa delle caratteristiche delle economie moderne, basate su forme di produzione, distribuzione e consumo tipicamente collettive e di massa; e va sottolineato altresì che la difficoltà della protezione di tali interessi si accentua in quanto, assai spesso, essi sono in conflitto con interessi che fanno capo invece a centri di potere economico-politico, pubblici e privati, perfettamente organizzati, onde la equality of arms è difficilmente realizzabile. La differenza profonda fra quegli interessi e i tradizionali diritti interindividuali non può non tradursi in differenze profonde anche sul piano della loro tutela. Tali differenze, altrove analizzate (v., per esempio, Cappelletti, 1981, pt. II; v. Gambaro, 1976, pt. IV; v. Cappelletti, 1978-1979, vol. I; v. anche il penetrante studio di Chayes, 1976; cfr. M. Cappelletti, La protection d'intérêts collectifs et de groupe dans le procès civil, in "Revue internationale de droit comparé", 1975, pp. 371 ss.; O. M. Fiss, Foreword: the forms of justice, in "Harvard law review", 1979, XCIII, pp. 1 ss.; K. E. Scott, Two models of the civil process, in "Stanford law review", 1975, XXVII, pp. 937 ss.), concernono le responsabilità delle parti, i poteri e doveri d'iniziativa e di controllo del giudice, le procedure, i tipi di remedies disponibili, gli effetti stessi delle decisioni: onde ne deriva una profonda metamorfosi del diritto giudiziario non soltanto civile ma anche penale e amministrativo.
Abbiamo accennato al fenomeno del 'gigantismo giurisdizionale'. Esso è la conseguenza diretta dei rinnovati e ampliati compiti 'sociali', testé descritti, della funzione giudiziaria, ma è anche la conseguenza indiretta dell'allargato 'accesso' agli organi giurisdizionali voluto, e più o meno compiutamente attuato, dalle due ondate del movimento per l'accesso alla giustizia descritte nel paragrafo precedente.
Tale fenomeno, peraltro, è divenuto particolarmente preoccupante, non tanto o non soltanto per ragioni numerico-quantitative - il sovraccarico degli organi giudiziari, che al limite può portarli a una vera e propria paralisi -, ma anche e soprattutto per ragioni qualitative. L'eccessivo carico di lavoro può spesso tradursi infatti in un declino della qualità delle procedure e delle decisioni giudiziarie. Inoltre, quando la lite portata in giudizio concerne non più rapporti giuridici tradizionali interindividuali, ma più vasti problemi sociali - come è il caso per certe liti, spesso coinvolgenti interi gruppi e categorie, in materia di lavoro, di assistenza e previdenza sociale, di diritti civili, di tutela dei consumatori e dell'ambiente -, allora anche la figura tradizionale (più o meno illusoria ch'essa sia) del giudice come mero, passivo, neutrale 'tecnico del diritto' resta completamente offuscata. L'amministrazione della giustizia emerge così essa stessa come un'altra branca del government: e una certa 'politicizzazione' del giudice e della giustizia risulta inevitabile, come inevitabile sarà, in ogni società democratica, l'istanza di 'responsabilizzazione' del giudice siffattamente politicizzato. Questo fenomeno del resto, benché più incisivamente evidenziato nel campo giudiziario, si ripresenta nei moltissimi altri settori nei quali il 'movimento per l'accesso' si è andato imponendo (v. § 3a): in tutti questi settori l'esigenza di controllare gli infiniti possibili abusi dell'apparato lato sensu governativo è divenuta vieppiù imperativa e urgente (in generale, sui pericoli e le minacce del Welfare State v., ad esempio, Daudt, 1977).
È qui che si prospetta la terza più complessa e forse, potenzialmente, più grandiosa ondata nel movimento mondiale per un diritto e una giustizia più accessibili. Tale ondata di riforme, che quasi dovunque si trova in una fase tuttora iniziale e sperimentale e che solo a un'analisi superficiale può sembrare in contrasto con le altre due, si traduce in molteplici tentativi intesi al perseguimento di fini svariati, ma fra di loro in vario modo connessi. Tra questi fini emergono: a) quello di stabilire procedure più accessibili in quanto più semplici e razionali, più economiche, efficienti e specializzate per certi tipi di controversie (per esempi concreti in vari paesi, v. Cappelletti, 1978-1979, vol. II, pt. III); b) il fine di promuovere e rendere accessibile un tipo di giustizia che altrove abbiamo definito 'coesistenziale' (cfr. M. Cappelletti, Appunti su conciliatore e conciliazione, in "Rivista trimestrale di diritto e procedura civile", 1981, pp. 49 e 56 ss., e Giudici laici, in "Rivista di diritto processuale", 1979, pp. 698 e 707 ss.), basata cioè sulla conciliazione e mediazione e su criteri di equità sociale distributiva, laddove sia importante 'curare' situazioni complesse e durature di rapporti tra individui e gruppi, anziché semplicemente definire un rapporto isolato, con rigidi criteri giuridici di 'torto' e di 'ragione' essenzialmente rivolti al passato (per esempi concreti, v. Cappelletti, 1978-1979, vol. II, pt. II); c) il fine di sottoporre l'attività pubblica a forme, spesso nuove e comunque più allargate e accessibili, di controllo (cfr., ad esempio, J. F. Handler, Controlling official behavior in welfare administration, in "California law review", 1966, LIV, pp. 479 ss.; R. B. Stewart, The reformation of American administrative law, in "Harvard law review", 1975, LXXXVIII, pp. 1667 ss., spec. sub III, IV e V; M. Janowitz, Social control of the Welfare State, New York-Amsterdam 1976), e più in generale di creare forme di giustizia più accessibili in quanto più decentrate e 'partecipatorie', con la partecipazione, in particolare, di membri di quegli stessi gruppi sociali e comunità che sono direttamente interessati alla situazione o controversia in questione, e che di questa situazione o controversia sono particolarmente consapevoli. È proprio in ragione dell'emergere di quest'ultima finalità che uno dei temi di maggiore interesse teorico e pratico è divenuto recentemente quello della partecipazione dei laici all'amministrazione della giustizia (cfr., ad esempio, M. Cappelletti, Laienrichter-heute?, in Festschrift für Fritz Baur, Tübingen 1981, pp. 313-327).
Va comunque ribadito che gli sviluppi riflettenti questa terza ondata di riforme, o di emergenti esigenze di riforma, vanno essi stessi molto al di là del campo giudiziario: il fenomeno in esame coinvolge infatti tutti i campi anche non giurisdizionali nei quali si è manifestato l'incombente 'gigantismo' dell'apparato statale e parastatale (cfr., ad esempio, Participation in politics: Nomos XVI, a cura di J. R. Pennock e J. W. Chapman, New York 1975; Citizen participation: effecting community change, a cura di E. Cahn e B. Passet, New York 1971; R. B. Leflar e M. H. Rogol, Consumer participation in the regulation of public utility: a model act, in "Harvard journal of legislation", 1976, XIII, pp. 235 ss.; v. Senate Committee on Governmental Affairs, 1977). Decentramento, controllo e partecipazione, semplificazione delle procedure giudiziarie e amministrative, delegalizzazione, deprofessionalizzazione e promozione di uno spirito di collaborazione e di pacifica coesistenza (specialmente nell'ambito dei rapporti 'di durata', di comunità e di vicinato) rappresentano infatti le cure che si cerca d'introdurre contro i pericoli e l'oppressione del burocratismo governativo, del legalismo, del tecnicismo giuridico-amministrativo, con tutti i loro inerenti rischi di ritardi, di inutili costi e complicazioni, di eccessiva conflittualità, di sordo distacco dalle reali e più permanenti esigenze della società.
In un'epoca in cui di rivoluzioni culturali si è fin troppo e spesso a sproposito parlato, varrà la pena di sottolineare il carattere genuinamente rivoluzionario del movimento per l'accesso alla giustizia, non soltanto sul piano dell'azione pratica (v. cap. 3), ma anche su quello del metodo di pensiero, e più in particolare del metodo di analisi giuridica (v. Cappelletti e altri, 1976, pp. 669 e 670-673). Se invero sul piano dell'azione il mutamento, apportato o progettato, è stato radicale, essendosi trattato di dare un significato nuovo e pregnante all'idea, già di per sé profondamente rivoluzionaria, di uguaglianza, sul piano del pensiero il mutamento è stato tale da trasformare completamente temi e modi dell'analisi scientifica del giurista moderno. Invero, come dell'analisi economica keynesiana, che ha dominato l'ultimo mezzo secolo, è stato detto autorevolmente che "[it] stood all earlier systems on their heads by being demandcentered rather than supply-centered" (cfr. P. F. Drucker, Toward the next economics, in "The public interest", 1980, n. speciale sulla crisi della teoria economica, pp. 4 e 8), così anche del più recente movimento per l'accesso al diritto e alla giustizia può dirsi ch'esso ha 'capovolto' tutti i precedenti metodi. Esso infatti non si è limitato a estendere l'analisi dalle norme alle istituzioni e al loro modo di operare, come già avevano fatto, assai meritoriamente, le varie correnti del pensiero realistico moderno; ma tale analisi realistica e funzionale ha concentrato sui 'consumatori', anziché sui 'produttori', del sistema giuridico. L'analisi si è portata così sulle parti e sugli amministrati, prima che sui giudici, sui legislatori e sugli amministratori: non nel senso che questi ultimi, i 'produttori' del sistema, siano trascurati in questa nuova visione della scienza del diritto, ma nel senso che giudici, legislatori e amministratori sono visti in una nuova luce, quella appunto della domanda dei consumatori. E così dei consumatori sono stati analizzati i bisogni non soddisfatti, il loro relativo bargaining power (risorse finanziarie, informative, organizzative), il tipo di rapporti e d'interessi in cui sono coinvolti e di cui chiedono la tutela, le loro garanzie costituzionali, i loro problemi sociali, economici, culturali, gli 'ostacoli' insomma all''accesso' e i vari tentativi - con i loro successi e insuccessi - di superamento di tali ostacoli nei vari paesi. Al quale proposito va sottolineato che il metodo comparativo di analisi, strumento essenziale di ogni serio studio policy-oriented, è un aspetto tra i più qualificanti di tale metamorfosi dell'analisi giuridica, la quale si deve servire altresì, naturalmente, dei metodi e risultati dell'indagine empirica e interdisciplinare: con l'ovvia conseguente necessità pratica di ampie progettazioni di ricerca organizzata e di gruppo, al fine di superare le difficoltà, senza precedenti, di un tale tipo nuovo e impegnato di studio del diritto.
Va osservato infine, per concludere, che la 'prospettiva dei consumatori' affermatasi con il movimento per l'accesso, si inserisce in un quadro storico assai meno contingente della pur sessantenaria 'rivoluzione keynesiana' testé menzionata. Si può dire infatti con un precursore del movimento per l'accesso alla giustizia, Edmond Cahn, che si tratta di una prospettiva nella quale deve prima o poi confluire "la rivoluzione democratica che cominciò nel XVII secolo e che è tuttora in corso" (v. Cahn, 1963, p. 9). La vecchia prospettiva, che il Cahn chiama "imperiale" o "ufficiale" e che è stata ereditata da - e tuttora può dirsi prevalere in - tutti i sistemi giuridici moderni, consiste nel concentrare la ricerca, e far convergere le norme, i principî e le soluzioni, sui "rulers, governors, and other officials" (ibid., p. 4); essa è stata essenzialmente la prospettiva dei processors, ossia di quelli che noi diremmo i 'produttori' del sistema, mentre invece il nuovo punto di vista è appunto quello dei consumers of law and government. Ma è proprio questa nuova prospettiva quella che meglio si addice, ovviamente, a una società democratica, libera e aperta, la quale deve pretendere che i suoi official processors assolvano la loro funzione non in una visione 'tolemaica' del diritto e dello Stato, bensì in vista del benessere dei consumatori (ibid., p. 9): che è come dire che diritto e Stato devono finalmente essere visti per quello che sono - come semplici strumenti al servizio dei cittadini e dei loro bisogni, e non viceversa. (V. anche Benessere, Stato del; Diritti dell'uomo; Giustizia).
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