accidia e accidiosi
Il concetto di a. trova precisa definizione teologica in s. Tommaso d'Aquino : " Acedia... est quaedam tristitia, qua homo redditur tardus ad spirituales actus propter corporalem laborem " (Sum. theol. I 63 2 ad 2) e in s. Bonaventura : " Ira, cum non potest se vindicare, tristatur, et ideo ex ea nascitur accidia " (Comp. th. ver. III) e altresì un'indicazione etica e semantica relativamente precisa nella tradizione lessicografica medievale, ad es. in Papia (" Accidiari: stomachari unde accidia: quae est taedium animi vel anxietas vel contra ") o in Cesario (" Accedia est ex confusione mentis nata tristitia, sive taedium et amaritudo animi immoderata, qua iucunditas spiritalis extinguitur et quodam desperationis praecipitio mens in semetipsa subvertitur "). Essa, quindi, si configura come uno dei sette peccati capitali e si riconduce nell'ambito della tristizia, in quanto forma di stato peccaminoso, cioè di un atteggiamento spirituale di colpa per difetto d'intelligenza e di volontà, promossa e caratterizzata dal concorso di varie componenti, quali l'indolenza, la negligenza e la tiepidezza d'animo, che la condizionano e la individuano sotto l'aspetto categoriale di peccato. In prospettiva diversa o in presentazione tipica secondo l'indicazione aristotelica e tomistica in relazione al concetto d'iracondia, l'a. si può presentare come condizione contraria all'ira o anche come una categoria di essa per antitesi, in quanto essa implica sempre un atteggiamento di rinuncia e di cedimento della volontà o, se si vuole, un eccesso negativo che cova un rancore taciuto. In quanto tale si riporta al concetto di incontinenza, di cui viene ad essere un'espressione, presupponendo sempre un rapporto diretto, anche se negativo, con la sollecitudine o sollecitazione d'amore e di desiderio verso il bene, allorché si verifica nell'anima una scarsa o insufficiente propensione verso di esso, capace di configurarsi quale atto peccaminoso.
Si tratta, in realtà, di due definizioni non pienamente rispondenti tra di loro e di non facile adattamento o interpretazione nei luoghi danteschi in cui la parola e il concetto medesimi si incontrano.
Al secondo concetto sopra enunciato (iracondia e a. come forma negativa di iracondia e non categoria per sé stante) si tende oggi comunemente a ricondurre l'interpretazione del primo passo del poema in cui compare questa parola. Nella Commedia il poeta introduce la parola accidioso in If VII 123, nel medesimo cerchio nel quale espiano gl'iracondi, immersi e fitti nell'acqua e nel fango, nascosti, a differenza dei primi, agli occhi del poeta, per cui Virgilio chiede al discepolo di accettare sulla sua parola, quasi in atto di fede, la loro presenza infernale. Lo buon maestro disse: " Figlio, or vedi / l'anime di color cui vinse l'ira; / e anche vo' che tu per certo credi / che sotto l'acqua è gente che sospira, / e fanno pullular quest'acqua al summo, / come l'occhio ti dice, u'che s'aggira...". La presentazione delle anime nella successiva indicazione della colpa è ottenuta sotto forma di parlato indiretto, riferito, quasi in un'interpretazione del gorgogliare dell'acqua, da Virgilio. Fitti nel limo dicon: " Tristi fummo / ne l'aere dolce che dal sol s'allegra, / portando dentro accidïoso fummo : or ci attristiam ne la belletta negra" (vv. 121-124). Nella terzina la proposizione d'ordine concettuale s'adegua a una prima definizione, relativamente generale, del peccato (Tristi fummo) con un richiamo che suona pregnante ed evidente per ciò che attiene all'idea propria della tristizia, quale equivalente di malvagità, in una situazione temporale chiaramente enucleata, in rapporto allo stato attuale delle anime, nel passato della vita terrena, rievocata, secondo un procedimento tecnico tematico che potremmo chiamare della nostalgia infinita, attraverso la componente della luce e della gioiosa dolcezza che l'accompagna, delle quali non seppero godere per quella tristizia che perpetua in eterno il senso del peccato : Tristi fummo=or ci attristiam ne la belletta negra. Tale stato peccaminoso aderisce alle dimensioni dello spazio vitale delle anime, lo occupa tutto, proiettandosi, per effetto della conseguente dannazione, nell'eternità (portando dentro accidioso fummo). Il Boccaccio nota: " L'accidia tiene gli uomini così intenebrati e oscuri, come il fummo tiene quelle parti alle quali egli si avvolge ".
Il testo dantesco, del resto, se dà rilievo a una rappresentazione plastico-figurale di notevole efficacia, ha deliberatamente lasciato nell'anonimato il mondo di queste anime, che nemmeno riescono a dare al loro dire il timbro schietto e personale di una voce, e quindi neppure una convincente autonoma configurazione di peccato. Si tratta di un passo che si presenta, nell'esegesi tradizionale, di assai incerta interpretazione. In sintesi, si può affermare che le diverse opinioni di antichi e di moderni offrono un quadro variamente indicativo. Vari commentatori antichi (Iacopo e Pietro Alighieri, Boccaccio, Ottimo, Buti, Castelvetro) e oggi il Marti propendono per l'individuazione di due tipi di peccatori in Stige: in superficie, gl'iracondi, sommersi, gli accidiosi. In particolare, taluni, tra i quali è Pietro (" apparenter iracundos et superbos... occulte, idest in limo paludis [Dante] fingit puniri accidiosos et invidos in diversis partibus dictae paludis ") cui si richiama il Del Lungo, sviluppando questo principio, compongono in un dittico If VII e VIII, in un abbinamento che appaia iracondi e accidiosi a superbi e invidiosi. Si badi, però, che di questi ultimi D. non fa il minimo cenno. Questa interpretazione muove dal presupposto di una corrispondenza nell'ordinamento morale dell'Inferno e del Purgatorio. Altri studiosi, e sono i più, si rifanno a Bernardino Daniello : " Accidioso fummo non vuol dir altro che lenta ira, perché l'ira presta e subita (conciò sia che i primi moti non sono in potestà di noi medesimi) non è peccato ". Egli sembra distinguere i peccatori del quinto cerchio secondo le categorie aristoteliche dell'ira (Eth. III 12) nonché tomistiche (Comm. Eth. IV 13 e Sum. theol. I II 46 e II II 158), e precisamente in iracondi ‛ acuti ', ‛ amari ' e ‛ difficili '. Su questo principio si può dire s'incontri anche la citata definizione di s. Bonaventura. Sul concetto dell'a. dantesca scrisse ampiamente il Pascoli con una proposta assai estensiva della specie dell'a. e del suo porsi come elemento costitutivo fondamentale dell'ordinamento morale della Commedia, che indubbiamente trascende i limiti di un'accettabile credibilità. Sulla traccia di uno studio illuminante del mondo etico del poema proprio sull'a. anche il Flamini aveva suggerito alcune utili indicazioni. Seguono la linea d'interpretazione offerta dal Daniello, tra gli altri, Witte, Bartoli, Bacci, Torraca, Scartazzini-Vandelli, Porena, Sapegno, Bosco, Montanari, Fallani, Vallone, Figurelli e Toja. Non è accettabile l'emendamento invidioso fummo proposto dal Faucher; cfr. Petrocchi, ad l.
Nel Purgatorio invece, in relazione all'ordinamento operato tenendo conto delle disposizioni peccaminose individuate analiticamente seguendo il concetto dell'amore, gli a. trovano legittimamente posto nella quarta cornice, avendo essi peccato per poco di vigore. La posizione mediana che la quarta occupa nella successione delle cornici dà luogo alla trattazione generale della costituzione del secondo regno e della distribuzione in esso delle anime. Nel nucleo centrale di Pg XVII la richiesta del poeta introduce la digressione informativa proprio attraverso il peccato dell'a. che ivi si espia: L'amor del bene, scemo / del suo dover, quiritta si ristora; /qui si ribatte il mal tardato remo (vv. 85-87). L'idea della riparazione o espiazione perché si ricrei nell'anima lo stato della grazia facilmente dichiara in semplice tono allusivo che qui sono gli a., ai quali conviene cercare di recuperare, almeno psicologicamente nella tensione del desiderio, il tempo perduto per la trepidazione di correre verso il bene. Nessun commentatore antico o moderno ha sollevato qui dubbi e tutti affermano che si tratta dell'a., intesa pienamente nel significato teologico secondo l'indicazione tomistica: " Acedia est tristitia de bono spirituali, in quantum est bonum divinum ", cui fanno eco, tra gli altri, l'Ottimo (" Consiste accidia... in essere tardo e deficiente in quelli beni che l'uomo dee operare "), Benvenuto (" Est enim accidia amor defectivus boni summi ... quaedam neglegentia, tepiditas et quasi contemptibilitas ad acquirendum bonum appetibile "), il Buti (" Accidia è tristizia, o vero rincrescimento, o vero lentezza di desiderare e acquistare lo sommo bene ") e il Landino (" In questo girone si purga il vizio dell'accidia, la quale non è altro che non amare Iddio e le virtù con quel fervore che si conviene "). La presentazione è calzante, sia per il valore forte e intensivo dal composto verbale (ribatte), sia per il vigore metaforico del remo battuto lentamente. Essa, del resto, viene ribadita ancora da Virgilio verso la fine del canto : Se lento amore a lui veder vi tira / o a lui acquistar, questa cornice, / dopo giusto penter, ve ne martira (vv. 130-132). Sono qui palesi due aspetti nello stato dell'a., individuati nella lentezza spirituale, l'uno contemplativo (a lui veder vi tira), l'altro pratico o attivo (o a lui acquistar), condizionati entrambi, ovviamente, dalla comune componente di debole e deficiente volontà. L'argomento viene ripreso, dopo la trattazione dell'ordinamento della seconda cantica e la presentazione sintetica dei sette vizi capitali in essa espiati, con una movenza d'attacco singolarmente rilevante, al centro di Pg XVIII, nella prospettiva di un notturno lunare che sembra propiziare il sonno del poeta pellegrino. Il repentino irrompere della schiera degli accidiosi anima la scena e vi proietta una prospettiva dinamica fin qui sconosciuta. Il quadro è notevole per incisività di rilievo e forza d'azione; due anime davanti gridano esempi di sollecitudine, che naturalmente si contrappone all'a., e introducono le anime penitenti, mentre altre due chiudono la schiera gridando, a loro volta, esempi di accidia ([Virgilio] disse: " Volgiti qua: vedine due venir dando a l'accidia di morso ", vv. 131-132). I penitenti procedono correndo, quasi galoppando in una figurazione fisica incurvata, a mosse di grandi falcate, in un atteggiamento che non lascia dubbi come di coloro cui buon volere e giusto amor cavalca (v. 96). Sono proprio queste le virtù che gli a. non ebbero in vita e che pertanto sono, per la logica legge del contrappasso, naturalmente chiamate in causa nella prima scenografia, nella quale campeggia la forma evidente della loro volontà di espiazione per riconquistare la Grazia. Il ritmo della successione dei tempi dell'azione esprime bene con il rapido sopraggiungere delle anime in corsa (ed è questo un altro elemento figurativo per antitesi del peccato qui punito) il senso della fretta, quasi l'intima rispondenza tra l'irruenza ordinata e non scomposta di un moto esteriore, e quindi visibilmente fisico, e l'interiore, intima (quale, in fondo, è anche per sua propria natura l'a.) urgenza spirituale che per desiderio di compenso spinge le anime.
A questo punto s'inserisce anche un altro dato non trascurabile, e cioè l'interludio dialogico tra le anime d'avanguardia che hanno bandito gli esempi imitabili e la schiera che nella sua voce corale ribatte sul modulo concettuale del peccato, ripercorso come in un anelante fremito di speranza. " Ratto, ratto, che'l tempo non si perda / per poco amor ", gridavan li altri appresso, / " che studio di ben far grazia rinverda " (vv. 103-105). Virgilio, nel suo consueto rivolgersi alle anime per la richiesta dell'indicazione necessaria a orientare la salita al girone superiore, con garbata e studiata finezza s'inserisce cautamente, pur creando un'evidente momentanea sospensione d'attesa nel predetto movimento visibile e spaziale, nel linguaggio e nello stato delle anime stesse, non certo per rifare il verso alla loro voce, ma piuttosto per completarne il significato concettuale (O gente in cui fervore aguto adesso / ricompie forse negligenza e indugio / da voi per tepidezza in ben far messo, vv. 106-108), con un apprezzamento positivo del valore stimolante e benefico dell'espiazione e della forma con cui essa concretamente si esprime. Vale, cioè, per queste anime a dare un prezzo meritorio al loro stato purgatoriale l'intenso fervore spirituale che ricompensa e debitamente ricolma di un caldo pieno di santo desiderio la passata colpevolezza terrena, individuata in tre elementi, negligenza e indugio come effetto e tepidezza come causa motrice. L'Abate di S. Zeno di Verona, introdotto a parlare, si scusa per il fatto di non potersi fermare, assecondando la legge del girone (a questo proposito giustamente chiosa l'Anonimo fiorentino: "Così come l'accidia è negligenza d'operazione, così qui si pugna con acceso e sollecito amore di purgazione ") e nel suo racconto interpreta verosimilmente lo sdegno morale del poeta per fatti da lui giudicati abusivi ed errati, suggerendo alla chiosa di Pietro un'accentuazione di un rimprovero, nel tempo, consueto verso i religiosi: " Vitium accidiae multum inter claustrales frequentatur ". Chiudono la scena e il canto due anime che, nella tipologia del rimorso, rievocano miti d'a., il peccato che morde viva la coscienza delle anime medesime. Sotto la prospettiva del contrappasso si è notato che gli accidiosi del Purgatorio si possono accostare agl'ignavi della prima cantica; può apparire questa un'osservazione marginale, in realtà essa è singolarmente pertinente e significativa. È qui, del resto, appena il caso di ricordare come D., pur assumendo nella concezione e nello svolgimento in sede morale del poema un impegno dottrinale
e anche teologico adeguato all'alto sentimento della giustizia, trasfonda la realtà d'ordine concettuale in un contesto poetico vario e ricco di figure e di forme nella metafora dell'itinerario oltremondano. Ciò accade, ci sembra, anche per l'a, e per gli accidiosi.
Da ultimo, il Wenzel, in sede di illustrazione del concetto di acedia nel pensiero cristiano, trattando della Commedia dantesca, trascura il concetto di a. in If VII e si sofferma invece su Pg XVIII, affermando che ivi l'a. si deve intendere quale la tristitia animi che distoglie dall'esercizio della virtù. Il Wenzel mette, inoltre, in rapporto la serena di Pg XIX 19 con le serene di Pg XXXI 45, e in queste ultime vede rappresentato l'indebolimento morale prodotto dall'accidia.
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