ACCORSO (latinizzato dapprima in Accursus, poi comunemente in Accursius, ritradotto nella forma Accursio, oggi la più usata; anche Accorso Fiorentino o da Bagnolo; chiamato a volte senza fondamento Accurzio, l'Accursio, Francesco Accursio, Bono Accursio, Accursio Azzone o Azzonio)
Della sua nascita e delle sue origini non si hanno altre notizie che quelle fornite da F. Villani nel De origine civitatis Florentiae, scritto verso la fine del Trecento, e da D. Bandini, che ne dipende, nel Fons mirabilium universi.
Nacque di famiglia contadina, ma di condizione verosimilmente non troppo modesta, a Bagnolo, paesino di poche case a mezza strada tra l'Impruneta e Montebuoni, sulle colline a mezzogiorno di Firenze; la data di nascita si potrà fissare tra il 1181 e il 1185, se da quella di morte (tra il 1259 e il 1263, come vedremo) si sottrarranno i settantotto anni di vita che il Villani e il Bandini gli attribuiscono. Giovanissimo ancora, si recò a studiar leggi a Bologna, dov'ebbe maestri Azzone, tra gli altri, e Iacopo Baldovini; con questo s'addottorò, non prima del 1213, cominciando a sua volta l'insegnamento del diritto civile che avrebbe poi continuato fin verso il termine della vita. Nei lunghi anni di cattedra ebbe certo innumerevoli scolari, ma solo di pochi poi saliti in fama si conoscono i nomi: il figlio Francesco e Vincenzo Ispano, ai quali si dovrebbero aggiungere, stando a tardive e poco sicure informazioni, il futuro Innocenzo IV (Sinibaldo Fieschi) e Odofredo. Né del resto tutto ciò che si ricorda del suo insegnamento torna a suo onore, se è vero che la cospicua ricchezza che accumulò (possedeva tra l'altro, in Bologna, una casa oggi incorporata nel Palazzo comunale, detto dal suo nome Palazzo d'Accursio, e nei dintorni, vicino a Budrio, una celebrata villa detta "la Riccardina") ebbe per fonti non l'insegnamento e l'avvocatura solo, ma anche la pratica dell'usura con gli scolari e la corruzione in occasione degli esami. La figura che ci ha tracciato F. Villani, d'un uomo d'alta statura, grave e pensieroso d'aspetto, sobrio, affabile, elegante senza affettazione, modello agli scolari per i suoi specchiati costumi non meno che per la sua dottrina ed eloquenza, appare alquanto offuscata dal sospetto, confermato purtroppo da due documenti, di quei modi d'operare.
Si sposò due volte. Dalla prima moglie ebbe nel 1225 il figlio Francesco; dalla seconda (Aichina, in latino Aiclina, morta poi nel 1265)tre figli, Cervotto, Guglielmo e, da vecchio, nel 1254, Corsino. Tutti, eccettuato l'ultimo, furono giuristi. Una malfondata tradizione, di cui non c'è traccia prima d'Alberico da Rosciate (sec. XIV), aggiunge ai quattro una figlia, che avrebbe anch'essa professato giurisprudenza sulla cattedra bolognese; autori tardi e dotati di più fervida fantasia le hanno dato un nome, Accursia o Accorsa, e due date, 1230-1281: quando pure non hanno parlato di figlie in numero plurale. I discendenti d'A., banditi da Bologna coi Lambertazzi (ghibellini) nel 1274, poterono poi tornare in città, e se ne hanno notizie fino al 1356.
La lunga permanenza a Bologna non fece dimenticare ad A. la terra natale. Florentinus amò dichiararsi, o altri lo dichiarò, nella firma di molte delle sue glosse; le più, del resto, quando pure son chiuse da una sigla (e dove ce n'è una, non è detto che sia autentica, potendo gli amanuensi, in buona o in mala fede, avere attribuito a lui glosse di giuristi anonimi" portano il suo nome senz'altra aggiunta, abbreviato di regola in Acc. o Ac., più di rado in A. o in Accur. Fu pure creduto a lungo che non avesse mai preso la cittadinanza bolognese, e ne dava indizio una notizia tarda d'una sua nomina nel 1252 ad assessore del podestà di Bologna, ufficio che, al pari di quello di podestà, non poteva essere affidato se non a forestieri. La notizia, non documentata, sarà nata da un equivoco dovuto all'attività d'A. come privato consulente: che s'adattasse all'ingrato incarico d'assessore un vecchio maestro, ricco, ricercato, celebrato come nessun altro al suo tempo, non è la cosa più verosimile. Ed è documentata, all'opposto, l'appartenenza d'A., almeno dal 1248, data della più antica matricola, e ancora nel 1259, alla Società dei Toschi, quella tra le compagnie delle armi che raggruppava i cittadini bolognesi d'origine toscana.
La matricola del 1259 di questa società è l'ultimo documento che ci presenti A. come ancora in vita. Un atto del 3 maggio 1263 è il primo che lo menzioni come sicuramente morto. Due cronache bolognesi della seconda metà del Trecento ne fissano la data di morte al 1260; che tra le altre offerte dalle varie fonti cronistiche (1228, 1258, 1265, 1275, 1277) è la sola compresa nei quattro anni sopra indicati e quindi la sola possibile, per quanto tutt'altro che sicura in senso assoluto, essendo indicata da fonti tarde e, quanto a cronologia, non sempre fidate.
Il Kantorowicz, trovando uno dei figli nominato il 31 dic. 1262 come "Cervotus domini Accursii"e non "quondam domini Accursii", fu portato a vedervi un indizio di sopravvivenza (indizio fallace, ritrovandosi identica formula in documenti del 10 ott. 1265 e del 23 dic. 1266) e quindi, d'ipotesi in ipotesi, a identificare nel maestro dello studio bolognese (seguendo su questo punto il Davidsohn) un Accorso assessore nel 1263 del podestà di Firenze a quel tempo ghibellina, a fissarne ai primi mesi di tale anno la data di morte, a dare per certo un suo abbandono dell'insegnamento e un suo ritorno nella città d'origine fin da dieci anni avanti, a ricostruire, sulla base dell'inventario della sua biblioteca, quelli che poteron essere i suoi principali temi di studio nell'operoso ritiro dell'ultima parte della sua vita. Non è stato difficile al Genzmer dimostrare la fragilità di tutta la catena delle ipotesi: l'assessore del podestà di Firenze era Accorso da Reggio, e lo stesso ritorno in Toscana, per quanto accennato (poco chiaramente) dal Villani e non contraddetto da prove precise, appare difficile a giustificarsi in un uomo che da mezzo secolo aveva in Bologna tutti, si può dire, i suoi affetti e interessi e nella vicina Riccardina aveva un luogo ideale per appartarsi negli studi.
Bologna è in tutti i modi il luogo della sepoltura d'Accorso. Il suo corpo fu deposto in un primo tempo nei chiostri di S. Domenico e lì rimase finché il figlio maggiore, venendo a morte nel 1293, non dispose per sé e per il padre la costruzione dell'arca che tuttora si può ammirare, restaurata alla fine dell'Ottocento, dietro l'abside di S. Francesco. Firenze, che invano nel 1396 richiese le ossa d'A. decretandogli un solenne monumento in S. Maria del Fiore, ha di lui solo una modesta statua di O. Fantacchiotti (1852) sotto il loggiato degli Uffizi, nella serie dei grandi Toscani del passato.
Come ci sfuggono molti particolari della sua vita (l'accumularsi e il contraddirsi delle ipotesi sta in ogni modo a dimostrare l'interesse suscitato presso antichi e moderni dalla sua figura d'uomo e di maestro), così sfugge a un giudizio sicuro la sua stessa personalità di giurista, illuminata da un solo grande lavoro, in tanta parte impersonale; ma i giudizi passionati e contrastanti dati dal Rinascimento in poi sulla sua opera scientifica stanno a ricordare che quell'opera, formalmente d'interprete, fu nella sostanza di legislatore e restò per sei secoli a fondamento del diritto comune europeo.
Lasciò scritto A. del suo nome: "nomen meum, scilicet Accursii, quod est honestum nomen, dictum quia accurrit et succurrit contra tenebras iuris civilis" (Dig.,36, 1, 65 [63], 10, gl. Conditio est).
Nulla più che un motto scherzoso; ma sotto vi traspare la consapevolezza del valore universale dell'opera compiuta.
Quest'opera si riduce in sostanza a un unico scritto, a quell'apparato di glosse al Corpus iuris civilis che da secoli, sola tra le tante opere similari uscite dalla scuola dei glossatori civilisti e canonisti, siamo avvezzi a chiamare per eccellenza la Glossa.
Solo per completezza si potrà qui riportare, sulla traccia del Kantorowicz che lo compilò da fonti disparate, un cataloghino di scritti minori in parte d'errata o malcerta attribuzione, in parte sicuramente accursiani ma non tali da potersi considerare lavori indipendenti. La lista comprende: 1) una Summa super libro feudorum, che si trova attribuita ad A. in un manoscritto della Biblioteca municipale d'Angers non ancora esaminato accuratamente, e che forse non è altro che la somma d'Iacopo Colombi; 2) un Liber Accursii qui incipit "De sermone debeo", di cui non si sa nulla né quanto all'autore (A. autore o proprietario? il nostro o un omonimo?) né quanto al contenuto (giuridico, teologico, grammaticale... ?), e nulla se ne saprà mai perché il manoscritto barcellonese che lo conteneva andò bruciato; 3) un trattato De arbitris,che è poi una summula di Azzone al titolo corrispondente De receptis (2, 55 [56]) del Codice di Giustiniano, attribuita ad A. dal Diplovatazio per confusione d'un amanuense tra le sigle Az.e Ac.; 4) una glossa all'Autentico, pure citata dal Diplovatazio, ma da ritenersi al più una prima stesura perduta di quella compresa nella glossa ordinaria, quando pure non sia solo una confusione; 5) una lettera a Pier della Vigna, di dubbia autenticità; 6) tre pareri legali, uno autografo senza data, gli altri due del 9 marzo 1251 e 16 marzo 1252; 7) aggiunte (mal distinguibili perché incorporate nel testo originale) alla somma dell'Autentico di Giovanni Bassiano, che si trova stampata di regola tra le appendici alla Summa d'Azzone; 8) aggiunte alla glossa d'Iacopo Colombi ai Libri feudorum, e rimaneggiamento di questi e della glossa così accresciuta, che si soglion chiamare pertanto redazione accursiana e glossa accursiana dei Libri feudorum; 9) questioni estravaganti aggiunte in molti manoscritti alla Glossa;10) addizioni d'altro genere alla Glossa medesima. Non è il caso di tener conto dei Casus Codicis di Viviano ascritti ad A. in un incunabolo senza data; né delle annotazioni alla Summa dell' Ostiense attribuite anacronisticamente ad A. (e ad Azzone) in vecchie bibliografie, per effetto di lettura affrettata del frontespizio di varie edizioni di quell'opera; né, infine, d'un trattato di chimica, che nessuno ha visto e che sarà stato, se mai, d'un omonimo. È solo un'ipotesi del Kantorowicz che A., compiuta l'opera maggiore, dedicasse l'ultimo periodo della sua vita di studioso alla preparazione d'una grande enciclopedia del diritto civile e canonico, sul tipo di quello che sarebbe poi stato lo Speculum iudiciale di Guglielmo Durante. La ricchezza della sua biblioteca, che costituisce la più importante raccolta privata di libri giuridici che si conosca per il Medioevo, dimostra in tutti i modi che A. non mancò di tenersi informato dei nuovi studi che la scienza legale contemporanea veniva dando alla luce.
Alla compilazione della sua glossa A. fu spinto da una necessità della scienza e dell'insegnamento vivamente sentita. Di generazione in generazione, la scuola dei glossatori aveva accumulato sempre nuove glosse intorno ai testi giustinianei, senza mai troncare la continuità d'una tradizione che risaliva al grande Irnerio. Nei manoscritti del Corpus iuris che andavan per le mani di maestri e di scolari, i margini e le interlinee del testo avevan finito in molti punti col formicolare di glosse e glossette sovrapposte l'una all'altra, in una confusione che rendeva ormai faticosa la consultazione dei libri; ciascun maestro allineava le proprie glosse, contrassegnandole di solito con una sigla, accanto a quelle che trovava fatte sul suo manoscritto da altri maestri che prima di lui l'avevano adoperato, evitando così lo scomodo di riscrivere per più chiarezza il testo apponendovi poi le glosse personali. E la confusione materiale non era il peggio: le nuove generazioni di giuristi si venivano abituando a vedere il testo come soffocato da quella stratificazione di glosse e finivano, senza pensarci troppo, col far queste oggetto di studio allo stesso titolo del testo medesimo. Bisognava che qualcuno ne togliesse, come già aveva fatto Giustiniano per le leggi, "il troppo e 'l vano", raccogliendo in un'opera organica le opinioni più degne di credito, in servigio della pratica, ed esponendo nei punti più controversi, in servigio soprattutto della scuola, gli argomenti su cui si reggevano le varie opinioni in contrasto.
Fu questa l'opera d'A.: delle glosse che punto per punto ritenne migliori egli formò, pur riportando quand'era il caso le sigle degli altri glossatori a indicazione delle singole paternità, un'opera nuova e definitiva che fu la glossa perpetua a tutte le parti del Corpus iuris civilis, detta in seguito glossa ordinaria, cioè ufficiale.
Attese al vasto lavoro negli anni della giovinezza e della maturità, ma anche da vecchio non dovette tralasciare di farvi aggiunte, aggiornamenti, rimandi interni. Accenni abbastanza chiari fatti qua e là dallo stesso A. hanno permesso di congetturare che, l'opera intera fosse finita nel 1228; ma saranno dovute alla successiva revisione le glosse che ricordano fatti posteriori e quelle in particolare che citano il Liber extra promulgato nel 1234 da Gregorio IX (salvo che qualcuna può essere spuria e qualche altra può aver citato in origine una delle compilazioni poi trasfuse nel Liber extra); e per la glossa alle Istituzioni è senz'altro confermata, dopo le ricerche del Torelli, la notizia tradizionale dell'esistenza di due redazioni successive, la seconda delle quali, più ampia dell'altra di circa un decimo, è conservata da 100 manoscritti sui 141 più antichi e autorevoli e ha servito di base, non senza qualche mescolanza, alle edizioni.
La vastità del lavoro risulterà meglio da qualche cifra. Secondo un computo di E. Seckel, la Glossa comprende in tutto 96.260 glosse particolari, di cui 22.365 al Digesto vecchio, 17.969 all'Inforziato, 22.243 al Digesto nuovo, 17.814 al Codice, 4.737 alle Istituzioni, 7.013 all'Autentico, 4.119 ai Tre libri. Di tutte, 122 soltanto sono in contraddizione tra loro. Mancano dati che possano offrire un'idea della quantità di glosse vagliate e scartate, del numero di contraddizioni conciliate e risolte. Mancano pure dati precisi sul contributo quantitativo dei singoli glossatori; da uno spoglio provvisorio limitato al Digesto nuovo risulterebbero, con una riserva per varie attribuzioni da accertare meglio, 76 glosse d'Irnerio, 68 di Bulgaro, 220 di Martino, 6 d'Iacopo, 376 di Rogerio, 83 del Piacentino, 32 d'Alberico, 401 di Giovanni, 19 d'Ottone, 37 di Pillio, 693 d'Azzone, 231 d'Ugolino, 16 d'altri nove dottori, mentre i restanti nove decimi delle glosse a questa parte del Digesto, o che portino la sigla d'A. o che non ne portino nessuna, rappresenterebbero indifferentemente opinioni personali d'A. o sue interpretazioni d'opinioni diffuse nella scuola e non attribuibili singolarmente a nessuno dei predecessori.
Già in vita del suo compilatore, la Glossa venne in tanta autorità da esser quasi pareggiata ai testi di legge: ne fa fede, forse, già un documento giudiziario fiorentino del 1258. Nell'ambito della scuola, quest' autorità ebbe per conseguenza quella ch'è stata detta "la serrata delle glosse": l'esegesi analitica dei testi del diritto romano, consacrata nel metodo di studio caratteristico della scuola di Bologna, poteva ormai dire ben poco che non fosse già detto; la nuova corrente degli accursiani o postaccursiani, che nella seconda metà del Dugento segnò il trapasso dai glossatori ai commentatori, accettando come definitiva l'opera d'A. lasciò volentieri le esercitazioni esegeti che per la forma letteraria del trattato e agli argomenti offerti dai testi romani sostituì molte volte quelli suggeriti dalla pratica giudiziaria. Rimasta in certo modo unica interprete ufficiale del Corpus iuris civilis, la glossa accursiana seguì le varie fortune di questo, in Italia e nel mondo, tanto che la recezione del diritto romano in Europa fu per gran parte, è stato detto, la recezione dell'opera d'A.: "quicquid non agnoscit glossa, nec agnoscit forum", è un brocardo nato in Germania nel sec. XVII, e nel lontano Brasile ai primi dello stesso secolo era stata riconosciuta alla Glossa,per legge, autorità legislativa simile a quella delle leggi romane e canoniche.
L'autorità conseguita in forme e misure eccessive suscitò contro la Glossa,e in particolare contro il suo massimo autore, critiche e riserve anch'esse qualche volta eccessive. S'accusò A. d'aver fermato il progresso degli studi, d'aver fatto un'opera non originale, d'aver fatto dimenticare, nonché le glosse precedenti, i testi medesimi del diritto giustinianeo; si piluccarono con gioia le minute contraddizioni della Glossa,le sue improprietà di lingua, i suoi strafalcioni in fatto di storia. Espresse a volte con veemenza e con disprezzo dagli umanisti e dai giuristi della scuola culta (ma non da tutti, né dai maggiori), queste critiche ricorrono di quando in quando anche presso autori moderni; ma in generale la storiografia più recente ha fatto giustizia delle loro premesse antistoriche e del loro difetto di proporzioni: l'opera d'A. è da giudicare nel suo tempo, e nel suo insieme.
La glossa accursiana è stampata ai margini del Corpus iuris civilis in tutte le edizioni di questo dalle più antiche (la prima datata è del 1468) fino a quella di G. Aloandro che per primo pubblicò il testo solo (1529-31); e con pochissime eccezioni seguita a trovarsi insieme col testo in quasi tutte le edizioni successive fino al 1627. In tempi più vicini a noi, J. W. Claussen è stato il primo a pensare a un'edizione critica della Glossa e a darne un brevissimo saggio (Denuo edendae Accursianae glossae specimen, Halae [1828]). A cent'anni giusti di distanza l'idea è stata ripresa per iniziativa del Sindacato degli avvocati e procuratori (1928), e la sua realizzazione è tuttora in corso. Il compito fu affidato a P. Torelli, che stabilì magistralmente i criteri per l'edizione e, dopo molti anni di ricerche preliminari, poté stampare, fuori commercio, il libro I delle Istituzioni (1940); interrotto alla sua morte (1948), il lavoro è stato ripreso da suoi scolari sotto il patronato dell'Accademia dei Lincei, ma è ancora lontano da una sia pur parziale conclusione.
Fonti: Pietro e Floriano da Villola, Cronaca, ad a. 1260, a cura di A. Sorbelli, in Rer. Italic. Script., 2 ediz., XVIII, 1, 2, p. 150; Cronaca A detta volgarmente Rampona, ad a. 1260, a cura di A. Sorbelli, ibid., p. 151; G.Zaccagnini, Memoriali del comune bolognese (aa. 1265-1266), vol. V del Chartularium studii Bononiensis, Bologna 1921, pp. 91, 247. Tutte le altre fonti sono già indicate dagli autori citati qui di seguito.
Bibl.: I. Diplovatazio (Diplovatatius), Opus de praestantia doctorum, a cura di G. Pescatore, I (un.), Berlin 1890, pp. CLXIII-CLXXXII; G. Panciroli (Panzirolus), De claris legum interpretibus, Lipsiae 1721, pp. 119-121; M. Sarti - M. Fattorini, De claris archigymnasii Bononiensis professoribus, I, 1, Bononiae 1769, pp. 136-147, 192; 2, ibid. 1772, pp. 96, 202-203, 205, 252-253; Berriat-Saint-Prix, Histoire du droit romain, Paris 1821, pp. 287-299; F. C. von Savigny, Storia del diritto romano nel medio evo, trad. Bollati, II, Torino 1857, pp. 258, 369-389, 410; L. Sanguinetti, Accursio, Bologna 1879; E. Landsberg, Ueber die Entstehung der Regel "Quicquid non agnoscit glossa, nec agnoscit forum", Bonn 1879; Id., Die Glosse des Accursius und ihre Lehre von Eigenthum, Leipzig 1883, pp. 52-64 (sull'opera personale d'A.), 77-80 (sulle edizioni della Glossa); F. Cavazza, Le scuole dell'antico studio bolognese, Milano 1896, pp. 56-58; E. Seckel, Ueber neuere Editionen juristischer Schriften aus dem Mittelalter, nella Zeitschrift der Savigny-Stiftung für Rechtsgeschichte, Romanistische Abteilung, XXI (1900), p. 251; H. Fitting, Zusätze zu Savignys Rechtsgeschichte, ibid., XXVI (1905), pp. 59-61; K. Neumeyer, Die gemeinrechtliche Entwickelung des internationalen Privat- und Strafrechrs bis Bartolus, II, München-Berlin-Leipzig 1916, pp. 60-63 (sulla cronologia della Glossa); G.Livi, Dante e Bologna,Bologna 1921, pp. 124-125, 166 (con fotografia e trascrizione dell'unico autografo noto); R. Davidsohn, Firenze ai tempi di Dante, Firenze 1929, pp. 230-231, 287-291; P. S. Leicht, Per la nuova edizione critica della glossa Accursiana, in Scritti vari di storia del diritto italiano, II, 1, Milano 1948, pp. 192-197; H. Kantorowicz, Accursio e la sua biblioteca,nella Riv. di storia del diritto ital., II (1929), pp. 35-62, 193-212 (biografia critica completa, per quanto sintetica, seguita dalla descrizione della ricca biblioteca appartenuta al glossatore, quale si può ricavare dall'inventario di quella sua parte, 63 volumi, che il figlio Cervotto vendette il 7 ott. 1273 all'altro figlio Guglielmo per 500 lire); Id., Studies in the glossators of the roman law, Cambridge 1938, p. 154 (sulle contraddizioni della Glossa); P. Sella, Sigle di giuristi medievali, in ispecie dello Studio bolognese, tratte dai Codici vaticani, Bologna 1932, pp. 4-5; P. Torelli, La codificazione e la glossa: questioni e propositi, negli Atti del congresso internazionale di diritto romano (Bologna e Roma, XVII-XXVII aprile MCMXXXIII), Bologna, I, Pavia 1934, pp. 329-343; Id., Per l'edizione critica della glossa accursiana alle Istituzioni, in Riv. di storia del diritto ital., VII (1934), pp. 429-584; Id., La nuova edizione della glossa accursiana alle Istituzioni, in Rendic. delle sessioni della R. Accad. delle scienze dell'Istituto di Bologna, classe di scienze morali, s. 4, III (1939-40), pp. 98-113 E. Genzmer, Die justinianische Kodifikation und die Glossatoren, negli Atti del congresso internazionale di diritto romano, vol. cit., p. 391 Id., Zur Lebensgeschichte des Accursius, nella Festschrift für Leopold Wenger, II, München 1945, pp. 223-241 (esame critico particolareggiato della biografia scritta dal Kantorowicz); W. Engelmann, Die Wiedergeburt der Rechtskultur in Italien, Leipzig 1938, pp. 202-204 (sull'autorità acquistata dalla Glossa e su quella personale d'A.); P. Addeo, Eva togata, Napoli 1939, pp. 19-22 (rassegna di ciò che si trova scritto intorno, alla pretesa figlia d'A.); F. Calasso, Introduzione al diritto comune, Milano 1951, p. 337 (sull'autorità d'A. in Brasile); Id., Medio evo del diritto, I, Milano 1954, pp. 542-544; G. Astuti, L'edizione critica della Glossa Accursiana, negli Atti del congresso internazionale di diritto romano e di storia del diritto (Verona 27-28-29-IX-1948), I, Milano 1953, pp. 323-336; D. Maffei, Gli inizi dell'umanesimo giuridico, Milano 1956, pp. 45-55.