ACCRESCIMENTO
(I, 270; App, II, I, p. 11; III, I, p. 10)
Botanica. − L'obiettivo più importante nello studio dell'a. delle piante è comprendere come l'organismo vegetale si sviluppi partendo da una singola cellula, riproduttiva o vegetativa. Con le colture in vitro è stato dimostrato che le cellule vegetali sono potenzialmente capaci di a. illimitato. Esse, dividendosi, possono produrre indefinitamente una massa (callo) di cellule indifferenziate; ma, quando sono parte di una struttura organizzata, la crescita è soggetta a regolazione, e in tal caso è limitata. In seno alla massa di cellule che si formano per proliferazione di un espianto insorgono, in condizioni adatte di coltura, processi di morfogenesi, che hanno come risultato un'intensa attività organotipica.
Nel mondo vegetale ricorrono due tipi di organizzazione: quello delle piante inferiori (alghe, funghi) e quello delle piante superiori. Le prime hanno un corpo, detto tallo, che consta di una sola o di molte cellule che hanno tra loro legami meno stretti di quelli che intercorrono tra le cellule del corpo delle piante superiori, detto cormo, che è distinto in tre tipici membri morfologici (radice, fusto, foglia) e ha tessuti differenziati.
Diversamente dagli animali, il ciclo ontogenetico delle piante si svolge con alternanza di generazioni: vi si succedono una generazione diploide (sporofito) che si conclude con la produzione, per meiosi, di spore aploidi, le quali originano gli individui della generazione aploide (gametofiti); questa termina con la produzione dei gameti, che, fondendosi nell'atto fecondativo, iniziano un nuovo sporofito.
Nelle piante inferiori la generazione aploide è generalmente quella preponderante, mentre quella diploide ha durata e dimensione ridotte, talora essendo limitata al solo zigote. Nelle piante superiori, invece, la generazione sporofitica (diploide) occupa la maggior parte della vita e quasi tutto il corpo della pianta, mentre quella aploide è molto ridotta di dimensioni e limitata nel tempo; essa è contenuta nei fiori.
Processi di a. hanno luogo sia nella fase aploide che in quella diploide del ciclo ontogenetico e comportano l'incremento definitivo e irreversibile del numero delle cellule che costituiscono l'organismo. L'a. non si può tuttavia considerare come un mero aumento di massa. L'aumento di volume è accompagnato da cambiamenti di forma attraverso un processo di trasformazione morfologica che ha come risultato l'integrazione anatomica e funzionale dell'organismo.
I fattori che controllano l'a. sono: a) genetici; b) di correlazione interna, specialmente connessi all'azione di ormoni; c) ambientali.
Una cellula in grado di produrre tutte le sostanze necessarie al suo a. e metabolismo è di per sé un organismo autonomo (per es. molte alghe unicellulari). Organismi del genere possono svilupparsi originando masse di cellule, con o senza forma specifica, che danno luogo ad aggregati di individui, detti colonie, in cui ciascun elemento mantiene una sua indipendenza, ancorché la crescita spesso sia legata alla contiguità di molte cellule e alla adeguata concentrazione nel mezzo delle sostanze da esse prodotte.
Negli organismi pluricellulari, il piano generale di costruzione della pianta si delinea già nelle primissime fasi del suo sviluppo. Il gamete femminile fecondato (zigote), o ogni altra cellula capace di proliferare, è totipotente e assomma in sé le potenzialità per ogni tipo di crescita di cui la specie è suscettibile. Nelle piante inferiori, il nuovo individuo si sviluppa direttamente dallo zigote o da una spora. Nelle piante superiori, quando lo zigote, immediatamente o dopo un periodo di quiescenza (che può durare anche diversi mesi) comincia a svilupparsi, si forma l'embrione.
Accrescimento dell'embrione. − Una serie di 5÷10 divisioni cellulari trasforma lo zigote in una sferula di 2-4-8-16... cellule indifferenziate finché si raggiunge una tappa estremamente importante dello sviluppo, nella quale l'embrione in formazione perde la forma sferica e acquista quella allungata, che la pianta conserverà poi stabilmente. L'embrione è la struttura, propria delle piante terrestri, che consta a una estremità di un apice caulinare con uno, due o più primordi di foglie, e all'altra di un apice radicale. Le piante in cui è presente l'embrione furono un tempo designate nella sistematica come Embriofite (Briofite e Pteridofite con solo embrione; Gimnosperme con embrione contenuto nel seme; Angiosperme con seme contenuto nel frutto; Gimnosperme e Angiosperme, in quanto provviste di semi, furono anche dette Spermatofite).
Nella crescita embrionale, l'organismo vegetale, a differenza di quello animale, non passa allo stadio di gastrula, e ciò determina una profonda differenza nello schema di architettura dell'organismo, che è tipicamente cavitario negli animali, bipolare, con lo sviluppo di meristemi apicali, nelle piante superiori. Queste ultime hanno a. illimitato, secondo un sistema aperto, per quanto riguarda l'attività dei meristemi, per cui nel ciclo biologico si ripetono periodicamente gli stessi processi organogenetici (embriogenia continuata).
Attività dei meristemi. − L'embrione delle Briofite e delle Pteridofite si sviluppa subito producendo il nuovo sporofito; quello delle Spermatofite, completato l'a., entra, fino al momento della germinazione, in una fase di quiescenza, in cui, a differenza di ogni altro stadio di vita della pianta, sopporta una quasi totale disidratazione, condizione mortale in ogni altra fase della vita vegetale.
Conseguenza immediata della polarità instaurata nell'embrione è che quand'esso germoglia le zone meristematiche apicali si allontanano l'una dall'altra. Mentre inizialmente tutte le cellule dell'embrione si dividono attivamente, successivamente la capacità di dividersi resta riservata ai due gruppi di cellule meristematiche situate ai due poli opposti di esso, da uno dei quali dipende l'a. radicale, dall'altro quello caulinare.
Il fusto (caule) e la radice si allungano quindi in direzioni opposte; pertanto i gruppi di cellule meristematiche apicali si allontaneranno sempre più in quanto saranno separati da una massa di cellule adulte, molto grande nelle piante di notevoli dimensioni, organizzate in tessuti. Lamine sottili di meristemi intercalari, che percorrono tutta la pianta connettendosi a quelli apicali, provvedono all'a. in spessore.
I tessuti provengono tutti dai meristemi. Ogni tessuto è specializzato per una funzione e si ha in tal modo una suddivisione del lavoro al livello organismico, così come si ha una suddivisione del lavoro cellulare in ciascuna cellula, ripartito fra gli organelli cellulari. L'esistenza dei tessuti è il carattere fondamentale che distingue le piante superiori (o piante tissulari) dalle tallofite (dette anche piante cellulari), nelle quali ultime il nesso tra le cellule è di tipo coloniale. Le cellule di un vero tessuto hanno lamella mediana, porocanali e plasmodesmi, che stabiliscono tra esse una rete di comunicazioni, mediante la quale si realizza uno scambio di messaggi chimici, che concorrono alla coordinazione tra le funzioni degli organi. I tessuti sono organizzati in sistemi (tegumentario, conduttore, fondamentale) disposti in continuità nella pianta, del cui corpo determinano l'unità.
Le cellule meristematiche si accrescono per divisione. Con la divisione cellulare aumenta il numero delle cellule. Le cellule figlie crescono a loro volta fino a raggiungere le dimensioni della cellula madre. Le cellule embrionali si dividono frequentemente, ma il loro numero resta pressocché costante nel tempo, perché un certo numero di esse inizia la via del differenziamento, con cui si trasformano in cellule adulte di qualche tessuto. Avviene spesso che le due cellule meristematiche originate dalla stessa mitosi seguano, nel differenziamento, strade diverse, oppure che una si differenzi e l'altra resti allo stato meristematico.La maturazione di una cellula meristematica in cellula adulta comporta: a) a. per distensione, processo rapido, stimolato dall'auxina, che implica l'estendersi della superficie della parete cellulare, con l'allungamento preferenziale in una direzione dello spazio, da cui deriva la forma allungata più frequente nelle cellule; l'aumento di volume può in qualche caso essere anche di 1000 volte rispetto alle dimensioni della cellula embrionale; b) accentuazione dei caratteri propri della cellula vegetale: deposizione della parete cellulare, sviluppo dei plastidi, formazione dei vacuoli; c) perdita della capacità di dividersi.
Durante la distensione si ha sintesi di polisaccaridi di parete e di componenti dei plastidi, e un forte ingresso di acqua in concomitanza con l'espansione dei vacuoli. La cellula vegetale è racchiusa all'interno della sua parete, una struttura complessa di microfibrille di cellulosa su una matrice di emicellulosa e proteine, e tanto robusta da resistere alla pressione di turgore (di circa 2 atm) di norma esistente nella cellula. Affinché la cellula possa crescere, man mano che il protoplasto s'ingrandisce, è necessario che la parete si tenda e sia più plastica. La distensione cellulare, la regolazione del trasporto attraverso membrana e dell'attività dei geni, l'influenza sull'attività dei prodotti dei geni stessi, sono, per quanto risulta finora, sotto il controllo degli ormoni regolatori dell'a., che per esplicare il loro effetto si legano a specifici siti cellulari, come le proteine di membrana. Le attive ricerche in atto in molti laboratori, specialmente con l'auxina (IAA), tendono a chiarire i meccanismi di azione, che finora non sono stati determinati.
L'a. è parte dello sviluppo, che può considerarsi l'insieme della crescita (aumento irreversibile di sostanza vivente) e del differenziamento (modificazione qualitativa di forma e funzione). La regolazione di questi processi avviene all'interno delle cellule, fra le varie cellule e tra le cellule e l'ambiente. La regolazione intracellulare si realizza mediante l'attivazione genica e l'inattivazione differenziale di geni o gruppi di geni, cosicché viene modulata selettivamente l'attività del DNA. La regolazione intercellulare si esplica con l'intervento delle sostanze regolatrici della crescita, messaggeri chimici, attivi a basse concentrazioni, con siti di sintesi e siti di azione separati, e relativamente scarsa specificità rispetto all'organo bersaglio e all'effetto che determinano. La regolazione dovuta a fattori ambientali dipende, oltre che dalla temperatura, dalla disponibilità di acqua, di luce, di sostanze nutritive. La morfogenesi di un organismo vegetale si prospetta, a un tempo, da un lato come automorfosi endogena, controllata geneticamente dalla costituzione ereditaria e responsabile della forma specifica, e dall'altro come una eteromorfosi, indotta esogenamente dai fattori ambientali, resa possibile nei limiti imposti dal genotipo e controllati dall'attivazione genica.
Bibl.: G. Sembdner, D. Gross, H. W. Liebisch, G. Schneider, Biosynthesis and metabolism of plant hormones, in Encyclopaedia of Plant Physiology, vol. 9, Berlino 1980, pp. 281-390; Advanced plant physiology, a cura di M. B. Wilkins, Marshfield (Mass.) 1984; F. B. Salisbury, W. R. Cleon, Fisiologia vegetale, trad. it., Bologna 1985; L. Stryer, Biochimica, trad. it., ivi 19872.
Fisiologia umana. − I fattori di accrescimento nell'uomo. − Le recenti acquisizioni sull'azione di composti proteici e peptidici sulla proliferazione cellulare e la conoscenza del loro meccanismo di azione a livello molecolare hanno contribuito a chiarire gli intricati processi che si svolgono in maniera ordinata durante l'a. e lo sviluppo degli organismi e a intravedere i meccanismi che stanno alla base della crescita disordinata delle cellule cancerogene e del conseguente sviluppo dei tumori.
I primi fattori di a. a essere scoperti e studiati sono stati quelli del nervo e dell'epidermide, chiamati rispettivamente NGF e EGF (Nerve Growth Factor e Epidermal Growth Factor), denominazione con cui oggi si usa indicare tutti i fattori di a. conosciuti. Negli ultimi venti anni si è avuta la crescita tumultuosa dei fattori di a. e fino a oggi ne sono stati identificati circa una ventina.
La scoperta dell'NGF origina dall'osservazione fatta nel 1948 da E.D. Bueker che il volume del tessuto innervato determina il grado di sviluppo dei neuroni spinali sensitivi e motori che interessano il tessuto. Bueker vide che il trapianto di un sarcoma nell'embrione di topo causa un notevole aumento della grossezza dei gangli che si trovano nella regione del trapianto. Furono R. Levi-Montalcini e V. Hamburger a dimostrare nel 1951 che a ingrossarsi non sono soltanto i gangli più vicini al tumore, ma anche quelli più lontani. Da qui il sospetto che gli effetti osservati potessero essere dovuti alla liberazione da parte del tessuto tumorale di un fattore diffusibile che stimola la crescita delle cellule nervose, fattore che fu chiamato NGF. Levi-Montalcini dimostrò anche che, se si coltiva in vitro il sarcoma insieme ai gangli sensitivi e simpatici oppure se si aggiunge un estratto del tumore alle colture dei gangli, si ha la crescita imponente di fibre nervose dagli espianti gangliari. Successivamente fu mostrato che l'NGF non agisce solo sul sistema nervoso periferico simpatico e sensitivo, ma anche sul cervello. Mentre però i neuroni del simpatico usano come trasmettitori chimici le catecolammine (noradrenalina e dopammina) e le cellule nervose sensitive certi neuropeptidi, nel cervello l'NGF agisce sui neuroni colinergici come quelli che degenerano nei morbi di Alzheimer e di Hungtington (corea).
Nel 1960 S. Cohen, usando come sorgente di fosfodiesterasi il veleno dei serpenti per purificare il fattore di crescita dagli estratti di sarcoma, vide che il secreto salivare è esso stesso ricco di NGF e constatò subito dopo che anche la ghiandola sottomascellare del ratto maschio adulto è una fonte insospettata di NGF. Fu su questa base che gli sforzi furono diretti alla purificazione del fattore estratto da quest'ultima sorgente, alla caratterizzazione delle catene polipeptidiche, alla determinazione della loro sequenza amminoacidica, alla preparazione di anticorpi.
L'NGF dalla ghiandola sottomascellare di topo (e dal veleno dei serpenti Crotalidi, Viperidi ed Elapidi ) è una proteina di peso molecolare 13.250 dalton formata da 118 amminoacidi con tre ponti disolfuro, associata a due altre proteine che servono alla sua attivazione e protezione. Questo complesso è chiamato anche 7 S dal valore del suo coefficiente di sedimentazione. Iniettando gli anticorpi anti-NGF in topi e ratti neonati, Levi-Montalcini ottenne animali privi di sistema nervoso simpatico.
Nel 1979 fu visto che anche la prostata della cavia è una sorgente di NGF altrettanto ricca della ghiandola sottomascellare e del veleno dei serpenti. La presenza del fattore in questi organi sembra sprovvista di qualsiasi significato funzionale. Recentemente però Levi-Montalcini ha trovato che l'NGF compare nel sangue del topo maschio negli stati prolungati di lotta e di aggressione. Nessun altro fattore di stress causa lo stesso effetto. Il fattore agisce sul sistema endocrino. Infatti la somministrazione giornaliera di NGF al topo induce un ingrossamento delle ghiandole surrenali.
Nel corso dei suoi studi sul fattore di a. nervoso Cohen vide che, se si inietta un estratto crudo di ghiandola sottomascellare di topo in un topino appena nato, si osservano effetti collaterali oltre quelli specifici dovuti alla presenza di NGF. Fra questi, l'apertura precoce degli occhi (al 6°÷7° giorno invece che al 12°÷14°) dovuta alla cheratinizzazione precoce dell'epidermide delle palpebre. Gli stessi effetti non si manifestano con NGF purificato, il che indicava la presenza negli estratti di un fattore addizionale.
Nel 1960 Cohen isolò dalla ghiandola sottomascellare di topo un altro fattore di a. che chiamò Epidermal Growth Factor (EGF). Gli esperimenti su cellule epidermiche coltivate in vitro indicarono che il fattore stimola direttamente la proliferazione di cellule epidermiche nelle colture di pelle di embrione di pollo. L'EGF è un polipeptide di 53 amminoacidi con peso molecolare di 6045 dalton. È sprovvisto di residui di alanina, fenilalanina e lisina e ha tre ponti disolfurici interni.
Chimicamente l'EGF è identico all'Urogastrone e, come questo, inibisce la secrezione acida nello stomaco. È efficace infatti per il trattamento delle ulcere gastriche. Fra le altre applicazioni, l'EGF è entrato nel trattamento e nella terapia delle ustioni.
È noto da molto tempo che le colture in vitro richiedono l'aggiunta di siero e che la proliferazione cellulare è proporzionale alla quantità di siero usata. È stato dimostrato che le piastrine durante la coagulazione del sangue liberano un potente mitogeno che stimola la proliferazione di numerosi tipi cellulari fra cui le fibre muscolari dei vasi, le cellule gliari e i fibroblasti.
R. Ross e A. Vogel nel 1978 scoprirono nel siero umano la proteina responsabile che chiamarono PDGF (Platelet Derived Growth Factor); sono state identificate quattro forme proteiche con pesi molecolari da 27.000 a 31.000 dalton. Ogni proteina è formata di due catene polipeptidiche legate da ponti sulfidrilici. Il PDGF è la proteina mitogena più importante del siero e da esso dipende lo sviluppo della muscolatura liscia delle arterie.
La presenza di una sostanza capace di stimolare la proliferazione dei fibroblasti era stata descritta nel 1968 da R.W. Holley e J.A. Kiernan. Successivamente, nel 1974, D. Gosparodowicz estrasse e purificò la sostanza dall'ipofisi e la chiamò FGF (Fibroblast Growth Factor). È una proteina basica di circa 14.000 dalton. Recentemente il fattore è stato trovato anche nella placenta, nel corpo luteo, nel rene e nella ghiandola surrenale ed è stato dimostrato che stimola la proliferazione non solo dei fibroblasti ma anche delle cellule endoteliali dell'endocardio e di grossi vasi (aorta, arteria polmonare, vena ombelicale, vena cava, ecc.).
Partendo dal concetto che l'angiogenesi, cioè l'induzione della formazione dei vasi sanguigni, è necessaria per lo sviluppo dei tumori e per la formazione delle metastasi, per molto tempo si è andati alla ricerca di fattori di a. vascolari, ma solo nel 1985 B.L. Vallee e i suoi collaboratori sono riusciti a ottenere in forma pura e a caratterizzare una proteina dalle cellule di adenocarcinoma umano che è stata chiamata Angiogenina. La proteina ha peso molecolare di 14.000 dalton ed è formata di una sola catena polipeptidica di cui è stata determinata la sequenza. È stata determinata anche la sequenza nucleotidica del gene che codifica l'angiogenina. La clonazione del gene consente oggi di preparare quantità adeguate della proteina per studiare in maniera dettagliata le sue proprietà biochimiche e fisiologiche.
Anche l'FGF, come è stato ricordato, agisce sulla proliferazione dei tessuti vasali. E recentemente altri due fattori, il TGF-· (Transforming Growth Factor-·) e il TNF-· (Tumor Necrosis Factor−·), si sono aggiunti alla lista dei fattori per l'angiogenesi.
C'è da chiedersi se tutti questi fattori partecipano veramente all'a. dei vasi. L'angiogenesi è un processo così importante (si pensi alla guarigione delle ferite) che una certa ridondanza biochimica appare giustificata. Adesso che questi fattori sono stati identificati chimicamente, se ne potrà studiare la funzione in vivo.
Nel 1981 fu identificata da A. Richmond e altri nel terreno di coltura per le cellule di melanoma una proteina che è stata chiamata MGSA (Melanoma Growth Stimulating Activity). Ciò ha condotto alla scoperta di un'altra famiglia di proteine che regolano la divisione cellulare e che, come tutti gli altri fattori di a., esplicano un vasto raggio di azione. Il MGSA è prodotto anche da altri tipi di cellule quando proliferano in maniera abnorme, comprese le cellule del polmone, del rene, della prostata e della pelle.
Le proteine chiamate Fattori Ematologici di Accrescimento stimolano il midollo osseo a produrre globuli bianchi e rossi. I fattori che attivano numerose forme di globuli bianchi vanno sotto il nome di Linfochine e di Interleuchine. Due importanti linfochine sono il fattore di inibizione della migrazione dei macrofagi detto MIG e il fattore di a. dei linfociti T (detto anche Interleuchina 2).
Ancora dalle ghiandole salivari è stata purificata una nuova proteina di 56.000 dalton che è nello stesso tempo una linfochina e un fattore neurotropico. Essa è stata chiamata perciò Neuroleuchina. Questo fattore stimola la crescita dei neuroni spinali motori e sensitivi che sono insensibili all'NGF ma è inefficace sui neuroni simpatici.
Di ogni fattore di a. sono state ricercate e identificate le cellule bersaglio. Ricerche svolte con fattori di a. marcati hanno indicato chiaramente che l'interazione di questi segnali extracellulari con le cellule bersaglio comincia con la formazione rapida di un legame altamente specifico con i recettori presenti nella membrana cellulare. Le proprietà strutturali e funzionali di questi recettori sono oggetto di numerose ricerche da cui appare che la formazione del complesso recettore-fattore di a. causa l'attivazione del recettore. Questo comporta la liberazione di una loro particolare attività enzimatica, quella cioè di fosforilare i residui tirosinici di proteine. È noto che ci sono molte chinasi che svolgono un ruolo importante nella regolazione cellulare ma essi fosforilano la serina e la treonina, non la tirosina. Questi recettori dei fattori di a. hanno invece attività di tirosinchinasi. Essi sono formati di una porzione polipeptidica extracellulare che lega il fattore di a. ed è connessa attraverso la membrana a una porzione polipeptidica citoplasmatica dotata di attività tirosin-chinasica. Le proteine bersaglio modificate nei residui tirosinici a loro volta influenzano, in modo ancora largamente sconosciuto, il metabolismo cellulare in senso proliferativo.
I fattori di a., se da un lato regolano la crescita controllata delle cellule, dall'altro sono anche strettamente interconnessi con gli oncogèni, quei geni che sono coinvolti nella genesi e nell'a. dei tumori. È stata trovata una stretta relazione strutturale e funzionale fra alcuni fattori di a. e alcuni oncogèni. L'oncogène erbB codifica una proteina che è eguale alle porzioni del recettore dell'EGF che sono immerse nella membrana citoplasmatica. Questa proteina equivale al recettore nella forma attivata per cui fornisce un segnale proliferativo continuo come se l'EGF fosse sempre presente. L'oncogène sis codifica per una proteina molto simile al PDGF determinando la stimolazione proliferativa continua delle cellule che hanno il recettore per PDGF. Altri oncogèni codificano per proteine che sono coinvolte nella trasmissione di segnali attraverso la membrana citoplasmatica o per proteine che legano il DNA e ne regolano la trascrizione.
Gli oncogèni codificano perciò proteine già presenti ed espresse dalle cellule e dai tessuti normali, proteine che però funzionano in maniera non regolata, svincolando così la cellula neoplastica da una coordinata e armoniosa attività proliferativa.
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