accuse e calunnie
Di a. e c., in quanto fattori rilevanti sul piano pubblico e politico, trattano due capitoli contigui e strettamente correlati dei Discorsi (I vii-viii). La distinzione proposta da M. sottintende quella giuridica tradizionale, secondo la quale a caratterizzare la accusatio (rispetto alla maledictio) è la sua pertinenza processuale (cfr. almeno Cicerone, Pro Caelio 6: Accusatio crimen desiderat, rem ut definiat, hominem ut notet, argumentum probet, teste confirmet; maledictio autem nihil habet propositi, praeter contumeliam; «l’accusa richiede un’imputazione, che definisca un fatto, ne individui l’autore, dimostri una tesi e la confermi con un testimone; la calunnia non aspira che a recare un insulto»). Tuttavia l’interesse di M. per il tema è strettamente istituzionale. È qui assente ogni richiamo alla tradizionale condanna moralistica della calunnia (prodotta dalla malevolenza dei singoli o dall’ingratitudine popolare nei confronti dei potenti), frequente presso cronisti, poeti e trattatisti, tra antichità e Umanesimo (utili rinvii in Sasso 1993, pp. 504-05; Bausi 2001, pp. 50 e segg.; Pedullà 2011, pp. 138-39): la questione della calunnia diventa così per M. «un problema di interpretazione storica e, insieme, di teoria» (Sasso 1993, p. 504). A. e c. sono espressioni di un medesimo risentimento o malcontento nei confronti di uno o più cittadini, ma le prime si distinguono dalle seconde per la loro visibilità istituzionale.
Il tema è significativamente trattato subito dopo i capitoli dei Discorsi che fissano le basi istituzionali dello Stato: fondazione della città (I i); discussione teorica sulla stabilità delle costituzioni (I ii); tribunato della plebe romano (I iii); istituzionalizzazione del dissenso (I iv-vi). Le accuse risultano tra gli strumenti necessari alla conservazione della libertà (come chiarisce il titolo di I vii: Quanto siano in una republica necessarie le accuse a mantenerla in libertade), cioè a garantire il corretto funzionamento delle istituzioni repubblicane, sia contribuendo a preservarle dalle prevaricazioni di privati potenti, dissuasi così dal ‘tentare’ «cose contro allo stato» (I vii 4), sia aprendo una via legale e non rivoluzionaria all’espressione del Viene così stabilito un nesso diretto con il concetto di «guardia della libertà» (su cui cfr. I v): deve essere predisposta la possibilità di accusare («al popolo o a qualunque magistrato o consiglio») i cittadini che operassero «in alcuna cosa contro alla stato libero» (I vii 2).
Il tema delle a. e c. può essere perciò letto come un’articolazione particolare ma concettualmente fondamentale del problema della istituzionalizzazione del dissenso, cioè della possibilità di dare voce agli ‘umori’ (istanze, passioni, interessi) che si agitano all’interno della società, evitando che essi si esprimano nelle forme non istituzionali, e perciò destabilizzanti, della protesta di piazza incontrollabile e soggetta a degenerazione (nel lessico machiavelliano: ‘tumulto’ e derivati). Come bene rivela un’analisi delle occorrenze semantico-concettuali dei capitoli I vii-viii. All’area concettuale di I iv-vi rinvia infatti il ricorso al lessico medico-naturalistico degli ‘umori’, che devono trovare una via attraverso la quale ‘sfogarsi’ (il verbo sfogare/sfogarsi ricorre ben sette volte in I vii, in tre delle quali strettamente connesso al concetto di ‘ordine’: «sfogarsi ordinariamente», § 5; «via da sfogarsi ordinata dalle leggi», § 6; «ordine da potere […] sfogare i maligni omori», § 17). Significativamente M. parla nello stesso capitolo di ‘ordine’ («questo ordine fa dua effetti utilissimi a una republica», § 3), termine che nel suo lessico designa le leggi fondamentali dello Stato, la sua architettura istituzionale (cfr. la distinzione ordini/leggi presente in I xviii 8-11), ed è anzi il principale generatore semantico del capitolo, completamente incentrato sulla contrapposizione concettuale tra ordinario e straordinario.
La contrapposizione tra ordinario e straordinario è strettamente connessa a quella tra pubblico e privato. Il sistema istituzionalizzato delle accuse sottrae gli effetti dell’odio all’azione destabilizzante dei privati, che comporterebbe il consolidarsi di reti illegittime di protezione e di autodifesa, quelle appunto connesse al costituirsi di ‘parti’ e ‘partigiani’.
Così, in I vii 10, analizzando l’esempio antico di Coriolano (da Livio II 33-35): se Coriolano fosse stato ucciso «tumultuariamente», e non accusato pubblicamente «ne nasceva offesa da privati a privati, la quale offesa genera paura, la paura cerca difesa, per la difesa si procacciano partigiani, da’ partigiani nascono le parti nelle cittadi, dalle parti la rovina di quelle». Osservazioni che anticipano il nesso tra ‘divisioni’, ‘modi privati’ di lotta, ‘partigiani’ e ‘parti’ che nelle Istorie fiorentine (cfr. soprattutto VII i) M. indicherà come tratto distintivo del carattere degenerato delle forme della lotta politica nella storia di Firenze. La contrapposizione tra esempio negativo fiorentino e modello positivo romano regge del resto la struttura dell’esemplificazione storica nei capitoli I vii-viii dei Discorsi. In I vii i due esempi negativi fiorentini sono piuttosto recenti: il primo riguarda il caso di Francesco Valori e gli scontri armati tra la «setta» dei sostenitori ‘piagnoni’ (savonaroliani) e quella avversaria degli ‘arrabbiati’ (filomedicei), nel 1497-98; il secondo riguarda le tensioni tra Piero Soderini e l’opposizione ottimatizia nei primi anni del Cinquecento. Ma, secondo la proposta di Larivaille (1982, pp. 54-55), anche l’esempio negativo fiorentino (di calunnia non perseguita e punita) citato in I viii – che riporta un episodio del 1430 (Luigi Guicciardini, commissario della guerra contro Lucca, calunniato di avere intesa con il nemico) – adombrerebbe le polemiche relative alla condotta della guerra contro Pisa nel 1509.
Ciò che indicherebbe come la riflessione sottesa al tema a. e c., pur costituendo una risposta di alto profilo teorico e tale da toccare temi fondamentali del pensiero politico machiavelliano, sia nata per sollecitazione diretta di eventi della recente esperienza della Repubblica del gonfaloniere a vita Piero Soderini (1502-12).
Il capitolo sulle calunnie, I viii (il cui legame con il capitolo precedente è esplicito nel titolo: Quanto le accuse sono utili a le republiche, tanto le calunnie sono perniciose), conferma l’orizzonte istituzionale (relativo agli ‘ordini’: con almeno undici occorrenze, nelle varie articolazioni di «ordine»; «ordinatore»; «disordine») caratteristico del precedente, con il quale ha un rapporto di evidente complementarità: essendo le calunnie destabilizzanti dell’ordine pubblico, una
buona costituzione deve, per «reprimerle», fare in modo di «non perdonare a ordine alcuno che vi faccia a proposito. Né può essere migliore ordine a torle via che aprire assai luoghi alle accuse» (§§ 8-9).
L’orizzonte costituzionale del tema trova conferma nelle precisazioni del termine luoghi («dare luoghi alle accuse»), che indica le sedi appropriate della rappresentanza politica contrapposte agli spazi cittadini generici, i luoghi di incontro della socialità non istituzionalizzata: «accusansi gli uomini a’ magistrati, a’ populi [assemblee], a’ consigli; calunnionsi per le piazze e per le logge» (§ 10).
Il tema è ripreso da Francesco Guicciardini nelle Considerazioni sui ‘Discorsi’ del Machiavelli (Opere, 1° vol., 1970, pp. 620-24) che, oltre a indicare (come si addice a un giurista quale messer Francesco) le necessarie cautele di garanzia dei diritti del singolo, bene coglie nelle pagine di M. il nesso che collega teoria e riflessione sul recente passato fiorentino: «E certo il modello della Quarantìa di Firenze [tribunale per reati politici istituito al tempo del Soderini] non era male considerato, se si fussino moderate molte cose che erano male disposte» (p. 621).
Bibliografia: C. Lefort, Le travail de l’oeuvre, Paris 1972, pp. 479-87; P. Larivaille, La pensée politique de Machiavel, Nancy 1982, pp. 51-55; G. Sasso, Niccolò Machiavelli, 1° vol., Bologna 1993, pp. 503 e segg..; F. Bausi, commento a N. Machiavelli, Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, Roma 2001, pp. 50-62; G. Pedullà, Machiavelli in tumulto, Roma 2011, pp. 138-47.