acerbo
. Aggettivo usato da D. solo in poesia e, meno che in un caso, sempre in rima. In Pg XI 117, detto dell'erba, e con relazione al significato proprio di " immaturo ", " non giunto a maturità ", vale " tenero ": La vostra nominanza è color d'erba, / che viene e va, e quei la discolora / per cui ella esce de la terra vicerba: " tenella nondum matura " (Benvenuto). In XXVI 55 è attribuito figuratamente al corpo umano, in opposizione a ‛ maturo ': non son rimase acerbe né mature / le membra mie di là, ma son qui meco: " né acerbe, scilicet in iuventute, né mature, scilicet in senectute " (Benvenuto). Infatti " ogni volta che si muore inanti la vecchiaia rimangono le membra acerbe " (Buti). D. vuol dunque dire ai lussuriosi del Purgatorio di non aver lasciato sulla terra né il suo corpo giovane né il suo corpo vecchio, cioè di non esser morto né vecchio né giovane, ma di avere con sé le proprie membra, di trovarsi ancora in carne e ossa.
In Pd XIX 48, riferito a Lucifero, vale " imperfetto ": 'l primo superbo, / che fu la somma d'ogne creatura, / per non aspettar lume, cadde acerbo, cadde dal cielo (ma nel verbo è anche contenuto il senso della caduta nel peccato) come un frutto non pervenuto a maturazione: " idest intempestive ante totalem perfectionem sui " (Benvenuto), "però che non era venuto a sua perfezione" (Ottimo). Probabile il ricordo di alcune metafore scritturali: " Confringentur enim rami inconsummati, / et fructus illorum inutiles, / et acerbi ad manducandum et ad nihilum apti " (Sap. 4, 5); " Sicut palmes non potest ferre fructum a semetipso, nisi manserit in vite, sic nec vos, nisi in me manseritis. Ego sum vitis, vos palmites; qui manet in me, et ego in eo, hic fert fructum multum " (Ioann. 15, 4-5).
Detto della gente musulmana, che s. Francesco trovò a conversione acerba / troppo (Pd XI 103), sicché preferì tornare al frutto de l'italica erba, ha l'accezione di " insufficientemente evoluta " e quindi " non disposta ", " restia ". Nota opportunamente il Maggini che " tutta la locuzione si avviva dell'idea figurata del frutto e della pianta italiana; sicché, invece di una semplice metafora, abbiamo la visione di un campo rigoglioso che dà buoni frutti: ‛ frutto d'anime ' è espressione cara ai Fioretti di S. Francesco ". Il Buti spiega: " trovò troppo duri quelli Saracini a convertirsi ".
Circa il luogo di Pd XXX 79 Non che da sé sian queste cose acerbe; ma è difetto da la parte tua, che non hai viste ancor tanto superbe, i commentatori, tenendo presente la vicinanza tra a. e difetto, danno generalmente al termine il senso di " difettose ": il fiume, i topazi e le erbe fiorite che D. vede nell'Empireo quali prefigurazioni del loro vero essere, non sono realtà in sé stesse difettose, cioè in un grado inferiore e immaturo del loro sviluppo, ma appaiono diversi dalla loro vera essenza per un difetto delle capacità visive del poeta, ancora inadeguate allo spettacolo paradisiaco. Così spiegano il Buti, il Vellutello, il Torraca, il Porena, il Chimenz e molti altri. Il Lombardi, il Tommaseo e Casini-Barbi invece preferiscono interpretare a. come " dure a penetrarsi, a intendersi ".
Altre volte a. ha il senso di " acre " (cfr. il latino acer), " pungente ", " molesto ", appunto come il sapore di un frutto acerbo: Or drizza il nerbo / del viso su per quella schiuma antica / per indi ove quel fummo è più acerbo (If IX 75), dove il fumo è, cioè, più fastidioso e pungente agli occhi, quindi più fitto: il Boccaccio precisa " più folto, sì come nuovamente prodotto "; l'acerba vita (Vn xxxl 16 65: qui il termine vale più propriamente " travagliata "); e tanto è la stagion forte ed acerba / c 'ha morti li fioretti per le piagge (Rime C 46). Così anche in Rime dubbie VIII 11 e Fiore XI 11.
In relazione ad atteggiamenti fisici o a sentimenti assume il senso di " truce ", " torvo ", " crudele " (cfr. per es. Monte Ahi doloroso 75): e quanto mi parea ne l'atto acerbo (If XXI 32, detto di un diavolo); il sapor de la pietade acerba (Pg XXX 81: il sapore della pietà che si esprime in modi severi); quando vedrò se mai fu bella donna / nel mondo come questa acerba donna (Rime CII 60, con la sfumatura semantica di " sprezzante ", " noncurante di colui che l'ama ").
Sostantivato, in If XXV 18 Ov'è, ov'è l'acerbo?, designa, per bocca di Caco, Vanni Fucci, e vale " l'empio ", " il ribelle ". Notevole il rimando del Tommaseo ai lazzi sorbi di If XV 65 (dove acerbi del codice Gg. 3.6. di Cambridge in luogo di lazzi è per l'appunto chiosa subentrata nel testo), e a Capaneo, dispettoso e torto / sì che la pioggia non par che 'l maturi (nel qual luogo maturi, preferito dal Tommaseo, è variante di marturi). " La pena esercita sul superbo un'azione che ne doma la durezza, l' ‛ acerbità ' che è come quella del frutto non maturo " (Pagliaro, Ulisse 644 n. 16); e cfr. anche Mattalia, in Lect. Scaligera I, 903 n. 2). Ancora sostantivato, ma con valore neutro, in Pd XVIII 3 allude all'amarezza dell'esilio, preannunciata a D. da Cacciaguida: e io gustava / lo mio [pensiero], temprando col dolce [con altre consolanti predizioni dell'avo] l'acerbo: " idest compensans dulcedinem gloriae et honoris, vel dulcedinem vindictae cum acerbitate exili et incommodorum quae sequuntur ad illud " (Benvenuto).
Bibl. - F. Maggini, Parole di D.: acerbo, in " Lingua Nostra " I (1939) 10-12 (rist. in Due letture dantesche inedite e altri scritti poco noti, Firenze 1965, 80-84).