Campanile, Achille
Scrittore, giornalista, commediografo, soggettista e sceneggiatore, nato a Roma il 28 settembre 1899 e morto a Lariano (Roma) il 4 gennaio 1977. Le sue opere sono tra gli esempi emblematici di umorismo paradossale. Il nonsense, le strategie dell'assurdo e la stravaganza, spesso bizzarra, che resero inimitabili la narrativa e il teatro di C. (esemplari Agosto, moglie mia non ti conosco, 1930, Il diario di Gino Cornabò, 1942, Il povero Piero, 1959, o le Tragedie in due battute, raccolte postume nel 1978) passarono in blocco nella sua scrittura cinematografica (cinque soggetti e sei sceneggiature, scritti tra il 1939 e il 1953). Nel 1939 venne introdotto nel mondo del cinema dal padre, Gaetano Campanile Mancini (1868-1942), che era stato nel periodo del muto uno dei maggiori sceneggiatori italiani: fu infatti lui a proporre C. come soggettista di un film di cui era uno degli sceneggiatori, Animali pazzi di Carlo Ludovico Bragaglia, con Totò. L'ulteriore attività di C. in questo campo fu piuttosto saltuaria: scrisse (in collaborazione con altri) i soggetti e le sceneggiature di L'amore si fa così (1939), ancora di Bragaglia, di due film del 1943 di Alfredo Guarini, La zia di Carlo e Senza una donna, e di Il diavolo va in collegio (1945) di Jean Boyer. Dopo una lunga interruzione, tornò al cinema nel 1953 come sceneggiatore (sempre insieme ad altri) di Ho scelto l'amore di Mario Zampi e di Martin Toccaferro di Leonardo De Mitri. C. non lavorava di invenzione, ma in levare, semplificando. La forza del suo umorismo è nei perfetti tempi descrittivi con cui far godere capziosamente della possibile assurdità alla base di qualsiasi rapporto umano. Le strutture potevano apparire persino forme di déjà vu: commedie degli equivoci (con annessi doppi sensi e travestimenti, come in La zia di Carlo); scenette da vaudeville, con un che di familiare o quasi di teatrino di provincia, dove anche il gigantesco ciambellone (risultato di un dolce venuto male e alla fine spropositato) si sottrae alla voglia di simboli per restare, in fondo, quello che già è: un goffo e ridicolo pasticcio. Scritture, quindi, dell'assurdo nella migliore tradizione comica novecentesca senza, però, metafisica o intellettualismi. Il surrealismo e il futurismo (assimilati da C. non per via di manifesti, ma attraverso la pratica istintiva di un giornalismo veloce, popolare, immediato, votato alla caricatura e alla vignetta) sono la matrice di un paradosso tutto umano, autoironico, ossessivo e mai malato, come un timbro festoso di barzelletta discreta e amabile. La qualità migliore di C. è dunque nei dialoghi, nella rapidità del capovolgimento linguistico. In questo senso, il suo approdo al cinema risultò naturale: la velocità della sceneggiatura, la simmetria delle battute, trasformarono la leggerezza di un teatrino stravagante in un mondo di stupore, nella pura visionarietà del cinema.
C. De Caprio, Achille Campanile e l'alea della scrittura, Napoli 1990; B.S. Anglani, Giri di parole, Lecce 2000.