GAGLIARDI, Achille
Nacque a Padova, tra la fine del 1537 e l'inizio del 1538, da Ludovico e da Girolama Campolongo. Il padre, "gentiluomo" addottoratosi in diritto, morì assai giovane, e il G., insieme con i fratelli minori, Leonetto e Ludovico, fu affidato alle cure di precettori che lo educarono alle lettere e alla musica. Intorno al 1551 egli iniziò a frequentare le "pubbliche scuole" e a seguire le lezioni di filosofia tenute dal Genua (Marcantonio de' Passeri), lettore nell'Ateneo patavino dal 1531.
Un clima di fermento era originato, in quegli anni, dall'interpretazione di Aristotele offerta dal Genua sulla base del commentatore greco Simplicio, in contrasto con quanti invece si attenevano alla dottrina averroista, ancora dominante a Padova. Il G. non ne restò estraneo, partecipando agli incontri accademici e distinguendosi per le sue capacità e per la fedeltà al maestro, che propugnava una sostanziale concordanza tra il pensiero dello Stagirita e quello di Platone.
In questo periodo il G. e i suoi fratelli entrarono in contatto con i predicatori Edmond Auger e Benedetto Palmio. Ne seguì una decisione che a Padova fece scalpore: dopo la morte della madre, nel 1558, i tre fratelli maturarono indipendentemente l'iniziativa di entrare nella Compagnia di Gesù. Pertanto, nel settembre 1559, dopo aver rinunciato in favore dell'Ordine all'eredità (non senza rimostranze e azioni legali da parte dei parenti), il G., insieme coi fratelli e altri giovani, tra cui Antonio Possevino, raggiunse la casa professa di Roma e fu iscritto al tirocinio.
Studente in teologia, nel 1562 ebbe l'incarico di insegnare presso il Collegio Romano. Tenne, con buon successo, lezioni di etica (1562-63), logica (1563-64), fisica o filosofia naturale (1564-65), metafisica (1565-66).
Le convinzioni filosofiche portarono il G., nel 1567, a una prima, violenta polemica dottrinaria: accusò di averroismo il confratello Benedetto Perera e riuscì - con l'appoggio di Giacomo Ledesma e Cristoforo Madrid, vicini al preposito generale Francesco Borgia - a impedire la pubblicazione di un suo compendio di filosofia per le scuole dell'Ordine.
Addottoratosi in teologia nel 1568, il G., che fin dal 1563 si era imposto all'attenzione dei superiori per un possibile incarico negli istituti di educazione della Compagnia, fu nominato rettore del collegio di Torino.
Iniziò la sua attività nel marzo 1568, dirigendo i propri sforzi verso un generale potenziamento della presenza dei gesuiti nella vita religiosa e sociale di Torino, dove gli pareva "espedientissimo che la Compagnia vi pianti un fermo presidio per resister all'heresia" (lettera a F. Borgia, 1° giugno 1568, Arch. Rom. Soc. Iesu, Epp. Italiae, 136, c. 72r). In particolare curò l'apertura di un convitto per giovani nobili e di una "scola" più accessibile, di impronta umanistica, prendendo contatti con personaggi di spicco della corte sabauda interessati al progetto e disposti a finanziarlo. Inoltre, secondo un collaudato indirizzo della Compagnia in quegli anni, tenne prediche e lezioni in duomo su casi di coscienza, con grande partecipazione di esponenti della corte: portò a termine, in occasione della quaresima del 1569, una missione di evangelizzazione a Luserna e nelle valli vicine; promosse e diresse alcune congregazioni di laici di carattere religioso.
Un'attività di così ampio respiro doveva però suscitare gelosie nelle autorità religiose della città. Già nell'estate 1569 giunsero al preposito generale F. Borgia alcuni memoriali che accusavano il G. di ambizione e spregiudicatezza nel rapporto con la corte sabauda e di inefficienza nella direzione del collegio. Il G. pose il suo mandato a disposizione dei superiori, ma riuscì a giustificarsi e a ottenere nuovamente fiducia.
Negli anni immediatamente successivi poté constatare la buona riuscita delle istituzioni scolastiche da lui promosse, anche per l'appoggio del duca Emanuele Filiberto. Tuttavia le maggiori difficoltà gli erano causate dalla preoccupazione di provvedere al necessario sostegno finanziario: infatti, i suoi progetti di razionalizzazione del patrimonio del collegio, ricorrendo a misure come lo scioglimento di alcuni sterili contratti di enfiteusi, in cambio di beni "d'una proprietà ferma e stabile" (lettera a G. Nadal, 14 ag. 1571, ibid., 141, c. 246r), destavano molte perplessità e nuocevano all'immagine della Compagnia, già al centro di critiche per la sua intraprendenza.
Nell'autunno del 1572 il G. fu inviato a tenere la cattedra di teologia scolastica nell'istituendo collegio-università di Brera, a Milano. Tuttavia, nonostante avesse ricevuto il permesso di partire, non assunse l'incarico, per le insistenze del duca di Savoia, con il quale, dopo un periodo di freddezza, aveva ora buoni rapporti. Difatti l'attività del G. a favore della corte sabauda si spingeva in ambiti assai diversi da quello spirituale: egli si fece carico di mediazioni con la S. Sede su materie giurisdizionalistiche e beneficiarie e addirittura, nel 1572, di vere e proprie missioni diplomatiche (a Ferrara e forse a Roma), peraltro fortemente stigmatizzate dai superiori. Così, neanche l'intervento di Carlo Borromeo valse a fargli lasciare Torino.
Il buon accordo tra i gesuiti e il duca Emanuele Filiberto parve però tramontare a causa delle controversie sull'eredità di Alerame Beccuti, nobile vicino alla Compagnia, morto nell'inverno 1574. Il duca si era impadronito di parte di quei beni, nonostante i legati a favore del collegio torinese. Il G. si adoperò, sin dal marzo 1574, per una mediazione tra il duca, i vertici gesuiti romani e la S. Sede, ma l'irrigidimento delle parti lo scoraggiò a tal punto da manifestare un "desiderio vehemente di levarmi di questi fastidi" (lettera a E. Mercurian, 6 ott. 1574, ibid., 145, c. 106r).
Il nuovo preposito generale, Everardo Mercurian, non tardò ad accontentare il G.: questi, dopo aver ancora atteso al riassetto patrimoniale del collegio torinese e allo scioglimento di quello di Mondovì, fu chiamato a Roma, dove giunse nell'autunno 1575 per occupare la cattedra di teologia scolastica.
Nel Collegio Romano il G. trovò un clima assai burrascoso, nel quale si fondevano polemiche dottrinarie e forti contrasti su questioni più generali, quali l'organizzazione e il ruolo della Compagnia. Si schierò ben presto con coloro che univano a una spiccata insofferenza per la crescente gerarchizzazione dell'Ordine una decisa propensione per l'ampliamento del suo raggio d'azione e nel 1578 fu al centro di un episodio clamoroso.
Come dieci anni prima, il G. si oppose - in qualità di professore di teologia e di prefetto agli studi del Collegio - alla pubblicazione degli scritti del Perera, tacciandoli ancora di averroismo e di inopportuna libertà filosofica. Poiché il Perera contava sul parere favorevole del Mercurian, il G., insieme con Gian Pietro Maffei, Benedetto Giustiniani e Benedetto Palmio, assistente d'Italia, pretese di esporre la questione direttamente al papa. Quindi, grazie all'appoggio del confratello Francesco Toledo, assai influente nella corte di Roma, fu ricevuto da Gregorio XIII (6 lug. 1578), al quale tratteggiò un quadro assai fosco delle condizioni della Compagnia, attribuendone la responsabilità al Mercurian. Il papa tuttavia confermò piena fiducia al preposito generale e il G. si trasse d'impaccio rendendo al Mercurian una completa delazione sul movimento a lui ostile. In questo modo riuscì anche a sfuggire a una successiva inchiesta su alcune lettere anonime di protesta fatte circolare dal Giustiniani e dal Maffei all'inizio di dicembre 1578. Ma, essendo noti i legami del G. con i responsabili, egli dovette lasciare Roma e raggiunse Padova nell'ottobre 1579.
Nel 1580 il G. compì la professione dei quattro voti e nella primavera del 1581, dopo la morte di Mercurian e l'elezione del nuovo preposito generale, Claudio Acquaviva, entrò nella commissione incaricata di riformare il piano di studi dei collegi della Compagnia, la Ratio studiorum. In questa occasione ebbe modo di ribadire i rischi di posizioni filosofiche troppo libere e di invocare una forte ripresa delle pratiche spirituali nei collegi, sull'esempio ignaziano. Tuttavia le polemiche non ancora sopite fecero naufragare ogni progetto e il G. fu chiamato a Milano, dove Carlo Borromeo, col quale egli aveva già intrattenuto rapporti epistolari quando era a Torino, stava per intraprendere una visita pastorale nella Mesolcina, valle nei Grigioni a diretto contatto con i territori di confessione riformata. Nel corso del 1583 la missione di evangelizzazione e di repressione dell'eresia, "per via d'instruttione et catechismo" (Rurale, 1992, p. 291), vide il G. impegnato in assidue prediche. Ma già alla fine di quell'anno egli tornò a Milano, dove assunse l'incarico di preposito della casa professa di S. Fedele.
Qui egli prese contatto con Isabella Cristina Berinzaga, devota milanese, particolarmente vicina alla Compagnia, e ne divenne il direttore spirituale. Fu un incontro determinante: il G. poteva approfondire e mettere in pratica le sue teorie suggerendo alla Berinzaga nuovi temi di meditazione e raccogliendo le sue esperienze. Nel contempo il G. elaborava i risultati raggiunti in un testo, il Breve compendio di perfezione cristiana, destinato a un'enorme fortuna nella letteratura spirituale.
Tuttavia l'assidua frequentazione del G. (e di altri gesuiti) con la Berinzaga provocò perplessità negli ambienti religiosi milanesi e negli stessi vertici dell'Ordine, che sul caso avevano promosso un'inchiesta nel 1579. In più, destavano preoccupazione le voci di "illuminazioni" della devota sulla missione affidata ai gesuiti nel quadro del rinnovamento della Chiesa cattolica. Così l'Acquaviva ordinò nuove indagini (nel 1586 e nel 1588), i cui risultati lasciarono ombre sulla condotta del Gagliardi. Su di lui, ormai inviso alle autorità religiose di Milano, e sugli scritti nati dall'esperienza mistica della Berinzaga si concentrarono altresì, nel 1588, le attenzioni dell'Inquisizione, ma il G. seppe fornire adeguata giustificazione del proprio operato.
Nel 1590, in occasione della congregazione provinciale milanese, seguì un nuovo violento attacco al G. e al suo Breve compendio: un confratello, Giovan Battista Vanini, vi ravvisò infatti errori dottrinari, denunciando nel contempo l'ambizione che il G. copriva sotto i pretesti religiosi. L'Acquaviva fece esaminare il trattato a Roma e anche i teologi gesuiti si pronunciarono contro la sua divulgazione. La credibilità del G. subì un duro colpo, ma egli, nonostante diradasse gli incontri con la Berinzaga per ostentare obbedienza, era pronto a respingere quella che considerava una congiura contro la necessaria riforma spirituale della Compagnia.
Favoriva i disegni del G. l'opposizione interna contro il governo, giudicato troppo autoritario, dell'Acquaviva, di cui era espressione soprattutto l'"assistenza" spagnola, appoggiata da Filippo II. In questo contesto, il G. guadagnò un parere favorevole alla pubblicazione del Breve compendio, nell'ottobre 1592, da parte di F. Toledo, uno degli ispiratori del movimento di protesta. Quando poi, nel dicembre dello stesso anno, Clemente VIII ordinò all'Acquaviva la convocazione della congregazione generale della Compagnia, per porre fine ai dissidi, si aprì al G. la prospettiva di lanciare in un'ampia platea le sue proposte di rinvigorimento dell'azione dei gesuiti.
Il progetto del G. trovò sostegno - sin dal febbraio-marzo 1593 - in un gruppo di padri dell'"assistenza" d'Italia (gli "zelatori"). Era loro molto vicino il governatore dello Stato di Milano Juan Fernández de Velasco, di cui erano noti i contatti col G. per la promozione di importanti iniziative religiose e caritative. L'Acquaviva seppe, però, abilmente stemperare l'animosità del G.: gli affidò innanzitutto, nel gennaio 1593, il compito di redigere due trattati, uno sugli esercizi spirituali e uno sulle istituzioni dell'Ordine. Quindi lo riconfermò preposito di S. Fedele, promuovendolo a nuovi incarichi, quello di viceprovinciale per la durata della Congregazione e di prefetto generale della provincia lombarda.
Il G. si mise alacremente al lavoro, ritenendo di poter ormai contare sull'approvazione del generale, ma si ingannava. Tra maggio e giugno 1593 la sua posizione si ribaltò completamente: voci insistenti di inopportuni incontri tra il G. e la Berinzaga lo spinsero infatti a rimettere l'incarico di preposito e le dimissioni - contro ogni sua previsione - furono, seppur con riserva, accettate (19 giugno 1593). Il G. subì poi la sconfitta - come altri oppositori dell'Acquaviva - nelle elezioni dei delegati per la congregazione generale di Roma. Non abbandonò tuttavia i suoi progetti di riforma. Anzi, proprio tra l'estate e l'autunno 1593 - periodo di tensione nella Cristianità per la questione della "ribenedizione" del re di Francia Enrico di Borbone dopo l'abiura del calvinismo (25 lug. 1593) e per la ripresa dell'avanzata turca in Ungheria - egli raggiunse, in alcune lettere diffuse tra gli "zelatori", toni quasi profetici. Gli pareva infatti che attraverso la Berinzaga, ispirata direttamente dalla parola divina, venissero sollecitati non solo la rifondazione della Compagnia, ma anche il riscatto della Chiesa cattolica in un frangente assai delicato.
I forti accenti adottati dal G. preludevano a una sua iniziativa politica proprio nella controversa questione francese. La posizione del papa era incerta: riluttante a concedere l'assoluzione a un re "eretico relapso", Clemente VIII correva il rischio di fomentare le spinte autonomistiche della Chiesa gallicana: d'altro canto la Spagna, con lo scopo di lasciare il Regno tradizionalmente nemico nel disordine provocato dalle guerre civili, si opponeva all'eventualità di una riconciliazione tra il nuovo re e la Sede apostolica. Il G. colse dunque l'occasione per dar corpo alla sua tesi, secondo la quale ogni gesuita doveva "haver animo da Monarca, ch'abbracci tutto 'l mondo" (Esortazioni… Dell'altezza del nostro Istituto, Arch. Rom. Soc. Iesu, Institut. 250, p. XIV).
Nel novembre 1593, mentre la quinta congregazione generale avviava i suoi lavori, il G. contattò in gran segreto il residente veneziano a Milano, Giovambattista Padavino, per verificare indirettamente la possibilità di un'iniziativa del Senato veneto nella questione francese. Tuttavia l'andamento della congregazione generale gli impose un arresto.
Infatti l'Acquaviva, dopo le prime incertezze, riuscì ad avere ragione di tutti i suoi avversari spagnoli e italiani, riaffermando, sia pure con qualche concessione, la propria linea di governo: venivano deprecate le ingerenze dei gesuiti in politica, per arginare le diffidenze dei governi europei verso la Compagnia; punite le manifestazioni più eclatanti di dissenso, come i memoriali di protesta; eluse tutte le richieste di rifondazione spirituale dell'Ordine.
Forte di questo successo, l'Acquaviva tentò di neutralizzare definitivamente il pericolo costituito dal G. e dal gruppo che si raccoglieva intorno a lui: dapprima, all'inizio di febbraio 1594, vietò nella provincia milanese sia le visite alle devote sia i contatti con personaggi politici; poi sollevò il G. dall'incarico di preposito di S. Fedele, per presunti motivi di salute, invitandolo, nella seconda metà del marzo seguente, a lasciare Milano. Tuttavia il generale non riuscì a ottenere questo trasferimento, per le pressioni esercitate a favore del G. dal governatore e dall'ambasciatore spagnolo a Roma, il duca di Sessa A. Folch de Córdoba-Cardona.
Il G. doveva trovare particolarmente inopportune le manovre dell'Acquaviva. Infatti, proprio nel marzo 1594, egli aveva ripreso i contatti con Padavino, temendo che la situazione evolvesse in peggio: la mediazione fra la S. Sede ed Enrico di Borbone tentata a partire dal novembre 1593 da Luigi Gonzaga, duca di Nevers, si poteva dire fallita per l'irrigidimento delle parti; inoltre, dalla Francia giungevano le notizie della ripresa della guerra, della riconquista di Lione da parte delle forze di Enrico, e le voci di un'imminente invasione del Ducato di Savoia, fedele alla Spagna, e degli stessi domini milanesi. Il G. uscì dunque allo scoperto, chiedendo al suo interlocutore che Venezia spingesse Enrico di Borbone a domandare il perdono del pontefice.
Né il Senato veneziano, né il Consiglio dei dieci diedero risposta; erano però consapevoli che a Milano c'era un clima favorevole a un'eventuale azione diplomatica: i legami del G. con il governatore Velasco erano noti; inoltre, si era affiancata all'iniziativa del gesuita quella, di tenore analogo, di influenti magistrati milanesi e persino del generale dell'artiglieria dello Stato di Milano, don Jorge Manrique.
L'azione veneziana prese corpo in aprile, dopo la presa di Parigi e l'incoronazione di Enrico. Con la sua iniziativa il G. faceva credere che il governatore Velasco e gli Spagnoli non si sarebbero opposti a una "pace generale": così il Senato dispose l'invio di una lettera all'ambasciatore in Francia, Giovanni Mocenigo, in cui si dava disposizione di congratularsi, alla prima occasione, con il nuovo re. Era un primo passo, ma insufficiente per il G., che ancora non aveva ricevuto alcuna risposta da Venezia. Nell'ennesimo incontro con il Padavino, il 25 apr. 1594, chiese quindi esplicitamente che la Repubblica mandasse "presto una honorata ambasceria al re di Franza persuadendolo a mostrarsi almeno in apparenza buon catholico, per l'essempio delli suoi sudditi et per dignità di Santa Chiesa" (Cozzi, 1963, p. 506).
In Spagna, nonostante i preparativi militari, si manifestavano una stanchezza generale e un atteggiamento comunemente favorevole alla pace; nel Milanese, poi, la macchina bellica spagnola era in attività, ma negli ambienti informati si diceva che era solo per strappare un migliore accordo ai Francesi; a Roma, infine, circolavano voci di una mediazione di Clemente VIII fra i due regni cattolici. Sulla base di queste informazioni e della sicurezza che il G. continuava a ostentare, Venezia decise di inviare due ambasciatori straordinari a Enrico IV per congratularsi della sua incoronazione (11 maggio 1594). Il G. se ne rallegrò subito con il Velasco, il quale approvò, in gran segreto, il suo operato.
Tuttavia le basi dell'impianto faticosamente costruito dal G. dovevano rivelarsi ben presto fragilissime. Per non provocare reazioni contro la Compagnia, egli aveva infatti tenuto ben nascosta a Roma la sua iniziativa: così, il primo risultato della mossa veneziana fu l'irritazione di Clemente VIII. Dall'altro canto, non essendone al corrente neanche l'ambasciatore veneziano a Roma, Paolo Paruta, l'operato della Serenissima non poté essere difeso adeguatamente. L'ipotesi di un consenso spagnolo si dimostrò ancor più inconsistente: il governatore di Milano fu violentemente accusato di aver preso un'iniziativa azzardata, che coinvolgeva non solo l'intera politica di Filippo II, ma anche il suo prestigio. Solo a fatica, nel giugno 1594, il Velasco riuscì a discolparsi con la corte di Madrid, lasciando però venire alla luce le responsabilità del Gagliardi. Nondimeno, anche in questi drammatici frangenti, il G. rammentò al residente veneziano la necessità di continuare l'azione intrapresa dal Senato. Nel contempo proprio il dilagare delle voci sul ruolo del G. e del governatore di Milano confermò, tra la fine di maggio e l'inizio di giugno, un clima di ottimismo alla corte di Roma, testimoniato altresì da lettere compiacenti del generale Acquaviva al Gagliardi. Poiché però da parte spagnola si susseguivano le smentite, alla fine di giugno 1594 le speranze concepite da Clemente VIII potevano dirsi del tutto svanite.
La posizione del G. appariva compromessa, nonostante gli attestati di stima provenienti da più parti: l'Acquaviva, infatti, già all'inizio di luglio 1594 pensava di allontanarlo da Milano. Il G. tentò con ogni mezzo di evitare il trasferimento: dapprima fece ricorso ai suoi influenti appoggi (tra i quali annoverava anche Giacomo Boncompagni, duca di Sora, figlio del defunto pontefice Gregorio XIII), poi giunse al punto di paventare, nelle sue lettere a Roma, l'eventualità di uno scisma degli "zelatori", insoddisfatti degli esiti della congregazione generale. Il generale Acquaviva prese tempo, ma, a metà di dicembre 1594, riuscì a ottenere che il G. lasciasse Milano.
Stabilitosi a Cremona, egli non disperava di poter essere ancora richiamato, anche perché a Milano molti gesuiti, tra cui l'irrequieto Maffei, si mostravano dalla sua parte. Anzi, il movimento degli "isabellisti" acquistava nuovo vigore e accentuava i toni mistici, come testimoniava la diffusione tra loro di un "misterio ascondito di 7" (Pirri, 1945, p. 46), di cui il G. si riteneva custode. L'Acquaviva, giudicando troppo pericolosa la prossimità tra la Berinzaga e il G., lo inviò - anche per le istanze del card. G.F. Morosini - a Brescia. Qui il G. giunse nell'ottobre 1595, per ricevere, nell'ottobre 1596, l'incarico di rettore del collegio di quella città.
Stimolato dai vertici dell'Ordine, il G. tornò agli studi, lavorando a una grande opera spirituale, il De disciplina interioris hominis (o De interiori doctrina), destinata a non conoscere la stampa. Egli intervenne altresì nella controversia dottrinaria de auxiliis (riguardante l'efficacia della grazia sulla volontà umana), nella quale si affrontavano domenicani e gesuiti, proponendo, ma senza successo, ipotesi di conciliazione. Attese nel contempo ai suoi doveri di rettore, curando l'applicazione della nuova Ratio studiorum, approvata nel 1599.
Il G. non intendeva però abbandonare gli sforzi per la riforma dell'Ordine. Eletto nella congregazione provinciale veneta (settembre 1599), egli partecipò alla congregazione dei procuratori (inizio giugno 1600), con un programma, assai critico nei confronti dell'Acquaviva, che reclamava una sostanziale democratizzazione dei criteri di promozione nell'Ordine e una forte ripresa della sua originaria vocazione spirituale.
A questo scopo il G., come altri padri, proponeva di indire una nuova congregazione generale. L'Acquaviva riuscì a far prevalere nell'assemblea i suoi fedeli, e gli argomenti a favore della riunione della sessione generale risultarono, infine, "non cogenti". Tuttavia il G. rimase a Roma ancora per qualche tempo, per sottoporre al pontefice due opuscoli sulla controversia de auxiliis (agosto 1600), che non sortirono particolari effetti, se non l'accusa di eterodossia da parte di alcuni gesuiti veneziani. A Roma il G. ebbe modo di incontrare la Berinzaga, giunta appositamente da Milano, nel febbraio 1601.
La pertinacia del G. spinse il generale Acquaviva a decisioni radicali: nel gennaio 1601, dopo aver dato ordine di censire e ritirare tutti i suoi scritti, li affidò, nel marzo seguente, all'esame del card. Roberto Bellarmino, che vi trovò "moltissime novità e temerità e dottrine pericolosissime circa la fede di Misterii altissimi" (Pirri, 1945, p. 72). Per evitare lo scandalo fu decisa la via extragiudiziale, avallata da Clemente VIII: al G. fu perentoriamente ordinato di interrompere i suoi rapporti con la Berinzaga, di abbandonare i suoi errori e di mantenere perpetuo silenzio. Furono però trasmessi i suoi scritti al S. Uffizio, per potere in qualunque momento istruire il processo.
Il G. si ritirò a Venezia, dove attendeva, stimolato dall'Acquaviva, al De interiori doctrina, ostacolato dal vaglio della censura. Era riuscito a guadagnarsi un ruolo importante nella vita religiosa della città, favorendo i rapporti di una parte del patriziato veneziano (i "vecchi") con i gesuiti. Fu anche tra i primi scoperti nemici di P. Sarpi, che accusò, nel 1601, di eterodossia. Tuttavia, alcuni suoi atteggiamenti tornarono a destare preoccupazione: si fece infatti notare, nel 1602, sia per l'eccessiva frequentazione di monache a Torcello e a Mazzorbo sia per i progetti di un'"Accademia platonica" che aveva intenzione di formare insieme con nobili veneziani.
Nel febbraio 1604 fu nominato rettore del collegio di Bologna, dove si insediò a metà del marzo successivo. Da tempo malato, chiese, nell'ottobre 1604, licenza di "lasciar a fatto il governo" (Arch. Rom. Soc. Iesu, Ven. 5.II, c. 347v). Ma l'Acquaviva, per la necessità di uomini esperti, poteva solo consentirgli di tornare a dirigere il collegio di Brescia. La sua salute era ancora più debole nell'aprile 1606, quando Paolo V lanciò l'interdetto contro la Repubblica di Venezia. Il G. e suo fratello Ludovico, rettore a Verona, ebbero esitazioni sulla posizione da prendere, per non compromettere le relazioni che intrattenevano con i patrizi veneti. A Roma, quindi, all'inizio di maggio 1606, l'Acquaviva era molto preoccupato che "parte l'amore e parte il timore e la prudenza humana" (Pirri, 1959, p. 79) potessero condurre i fratelli Gagliardi a qualche passo falso. Tuttavia, dopo aver ricevuto (come pure il fratello) istruzioni inequivocabili e subìto qualche larvata, indiretta pressione dal S. Uffizio lasciò lo Stato veneto il 10 maggio 1606. In condizioni di salute sempre peggiori, raggiunse dapprima Mantova e poi Modena. Nel novembre 1606 fu colpito da paralisi. Morì a Modena il 6 luglio 1607.
Manca un lavoro complessivo sul pensiero del G., di cui è però chiaro il punto centrale: l'individuazione di un cammino graduale dell'uomo verso il pieno contatto spirituale con Dio. Il G. si pose nel solco tanto della mistica del Cinquecento (e in particolare di Battistina Vernazza) quanto degli Esercizi spirituali di Ignazio di Loyola. Per il G., l'uomo deve innanzitutto addestrarsi a combattere il male, volgendosi al riconoscimento e al perseguimento delle virtù. Poi, seguendo l'esempio di Cristo, deve spogliarsi del proprio essere, rendendosi del tutto passivo e conformandosi alla volontà di Dio. A questo riguardo il G. attribuiva particolare efficacia alla pratica dell'orazione, in grado di purificare l'intenzione, e alla "sottrazione" progressiva di tutti i sentimenti che potessero nutrire l'amor proprio. Dopo ulteriori gradi di perfezione, l'uomo avrebbe conosciuto infine un totale abbandono in Dio. Considerato un precursore del quietismo, che negava sostanzialmente ogni valore all'agire umano, si deve però notare che almeno in un punto il pensiero del G., coerentemente con la sua azione politica-religiosa, prese una via originale e lontana dagli esiti successivi di quel movimento. Una volta trasfigurata in Dio, la volontà umana diviene infatti il motore di un'instancabile lavoro apostolico, attività che - secondo il G. - anche il suo Ordine doveva compiere.
Opere: l'unica opera stampata in vita fu il Catechismo della fede cattolica, con un compendio per fanciulli…, Milano, Michel Tini, 1584. Il Breve compendio di perfezione cristiana fu stampato anonimo per la prima volta a Brescia nel 1611; seguirono, nel corso del Seicento e Settecento, molte riedizioni e traduzioni, in tedesco, francese, fiammingo, latino e persino in arabo. Una così vasta fortuna corrispose a una notevole influenza sulla mistica francese (su P. de Bérulle e, in particolare, i suoi discepoli) e su quella italiana del Seicento, da G.M. Gramaldi fino al più noto card. P.M. Petrucci. M. Bendiscioli ne ha curato un'edizione (Firenze 1952), alla quale è stata aggiunta la Vita di Isabella Berinzaga, pure scritta dal Gagliardi. Più recente è l'edizione curata da M. Gioia: Breve compendio di perfezione cristiana. Un testo di Achille Gagliardi S.I., Roma-Brescia 1996. Posteriori sono le pubblicazioni dei trattati De plena cognitione Instituti, Roma 1841, e Commentarii seu Explicationes in Exercitia spiritualia…, Bruges 1882. Per l'elenco e la cronologia delle opere del G. (stampate e manoscritte) si vedano: C. Sommervogel, Bibliothèque de la Compagnie de Jésus, III, Bruxelles-Paris 1892, coll. 1095-1099; IX, ibid. 1900, coll. 388 s.; I. Iparraguirre, Répertoire de spiritualité, Rome 1962, n. 596, pp. 102 s., passim. Va aggiunto lo scritto segnalato da C. Marcora, Un trattato sui doveri del vescovo del p. A. G., in Mem. stor. della Diocesi di Milano, XIV (1967), pp. 7-28.
Fonti e Bibl.: Roma, Arch. Rom. Societatis Iesu, Epp. Ital., bb. 69, 135-146, ad indices; Congr. 26, 48, passim; X.M. Le Bachelet, Bellarmin avant son cardinalat, 1542-1598. Correspondance et documents, Paris 1911, ad ind.; Mon. hist. Soc. Iesu, Lainii Monumenta, IV-V, Madrid 1915, ad indices; Nunziature di Savoia, I, a cura di F. Fonzi, Roma 1960, ad ind.; Monumenta paedagogica Societatis Iesu, III-IV, Roma 1974-92, a cura di L. Lukàcs, ad indices; G. De Luca, Quelques manuscrits romains sur G. (notices et extraits), in Revue d'ascétique et de mystique, XII (1931), pp. 142-152; P. Pirri, Il p. A. G., la Dama milanese, la riforma dello spirito e il movimento degli zelatori, in Arch. histor. Soc. Iesu, XIV (1945), pp. 1-72; Id., Il Breve Compendio di A. G. al vaglio dei teologi gesuiti, ibid., XX (1951), pp. 231-253; R.G. Villoslada, Storia del Collegio Romano dal suo inizio (1551) alla soppressione della Compagnia di Gesù (1773), Roma 1954, ad ind.; P. Pirri, L'interdetto di Venezia e i gesuiti, Roma 1959, ad ind.; Id., Gagliardiana, in Arch. histor. Soc. Iesu, XXIX (1960), pp. 99-129; G. Cozzi, Gesuiti e politica sul finire del '500. Una mediazione di pace tra Enrico IV, Filippo II e la Sede apostolica proposta dal p. A. G. alla Repubblica di Venezia, in Riv. stor. italiana, LXXV (1963), pp. 477-537; D. Gil, G. y sus comentarios a los Ejercicios, in Manresa, XLIV (1972), pp. 273-284, 379-400; Id., G. y la consolación sin causa, ibid., XLV (1973), pp. 61-80; M. Scaduto, Storia della Compagnia di Gesù in Italia, IV, t. 2, L'epoca di Giacomo Lainez, Roma 1974; V, L'opera di Francesco Borgia, Roma 1992, ad indices; M. Petrocchi, Storia della spiritualità italiana, II, Roma 1978, pp. 93-109, 216, 230; G. Cozzi, Paolo Sarpi tra Venezia e l'Europa, Torino 1979, ad ind.; F. Rurale, I gesuiti a Milano. Religione e politica nel secondo Cinquecento, Roma 1992, ad ind.; I gesuiti e Venezia. Momenti e problemi di storia veneziana della Compagnia di Gesù, a cura di M. Zanardi, [Padova] 1994, ad ind.; Per via di annichilazione. Un testo di Isabella Cristina Berinzaga, redatto da A. G. S.I., a cura di M. Gioia, Roma-Brescia 1994; S. Stroppa, L'annichilazione e la censura: Isabella Berinzaga e A. G., in Rivista di storia e letteratura religiosa, XXXII (1996), pp. 617-625.