GRASSI, Achille
Nacque a Bologna nel 1498, figlio di Giovanni Antonio e di Bianca Grati. Apparteneva a una nobile famiglia bolognese, tradizionalmente fedele al Papato, che nel corso del Cinquecento raggiunse una posizione preminente nella vita politica di Bologna. Il padre del G. fu senatore di Bologna, subentrando a Girolamo Grassi nel 1556, e due volte gonfaloniere di Giustizia.
Dati i legami della famiglia con il Papato, il G. fu ben presto avviato alla carriera ecclesiastica. Così, dopo aver ottenuto la laurea in diritto civile e canonico (1528), il G. fu nominato arciprete della cattedrale di Bologna, senza possedere gli ordini maggiori. Per alcuni anni il G. rimase nella città natale esercitando, tra l'altro, l'ufficio di professore di diritto presso la locale università (1538/39-1542/43). Ma l'orizzonte bolognese dovette sembrargli troppo ristretto e nel 1545 si trasferì a Roma, dove fu nominato avvocato concistoriale, grazie al sostegno della sua famiglia. Anche suo fratello Carlo (1520-71) aveva abbracciato la carriera ecclesiastica e successe al G. nell'arcipretura bolognese, iniziando una brillante carriera che lo avrebbe condotto al cardinalato.
Curiale di fresca nomina, il G. godeva già di una certa reputazione e non faticò a ottenere cariche di notevole responsabilità. Alla fine del 1545 fu inviato al concilio di Trento in qualità di avvocato e coadiutore dei legati papali, con uno stipendio mensile di 50 scudi.
La scelta del G. fu un ripiego, visto che altri più autorevoli candidati avevano rifiutato la carica. Il 31 dic. 1545 il cardinale Alessandro Farnese aveva scritto ai legati che "quanto alli avvocati, non si essendo possuto persuadere né a Mr. Hieronymo de Castello, né a Mr. Antonio Gabrielli, che venghino volentieri in questa stagione, credo che S. Santità si resolverà in mandare per hora Mr. Achille de Grassis" (Concilium Tridentinum…, X, p. 290).
A Trento il G. dispiegò una notevole attività, collaborando con i legati papali nella preparazione degli schemi per le discussioni e nel disbrigo dell'attività politico-diplomatica. Naturalmente, data la sua posizione, egli non assunse iniziative autonome, ma si limitò a un compito di esecutore delle direttive dei legati, che pure non gli impedì, in alcuni momenti, di trovarsi al centro della scena politica. Fu quello che accadde, ad esempio, nel 1546, quando il G. si trovò coinvolto nel progetto di traslazione del concilio.
Nel 1546 la situazione politica europea volgeva direttamente verso la guerra. In giugno Carlo V firmò un trattato con il papa e prese decisamente l'iniziativa militare contro i principi tedeschi. I legati papali al concilio decisero di approfittare della situazione per imporre il trasferimento del concilio da Trento in una città più controllabile dal Papato, ma Paolo III rifiutò di imboccare questa strada. La situazione divenne ben presto ingovernabile. All'evidente discordanza di vedute tra il papa e i legati, che temevano fortemente una troppo ampia vittoria dell'imperatore sui suoi nemici, si aggiunsero tensioni tra i cardinali del partito curiale e i cardinali filoimperiali. Dopo un duro scontro verbale tra i cardinali Pedro Pacheco e Cristoforo Madruzzo, da una parte, e il legato Giovanni Maria Del Monte, il futuro Giulio III, dall'altra, i legati riproposero la necessità di spostare il concilio e incaricarono Pietro Bertano e il G. di esporre la questione all'imperatore e al papa.
Il G. partì da Trento il 4 ag. 1546 ma fu immediatamente richiamato, a seguito del fallimento della missione di Bertano e delle minacce contro i legati pronunciate da Carlo V, che già in passato si era più volte espresso contro ogni progetto di traslazione. Il 6 agosto il G. ripartì per Roma con nuove istruzioni che disegnavano un quadro della situazione del concilio ancora più allarmistico. Quando il G. giunse a Roma, il 12 agosto, Paolo III si era ormai autonomamente convinto dei rischi che avrebbe comportato la crescita dell'influenza di Carlo V sul concilio e dell'opportunità di un trasferimento, ma era frenato dal timore di possibili ritorsioni. Perciò egli rimise il problema ai legati, invitandoli a sottoporre la questione all'assemblea conciliare. Il contrasto tra la volontà curiale di spostare il concilio e il desiderio dell'imperatore di mantenere aperta la via a una pacificazione religiosa della Germania anche attraverso il concilio rimase in tal modo irrisolto fino al marzo del 1547, quando un'epidemia di tifo fornì al papa e ai legati un pretesto sufficientemente credibile per deliberare la traslazione.
Mentre tutto ciò avveniva il G. si trovava ammalato a Roma, dove rimase anche dopo la traslazione del concilio, senza svolgere attività politica di rilievo.
La buona prova fornita dal G. al concilio diede impulso alla sua carriera. Nel 1547 successe a Tommaso da Tani come uditore di rota. Nel 1551 fu nominato vescovo di Montefiascone, ma non assunse alcun compito pastorale e anzi iniziò un'intensa attività nella diplomazia pontificia, entrata in una fase di mobilitazione sin dal febbraio 1550, quando era stato eletto papa Giulio III.
Il nuovo papa, sebbene eletto con il sostegno francese, era deciso a mantenere una stretta alleanza con Carlo V, che rimaneva l'unico possibile sostegno contro la diffusione della Riforma, e a recuperare dai Farnese il Ducato di Parma, che rischiava di finire in mani imperiali. Nel giro di pochi mesi i rapporti del Papato con la casa Farnese e con la Francia giunsero così a un punto di rottura e nel corso dell'estate 1551 le truppe pontificie, blandamente sostenute dall'appoggio imperiale, attaccarono Parma. L'apertura della guerra, oltre a privare il concilio di Trento della partecipazione francese, obbligò il papa a un'intensa attività diplomatica, al fine di evitare un ulteriore allargamento del conflitto.
Alla fine dell'agosto 1551 Giulio III inviò il G. presso la Repubblica di Venezia, con il compito di esporre le motivazioni della politica pontificia e di prevenire i tentativi francesi di stringere alleanza con la Serenissima, ma anche con l'incarico di sostenere l'azione antiereticale già avviata da alcuni anni in Veneto. Questo secondo aspetto della missione del G. è stato alquanto trascurato dalla storiografia, ma Paolo Sarpi ne aveva intuito l'importanza e aveva visto in quelle trattative un momento di svolta nella politica ecclesiastica della Serenissima.
Quando il G. giunse a Venezia, la Repubblica aveva ormai abbandonato la linea di relativa tolleranza religiosa praticata nei decenni precedenti, ma non era comunque disposta a lasciare campo libero all'attività del S. Uffizio sul proprio territorio. La pretesa veneziana di far partecipare i rettori e altri rappresentanti del potere civile all'attività dei tribunali inquisitoriali era però in contrasto con gli indirizzi politici del Papato, codificati da una bolla del 18 marzo 1551, che vietava a tutti i secolari di interferire nei processi inquisitoriali senza espressa richiesta dei vescovi e degli inquisitori. Sin dalla fine degli anni Quaranta il nunzio ordinario a Venezia, Ludovico Beccadelli, tentò di comporre la vertenza, avviando contatti con le magistrature veneziane, ma fu solo con l'arrivo del G. che le trattative assunsero un ritmo serrato. Alla fine di settembre si arrivò a una sorta di concordato, in base al quale solo i rettori avrebbero partecipato ai giudizi inquisitoriali, ma prevalentemente in veste di esecutori delle sentenze e senza ingerirsi nel merito del giudizio. La partecipazione di giuristi laici era invece subordinata a un'esplicita richiesta dei vescovi e degli inquisitori. Si trattava, dunque, di un considerevole successo per la diplomazia pontificia, che contribuiva a stabilizzare i rapporti tra il Papato e la Repubblica. Anche sul piano dei rapporti internazionali la missione si concluse positivamente. La Serenissima, infatti, riconfermò la sua volontà di mantenere una stretta neutralità nei conflitti in corso.
Tornato a Trento, dove si era ormai aperta la seconda fase del concilio, il G. fu ordinato prete (gennaio 1552) con una cerimonia solenne che si concluse con uno splendido banchetto offerto dal cardinale C. Madruzzo.
La partecipazione del G. al concilio non si segnalò per interventi di particolare importanza. Privo di una solida cultura teologica, egli rimaneva soprattutto un abile diplomatico e fu talora impiegato nelle complesse trattative che facevano da contorno alle sedute conciliari. Il momento era, del resto, assai delicato. Tra la fine del 1551 e l'inizio del 1552, mentre la guerra divampava in tutta la Germania, giunsero a Trento alcuni rappresentanti dei principi protestanti di Württemberg e di Sassonia, che comunicarono agli inviati imperiali una disponibilità di massima a far partecipare al concilio teologi protestanti, a patto che venisse riconosciuta la libertà del concilio dall'influenza papale e che tutti i decreti già stabiliti venissero ridiscussi in base al principio del primato del testo sacro. Si trattava, evidentemente, di una ben fragile base di trattativa, ma essa dava all'imperatore la speranza di ricomporre la frattura religiosa e indirizzare il concilio verso una prospettiva di riforma diversa da quella elaborata dal Papato.
Giulio III reagì con durezza all'ipotesi di un concilio indipendente dall'autorità papale e nel febbraio 1552, dopo aver sentito il consiglio di una congregazione cardinalizia, incaricò il G. di comunicare al presidente del concilio, il cardinale Marcello Crescenzi, il divieto di affrontare la questione della superiorità del concilio sul papa e di rivedere i decreti già deliberati, e allo stesso tempo confermò la disponibilità ad accettare il dialogo con i protestanti in vista di una loro sottomissione all'autorità papale. Esaurita questa missione, il G. avrebbe dovuto recarsi presso l'imperatore per esprimergli le rimostranze del papa per la condotta dei cardinali spagnoli al concilio e per la prospettiva di una riforma che distruggesse il tradizionale sistema beneficiale. Questa seconda parte della missione, però, non ebbe luogo, poiché il cardinale Crescenzi riuscì autonomamente a giungere a un accordo con i rappresentanti imperiali a Trento.
La missione del G. contribuì a provocare il blocco dei lavori conciliari, che pure aveva ragioni più profonde, correlate all'evoluzione dei rapporti di forza in Germania. Di fronte all'avanzata delle truppe protestanti di Maurizio di Sassonia e all'alleanza dei protestanti tedeschi con la Francia, nell'aprile del 1552 il concilio aggiornò i suoi lavori e si sciolse. Il G. tornò a Roma, ma vi si trattenne poco.
Il G. era ormai diventato uno degli esponenti di punta della diplomazia pontificia e Giulio III scelse di utilizzarlo per alcune delicate missioni, in una delle fasi più complesse della storia cinquecentesca. In aprile il papa concluse un armistizio unilaterale con Enrico II di Francia e il duca di Parma, suscitando le ire di Carlo V, sempre più in difficoltà nella guerra con i principi protestanti e la Francia. Deciso a promuovere una tregua generale, a luglio Giulio III deliberò di inviare due nunzi presso i contendenti. Prospero Santacroce partì per la Francia con il titolo di nunzio ordinario. Il G. fu invece scelto per affiancare Pietro Camaiani come nunzio straordinario presso l'imperatore.
All'interno della rappresentanza pontificia si determinava in tal modo una duplicazione di funzioni che rendeva ancora più difficile l'avvio di una trattativa e che suscitò le riserve del Camaiani, preoccupato di essere scavalcato e, in qualche misura, delegittimato.
I compiti assegnati al G. erano ampi e diversificati, ma ruotavano principalmente intorno alla questione dell'armistizio concluso dal papa con la Francia. Il G. doveva innanzi tutto confermare a Carlo V che l'armistizio di Parma e la sospensione del concilio non preludevano a un abbandono della tradizionale amicizia tra Papato e Impero. Allo stesso tempo egli doveva sottolineare la volontà di pace che animava il papa e invitare l'imperatore a un riavvicinamento con la Francia. Infine, il G. avrebbe dovuto affrontare alcune questioni particolari: il delicato caso dell'arcivescovo di Otranto Pietro Antonio Di Capua, che l'imperatore avrebbe voluto vedere onorato del cardinalato ma che nei circoli curiali era ritenuto un pericoloso eretico a causa della sua adesione agli ideali religiosi valdesiani, e la piccola vertenza diplomatica apertasi in conseguenza dei comportamenti dell'ambasciatore imperiale a Roma, Diego Hurtado de Mendoza, che aveva fatto malmenare il bargello. Il 15 luglio 1552 il G. lasciò Roma e dopo un viaggio alquanto disagevole raggiunse, il 24 luglio, la corte imperiale a Bressanone. Qui, egli prese contatti con il nunzio Camaiani e insieme con lui avviò i primi colloqui con il più ascoltato consigliere dell'imperatore, Antoine Perrenot de Granvelle, e con altri personaggi di corte, tra cui Fernando de Toledo, duca d'Alba. Esauriti questi preliminari, il 28 luglio 1552 il G. ebbe un lungo colloquio con l'imperatore, cortese ma privo di risultati concreti. Carlo V, infatti, pur riconfermando al G. la sua fiducia nell'amicizia papale, manifestò un'assoluta indisponibilità ad aprire trattative di pace generale e dichiarò senza mezzi termini al nunzio che non voleva trovarsi nella situazione di un uomo accerchiato da astuti furfanti, "l'uno de quali dà una bastonata a quello che ha la cappa, et levata che gliel'ha, li altri s'interpongono per fargli fare pace quando ha havuto una bastonata et persa la cappa" (Nuntiaturberichte aus Deutschland, XIII, p. 62). Anche su numerose altre questioni minori Carlo V fornì al G. risposte evasive, che denunciavano una certa irritazione per il comportamento del papa e insieme la volontà di attendere lo sviluppo degli eventi prima di intraprendere serie iniziative diplomatiche.
La missione del G. si concluse dunque con un sostanziale smacco per la diplomazia pontificia, che tuttavia era in qualche modo implicito nell'evoluzione della situazione politico-militare. Dopo la ribellione di Siena agli Spagnoli (27 luglio 1552) e l'entrata di truppe francesi in Toscana, la parola era ormai alle armi e a poco potevano servire le iniziative di mediazione, da qualunque parte provenissero.
Tornato a Roma, il G. fu incaricato di una nuova missione presso il viceré di Napoli, Pedro de Toledo, che stava preparando un'iniziativa militare per riconquistare Siena al più presto. Anche in questo caso la missione del G. era estremamente delicata. Il papa, infatti, pur osservando una scrupolosa neutralità militare, tendeva a porsi come tutore dell'indipendenza di Siena e proprio a questo scopo aveva inviato lì un suo rappresentante, il cardinale Fabio Mignanelli. Nel dicembre 1552 il G. partì per Napoli, accompagnato da una commendatizia piuttosto generica, e propose al Toledo di sospendere le azioni militari e di accettare la mediazione pontificia, offrendo in cambio l'impegno del papa a ottenere dai Senesi il ritiro delle truppe francesi insediate in città. Le trattative furono estremamente brevi e non ebbero esito positivo: il G. dovette limitarsi a registrare l'assoluta indisponibilità degli Spagnoli ad aprire trattative e all'inizio del 1553 fece ritorno a Roma. Anche in questo caso il G. non aveva responsabilità dirette nel fallimento dell'iniziativa diplomatica pontificia.
La missione del G. non fu un semplice espediente dilatorio, come ha scritto A. D'Addario (p. 175), ma non poteva certo riaprire spazi di mediazione, che si erano ormai definitivamente chiusi a causa della presenza di truppe francesi a Siena e della ferma volontà di Carlo V e Cosimo I di Toscana di porre sotto stretto controllo l'instabile situazione politica senese.
Dopo tante missioni, la carriera del G. sembrava schiudersi a responsabilità sempre più alte. Nel 1553 un potente prelato come Girolamo Dandini lo raccomandò come successore di Pietro Camaiani alla nunziatura presso la corte imperiale, ma la proposta non ebbe esito positivo. Dal 1553 il G., pur non anziano, cominciò a condurre vita ritirata, per ragioni che restano oscure. Nel 1555 abbandonò il vescovato di Montefiascone al fratello Carlo. Lo stesso anno il G. morì a Roma e fu sepolto in S. Maria in Trastevere.
Opere. Il G. è autore di una raccolta di decisioni rotali che conobbe una certa fortuna editoriale tra la fine del Cinquecento e l'inizio del Seicento. La prima edizione apparve nel 1590 con il titolo Decisiones Sacrae Rotae compendiariae quidem, sed graves et in foro saepe agitata (Romae, apud Paulum Bladum, 1590), a cura di P. Granucci. Tale edizione, che comprende anche le decisioni del fratello del G., Cesare, servì da modello per una successiva ristampa corretta, curata da P. Arnolfini (Romae 1601; altra ed. Marpurgi 1600).
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