LODRONE (Lodron), Achille
Nacque quasi sicuramente nel 1530, verosimilmente ad Anfo, nel Bresciano, da Alessandro di Bernardino, del ramo dei Lodrone detto delle Giudicarie (De Festi, tav. III, n. 48), e da Drusiana Pallavicini del marchese Bernardino.
L'avo paterno, Bernardino (morto nell'aprile 1529), ebbe due mogli. Dalle prime nozze, con la nobile milanese Caterina di Achille Stampa, nacque Alessandro. Rimasto vedovo, sposò Polissena (morta nel 1531), una delle otto figlie di Bartolomeo Colleoni, il celebre capitano di ventura, sotto il quale aveva servito, avendone almeno altri tre figli: Bartolomeo, Giorgio e Tisbe, andata in sposa al nobile veneziano Sebastiano Vitturi di Alvise (Arch. di Stato di Venezia, Avogaria di Comun, Libro d'oro matrimoni, 14 sett. 1526). Il matrimonio gli facilitò la carriera, introducendolo, ad alto livello, negli ambienti militari legati alla Serenissima. Ma Bernardino ebbe i suoi meriti, difendendo con successo, durante la prima fase della guerra intrapresa dai collegati di Cambrai contro Venezia, la rocca d'Anfo e il territorio circostante dagli assalti degli Imperiali (1509), ai quali si erano uniti i membri degli altri rami della famiglia Lodrone, in primo luogo i nipoti Giovanni Battista di Francesco e Ludovico di Paride Antonio. Bernardino perse definitivamente, a favore dei parenti, i possedimenti nel Trentino, ma dalla Repubblica fu ricompensato con gratitudine, onori e, soprattutto, vide confermati - anzi, accresciuti - i privilegi e la sua influenza in terra veneta.
Non si sa molto della vita di Alessandro, padre del L., se non quanto riportato dai documenti (peraltro non numerosi) citati da De Festi e da Papaleoni (1893). Vi sono testimoniati il suo impegno - spesso in solidum con i fratellastri Bartolomeo e Giorgio - nell'amministrazione del patrimonio familiare; le liti con Ludovico di Paride Antonio e il nipote di questo, Sigismondo di Sebastiano (1531); la cura dei beni dotali della moglie, gran parte dei quali era situata nel Cremonese. Morto il marito, fu tuttavia la stessa Drusiana Pallavicini, che troviamo già vedova e trasferita da Anfo a Leno, sempre nel Bresciano, nel 1546, a dettare le strategie familiari e politiche, ad amministrare i beni e a occuparsi dei figli.
Scarse le notizie su di loro. Oltre al L. e Ippolito, più sotto ricordato, sono documentati Sigismondo Bartolomeo; Ludovico, che sposerà Potenziana Hoffmann; Pallavicina, moglie di Alessandro Gambara e in seconde nozze di Orso Luzzago; Sofonisba, Ortensia, Rodomonte ed Eleonora, maritata a Camillo Martinengo, quindi a Massimiliano Gambara.
Secondo quanto ipotizzato sia da De Festi sia da Papaleoni (1893) il cambio di residenza deciso dalla madre del L. fu necessario per meglio sfruttare, lontano dai confini dell'Impero, la protezione della Serenissima. Per di più era in corso un'annosa e complessa questione di successione, trascinatasi fin dalla morte del marchese Bernardino Pallavicini (1526), destinata a risolversi solo nel 1630. Drusiana sosteneva le ragioni del conte Ludovico Rangone, anche lui famoso uomo d'arme al soldo di Venezia, marito di Barbara Pallavicini, figlia dello zio Rolando, contro quelle delle proprie sorelle, che il Rangone, confortato in questo dalla vita dissoluta del Pallavicini, diceva essere nate fuori dal matrimonio, e quindi, inabili a ereditare, diversamente dalla moglie Barbara, che pur non essendo erede diretta, quanto meno era legittima.
Sebbene tutte le circostanze, e le parentele sopra esposte, oltre alle tradizioni di famiglia, gli prospettassero una prevedibile carriera militare al servizio della Serenissima, questa fu subito compromessa dall'assassinio di un contadino nel quale il L. si trovò coinvolto - insieme con i suoi lontani parenti, conti Gambara - il giovedì grasso del 1546 mentre era "venuto a solazo […] in la terra di Pradalboino" nel Bresciano (Papaleoni, 1893, p. 468). Nonostante i Gambara venissero assolti, come lui stesso ricorda in una supplica presentata al doge Francesco Donà cinque anni più tardi (ibid., p. 471), il L. venne colpito da bando in quanto non trovò di meglio che sottrarsi all'udienza davanti al podestà di Brescia, Giovanni Maria Zorzi, e rifugiarsi a Parma presso Ottavio Farnese al servizio del quale voleva forse entrare. Nei suoi progetti sarebbe stato facilitato dal ruolo di mediatore che il sopra ricordato cugino, il conte Sigismondo di Sebastiano, vecchio compagno d'armi del Farnese, aveva avuto nelle complesse vicende di quel Ducato. Violò più volte il bando, tanto da costringere Venezia a inviare a Brescia l'avogadore di Comun Francesco Pisani, allo scopo di evitargli la prigione: il podestà di quella città, Giovanni Mocenigo, lo aveva, infatti, catturato, costringendolo, per trovare asilo, a rifugiarsi all'interno dell'abbazia di Leno (Arch. di Stato di Venezia, Capi del Consiglio dei dieci, Documenti relativi al Trentino).
La protezione di Rangone, ma principalmente la ragion di Stato - come afferma correttamente il Papaleoni (1893) - che vedeva nel L. l'ultimo erede di una famiglia da sempre fedele alla causa veneziana, finirono per prevalere sull'applicazione della legge, alla quale la Serenissima, per il buon governo dello Stato da terra, almeno formalmente, teneva molto. A suo favore giocarono anche le pretese - ancora vive, a sentire Drusiana - dei rami dei Lodrone sudditi del vescovo-principe di Trento sui possedimenti dei Lodrone delle Giudicarie in terra veneta: in relazione a queste, bisognava salvaguardare il ruolo di una famiglia utile alla Repubblica per garantire la stabilità di una zona confinante con i territori imperiali da sempre molto delicata da gestire. Amara, ma significativa, l'osservazione del Mocenigo, costretto, suo malgrado, a sconfessare il proprio operato (aveva dovuto lasciare libero il L.) in una sua lettera al Consiglio dei dieci: "esser contro le parte et mente di quelle [stesse eccellenze del Consiglio di dieci] il venir e star in li lochi prohibiti delli confini sui banditi" (Arch. di Stato di Venezia, Capi del Consiglio dei dieci, Documenti relativi al Trentino).
Non risultano tuttavia completamente chiare le modalità del ritiro del bando in questione, se cioè fosse completamente ritirato o soltanto sospeso, anche se la supplica sopra ricordata (1551) fu evidentemente un passo fondamentale per ottenere la grazia, del resto fortemente subordinata a diverse condizioni e restrizioni. Quasi certamente vi fu un interessamento del conte L. Rangone, a quel tempo potente e ascoltato governatore militare del Friuli. Non a caso troviamo il L. al suo servizio a Udine, come ufficiale del reggimento, quasi fino alla morte dello stesso (1552). E doveva aver dimostrato quanto meno una certa disposizione al mestiere delle armi se viene indicato dalla madre come il più adatto esecutore di un fantasioso piano, da lei stessa ideato, che prevedeva, mediante un colpo di mano militare, di sottrarre alla giurisdizione del vescovo-principe di Trento, Ludovico Madruzzo, il castello di Lodrone per darlo a Venezia, e così accreditarsi ulteriormente presso la Repubblica. Progetto presentato, benché improponibile, ovviamente, per motivi politici e pratici, e naturalmente subito cassato dal Consiglio dei dieci: da ricordare più che altro in quanto è l'ultima notizia che ci è nota su Drusiana Pallavicini (2 dic. 1551: De Festi, p. 46).
La quasi contemporanea morte della madre e del Rangone vide il L., come primogenito ed erede designato, già reintegrato nei suoi possedimenti. Per realizzare denaro contante, vendette alcuni campi, suoi e dei fratelli Rodomonte e Ippolito, ai figli di Paride di Francesco Lodrone (13 sett. 1551: Papaleoni, 1935). E subito dovette confrontarsi con l'economia e le politiche familiari, e non solo, quanto mai complesse, comunque ben al di sopra delle sue capacità. L'inesperienza (aveva 22 anni) e una istruzione che si riduceva a quanto appreso nelle compagnie di ventura non lo aiutarono certo a districarsi in problemi decisamente ardui. Da quanto riportano le cronache dell'epoca, citate da Papaleoni (1893), ebbe a misurarsi, tra l'altro, con l'estrazione e il commercio del ferro e del carbone e il loro trasporto sul fiume Caffaro, delicata questione di privilegi e licenze da ottenere dalla Repubblica. Difese la giurisdizione sulla piana di Oneda, da sempre contestata ai Lodrone, lite ormai secolare che mise a dura prova, un secolo dopo, la consumata diplomazia dell'arcivescovo di Salisburgo, e lontano parente, Paride Lodrone. Soprattutto, dovette trattare con una classe mercantile ormai emancipata, sempre più disincantata e intraprendente, insofferente di legami e obblighi feudali.
Secondo quanto scrive il Bulgarini, citato dal De Festi (p. 56), nonostante tutto il L. trovò modo di continuare sia la carriera militare sia le iniziative imprenditoriali. Nel 1553 fu a Siena, impegnato nella difesa di porta Ovile, capitano al servizio del re di Francia. L'anno seguente tornò nuovamente nella valle del Chiese dove, insieme con il quasi coetaneo e cugino Ottone di Francesco, cercò di sfruttare le vene di ferro di Collio, presso Bagolino, nel Bresciano, per avviare alcune fornaci a Storo e nella Pieve di Bon, nel Trentino. I Bagolinesi, danneggiati gravemente dall'iniziativa, inviarono una supplica al Collegio, dando così modo al rettore di Brescia di intervenire (Arch. di Stato di Venezia, Collegio, Lettere comuni, 12 marzo 1554). Per tentare di comporre la questione a suo modo, il L., dopo avere convocato quattro mercanti, ne sequestrò uno, tale Vincenzo Gazzella o Guggella, chiedendo poi ai Bagolinesi un riscatto di 1000 scudi, forse necessari a finanziare le sue avventure militari. Esasperati dall'ennesima vessazione (già nel 1548 avevano dovuto ricorrere più volte allo stesso podestà per un analogo riscatto chiesto da Ottone, che in quel caso riguardava la restituzione di bestiame indebitamente sequestrato), i paesani diedero l'assalto al palazzo dei Lodrone, liberando il Gazzella e uccidendo nello scontro il conte Ottone e lo stesso L. nel luglio 1554.
Sopravvisse solo il fratello più giovane del L., Ippolito. Papaleoni riferisce, senza dare indicazione alcuna, di avere trovato, in un registro del Comune di Condino, una nota datata 1554 di 7 lire e mezzo, moneta di Trento, spese per "ova, vino e castroni, portati a Lodron per l'obito del conte Achille" (1893, p. 478).
Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Brescia, Cancelleria del podestà, Ducali, 1544-1552, reg. 2; Arch. di Stato di Venezia, Capi del Consiglio dei dieci, Documenti relativi al Trentino, b. 2, 29 apr. 1550; Collegio, Lettere comuni, f. 10, 12 mar. 1554 (sub 12 apr. 1554); f. 11, 5 febbr. 1555; ibid., Lettere secrete, f. 20 (15 luglio 1554, 26 sett. 1554); C. De Festi, Genealogia e cenni storici, cronologici e critici della nobil casa Lodrone del Trentino…, in Giorn. araldico genealogico italiano, XXI (1893), pp. 46, 55 s., 75, tav. III, n. 48; G. Papaleoni, A. di L., in Nuovo Arch. veneto, V (1893), pp. 467-478; Id., Dina Lodrone e la sua famiglia, in Studi trentini di scienze storiche, XIV (1935), p. 32; Id., … Nuovi documenti, ibid., p. 242; C. Pasero, Il dominio veneto fino all'incendio della Loggia (1426-1573), in Storia di Brescia, II, Brescia 1963, p. 378; L. Melzani, Bagolino, storia di una Comunità, Cilverghe s.d., ad nomen.