ACQUA (dal lat. aqua; fr. eau; sp. agua; ted. Wasser; ingl. water)
L'acqua è il liquido più diffuso in natura, tanto che gli antichi la consideravano uno dei quattro elementi.
Chimicamente essa è un composto di idrogeno e ossigeno, secondo la formula H2O.
Acqua in natura.
L'acqua abbonda in natura, e si trova presente in tutti e tre gli stati: solida, liquida e allo stato di vapore. Si calcola che essa ricopra i tre quarti della superficie terrestre; animali e piante ne contengono una quantità notevole, e pure acqua contengono numerose rocce: acqua di imbibizione (acqua di cava), ed anche acqua di costituzione. Tutta l'acqua della terra passa attraverso un vero e proprio ciclo: il calore solare provoca la evaporazione dell'acqua del mare, dei laghi, ecc.; allorché poi il vapore trova condizioni opportune per condensarsi, si converte in acqua meteorica (nebbia, pioggia' ecc.) e ricade sulla superficie terrestre. Una parte di quest'acqua discende nelle rocce per legge di gravità, e si muove poi sotterraneamente con leggi analoghe a quelle delle acque superficiali, finché nel suo percorso trova una via di uscita e viene a giorno come sorgente, ricominciando poi il ciclo. In questo compiersi del ciclo di evaporazione, condensazione, circolazione, l'acqua viene a sciogliere materiali diversi, dato il potere solvente che essa esercita su solidi, liquidi e gas. Secondo l'uso che comunemente si adotta, distingueremo le acque di mare, lago, fiume, sorgente, pioggia.
Acqua di mare. - L'acqua dì mare è una soluzione di un grande numero di elettroliti; essa non contiene che una quantid piccola di materie azotate e quantità minime di colloidi. La salinità dell'acqua di mare è il peso totale di sali contenuto in 1 kg. d'acqua, e generalmente si deduce dalla densità o dal contenuto in cloro (che rappresenta l'ione più abbondante di tutti) od anche dalla conducibilità elettrica; naturalmente si deve supporre costante il rapporto tra queste grandezze e la salinità.
In 1000 gr. di acqua di mare sono stati trovati gli elementi raccolti nella seguente tabella, disposti nell'ordine decrescente della loro concentrazione:
Se consideriamo poi la composizione dell'acqua di alcuni oceani e mari, abbiamo la seguente tabella comprendeme; dati della salinità, e le concentrazioni dei componenti riportati a 100 gr. di sali totali:
Tutti i numeri riguardanti le concentrazioni dei singoli componenti disciolti presentano una concordanza soddisfacente, salvo per quanto riguarda il calcio e lo ione carbonico, che presentano variazioni notevoli. In generale l'acqua del mare contiene gr. 35 di sali per kg. d'acqua, formati, per l'85%, da cloruro di sodio. Però questa non è che una media, influenzata da molteplici cause di perturbazione (piogge, evaporazione, acqua dolce dei fiumi, estrazione selettiva di alcuni principî - come la calce, lo iodio, ecc. - da parte di esseri viventi, ecc.) mentre d'altro canto il movimento incessante del mare tende a ristabilire la uniformità di composizione.
R. Legendre ha recentemente riassunto (La concentration en ions hydrogène de l'eau de mer - le PH, Parigi 1925) numerosi studî sull'acqua del mare, importanti anche dal punto di vista oceanografico e biologico, e dal suo libro sono state tolte alcune delle tabelle riportate; uno dei punti fondamentali delle ricerche più recenti appare essere quello della concentrazione in ioni idrogeno (misurata dal PH determinato in generale colorimetricamente), le cui variazioni sono state studiate in mari diversi, a diverse profondità e in diverse stagioni. Il materiale raccolto, per quanto incompleto, permette di trarre qualche deduzione, e viene qui riportata una sezione, nella quale le ordinate rappresentano metri di profondità, ed i numeri scritti lungo le curve rappresentano valori del PH, che si riferisce al passaggio dal Golfo di Guascogna a Tripoli passando, dopo lo Stretto di Gibilterra, anche lo Stretto di Messina.
Come è stato generalmente osservato, e come appare dalla figura 1, il PH diminuisce in profondità e diminuisce anche passando dal sud al nord. Le misure più settentrionali di cui disponiamo sono quelle delle acque dello Svalbard con un PH da 7,94 a 8,08. Sono state eseguite anche esperienze sulle variazioni mensili, come mostra il seguente esempio che si riferisce al Mare d'Irlanda nelle vicinanze di Port Erin:
Risulterebbe un massimo in maggio e un minimo in dicembre; ma questo massimo appare soprattutto dovuto a fattori biologici.
Acque di lago. - Tralasciando i laghi salati, che sono bacini chiusi e che debbono essere riguardati come segmentazioni di qualche mare, si ha che in generale le acque dei laghi sono dolci perché ricevono continuamente acqua, e continuamente ne emettono; si comprende quindi come la composizione delle acque dolci di lago si avvicini assai a quella delle acque dei fiumi che vi affluiscono.
Acque di fiume. - Potrebbero chiamarsi anche acque correnti, e sono costituite da acque sorgive naturali miste a quelle provenienti dallo scioglimento delle nevi e dei ghiacci ed alle acque di pioggia; tali acque correnti, oltre a contenere sostanze minerali disciolte, trasportano anche in sospensione detriti inorganici ed organici svariati. Considerando le materie fisse disciolte nelle varie acque di fiume, si hanno generalmente gr. 0, 15 a 0,3 per litro. Ciò vale specialmente per i fiumi italiani; p. es.: l'acqua dell'Arno ha dato i seguenti risultati:
Però dati assoluti e costanti sono assai difficili a riscontrarsi, data la grande variabilità delle cause che influiscono sulla composizione delle acque di fiume.
Acque di sorgente. - Le acque sorgive possono in gran parte ritenersi derivate dalle acque meteoriche, le quali, penetrando nel terreno, come sopra è stato detto, effluiscono poi spontaneamente da zone limitate del suolo (si può avere anche efflusso per richiami artificialmente provocati). A seconda della natura delle rocce e della profondità a cui penetrano, le acque meteoriche possono mineralizzarsi più o meno. Se tali acque sotterranee si considerano dal punto di vista della loro origine, si possono distinguere acque vadose cioè acque poco profonde, definizione estesa poi a tutte le acque superficiali originate nell'atmosfera, ed acque giovanili o vergini (termali) che secondo alcuni si originerebbero nell'interno della terra per riscaldamento delle rocce. Dal punto di vista poi della sua qualità, l'acqua di sorgente interessa l'alimentazione, la medicina e l'industria. Di queste applicazioni si parlerà nei paragrafi seguenti.
Acqua meteorica.
L'acqua meteorica trae origine dalla condensazione del vapore acqueo atmosferico, dovuto all'evaporazione continua delle acque dei mari, dei laghi, dei fiumi, ecc. Essa pertanto è paragonabile, quanto alla sua genesi, all'acqua distillata, e con questa gareggerebbe in purezza, se attraversando strati più o meno spessi di aria atmosferica, non trascinasse in soluzione o in sospensione alcuni fra i componenti dell'aria, che con la caduta della pioggia, subisce un vero e proprio lavaggio. L'analisi dell'acqua piovana rivela infatti una percentuale variabilissima di gas, di ammoniaca libera e combinata, di nitriti, nitrati, cloruri cd altri sali. Presenta anche elementi trascinati meccanicamente per il contatto col limo atmosferico. Ma i risultati di tali analisi variano da campione a campione, non solo col variare della località, ma anche in uno stesso luogo a seconda della temperatura, della quantità di acqua precipitata, e a seconda soprattutto del momento in cui è stato raccolto il campione, cioè all'inizio della pioggia o piuttosto dopo un certo tempo dall'inizio; e in complesso le variazioni sono così notevoli da non permettere di stabilire una composizione media, nemmeno approssimata.
Restando nei limiti dei prodotti che interessano il terreno agrario, riportiamo i seguenti dati sul contenuto in ammoniaca e acido nitrico delle diverse precipitazioni atmosferiche:
Bibl.: Müntz e Aubin, Fortschritte der Chemie, 1886, p. 1800; Welbel, in Centralblatt für Agrikulturchemie, 1903, pp. 291, 293, 649; Woehlk, in Chem. News, CXXVII (1923); F. W. Clarke, The data of Geochemistry, Washington 1920.
Proprietà fisiche dell'acqua.
L'acqua pura, alla temperatura e pressione ordinaria, è un liquido limpido, che solidifica a 0° C. e bolle a 100° C.; in particolari condizioni l'acqua può venire sopraraffreddata notevolmente senza che solidifichi; quando l'acqua congela subisce una forte dilatazione, cosicché un litro di ghiaccio a 0° pesa gr. 917,60 mentre un litro d'acqua a 0° prima di congelarsi pesa gr. 999,87, il che porta al fatto che il ghiaccio galleggia sull'acqua.
Ghiaccio. - La temperatura di solidificazione dell'acqua a pressione ordinaria è stata assunta come zero di alcune scale termometriche (centigrada e Réaumur); variando la pressione, varia però la temperatura di congelamento: approssimativamente si ha l'abbassamento di un grado ogni 100 atmosfere di pressione, perché il volume del ghiaccio è più grande di quello dell'acqua. Però quando la pressione ha raggiunto 2115 atmosfere, la temperatura di congelamento ricomincia a salire, perché si originano forme di ghiaccio più dense dell'acqua; si trova precisamente che a temperature inferiori a −22° il ghiaccio non può venire fuso aumentando la pressione.
Lo studio dell'effetto delle grandi pressioni sulle proprietà del ghiaccio ha portato concordemente (salvo qualche divergenza nei particolari) a stabilire quanto segue: se supponiamo che il ghiaccio ordinario, chiamato ghiaccio I, venga mantenuto a −10° e gradualmente compresso fino a 1000 kg. per cmq., il ghiaccio fonde e si trasforma in acqua; se la pressione giunge a 4400 kg., il liquido congela per formare un ghiaccio più denso dell'acqua, chiamato ghiaccio V, ed a 6300 kg. il ghiaccio V si trasforma in un'altra varietà ancora più densa, chiamata ghiaccio VI. Se si ripete l'esperimento mantenendo la temperatura a −30°, il ghiaccio I si trasforma in un'altra varietà chiamato ghiaccio III, ad una pressione di 2200 kg.; il ghiaccio III a 3000 kg. si trasforma in altra varietà chiamata ghiaccio II, e, continuando ad aumentare la pressione, il ghiaccio II passa al ghiaccio V e finalmente al ghiaccio VI.
Il diagramma della fig. 2 (Bridgman, Zeitschrift f. anorg. Ch., LXXVII, 1912, p. 377) rappresenta l'andamento del fenomeno e la seguente tabella indica le coordinate dei punti tripli:
Prendendo in considerazione i limiti di esperimento si osserva che è possibile avere acqua nella forma solida, in equilibrio con il liquido, alla temperatura di + 80° C. e alla pressione di 20.000 atmosfere; tale forma solida non è però ghiaccio ordinario, ma ghiaccio VI.
Altre proprietà delle differenti forme di ghiaccio sono riassunte nella seguente tabella, che ci dà il cambiamento di volume dv in cmc. per grammo, e il calore latente cf di trasformazione, in piccole calorie, delle differenti forme di ghiaccio le une nelle altre ed in acqua liquida:
Sono state stabilite per le varie specie le seguenti densità (riferite all'acqua):
L'esistenza del ghiaccio IV, che non figura nelle considerazioni suesposte, è dubbia.
Il ghiaccio, quando è puro, è senza colore e trasparente, però in grandi masse appare azzurro pallido; ottenuto artificialmente è spesso bianco e opaco (questo dipende anche dalla temperatura impiegata per ottenerlo), cosa che è attribuita a bollicine di aria meccanicamente occluse.
Il ghiaccio è cristallino (esagonale) e ad esso spetta nella scala di Mohs (resistenza alla scalfittura) la durezza 1,5.
Il calore specifico del ghiaccio a 0° è 0,502, e diminuisce con la temperatura. La conducibilità calorifica è relativamente piccola, ma più grande di quella dell'acqua.
Il calore latente di trasformazione del ghiaccio in acqua a differenti temperature ha i seguenti valori:
Per una grammimolecola di acqua si ha in simboli
Acqua liquida. - L'acqua liquida è limpida e sotto forti spessori appare dì colore verde azzurro; questo colore è stato attribuito all'ossigeno disciolto. Esaminandone lo spettro d'assorbimento risulta che i raggi più assorbiti sono gli infrarossi; il vapor d'acqua è più trasparente del liquido.
Può agevolmente venire ottenuta sopraraffreddata a −30, −4° e anche al disotto; se si misura la velocità lineare di cristallizzazione dell'acqua (in cm. per minuto in un tubo) si hanno i seguenti valori relativi:
La densità dell'acqua ha il massimo a 4° (circa), ed a questa temperatura 1 cmc. di acqua pesa esattamente 1 gr. Prendendo come unità la densità dell'acqua a 4°, si ha la seguente tabella:
Il massimo di densità a 4°, sopra accennato, si sposta con la pressione
La compressibilità è assai piccola, come mostra la tabella seguente, dove i valori riportati rappresentano i volumi relativi riferiti al volume a 0° e un'atmosfera.
La dilatazione cubica da 0° a 80° è data dalla formula
La tensione superficiale dell'acqua è più alta di quella dei comuni liquidi, eccettuato il mercurio; in aria umida essa è data, in dine/cm. e in funzione della temperatura, dalla formula:
La viscosità dell'acqua a 20° è η = 0,01006 (in unità c. g. s.) e diminuisce col crescere della temperatura (a 100° è 0,00284); per il ghiaccio è enormemente più grande (circa 2•10+10 a 0°); per il vapore d'acqua invece è 0,0000975.
La coesione specifica (rh = a2, a altezza della colonna in un capillare di 1 mm. di raggio) a differenti temperature in aria umida, è: a2 = 14,987 (1 − 0,001458 t).
La velocità del suono nell'acqua a 15° è di 1457 metri per secondo; nell'acqua del mare (s = 1,0245) è 1503 metri a 15°, nel vapore è di 413 metri per secondo a 110°.
Il calore specifico, cioè la quantità di calore occorrente oer inlalzare di un grado la temperatura di un grammo d'acqua liquida, in condizioni stabilite, è assunto come unità campione: la caloria media è la quantità di calore che si ottiene dividendo per 100 la quantità di calore occorrente per portare da 0° a 100° la temperatura di 1 gr. di acqua; la caloria a 15° è invece riferita all'acqua tra 14°,5 e 15°,5. Il calore specifico dell'acqua è anormalmente grande, ed è abbastanza costante entro limiti abbastanza estesi di temperatura; la curva del calore specifico presenta un minimo verso 30°.
La variazione del calore specifico da 0° a 100° dell'acqua può essere rappresentata dalla formula (se c a 15° è assunto come unità):
All'elevato calore specifico dell'acqua si attribuisce l'azione moderatrice sulle variazioni di temperatura invernale ed estiva.
La conducibilità calorifica dell'acqua liquida è bassa: a 25° è 0,00136 in unità c. g. s.; il ghiaccio è un po' più conduttore.
Riguardo alle proprietà ottiche si hanno a 20° i seguenti valori: indice di rifrazione: μA = 1,3279; μD =1,3320; μH = 1,3427; potere dispersivo = 0,0445; in confronto con il ghiaccio si ha, a 0°, per l'acqua liquida μD = 1,3341, per il ghiaccio μD = 1,3095.
La conducibilità elettrica dell'acqua è molto bassa; si è ottenuta una conducibilità a 18° di 0,043•10-6 ohm-1 cm.-1, e per l'acqua assolutamente pura è stata dedotta una conducibilità specifica di 0,038•10-6 a 18°.
La costante dielettrica dell'acqua è data, nelle sue variazioni con la temperatura, dalla formula:
Tale formula, valida tra 0° e 76°, è stata utilizzata anche per la temperatura di 100°, col risultato D100 = 58,14.
L'acqua allo stato di vapore. - Per trasformare l'acqua in vapore occorre una quantità di calore relativamente grande; per trasformare 1 gr. di acqua a 100° in vapore a 100° occorrono circa 540 cal. corrispondenti a 9,73 cal. per gr./molecola a 100°, e quest'ultimo valore rappresenta il calore latente di vaporizzazione dell'acqua a 100°; in simboli si ha:
Il calore di vaporizzazione dell'acqua a diverse temperature è dato, alle pressioni p di saturazione, da:
Riportiamo ora nelle tabelle seguenti le tensioni del vapor d'acqua su ghiaccio e su acqua da − 65° a 370°.
Per quanto riguarda il vapore d'acqua surriscaldato la formula che dà il volume V in funzione della pressione p in kg/mq. e della temperatura assoluta T è la seguente:
La temperatura di ebollizione dell'acqua a 760 mm. è stata assunta come 100 nella scala centigrada; tale temperatura aumenta con la pressione come dimostrano i seguenti numeri:
e diminuisce col diminuire della pressione nella seguente misura.
I dati critici approssimativi dell'acqua sono: temperatura critica 370°; pressione critica 200 atmosfere, volume critico 0,003864; densità critica 0,40.
Peso molecolare dell'acqua. - La densità. di vapore dell'acqua è leggermente superiore a quella richiesta per la formula molecolare H2O; infatti la densità relativa del vapor d'acqua, in equilibrio col liquido, riferita all'aria, fornisce i valori:
dai quali si deduce un peso molecolare tra 18,33 e 19,06, mentre dovrebbe risultare 18,02, e la densità corrispondente sarebbe 0,6224. Ammettendo che il vapore risulti un miscuglio di molecole H2O con poche molecole H4O2 risulterebbe alle varie temperature ed alla pressione del vapor d'acqua saturo:
Un aumento delle molecole H2O col crescere della temperatura è compensato da un aumento della pressione.
L'acqua liquida, per quanto comunemente rappresentata dalla formula H2O, ha una molecola molto più complessa: che l'acqua sia un liquido associato risulta soprattutto dai seguenti fatti: 1°) il punto di ebollizione dell'acqua dovrebbe, per analogia con i suoi omologhi, trovarsi a −80°, come risulta dal seguente confronto:
e risultano valori anche più bassi (p. es.: −120°) se si istituiscono altri confronti; 2°) il coefficiente di temperatura dell'energia superficiale molecolare per un liquido normale è −2,25; per l'acqua è invece −0,87 a 100 e −1,21 a 140°.
Si può dire che quasi tutte le costanti fisiche dell'acqua portino ad ammettere l'ipotesi che essa contenga molecole polimerizzate, e, per spiegare questi fatti, Röntgen suppose che l'acqua risultasse un miscuglio di due specie di molecole, ch'egli chiamò molecole acqua e molecole ghiaccio; quest'ultima specie di molecole formava una massa molto più complessa ma meno densa che non le molecole acqua. Mentre le basse temperature favorivano un accumulamento di molecole ghiaccio, le alte pressioni provocavano quello di molecole acqua, dissociando le molecole più complesse, poiché il passaggio da molecole ghiaccio in molecole acqua era accompagnato da contrazione e da assorbimento di calore; infine il fatto del congelamento a temperatura costante poteva spiegarsi con l'esistenza di un equilibrio ben definito tra le due specie di molecole.
W. Sutherland chiamò triidrolo le molecole ghiaccio di Röntgen e diidrolo le molecole acqua assumendo il peso molecolare (H2O)3 o H6O3 per le prime, e (H2O)2 o H4O2 per le seconde; chiamò infine idrolo, H2O, le molecole del vapore.
Dalla densità dell'acqua a 0° è stato calcolato che sarebbero presenti 37,5% di triidrolo e 62,5% di diidrolo, e che a 2300 atmosfere di pressione nell'acqua a 00 non vi sarebbe triidrolo. Riportiamo qui la tabella di confronto tra le proprietà fisiche presunte del triidrolo e quelle del diidrolo:
È stato anche supposto che la costante dell'equilibrio: nH2O ⇄ (H2O)n varii con la temperatura, e che le molecole polimerizzate siarlo presenti nell'acqua in forma colloidale; inoltre che alcune molecole abbiano la stessa composizione ma differente struttura, così ad es.: le molecole di diidrolo potrebbero esistere in due forme differenti: diidrone e idronolo.
Più recentemente G. Tammann (Zeitschr. f. anorg. Ch., CLVIII, 1926), è giunto alle seguenti conclusioni: 1°) la dipendenza del volume dell'acqua dalla temperatura e dalla pressione dimostra l'esistenza di una specie molecolare I (che forma il ghiaccio I) caratterizzata dal suo grande volume, e avente un campo di esistenza tra 50° e la curva di fusione del ghiaccio e tra 0 e 2500 kg/cmq., cosa che è confermata da altre deduzioni; 2°) l'influenza della specie molecolare I sulla tensione superficiale e sul potere rifrangente è proporzionale alla sua concentrazione; 3°) la determinazione della concentrazione della specie molecolare I rende possibile la determinazione dedotta termodinamicamente del peso molecolare della specie stessa, che risulta (H2O)9 se essa si scinde in 9H2O, e (H2O)6 se si scinde in 2 (H2O)3. Come Tammann fa rilevare, anche Duclaux aveva dedotto il peso molecolare da (H2O)6 ad (H2O)9.
È da notare infine che è stato determinato da varî osservatori, ad es. E. Mameli (Gazz. chim. it., XXXIX, 1909, 11, p. 584), G. Bruni e collaboratori (Gazz. chim. it., XL, 1910, 11, p.1), il peso molecolare dell'acqua sciolta in varî solventi. È stato trovato che in soluzione diluita, anche in solventi fortemente associanti, l'acqua ha peso molecolare pressoché normale; man mano però che cresce la concentrazione, sempre in solventi non dissocianti, si trova un peso molecolare superiore, cioè l'acqua dimostra la tendenza a formare molecole complesse, e a concentrazioni elevate i valori si avvicinano a quelli corrispondenti alla molecola doppia.
Bibl.: E. Hausbrand, Verdampfen, Kondensieren und Kühlen, 6ª ed., Berlino 1918; W. C. Lewis, A system of physical Chemistry, Londra 1919; Landolt-Börnstein, Tabellen, 1921; J. W. Mellor, A comprehensive treatise of inorganic and theoretical Chemistry, Londra 1922, I; International critical Tables of numerical data, Chicago 1926, I-II-III.
Acqua potabile.
Un'acqua si dice potabile quando, oltre a possedere sapore, colore e limpidezza che la rendano grata al gusto e alla vista, oltre a non avere odore spiacevole, abbia composizione adatta a soddisfare i bisogni fisiologici del ricambio dell'organismo e non possa recare a questo alcun danno o malattia, per la presenza in essa sia di sostanze chimiche nocive, sia di germi patogeni.
Il concetto che le acque siano talvolta capaci di provocare malattie e in realtà antichissimo, e anche presso i Romani fu profondamente sentita l'utilità di un buon approvvigionamento idrico. Ma, naturalmente, mancando di esatte basi scientifiche, il concetto di potabilità era nel passato fondato soprattutto sull'empirismo, mentre le attuali conoscenze ci hanno fornito criterî abbastanza precisi, i quali ci guidano nella ricerca e nell'apprezzamento dei differenti caratteri che possono presentare le acque a seconda della loro origine e di svariate altre circostanze.
Secondo l'origine, le acque da adoperarsi per bevanda ordinaria, poiché qui non occorre parlare di quelle medicamentose, si possono classificare in piovane, superficiali (di corsi d'acqua, di lago, ecc.) e in sotterranee. Queste ultime si distinguono poi in acque di falda superficiale e di falda profonda, a seconda che si trovino poco distanti dalla superficie del suolo e in ogni modo in rapporto con essa, oppure ne siano divise da strati di terreno impermeabili, i quali perciò le proteggono, più o meno sicuramente a seconda dei casi, dalle infiltrazioni superficiali, spesso temibili.
I caratteri che si studiano in questi diversi tipi di acque si sogliono distinguere in organolettici, fisici, chimici e batteriologici o, meglio, biologici.
1. Caratteri organolettici. - Sono quelli apprezzabili con i sensi; per cui si richiede, come già fu accennato, che l'acqua potabile sia limpida, senza colore, senza odore e sapore sgradevoli.
2. Caratteri fisici. - Il più importante di questi è la temperatura, che si prescrive di solito resti compresa tra i 7° e i 15° C. Ciò soprattutto perché le acque un po' calde sono disgustose e non dànno il refrigerio delle acque fresche, e quelle troppo fredde possono anche riuscire dannose.
3. Caratteri chimici. - I caratteri chimici, cui si rivolge l'analisi chimica delle acque potabili, riguardano specialmente la presenza: 1° di sostanze che servono ad indicarci inquinamenti; 2° di sostanze che, se in grande quantità, rendono l'acqua poco gradita e meno adatta alla sua funzione nel nostro ricambio; 3° di sostanze per se stesse dannose.
4. Caratteri batteriologici o biologici - Questi caratteri sono molto importanti per giudicare se l'acqua sia pura oppure no, e se contenga germi di malattie. Vi è perciò tutta una tecnica speciale, con la quale si determina essenzialmente il numero e la qualità dei germi presenti nell'acqua, non restringendo la ricerca ai microbî propriamente detti, ma, a seconda dei casi, anche ad altri parassiti (p. es., vermi). Un'indagine assai importante consiste nel riconoscere se nell'acqua sia presente, e in numero rilevante, il così detto Bacterium coli. Questo batterio è ospite ordinario dell'intestino degli animali, e si comprende per ciò come la sua presenza nell'acqua possa testimoniare che questa ha subìto, o subisce, inquinamenti fecali, che potrebbero riuscire pericolosissimi se le feci provenissero da malati di tifo, di colera, ecc. Qui va notato che cotesta ricerca del Bacterium coli, a differenza di quella del bacillo del tifo e di altri germi pericolosi, è assai facile, e può essere compiuta molto presto: sicché vi si ricorre sempre e vi si dà grande importanza, potendo, come si è detto, svelare inquinamenti fecali, e ammonire su pericoli anche lontani.
Il giudizio di potabilità di un'acqua si fonda, dunque, sullo studio e sulla valutazione dei varî caratteri testé ricordati, integrato dall'esame accurato della località ove trovasi l'acqua e dei terreni eventualmente attraversati da essa, onde riconoscervi la presenza di cause, accidentali o meno, d'inquinamento. Si tiene conto infine, a guisa di modelli, della composizione e delle qualità delle acque più riputate. Non è superfluo osservare però che molte volte ci si deve allontanare parecchio da questi modelli, pure restando sempre fedeli ai concetti espressi al principio di questo articolo. Perché l'approvvigionamento idrico è problema tecnico ed economico, oltre che igienico: e però si deve cercare di contemperare tutte le esigenze, e non comprometterne troppo alcune, per soverchio amore delle altre.
Pur non potendosi fissare netti criterî per stabilire i requisiti di una buona acqua potahile, trascriviamo qui una tabella di orientamento, che rappresenta i limiti di oscillazione dei varî costituenti.
Come si vede dallo specchietto ora esposto, un'acqua per essere potabile (dal punto di vista della composizione chimica), oltre ad essere affatto priva di ammoniaca e di nitriti, non deve contenere che piccole quantità di nitrati e cloro e piccolissime quantità di sostanza organica (espressa in ossigeno consumato). È appunto alle predette sostanze che si deve principalmente badare prima di dare un giudizio sulla potabilità dell'acqua, perché la loro presenza dimostra che vi fu o vi è ancora inquinamento con materie organiche (acque di fogne, scoli di luoghi abitati, ecc.). Sarà quindi sempre da scartare un'acqua che contenga ammoniaca o nitriti o sostanze organiche (oltre il limite) e sarà da ritenersi come sospetta un'acqua che contenga nitrati o cloro oltre i limiti stabiliti, a meno che non si possa provare in modo sicuro che questi sali provengono dai terreni; anche la presenza di acido fosf0rico è indizio di contaminazione organica delle acque.
Secondo i metodi ufficiali dei laboratorî del Ministero dell'economia nazionale, l'analisi chimica sommaria di un'acqua potabile comprende le ricerche dell'ammoniaca, dell'acido nitroso, dell'acido nitrico, dell'acido solforico, della calce, della magnesia e le determinazioni del cloro, delle sostanze organiche, della durezza, dell'alcalinità. Secondo i metodi ufficiali ora detti un'acqua è da ritenersi potabile quando è incolora e inodora, ha sapore gradevole, reazione neutra o leggermente alcalina, temperatura inferiore a 15°. Non deve contenere ammoniaca, né acido nitroso; l'acido nitrico vi può essere solo in piecola quantità. Il cloro non deve superare gr. 0,035 per litro, ma in qualche caso speciale si può tollerare sino a gr. 0,050, quando l'acqua non presenti altro difetto; la durezza non deve superare i 30 gradi francesi.
La cosiddetta durezza ha per le acque potabili più grande importanza che non per le acque minerali. Impartiscono durezza all'acqua i sali di calcio e di magnesio, e si distingue una durezza temporanea o transitoria, ed una durezza permanente: la prima è data dai sali di calcio e di magnesio presenti come bicarbonati, i quali, per ebollizione dell'acqua, si convertono in carbonati neutri insolubili, la seconda è data invece dai sali di calcio e di magnesio di altri acidi (solforico, cloridrico, nitrico).
Si esprime la durezza di un'acqua in gradi idrotimetrici tedeschi, francesi e inglesi; il modo più esatto di determinare la durezza totale è di dedurla dal contenuto in calcio e magnesio: si moltiplicano i mg. di magnesio trovati in 1 litro per 1,4, e si addiziona a questo numero il numero dei mg. di ossido di calcio. Questo numero diviso per 10 dà la durezza totale in gradi tedeschi; esistono però anche un grado francese ehe rappresenta 10 mg. CaCO3 in un litro d'acqua, ed un grado inglese che rappresenta un grano di CaCO3 per un gallone di acqua, cioè equivale a 14,3 mg. CaO per un litro. La tabella di equivalenza è la seguente:
Per determinare la durezza totale si può usufruire della proprietà già menzionata delle acque dure di sciogliere male il sapone, impiegando una soluzione alcoolica titolata di questo e stabilendo quale volume ne occorre, per produrre, dopo forte scuotimento, una schiuma permanente. Ripetendo la determinazione dopo aver fatto bollire l'acqua, si ottiene la durezza permanente, e la durezza temporanea viene ad essere data dalla differenza fra le due determinazioni.
Pure in relazione con la determinazione della durezza è quella dell'alcalinità di un'acqua eseguita con acido cloridrico titolato usando come indicatore il metilarancio; operando su acqua allo stato normale si viene ad avere l'alcalinità totale (dovuta ai carbonati o bicarbonati alcalino-terrosi o alcalini dell'acqua) mentre si ottiene l'alcalinità permanente eseguendo la stessa determinazione sull'acqua dopo ebollizione.
Oltre alla durezza e alla composizione chimica, è stata messa in evidenza l'importanza di due determinnzioni: quella del deficit di ossigeno e l'altra del consumo di ossigeno. Per deficit di ossigeno s'intende la quantità di ossigeno, espressa in mg. e in cmc. (a 0° e 760 mm.) per 1 litro di acqua, che manca all'acqua per essere satura di ossigeno dell'atmosfera a quella temperatura. Se il valore della saturazione alla temperatura considerata è s, ed a il contenuto in ossigeno trovato, sarà s − a il deficit di ossigeno. Il valore di s può dedursi dalla seguente tabella, che riporta il contenuto in ossigeno e azoto dell'acqua satura di aria (esente da anidride carbonica e ammoniaca) alla pressione di 760 mm.:
Come apprezzamento poi del grado di impurezza di un'acqua è stato ritenuto di notevole importanza il consumo di ossigeno, consumo che viene misurato confrontando la quantità di ossigeno contenuta nell'acqua al momento del prelevamento, con quella che si trova in un campione raccolto contemporaneamente, ma lasciato a sé per 48 ore prima di eseguire la determinazione. Viene assunto come consumo normale di ossigeno la diminuzione in mg. per litro e per ora, riferita al tempo normale di 48 ore e alla temperatura normale di 20°.
Un altro fattore che interessa anche le acque potabili è la cosiddetta aggressività di un'acqua: è stato osservato che, per mantenere i bicarbonati in soluzione, occorre un determinato contenuto in acido carbonico libero, il quale non scioglie ulteriori quantità di CaCO3. Volendo scrivere questo sotto forma di equazione, si avrebbe:
La parte di acido carbonico libero che risulta in eccesso rispetto alla quantità suddetta è capace di reagire non soltanto con i carbonati, ma anche con metalli, e questa parte costituisce l'acido carbonico aggressivo; l'acido carbonico libero non interessa quindi nella sua quantità totale, ma nella parte che si può considerare veramente acida, in quanto scioglie il CaCO3 ed alla quale si può attribuire l'intensità dell'attacco.
L'acido carbonico da solo ha un'azione solvente sul ferro, ma all'aggressività contribuisce anche l'ossigeno, avendosi insieme l'attacco del ferro e la sua trasformazione in ruggine.
Di notevole importanza è anche l'attacco del piombo da parte dell'acqua; tutte le acque contenenti ossigeno attaccherebbero il piombo (Klut, cfr. Ullmann) fino a che su di esso non si sia depositato uno strato protettore di carbonato di calcio; l'ossigeno agirebbe secondo l'equazione: Pb + O + H2O = Pb(OH)2; la presenza di acido carbonico favorisce il processo, in quanto che si forma bicarbonato.
Nella tabella che precede sono contenuti i dati analitici espressi in grammi per 100 litri d'acqua riguardanti le acque potabili di alcune città italiane.
Depurazione delle acque potabili. - Non sempre le acque da adibire ad uso potabile possiedono tutti i requisiti necessarî, specialmente se si tratta di acque superficiali o di acque del sottosuolo: spesso occorre quindi una depurazione, che, nella sua più semplice espressione, è rappresentata dalla filtrazionp. I filtri a sabbia, che sono i più impiegati, permettono una depurazione efficace e poco costosa: essi però debbono trattenere le impurezze meccaniche il più possibile nella parte superficiale, per evitare un deterioramento degli strati sottostanti. Per ottenere questo occorre che i pori del filtro siano sufficentemente piccoli, e che la velocità di passaggio dell'acqua sia moderata; infatti occorre ricordare che al filtro non è affidata soltanto una funzione puramente fisica, ma che in esso si compiono anche processi chimici che hanno grande importanza per la purificazione, e che portano anche una diminuzione notevole nelle qualità e quantità dei batterî che possono trovarsi nell'acqua.
In alcuni modelli di filtri lo strato di sabbia fine (strato filtrante) poggiava su un altro strato costituito a sua volta da piccoli strati di grossa sabbia, di ciottolini minuti e di ciottoli più grossi (strato di passaggio) ed infine sul fondo del filtro si trovava lo strato di sostegno, formato da uno strato di grosse pietre al quale sovrastava uno strato di pietre più piccole. L'esperienza ulteriore ha però portato ad abolire gli strati di sostegno e ad usufruire di un solo strato filtrante, formato di materiale a granuli uniformi, eventualmente inserendo, prima del vero filtro, un filtro rapido; quest'ultimo appare convenientissimo tanto per la maggiore depurazione che si ottiene, quanto per la conservazione del filtro vero, il quale viene a deteriorarsi con molto minore rapidità.
Se si dovesse togliere anche il ferro, si può ricorrere ad una forte aerazione (ottenuta suddividendo l'acqua come fitta pioggia su strati di carbone coke o altro materiale in pezzi) prima di procedere alla filtrazione.
Si usano anche filtri isolati o a batterie, che possono essere costituiti da candele o dischi filtranti di porcellana non verniciata, di amianto o di terra di infusorî.
Quando però la filtrazione per sabbia non sia sufficiente a togliere colorazioni o sospensioni argillose, conviene far subire all'acqua una preliminare chiarificazione, che viene in generale ottenuta per aggiunta di sostanze che diano precipitati fioccosi capaci di occludere le impurezze.
Il mezzo di chiarificazione più comunemente impiegato è il solfato di alluminio, che reagisce nel seguente modo:
L'idrato di alluminio formatosi si separa e chiarifica l'acqua.
Per quanto riguarda la correzione della durezza delle acque, questa si ottiene aggiungendo, dopo analisi dell'acqua, la necessaria quantità di soluzione di idrato di calcio (o di sodio) e soluzione di carbonato sodico.
Altri reagenti chimici, che sono stati usati per depurare le acque potabili, sono il ferro e suoi sali, il permanganato di potassio, lo iodio (con successiva aggiunta di tiosolfato), il cloro, gl'ipocloriti, e anche sali d'argento (fluoruro, fluosilicato).
La vera sterilizzazione dell'acqua si raggiunge facendola bollire abbastanza a lungo, e specialmente portando la temperatura a 15°-120°; con questo, oltre ad eliminare la durezza temporanea, si elimina altresì l'aria disciolta, e quindi è conveniente una successiva aerazione; però il procedimento in grande è relativamente assai costoso.
È stata adottata in moltissimi casi la sterilizzazione con l'ozono, che si effettua portando l'acqua in contatto intimo con aria ozonizzata (per mezzo delle scariche oscure). È stata pure proposta e in varî casi adottata la sterilizzazione con i raggi ultravioletti, prodotti mediante lampade a vapori di mercurio; si richiede però che l'acqua sia limpida e passi ripetutamente in vicinanza della sorgente radiante.
In casi speciali si ricorre alla distillazione dell'acqua impura in apparecchi a multiplo effetto, e con questo mezzo su molte navi si ottiene acqua potabile dall'acqua di mare, aerando poi convenientemente l'acqua ottenuta.
Bibl.: G. B. Bruno, in Giornale del Genio civile, 1911; V. Villavecchia, Trattato di chimica analitica applicata, 2ª ed., Milano 1921; W. Ohlmüller e O. Spitta, Die Untersuchung und Beurteilung des Wassers und des Abwassers, Berlino 1921; Ullmann, Enzyklopädie der technischen Chemie, II, Berlino 1922; Municipio di Trento, L'acquedotto di Trento, Trento 1926.
Acque minerali.
Le acque minerali naturali sono acque di sorgente, cioè acque provenienti dall'interno della terra, e che affiorano alla superficie per via naturale o per richiami artificialmente provocati. Naturalmente si tratta di sorgenti perenni, cioè che erogano costantemente acqua, e soprattutto che possono venire adibite a scopi terapeutici.
Secondo l'uso corrente si possono chiamare acque minerali quelle acque che o per la quantità di corpi disciolti, o per la natura di essi, o per la temperatura che possiedono alla sorgente, sono riconosciute adatte a scopi terapeutici. Effettivamente però è difficilissimo dare una definizione esatta: dal punto di vista chimico si osserva infatti che l'indagine chimica e chimico-fisica non sempre rendono ragione dell'azione terapeutica propria di acque, anche celebrate, di cui la storia e il medico documentano l'assoluta efficacia, e quindi raramente si può affermare a priori che una determinata acqua sia da ritenersi o no minerale; occorre che l'eventuale affermazione sia accompagnata da una lunga e coscienziosa esperienza clinica o che sia possibile il riferimento ad acque già note strettamente similari.
Se si confrontano le acque potabili con quelle minerali, si trova che queste subiscono più facilmente alterazioni nella loro composizione per effetto dei cambiamenti di temperatura, pressione, aerazione, ai quali le acque stesse si trovano sottoposte dopo la loro scaturigine, ma anche da questo punto di vista si può dire che in molti casi una vera differenziazione non esiste.
La storia delle acque minerali registra anche una questione legale, in base alla quale Grünhut ebbe ad indicare dei limiti precisi di composizione che dovrebbero caratterizzare un'acqua minerale: egli afferma che un'acqua si può considerare minerale quando è superato uno dei valori limiti segnato nella tabella della pagina seguente (riportata nel trattato di J. König, Untersuchung von Nahrungs-Genussmitteln und Gebrauchsgegenständen, Berlino 1918, III, parte 3a).
Questa tabella, pur non potendo avere un valore assoluto, può avere quello di orientamento. Del resto è noto che anche i criterî di potabilità di un'acqua, che più volte si è cercato di fissare in modo ben netto, debbono spesso subire interpretazioni più larghe, allorché oltre alla qualità si debba tener conto della quantità d'acqua occorrente ai bisogni di una popolazione; ancor più quindi possono variare i criterî per le acque minerali, di cui esistono varietà innumerevoli.
Come alcalinità dei carbonati alcalini s'intende quella che il König definisce come engere Alkalität, cioè l'alcalinità dell'estratto acquoso ottenuto lavando con poca acqua il residuo di 500 gr. di acqua; in tale liquido, dopo la titolazione, vengono determinate le quantità di calcio e di magnesio presenti, in modo da poter dedurre l'alcalinità dovuta ai carbonati alcalini propriamente detti.
Classificazione delle acque minerali. - Se non è facile dare una definizione esatta di acqua minerale, è assolutamente impossibile, data la grande varietà dei tipi di esse, immaginare una classificazione delle acque stesse la quale sia esente da critiche, qualunque sia il criterio che possa venir preso per base: terapeutico, geologico, fisico o chimico.
Una prima divisione potrebbe farsi in base alla temperatura dell'acqua alla sorgente, distinguendo tre categorie:
e si potrebbe anche aggiungere la categoria delle sorgenti fredde (con temperatura inferiore a 20°). Sopra un criterio anch'esso fisiologico è basata la distinzione tra sorgenti ipotoniche, isotoniche ed ipertoniche, a seconda che la pressione osmotica dell'acqua sia inferiore, uguale o superiore a quella del siero di sangue umano. Riferendosi al punto di congelamento si avrebbe:
1. Acque ipotoniche, con un punto di congelamento superiore a −0°,55;
2. Acque isotoniche, con un punto di congelamento compreso tra −o°,55 e −0°,58;
3. Acque ipertoniche, con un punto di congelamento inferiore a −0°,58.
Un fattore anche importante, specie per le cure fatte sul posto, è quello della radioattività e soprattutto della ororadioattività; di esso parleremo in seguito.
Riferendosi alla composizione chimica, le difficoltà di classificazione divengono assai grandi, e le molte proposte fatte non hanno portato a stabilire uno schema fondamentale che sia stato accettato dalla maggioranza degli idrologi. Ad ogni modo, i concetti che hanno guidato, nelle varie classificazioni, a distinguere le diverse categorie, si riferiscono ai principali mineralizzatori delle acque, e quindi possiamo limitarci a considerare le sostanze stesse, e le possibilità che più comunemente possono presentarsi:
1. Acido carbonico. - Vi sono acque che contengono una notevole quantità di acido carbonico libero, cioè in quantità eccedente rispetto a quella sufficiente per trasformare i carbonati presenti in bicarbonati. Queste acque sono in generale definite acidule, ma naturalmente i bicarbonati presenti possono essere alcalini o alcalino-terrosi (acque bicarbonato-sodiche e bicarbonato-calciche), ed accanto ad essi possono trovarsi solfati e cloruri in quantità discreta o abbondante, il che può far perdere importanza, come mineralizzatore, all'acido carbonico. Vi sono però anche acque contenenti l'acido carbonico in piccola quantità, tanto da aversi reazione alcalina alla fenolftaleina (a causa dei íenomeni di idrolisi), mentre le acque contenenti un eccesso di acido carbonico reagiscono alcaline al metilarancio, ma acide di fronte alla fenolftaleina.
2. Acido solforico. - L'acido solforico, nelle acque che reagiscono alcaline al metilarancio, si trova in genere legato in preponderanza al calcio o al sodio (o al magnesio), nel senso che in queste acque predominano il solfato di calcio o il solfato di sodio (o di magnesio), si può parlare in tali casi di acque solfato-calciche o solfato-sodiche (o solfato-magnesiache); esistono però anche acque in cui si ha acido solforico libero, o quanto meno si ha reazione acida per acido solforico: sono queste le acque solfato-ferriche alluminiche, spesso arsenicali, nelle quali l'acido solf0rico deriva dalla idrolisi dei solfati di ferro e di alluminio.
3. Acido cloridrico. - Entra combinato nel sodio nelle acque salate, meglio dette clorurate; spesso accanto al cloruro di sodio esiste anche una certa quantità di solfati (acque clorosolfate) e soprattutto una certa quantità di bromuri e ioduri (acque bromo-iodurate), nonché potassio e litio.
4. Idrogeno solforato. - In generale, quando è presente, esso è quasi tutto allo stato libero, poiché se è contemporaneamente presente acido carbonico anche in non grande quantità, questo sposta l'idrogeno solforato, che è un acido notevolmente più debole. Ad ogni modo di queste acque vien fatta spesso una categoria a sé, sia che contengano H2S libero, sia che contengano solfuri di sodio, di calcio, ecc. (acque solfuree): è però ovvio che anche qui possono aversi contemporaneamente varî mineralizzatori e in quantità diverse.
5. Arsenico. - Si trova in quantità relativamente notevole, specialmente nelle acque solfato-ferriche acide surricordate, sotto forma di arsenito o di arseniato (acque arsenicali).
6. Ferro. - Nelle acque a reazione alcalina rispetto al metilarancio è presente come bicarbonato ferroso (acque ferruginose alcaline), mentre nelle ferruginose acide si trova come solfato ferroso e come solfato ferrico. Naturalmente se sono presenti altri acidi, come arsenioso o arsenico o fost0rico, possono esser presenti sali di ferro di questi acidi.
Le brevi osservazioni fatte a proposito di ciascun mineralizzatore considerato bastano ad indicare i varî gruppi e sottogruppi che si originerebbero considerando i diversi casi possibili, e di più da esse risulta che una stessa acqua minerale potrebbe appartenere contemporaneamente a diversi gruppi; formano invece categoria a sé le cosiddette acque oligometalliche o oligominerali, contraddistinte da un piccolo residuo fisso (intorno a gr. 0,1 per litro). Va però ricordato che, accanto ai citati mineralizzatori, sono stati trovati nelle acque molti altri elementi come il manganese, il boro, il fluoro, e poi piombo, stagno, argento, germanio, molibdeno, gallio, rame, zinco, bismuto, titanio, berillio, antimonio, tungsteno, vanadio, nichel, cobalto, cromo, mercurio, oro, tallio, e gas disciolti (comuni e rari), i quali tutti tendono a conferire caratteri peculiari alle acque in cui si trovano; e infine deve venir messo in evidenza il fatto importantissimo della possibile presenza di elementi radioattivi, sia sotto forma solida, sia sotto forma di emanazioni.
Più che altro si potrebbe dunque dire che ogni acqua minerale risulta nel suo complesso avere un'individualità propria, costituita non da uno solo, ma da molteplici mineralizzatori, cosicché sarebbe di maggior importanza rappresentare l'analisi e le indagini chimiche e chimico-fisiche eseguite sopra un'acqua minerale, in modo che dal complesso di esse scaturisca per il medico e per il chimico la possibilità di rendersi conto delle peculiarità di un'acqua, come diremo più avanti.
Analisi delle acque minerali. - L'analisi delle acque minerali rientra in gran parte nell'analisi qualitativa e quantitativa ordinaria. Non è quindi il caso di considerare minutamente i metodi di analisi, né di minutamente descrivere l'esecuzione dell'indagine chimico-fisica, ma piuttosto si deve considerare l'applicabilità dei varî metodi, ed esaminare fino a qual punto vada spinta un'analisi di questo tipo. In Italia abbiamo la legge sulle acque minerali che stabilisce tutte le ricerche da farsi, ma è bene osservare che tali prescrizioni rappresentano il minimo di lavoro e di ricerche da eseguire, e viene lasciata piena libertà per tutte quelle indagini accessorie che venissero ritenute opportune; questo risulta anche chiaramente da quanto la legge dispone riguardo alla rappresentazione dei risultati analitici.
Tali ricerche suppletive, oltreché in laboratorio, trovano specialmente alla sorgente la loro esplicazione, e, si può dire, variano caso per caso, poiché svolgendosi esse anche nel campo terapeutico, occorre non trascurarne alcuna atta a chiarire in qualche modo il meccanismo dell'azione medicamentosa; anzi è bene cercare di cogliere qualche fatto nuovo che possa suggerire altre applicazioni terapeutiche. Non va però dimenticato che si tratta di un campo scientifico il quale viene spesso invaso dall'interesse commerciale, e quindi occorre una grande oculatezza nella interpretazione dei risultati dell'indagine.
Ricerche alla sorgeme. - E pressoché superfluo dire che i saggi vanno eseguiti alla sorgente, cioè nel punto in cui scaturisce l'acqua, in modo da premunirsi contro eventuali frodi. È necessario misurare la temperatura della sorgente e dell'aria ambiente; se questo, per l'ubicazione della sorgente, non fosse agevole a farsi, si può prelevare l'acqua in un recipiente lasciato nell'acqua ed in cui sia immerso il termometro (questo, se la temperatura dell'acqua è superiore a quella dell'ambiente, è preferibile a massima). Il colore dell'acqua può esaminarsi entro un tubo di vetro sufficientemente lungo, o, se si tratta di colore dovuto alle sostanze disciolte (ferro ferrico) anche al colorimetro; si vedrà così anche se l'acqua è limpida e si potranno avere utili indicazioni osservando se essa presenta il fenomeno di Tyndall. L'odore ha una notevole importanza, sia perché a volte l'idrogeno solforato è in così piccola quantità che l'odorato rappresenta il miglior mezzo per riconoscerlo, sia perché si può avere da questa ispezione un primo indizio della eventuale presenza di ozono; per tale saggio è bene sbattere l'acqua minerale in un recipiente chiuso a largo collo, e poi sentirne l'odore.
Vanno poi eseguite alla sorgente alcune delle più importanti ricerche chimico-fisiche, e precisamente:
1. Conducibilità elettrica. - Trattasi di una costante chimico-fisica di grande importanza, poiché può servire sul posto anche per fare rapidi confronti con le eventuali sorgenti prossime all'acqua minerale che si studia, ed anche per seguire ad intervalli la costanza approssimativa di composizione dell'acqua. Non è qui il caso di discutere i metodi impiegati, che troveranno meglio il loro posto alla voce soluzione; ci limitiamo solo ad accennare che esistono apparecchi agevolmente trasportabili e che anzi sono stati costruiti apparecchi autoregistratori, atti cioè a registrare le variazioni di tale costante in modo continuo. Naturalmente la conducibilità elettrica è poco influenza da variazioni nel contenuto in acido carbonico, ed in genere dal contenuto in non elettroliti.
Secondo alcuni autori la conducibilità elettrica di un'acqua minerale (o potabile) moltiplicata per un coefficiente costante, dà valori vicini a quelli del residuo fisso; però tale coefficiente si è dimostrato in realtà variabile a seconda del tipo dell'acqua. Più importanti sono invece le deduzioni che possono farsi, basandosi sulla conducibilità, riguardo allo stato delle sostanze disciolte nelle acque, come vedremo in seguito; per tali deduzioni s'impiega il valore della conducibilità specifica a 18° C.
2. Punto di congelamemo. - Potendo, è bene determinare questa costante alla sorgente, specialmente quando si tratti di acque ricche in acido carbonico, che si può in parte perdere nel trasporto, anche accurato, dell'acqua in laboratorio. Il metodo seguito è quello basato sull'uso dell'apparecchio di Beckmann, ed i valori ottenuti hanno una notevole importanza, dati i calcoli che possono istituirsi e che portano, tra l'altro, alla conoscenza della pressione osmotica, per mezzo della semplice formula, valida per soluzioni acquose diluite:
dove Δ esprime l'abbassamento del punto di congelamento osservato. Già abbiamo visto l'importanza della pressione osmotica come criterio per stabilire se un'acqua è ipo-, iso-, o iper-tonica; inoltre tale dato porta a stabilire la concentrazione totale, in millimoli per litro, di un'acqua minerale.
3. Radioattività. - Queste misure è opportuno siano istituite tanto sull'acqua, quanto sugli eventuali gas che si sviluppassero spontaneamente insieme all'acqua della sorgente. L'apparecchio più semplice e comodo, col quale si possono ottenere valori di esattezza sufficiente, è il fontactoscopio di Engler e Sieveking riprodotto nella fig. 3; esso consiste essenzialmente in un elettroscopio E di Elster e Geitel (con due foglioline di alluminio e scala per la lettura della deviazione) adattato alla parte superiore di una bottiglia metallica M, abbastanza grande (circa 10 litri di capacità), nel collo della quale passa il dispersore D dell'elettroscopio; inferiormente tale recipiente è fornito di rubinetto di efflusso. Mettendo nel recipiente un litro di acqua minerale tal quale o diluita, a seconda del contenuto in emanazione, si può eseguire una misura di dispersione che viene espressa in volt per ora e per litro di acqua; il valore ottenuto deve essere corretto principalmente in relazione alla dispersione normale (determinata operando allo stesso modo con un litro di acqua distillata) ed alla cosiddetta radioattività indotta (deposito radioattivo formato sulle pareti metalliche per disintegrazione dell'emanazione).
Più comunemente si adoperano apparecchi a circolazione (tipo Henrich), uno dei quali è indicato nella fig. 4; lo schema della circolazione dell'aria si può rappresentare come segue:
Doppia palla di gomma (A) → bottiglia (B) in cui è contenuta l'acqua → tubo di essiccamento (D) a calce sodata → tubo d'ottone (E) → camera di ionizzazione (M).
È soltanto da aggiungere che il tubo d'ottone E è riempito con tornitura d'ottone (per trattenere gli ioni prodotti dal gorgogliamento) e che deve esser messo a terra come la campana M. Allora, conosciute le capacità di tutte le parti dell'apparecchio, e fatta circolare l'aria per un certo tempo a mezzo della doppia palla di gomma in mondo che la emanazione disciolta nell'acqua si distribuisca uniformemente nell'interno delle varie parti del dispositivo, si misura la dispersione relativa alla parte di gas radioattivo che si trova nella campana di ionizzazione e per mezzo di un semplice calcolo ci si riporta alla totalità del gas contenuto in tutto l'apparecchio.
Il prelevamento dell'acqua per la misura di radioattività va fatto con somma cura, poiché in generale essendo presenti nelle acque emanazioni radioattive che sono gassose, tutto ciò che porta a perdita di gas, trae con sé anche perdita di emanazione. Il modo più razionale di raccolta sarebbe quello di impiegare bottiglie a doppia tubulatura, in cui sia stato previamente fatto un certo vuoto; ma dovendo eseguire molte misure è forse preferibile raccogliere i campioni in comuni bottiglie munite (come quella B della figura) di tappo a due fori con adatti tubi di vetro e tali da poter essere unite all'apparecchio per mezzo dei due tubi di gomma a e b che si possono chiudere con pinze a vite. Per prelevare in questo caso il campione alla sorgente conviene stappare la bottiglia ed immettervi l'acqua minerale, in modo che entri senza violenza e si agiti il meno possibile; data la capacità (circa 2 litri) delle bottiglie che si scelgono ordinariamente, è facile prelevare circa 1 litro d'acqua, senza che la piccola quantità di emanazione che può liberarsi durante il prelevamento nella bottiglia venga scacciata dall'acqua che entra. Con questo si ottiene altresì che il gorgogliamento durante la misura riesca efficace in modo da raggiungere in pochi minuti l'equilibrio tra la quantità di emanazione disciolta e quella dell'aria di circolazione. Per il resto la misura si compie nel solito modo, poiché basterà inserire la bottiglia nel dispositivo indicato.
Il risultato della misura, dopo le solite correzioni, si esprime comunemente in unità Mache per litro d'acqua; più esatto è riferirsi a mmc. di emanazione di radio, se l'indagine ha rivelato la presenza di essa, poiché si tratta di un gas disciolto, ed in tal caso è bene adoperare un apparecchio già campionato rispetto alla emanazione di radio; da questo modo di espressione è facile passare a quello in Curie e sottomultipli, ricordando che una unità Curie corrisponde a 0,6 mmc. di emanazione di radio. Per accertare che si tratta di questa emanazione e non di altre, bisogna prelevare uno o più campioni nelle bottiglie menzionate, segnare l'ora del prelevamento, ed esaminare poi in laboratorio l'andamento della diminuzione di radioattività dell'acqua col tempo; dal confronto dei valori ottenuti con quelli corrispondenti alla curva di disintegrazione della emanazione di radio, si potranno trarre le opportune deduzioni.
Riguardo poi ai gas che si sviluppano liberamente dalla sorgente, la misura della radioattività di essi può fornire preziosi indizî non soltanto per se stessa, ma anche in relazione alla radioattività dell'acqua. Infatti la determinazione di quest'ultima fornisce a volte valori che rientrano nell'ordine degli errori sperimentali, ed essi possono acquistare valore di misura, sia pure approssimato, quando la radioattività dei gas venga con sicurezza accertata e possibilmente misurata; in generale si può adoperare lo stesso dispositivo, soltanto avendo cura che le bottiglie vengano riempite non più di acqua, ma di gas, proveniente, per es., da un tubo di gomma attaccato ad un imbuto capovolto sull'acqua nel punto in cui si nota lo sviluppo gasoso.
A volte nelle acque è stato trovato, in tracce, radio disciolto; la presenza di questo può facilmente stabilirsi qualitativamente e quantitativamente in laboratorio, facendo bollire l'acqua minerale, lasciandola a sé in una delle solite bottiglie per qualche tempo (misurato), e determinando poi la quantità di emanazione eventualmente prodottasi.
Per quanto concerne poi le ricerche relative alla emanazione di torio, si può cercare di attivare dei dischi o dei fili di piombo posti ad una certa distanza dal pelo dell'acqua minerale; si forma così su tali dischi una certa quantità di deposito dei prodotti di trasformazione delle emanazioni (radio A, B, C, torio A e B) e nella campana dell'elettroscopio si può poi esaminare l'andamento della curva di decremento dell'attività dei materiali suddetti, oppure più semplicemente si possono far pervenire i gas nella campana stessa, lasciarveli 3 ore, svuotare poi questa aerandola completamente, ed esaminare infine la curva di disintegrazione dell'attività indotta; se è presente la sola emanazione di radio, dopo circa 4 ore il deposito ha perduto quasi completamente la sua attività; se invece è presente anche emanazione di torio, si osserverà una certa attività dovuta al torio B, che si riduce a metà in 11 ore (v. radioattività).
Riportiamo nella tabella seguente alcuni valori abbastanza elevati trovati per la radioattività di acque minerali italiane.
4. Ororadioattività. - Il concetto iniziale e la parola ororadioattività, introdotti (Frenkel) per i gas che scaturiscono liberamente con l'acqua dalle sorgenti, si riferiscono, oltreché al valore spettante alla radioattività del gas, anche alla portata oraria del gas stesso, dimodoché la ororadioattività del gas risulta data dall'espressione: Pg•R dove Pg è la portata del gas espressa in litri per ora, ed R è il valore della radioattività per un litro di gas. È stata fatta in seguito la proposta (Nasini e Porlezza) di estendere anche all'acqua il concetto di Frenkel, facendo rilevare che il concetto terapeutico sul quale era basato il criterio di Frenkel (il quale giustamente insisteva sull'importanza, per le cure sul posto, della emanazione contenuta nei gas e che si diffondeva nell'aria ambiente) si poteva applicare anche alle acque, nel senso che anche queste per agitazione cedevano all'ambiente una gran parte della emanaziotie disciolta. Venne cioè introdotto il concetto di ororadioattività delle acque, la espressione della quale è analoga a quella dianzi esposta: basta sostituire a Pg la portata oraria Pa dell'acqua minerale. Occorre naturalmente che la portata della sorgente venga de terminata con una certa esattezza, ed eventualmente controllata approssimativamente, se già esistono misure in proposito; tale controllo è necessario, sia perché le misure precedenti possono riferirsi a condizioni diverse da quelle esistenti al momento della misura, sia perché l'indicazione fornita dal proprietario può essere influenzata dall'interesse personale. La portata in gas è spesso di difficile misura, ma quella della sorgente è frequentemente controllabile.
Uniamo un elenco di acque per le quali è stata misurata la ororadioattività e che hanno fornito un valore abbastanza elevato:
5. Ionizzazione dell'aria. - Opportune misure di dispersione atmosferica possono costituire un utile completamento dì quelle di radioattività, per conoscere, sia pure in modo relativo, la presenza di emanazioni radioattive nell'aria ambiente. Gli apparecchi impiegati per tale misura, detti contaioni - la fig. 5 rappresenta lo schema di quello di Ebert - sono basati in fondo sullo stesso principio di quelli di radioattività; soltanto è assai maggiore (circa 50 litri al minuto) il volume di aria che viene a contatto del dispersore D dell'elettroscopio E, poiché una piccola turbina T, a movimento d'orologeria O, aspira continuamente nuova aria. Caricando negativamente l'elettroscopio si può dalla misura dedurre il numero di ioni positivi contenuti in 1 cmc. di aria, come caricandolo positivamente si può dedurre quello degli ioni negativi. La formula che serve al calcolo del numero di ioni n contenuto in 1 cmc. di aria è la seguente:
dove per la carica di un ione va posto il valore 0,34 × 10-9.
In generale si ottengono valori nettamente maggiori, per la ionizzazione, nelle vicinanze di sorgenti radioattive o in ambienti dove le emanazioni possono svilupparsi; naturalmente occorrono prove di controllo e di confronto per dare una giusta interpretazione ai risultati. Viene qui riportato qualche valore ottenuto in luoghi prossimi a sorgenti radioattive:
6. Esponente di idrogeno (PH). - La determinazione del PH ha assunto un'importanza notevole in molti campi, ed anche in quello delle acque minerali si è data ad essa dai medici, e quindi anche dai chimici, una certa importanza. Nel caso di acque acide per acido solforico, come le ferrugginose alluminiche arsenicali, fin dal 1908 Nasini e collaboratori introdussero la determinazione della concentrazione degli ioni di idrogeno col metodo catalitico; nei casi ordinarî il PH viene determinato tanto con meiodi elettrometrici, quanto colorimetrici (v. acido); quando si tratti di acque minerali che contengono molti bicarbonati e acido carbonico o solfidrico liberi o di acque solfato-ferriche, l'elettrodo a idrogeno porta alterasioni notevoli nell'acqua che si esamina, e quindi occorre o impiegare elettrodi a chinidrone o a chino-chinidrone, oppure, e questo è ancor più comodo per misure fatte sul posto, servirsi del metodo colorimetrico, pur essendo questo meno preciso (soprattutto a causa della influenza sensibile che, nelle acque discretamente mineralizzate, è esercitata dai sali discioltì sul colore degli indicatori); potendo è però bene controllare in diversi modi il valore ottenuto.
L'utilità della determinazione del PH riguarda soprattutto le variazioni nel contenuto in acido carbonico e in acido solfidrico; in questo senso tale misura costituisce un criterio per seguire il cosiddetto invecchianento dell'aciua nei recipienti. Citiamo il risultato di tlualche dete-minazione:
7. Azione catalitica. - Nel considerare le differenze tra acque minerali e soluzioni saline della stessa composizione, ma preparate artificialmente, è stato più volte messo in evidenza che in acque naturali si osservano spesso fenomeni diversi: ad es. si ha un'azione catalitica sulla decomposizione dell'acqua ossigenata aggiunta all'acqua minerale. In quest'ordine di fatti possiamo porre anche il fenomeno presentato da alcune acque minerali per aggiunta di cloridrato di benzidina (o di soluzione alcoolica di resina di guajaco, ecc.) e di acqua ossigenata; si osserva spesso una colorazione azzurra più o meno intensa che si attenua e sparisce man mano che l'acqua invecchia; in generale si ritiene che questa azione sia esplicata da piccole quantità di ferro disciolto nelle acque.
Per quanto riguarda le ricerche chimiche propriamente dette, è necessario eseguire alla sorgente:
1. Reazioni rispetto ai comuni indicatori (tornasole, fenolftaleina e metilarancio).
2. Ricerche dei nitriti, dei nitrati, dell'ammoniaca. - I primi si possono ricercare col reattivo di Griess, i secondi con la brucina o con la difenilammina, l'ammoniaca con il reattivo di Nessler. Riguardo a quest'ultima ricerca è da osservare che a volte si ha una leggera colorazione gialla anche in assenza di ammoniaca; è consigliato in tali casi di prelevare un campione dell'acqua in bottiglia a tappo smerigliato, aggiungervi un po' di idrato e carbonato sodico, e ripetere il saggio dopo circa 24 ore (filtrando, se occorre).
3. Ricerca e dosamento delle sostanze organiche. - Si determina al solito la quantità di permanganato consumata all'ebollizione, esprimendo il risultato in ossigeno.
4. Dosamento dell'idrogeno solforato. - Se è risultato presente H2S, si determina con iodio e tiosolfato sodico per via volumetrica. Du Pasquier, il quale introdusse il suddetto metodo di titolazione, definì grado solfidrometrico la quantità di iodio, espressa in cg., che veniva consumata nella titolazione dell'idrogeno solforato contenuto in un litro di acqua minerale; Nasini e Porlezza (L'idrologia, la climatologia, la terapia fisica, 1921), proposero di chiamare invece grado solfidrometrico il numero di milligrammi di idrogeno solforato contenuti in un litro di acqua minerale. Nel caso di acque alcaline, è bene aggiungere la ricerca dei tiosolfati.
5. Ricerca ed eventuale dosamento dell'ozono. - Questa ricerca si fa se l'acqua mostri l'odore caratteristico dell'ozono, poiché secondo Nasini e Porlezza (Rend. Acc. Linc. XXI, 1912, II, pagg. 270, 803) la reazione e l'odore hanno approssimativamente la stessa sensibilità.
6. Determinazione dell'alcalinità. - Si eseguisce titolando con HCl, soluzione N/10, in presenza di metilarancio; questa determinazione oltre ad indicarci la quantità di ione idrocarbonico (HCO3′) allorché l'acqua contiene acido carbonico libero, serve da controllo quando si abbia a che fare con acque a forte contenuto in bicarbonato di calcio. Accade infatti che in tal caso i campioni, che si portano in laboratorio per le altre ricerche, perdano acido carbonico, lasciando depositare carbonato di calcio: la determinazione dell'alcalinità su tali campioni permette di accertare questo fatto, qualora si faccia il confronto col valore trovato sul posto.
7. Ricerche e dosamento dei sali ferrosi. - Se qualitativamente risulta presente ferro, si fa il dosamento di quello allo stato ferroso acidificando con acido solforico e titolando a freddo con permanganato.
8. Dosamento dell'acido arsenioso. - Si eseguisce trattando con bicarbonato sodico e titolando con lo iodio; è ovvio che non deve essere presente idrogeno solforato.
9. Ricerche sui gas. - Oltre ad esaminare e dosare i gas disciolti nell'acqua minerale, conviene raccogliere ed esaminare anche i gas che eventualmente si sviluppassero liberamente dalla sorgente, poiché è ovvio che esiste stretta relazione tra ì gas che gorgogliano attraverso l'acqua e quelli disciolti in essa. In generale l'esame completo si fa in laboratorio, ma in ogni caso è bene eseguire ricerche preliminari, come il dosamento dell'idrogeno solforato, quello dell'ossisolfuro di carbonio, ed anche, sempre sul posto, quello dell'anidride carbonica, perché se il gas ne contenesse una grande quantità sarebbe bene eliminarne la più gran parte dai Campioni che vanno portati in laboratorio.
Connesso con le ricerche precedenti e di non minore importanza è il prelevamento dei campioni per le indagini da eseguire in laboratorio: campioni in bottiglie a tappo smerigliato, campioni in damigiane per il grosso dell'analisi, campioni in palloni per la determinazione dei gas disciolti, campioni per la determinazione dell'acido carbonico totale, ecc. Per acque pochissimo mineralizzate occorre molta cautela nella scelta dei recipienti; in alcuni casi sono consigliabili bottiglie di stagno puro.
L'osservazione, il prelevamento, e poi, in laboratorio, le indagini sugli eventuali depositi lasciati dall'acqua, e sulle rocce da cui scaturisce l'acqua stessa, costituiscono a volte preziosi aiuti per dirigere le ricerche verso elementi presenti in piccola quantità o rari.
Ricerche in laboratorio. - Non è agevole stabilire con un criterio generale i metodi da seguire o la quantita d'acqua da impiegare; i trattati generali d'analisi quantitativa contengono sempre capitoli speciali dedicati alle determinazioni sulle acque minerali, in modo da guidare l'analista; nel caso speciale può valere come norma quella di eseguire la minor quantità possibile di separazioni, che aumentano le cause di errore. Aggiungiamo qualche particolare osservazione:
1. Residuo fisso. - È una determinazione importante, ed anche teoricamente semplice, poiché si riduce all'evaporazione di un determinato volume d'acqua e alla pesata del residuo seccato a 110°, a 180°, ed anche al rosso incipiente. Praticamente si hanno talora delle incertezze: per es., Nasini, Porlezza e Sborgi (Atti Istituto Veneto, LXXIII, 1914, p. 1571) hanno messo in evidenza che nel caso di acque contenenti acido borico, l'aggiunta di carbonato sodico non è sufficiente a trarre giuste deduzioni dal residuo fisso. Ad ogni modo nella maggioranza dei casi non occorrono aggiunte, ed il residuo fisso, dopo trattamento con acido solforico e calcinazione, serve anzi normalmente come controllo dell'analisi.
2. Ricerche spettrografiche. - L'analisi spettrografica del residuo delle acque minerali può riuscire di grande utilità, soprattutto dal punto di vista qualitativo. Il metodo generalmente seguito è quello degli spettri d'arco, ed in Francia esaminando i residui di numerose acque sono stati trovati molti degli elementi che abbiamo già riportato come presenti in acque minerali.
3. Analisi dei gas. - Questa viene eseguita secondo la tecnica delle determinazioni gassometriche per quanto riguarda i gas comuni; per i gas rari occorre una tecnica un po' più speciale, che richiede grande cura, soprattutto per la ricerca e il dosamento dell'elio: quando si tratta di gas rari è bene convalidare il risultato della ricerca con indagini spettrografiche di confronto con gli spettri dei gas puri.
4. Ricerche accessorie. - Oltre alla determinazione delle costanti chimico-fisiche già elencate, si può eseguire quella della densità, della viscosità, della tensione superficiale, dei colloidi, dell'indice di rifrazione, e, in qualche caso, dell'innalzamento del punto di ebollizione.
Interpretazione dei risultati dell'indagine chimica e chimico-fisica. - Ottenuto il quadro completo dei risultati relativi all'acqua in esame (ed ottenuto un soddisfacente accordo tra la somma degli equivalenti degli acidi e quella degli equivalenti delle basi dedotti dai dati analitici), rimane a risolvere la questione della rappresentazione della composizione dell'acqua minerale in modo da riprodurre lo stato delle sostanze disciolte e, nello stesso tempo, permettere agevolmente il confronto di diverse acque tra loro.
Le due tendenze fondamentali, dal punto di vista pratico, sono state per un certo tempo le seguenti:
1. Combinare i risultati dell'analisi chimica in modo da dedurre una composizione in sali disciolti: questo modo di rappresentazione, più accetto ai medici perché abituati a prescrivere dei sali, è pressoché arbitrario, pur essendosi tentato di adottare criterî che avessero un fondamento teorico, come quelli di Bunsen, Fresenius, Meyerhoffer.
2. Adottare la rappresentazione in ioni, cioè per tutte le acque assumere la composizione che si avrebbe, secondo la teoria classica della dissociazione elettrolitica, se l'acqua venisse diluita infinitamente. Si giunge in questo modo ad una rappresentazione uniforme per tutte le acque, ed in Italia anche la legge attuale rende obbligatorio questo modo di espressione dei risultati analitici, pur consentendo, accanto a questo, qualunque altro modo di rappresentazione.
Oggi però si è riusciti, come vedremo in seguito, a rappresentare la composizione di un'acqua minerale in modo più conforme alle moderne teorie chimico-fisiche, estendendo anche a questo campo le leggi relative alle comuni soluzioni di sali.
Riportiamo qualche osservazione ed esempio relativo a quanto è stato ora esposto.
1. La tabella di ioni. - La rappresentazione in ioni si compendia nella tabella di ioni in cui sono indicate le specie degli ioni presenti nell'acqua minerale e la rispettiva quantità, espressa in grammi per litro; pure tabella di ioni viene chiamata quella che riproduce le millimoli di ioni, cioè invece dei grammi contiene i quozienti, moltiplicati per 1000, dei grammi per il peso atomico degli elementi o per il peso dei radicali che figurano come ioni, o i milliequivalenti (o millivalenze) di ioni (cioè invece delle millimoli, i numeri che si ottengono moltiplicando queste per la valenza degli elementi o radicali). Per avere la tabella di ioni occorre eseguire a volte qualche calcolo chimico-fisico: infatti quando di acidi presenti in eccesso vi sia soltanto l'acido carbonico, la quantità di questo che si trova allo stato libero può dedursi facendo semplicemente la differenza tra la quantità totale e la quantità presente nello ione HCO3′; ma se, oltre all'acido carbonico, sono presenti in quantità sensibile altri acidi, come il solfidrico e il borico, questi tendono a concorrere, insieme con l'acido carbonico, alla ripartizione della quantità d di equivalenti basici che risulta in eccesso rispetto a quella occorrente per saturare gli acidi forti (cloridrico, solforico). Praticamente l'acido borico, che è debolissimo, può ritenersi (come l'acido silicico) tutto allo stato libero, e quindi basta determinare soltanto la ripartizione di detti equivalenti basici tra gli acidi carbonico e solfidrico; il calcolo è reso possibile dal fatto che la ripartizione tra i due acidi ora detti è in relazione con le costanti di dissociazione kH2CO3 e kH2O dei due acidi. Più precisamente si ha
e quindi conoscendo, oltre alla differenza d, le concentrazioni totali dell'acido carbonico e dell'acido solfidrico, è possibile giungere a stabilire un sistema di equazioni che forniscano [HS′], [H2S], [HCO3′] ed [H2CO3].
Si ottiene in definitiva una tabella di ioni come la seguente (acqua di Saturnia), che abbiamo scelto perché si verifica il caso ora esposto:
È evidente che, volendo, si possono combinare ad arbitrio gli equivalenti basici con quelli acidi ed ottenere una tabella riproducente ad esempio la seguente composizione in sali:
In relazione alla espressione in ioni merita di venire menzionata la rappresentazione grafica introdotta da Hintz e Grünhut nel Deutsches Bäderbuch (Berlino 1907); in tale rappresentazione i cationi e gli anioni vengono riportati in due strisce parallele che si trovano una sotto l'altra. In scala appropriata vengono riportati in milliequivalenti le diverse specie di ioni (i cationi l'uno di seguito all'altro sulla prima striscia, gli anioni sulla sottostante), e ciascuna è distinta da uno speciale colore o da altro modo convenzionale di indicazione; le due strisce corrispondenti ai cationi e agli anioni sono, come è naturale, egualmente lunghe, e sopravanza soltanto la parte relativa agli acidi liberi (carbonico, solfidrico, borico, ecc.).
La concentrazione dei singoli componenti viene in tale rappresentazione ad essere definita: 1° dalla lunghezza della striscia: in generale 1 millimetro corrisponde a un milligrammo equivalente per kg. di acqua; 2°, dalla larghezza della striscia stessa, tutte le volte che l'unità di misura scelta si rivela troppo grande, dato il forte contenuto di sali nell'acqua. In tal caso la larghezza viene scelta 2, 3, ecc. volte maggiore del normale, e quindi, nella rappresentazione più generale, la concentrazione di un ione viene ad essere proporzionale alla superficie della striscia.
Essendo le singole specie di ioni poste in determinata successione, si vengono ad avere facilmente con questa rappresentazione i dati per il calcolo dei sali; ma non altrettanto facile riesce l'apprezzamento della concentrazione in grammi, e per questo viene segnato a parte un segmento la cui lunghezza sia proporzionale al contenuto in sali disciolti e componenti speciali (acido silicico, sostanze organiche, ecc., fig. 6).
Per dare un'idea più perspicua di questa rappresentazione, che sotto varî aspetti si presenta come assai opportuna e comoda, riproduciamo nella tavola seguente la rappresentazione ora detta applicata all'analisi delle acque di Montecatini (che si presentano variamente mineralizzate), usufruendo dei dati analitici ottenuti da Nasini e Porlezza.
Esaminando questa tavola risulta chiaramente che gli ioni sodio e cloro si corrispondono abbastanza per far ritenere che uno dei costituenti principali sia il cloruro di sodio; inoltre la quantità di ione solforico presente fa pensare alla possibilità della formazione di solfato di sodio.
Le due strisce superiori si riferiscono all'acqua delle Tamerici che è la più concentrata tra quelle usate per bibita; sotto ad essa si trova riportata l'acqua della Regina, che pur avendo lo stesso tipo di mineralizzazione, si manifesta come meno concentrata; sotto ancora sono segnate le strisce corrispondenti all'acqua del Tettuccio e a quella del Rinfresco, ed è facile vedere come la mineralizzazione, sempre mantenendosi dello stesso tipo, vada continuamente decrescendo.
Per rendere più facile l'interpretazione della tavola su riprodotta aggiungiamo che i numeri scritti nella parte superiore di essa rappresentano milligrammi equivalenti in un litro d'acqua per le strisce colorate, e decigrammi per i segmenti neri (che si trovano al di sopra di ciascuna coppia di strisce) rappresentanti la somma dei costituenti il residuo fisso di ciascuna acqua considerata.
Recentemente è stata proposta (Ducloux) anche un'altra rappresentazione grafica, che Lepape definisce suggestiva: sui raggi di un esagono regolare vengono portati i numeri rappresentanti la quantità per litro dei sei principali anioni (SiO3 SO4, CO9, Cl, NO3, S) e dei sei principali cationi (Fe, Al, Ca, Mg, K, Na) e vengono congiunti i punti ottenuti; si hanno così due esagoni irregolari che rappresentano la mineralizzazione principale dell'acqua.
La rappresentazione di Hintz e Grünhut appare però assai più razionale, tanto più che gli ioni considerati da Ducloux non si trovano sempre tutti presenti in quantità apprezzabile nelle acque minerali.
2. Grado medio di dissociazione. - E stato introdotto da Hintz e Grünhut e può venire dedotto dalla conducibilitb elettrica dell'acqua a 18° per mezzo della formula
dove αK è il grado medio di dissociazione, K18 la conducibilità elettrica a 18°, g le concentrazioni degli ioni espresse in milliequivalenti per litro e λ∞ le mobilità a diluizione infinita degli ioni stessi. Hintz e Grünhut hanno istituito anche un calcolo della stessa costante partendo dalla determinazione del punto di congelamento; la formula adottata è:
dove: Ce = concentrazione osmotica in millimoli di elettroliti (ottenuta sottraendo dalla concentrazione osmotica, ricavata dalla temperatura di congelamento, le millimodi di acido carbonico, silicico, borico, solfidrico, considerati non elettroliti); Cm = millimoli di sali che possono originarsi combinando in sali le millimoli di ioni; il valore di n si deduce dal rapporto
Combinando le millimoli di ioni in due serie di sali, una che fornisca per Cm il valore massimo, l'altra il minimo, si trovano due valori per αΔ; si può adottare come grado di dissociazione la media di essi. In casi particolari, e cioè quando l'acqua non si alteri sensibilmente per ebollizione, è stato dedotto (Porlezza), in modo analogo a quello ora esposto, αΔ anche dall'innalzamento del punto di ebollizione.
I risultati ottenuti per molte acque italiane mostrano che si ha in generale accordo soddisfacente tra i valori di αK e αΔ (tenendo conto che αK si riferisce a 18° e αΔ circa a 0°), a meno che non si tratti di acque molto mineralizzate o che contengano fortissime quantità di acido carbonico (cosa questa che rende più difficile la determinazione esatta del punto di congelamento). Esempî:
3. Calcoli chimico-fisici più particolareggiati. - Roloff aveva dimostrato che si potevano ricavare dalle concentrazioni degli ioni i valori della conducibilità elettrica e dell'abbassamento del punto di congelamento spettanti a un'acqua minerale. Lo schema del calcolo approssimato di Roloff è stato applicato da Nasini e Porlezza per dedurre approssimativamente il probabile aggruppamento delle sostanze disciolte nelle acque minerali, basandosi sulla teoria classica della dissociazione elettrolitica; in questo procedimento, non facilmente qui riassumibile, il valore sperimentale della conducibilità elettrica e quello del numero di millimoli di elettroliti, dedotto dall'abbassamento del punto di congelamento, servono di controllo al risultato che si ottiene, ed in genere, per acque non troppo mineralizzate, si ha discreto accordo fra i valori mineralizzati e quelli dedotti dall'esperienza, come mostra la seguente tabella che si riferisce ad acque già citate:
Per dare un'idea di questo modo di rappresentazione cominciamo col riprodurre la tabella per l'acqua di Saturnia, della quale abbiamo già riportato i prospetti della composizione in ioni e di quella in sali:
Dalla letteratura scientifica deduciamo poi qualche esempio di acque di diverso tipo per le quali è stato eseguito il calcolo approssimato, riunendo per ciascun'acqua, allo scopo di facilitare il confronto, i tre modi di rappresentazione: quello in ioni, quello in sali, e quello in ioni e molecole indissociate.
Cominciamo da un'acqua ad altissimo contenuto in sali, quella di Salsomaggiore; trattandosi di un'acqua così concentrata, il prospetto in ioni e molecole indissociate è stato calcolato assumendo, come valore della dissociazione per le sostanze presenti in discreta quantità, il grado medio di dissociazione = 0,485, dedotto dalla conducibilità elettrica secondo Hintz e Grünhut, e per le altre sostanze, presenti in quantità relativamente piccola, il grado di dissociazione = 1:
Diamo ora l'esempio di un'acqua per la quale il calcolo è stato invece eseguito normalmente (acqua De Pisis, Agnano, Napoli; Zambonini, 1925):
Naturalmente per acque, come quella di Fiuggi, che è il tipo delle oligometalliche aventi un residuo fisso inferiore a gr. 0,i per litro, la rappresentazione in ioni riproduce già approssimativamente lo stato delle sostanze disciolte.
Recentemente Betti e Bonino (1926) hanno applicato ad alcune acque minerali le concezioni riguardanti lo stato delle sostanze disciolte, partendo dall'ipotesi della completa dissociazione; in questo caso nel prospetto della composizione non figurano più i sali, ed invece del grado di dissociazione compaiono i coefficienti di attività degli ioni. Riproduciamo una tabella come esempio (acqua Margherita, di Riolo):
Naturalmente il quadro della composizione chimica di un'acqua viene poi completato dalla tabella delle costanti chimico-fisiche.
Per quanto riguarda i calcoli più dettagliati dei quali abbiamo ora parlato, è da notare che si tratta di risolvere un problema abbastanza arduo, e che quindi le soluzioni che sono state prospettate ed illustrate non rappresentano che approssimazioni dedotte le une dalla classica teoria della dissociazione elettrolitica, le altre dalla ipotesi della dissociazione completa degli elettroliti.
Bibl.: A. v. Korànyj e P. F. Richter, Physikalische Chemie und Medizin, Lipsia 1907-1908, voll. 2, II; R. Fresenius, Traité d'analyse chimique quantitative (trad. franc.), Parigi 1908, ii; R. Nasini e C. Porlezza in Atti R. Istituto Veneto, LXXVI (1916-17), II, p. 725; A. Classen, Ausgew. Methoden der analytischen Chemie, Brunswick 1920, II; F. P. Treadwell, Trattato di chimica analitica (trad. ital. Miolati), 3ª ed., Milano 1922, voll. 2; C. Porlezza, in Ann. Chim. Appl., VIII (1924), p. 128; R. Nasini, in Atti del XVI Congresso d'Idrologia, Montecatini 1925; F. Zambonini, G. Carobbi, V. Caglioti in Ann. di Chim. Appl., XV (1925), p. 434; M. Betti e G. B. Bonino, in Ann. Chim. Appl., XVII (1927); A. Trambusti, Crenoterapia, Milano 1927.
Acque minerali artificiali.
Sono bevande costituite essenzialmente da acqua potabile, alla quale, per aggiunta di sostanze minerali e di sali solubili e mediante speciali trattamenti chimico-fisici, si conferiscono proprietà terapeutiche. Si devono perciò a rigore escludere dalle acque minerali artificiali le acque minerali naturali che si trovano in commercio in bottiglie sterilizzate ed ermeticamente chiuse.
Nel mondo romano e greco erano ben note ed apprezzate le acque minerali naturali; vi fu anche qua e là qualche timido tentativo di imitarle con metodi grossolani e con i sali che erano noti a quei tempi. Si può dire però che i primi serî tentativi di imitare le acque minerali rimontano al secolo XVIII, allorché eminenti chimici, quali il Priestley ed il Köstlin, ed altri minori tentarono la riproduzione dell'acqua di Seltz, preparando null'altro che un'ordinaria acqua gassosa. Insomma, l'origine della preparazione delle acque gassose e delle acque minerali artificiali è identica.
I due sommi Watt e Lavoisier si occuparono essi pure della saturazione delle acque con anidride carbonica, proponendo geniali apparecchi, ma il primo preparatore di acque minerali artificiali fu veramente lo Struve, che nel 1808 studiò le acque minerali di Karlsbad e Marienbad. Pubblicò, in merito, delle tabelle, tuttora ben note ed apprezzate, riconobbe l'importanza dell'addizione di anidride carbonica per mantenere in soluzione dei sali che altrimenti sarebbero stati poco o nulla solubili in acqua, e per conservare le acque stesse; nel 1821 infine impiantò a Dresda la prima fabbrica di acque minerali artificiali.
Nacque così l'industria delle acque minerali artificiali. Avveniva però che raramente le acque minerali artificiali presentassero le proprietà terapeutiche delle corrispondenti acque naturali; ciò era dovuto al fatto che quelle proprietà sono effetto non solo di certe sostanze contenute in quantità molto esigue, ma anche di proprietà chimico-fisiche ed in particolare delle proprietà radioattive.
Ad esempio, le azioni benefiche di certe acque minerali sono dovute a piccolissime quantità di litio; anche i gas disciolti - ad esempio, l'argon - pare abbiano notevoli influenze rispetto alle proprietà curative delle acque minerali. Sicché si può ben dire che il problema di riprodurre un'acqua minerale non è semplicemente un problema chimico, in cui il fattore preponderante è l'analisi quantitativa degli anioni e dei cationi che si trovano nell'acqua, bensì un complesso e delicato problema chimico-fisico.
Già nel 1908 il prof. Raffaello Nasini dell'università di Pisa concludeva una sua relazione sulle acque minerali con queste parole: nello stato attuale della scienza, non si può affermare che sia possibile, nel caso più generale, di riprodurre, artificialmente, un'acqua minerale, giacché, com'era sfuggita la radioattività, com'erano sfuggiti i gas inerti, come possono sfuggire le sostanze colloidali, altre proprietà possono esservi, ancora ignote, e quindi esserci differenze, laddove gli attuali mezzi di investigazione non le hanno mostrate. E, d'altra parte, le recentissime teorie sulla genesi delle acque minerali renderebbero più agevole il pensiero alla possibilita di differenza, diversi essendo i processi pei quali le soluzioni si effettuano. L'analisi chimico-fisica, cioè la determinazione della pressione osmotica,... è un necessario completamento di quella chimica, giacché, oltre all'offrire all'idrologo ed al medico dati immediati di molta importanza, può anche porre il medico sull'avviso quando si riscontrano delle anomalie tra i dati forniti dai diversi processi di indagine, pur essendo da ritenersi che, allo stato attuale della scienza, la teoria non fa prevedere nessuna differenza in riguardo alla pressione osmotica ed alla conducibilità elettrica, fra un'acqua naturale e una artificiale della identica composizione".
Sicché si può affermare che, solamente quando la preparazione delle acque minerali artificiali viene fatta con criterî veramente scientifici, si hanno prodotti che hanno un certo valore terapeutico. Si è poi recentemente osservato che i dati osmotici e crioscopici delle acque minerali artificiali differiscono, talora, in modo apprezzabile da quelli delle corrispondenti acque naturali.
Quanto alle proprietà radioattive, si noti che la radioattività è stata riscontrata e misurata nelle acque soltanto da circa venticinque anni; ora essa viene correntemente misurata con uno strumento, il fontactoscopio (dall'it. fonte e dal gr. ἀκτίς "raggio"; e σκοπέω "osservo") proposto da Mache nel 1904, apparecchio essenzialmente costituito da un elettroscopio a determinato potenziale. Per determinare la radioattività, si fa attraversare un litro d'acqua minerale in esame da una corrente d'aria che va a scaricare l'elettroscopio sotto tensione. Si misura l'abbassamento orario di tensione dell'elettroscopio; tale misura viene espressa perciò in volt per litro e per ora. Il fontactoscopio si è reso prezioso anche nella fabbricazione delle acque minerali artificiali, poiché in tal modo si possono misurare e controllare correntemente le proprietà radioattive ad esse comunicate, immergendo per pochi istanti nelle acque stesse un sale di radio insolubile (p. es. solfato di radio), incluso in un cilindro di materiale poroso. Per rendere radioattive le acque venne proposto dal Landin (1914) un preparato a base di carbonato di radio, più solubile, e che viene avvolto da una pellicola semipermeabile.
Usualmente le acque minerali artificiali radioattive per bere vengono preparate con 10.000 unità misurate come sopra è detto, mentre quelle naturali di Ischia ne hanno 30.800, 14.000 quelle di Joachimsthal, 10.000 quelle di Baden-Baden.
Comunque va rilevato che studî compiuti sulla radioattività delle acque imbottigliate portano a riscontrare una rapida retrogradazione delle proprietà radioattive. Ad esempio, un'acqua che all'istante dell'imbottigliamento aveva 9100 unità, ne aveva 5000 dopo cinque giorni, 1100 dopo quattordici giorni, 84 dopo ventun giorni, zero unità dopo ventotto giorni.
Ricorderemo infine che vengono preparate anche acque minerali artificiali per bagni; delle loro proprietà la più saliente è precisamente la radioattività: infatti ad esse vengono impartite fino 200.000 unità.
Gli unici dati statistici nazionali noti ed attendibili sulle acque minerali artificiali sono quelli riguardanti l'importazione e l'esportazione. Essi sono riassunti nella seguente tabella:
Bibl.: F. Molinari, Trattato di chimica generale ed applicata, Milano 1924; M. Giua, Acque minerali artificiali, ecc., Milano 1914; Atti del VI Congresso internazionale di chimica applicata, Roma 1907; Atti del IX Congresso nazionale di idrologia climatologica e terapia fisica, Sanremo 1908; I. Guareschi, Nuova enciclopedia chimica, ecc., Torino 1901; Evers, Der praktische Mineralwasserfabrikant, 1905; Struve, Analysen der künstlichen Mineralwasser, 1882.
Acque gassose.
Vengono così chiamate quelle bevande costituite essenzialmente da acqua potabile saturata con anidride carbonica, o anidride carbonica ed ossigeno ad una pressione di 4-5 atmosfere.
I tentativi di correggere le acque ad uso di bevanda risalgono ai Romani; la prima bevanda gassosa però, della cui preparazione si ha notizia certa, è quella dovuta a Lazarus Riverius (La Rivière), che la preparò nel 1640 dal sale d'assenzio (carbonato potassico impuro) e succo di limone. Nella seconda metà del secolo XVIII, Priestley, imitando l'acqua di Seltz, saturò l'acqua in modo semplice ed elegante con anidride carbonica, acqua che poi conservava in bottiglie ben chiuse.
Subito dopo si iniziò la diffusione di queste acque e si costruirono apparecchi più o meno semplici ed ingegnosi, a funzionamento discontinuo, per la produzione di acque gassose, apparecchi basati sulla saturazione dell'acqua alla pressione esercitata dall'anidride carbonica, sviluppantesi in un generatore. L'unico di questi apparecchi che meriti dì essere ricordato è quello di Weidner, in cui il generatore di anidride carbonica era oscillante, in modo da poter portare, a piacimento, dell'acido solforico a contatto con del carbonato di calcio, sviluppando la quantità voluta di anidride carbonica.
I moderni apparecchi continui, invece, hanno due diverse caratteristiche, secondo che l'anidride carbonica venga prodotta nell'apparecchio stesso, oppure si impieghi anidride carbonica liquida in bombole. La saturazione poi del liquido avviene, negli apparecchi in uso, o per agitazione o per scuotimento o per polverizzazione del liquido o, infine, per diretta saturazione nelle bottiglie. È ovvio che la saturazione anche con ossigeno si può praticamente fare quando si impieghino apparecchi in cui e anidride carbonica e ossigeno provengano da bombole.
Varî dunque sono i dispositivi per ottenere questa saturazione di gas; ma la fabbricazione di queste acque gassose è basata sulla legge di Henry: "la quantità di gas disciolta in un liquido è proporzionale alla pressione alla quale il gas viene sottoposto", legge che si completa con quest'altra approssimativa: "a parità di pressione, la quantità di gas disciolta in un liquido è inversamente proporzionale alla temperatura". Ecco perché nell'industria delle acque gassose, si raffredda l'acqua che deve saturarsi di gas.
Le bottiglie per le acque gassose devono essere resistenti ad una pressione di 4-5 atm.; inoltre devono essere conformate in modo da permettere un'economica chiusura ermetica. Ottimo sistema di chiusura, perché economico ed automatico, è quello a pallottola; il sistema a sifone è invece adatto per quelle acque (di Seltz, di soda), che vengono saturate fino a 10 atm. Una moderna fabbrica deve avere anche un razionale impianto di imbottigliamento, possibilmente automatico.
Come prescrizioni igieniche ricorderemo, oltre quella che riguarda la scelta di acque sicuramente potabili per la preparazione di queste bevande (r. d. del 6 ottobre 1890), il lavaggio e la sterilizzazione delle bottiglie e dei tappi. Quanto poi all'aggiunta di saponina per rendere le bevande schiumeggianti, va notato che in molti stati ne è vietato l'impiego; infatti la saponina (che è un glucoside ricavato dalle radici di alcune piante) impiegata per tale scopo, è quella commerciale, contenente cioè anche acido quillaico e sapotoxina; tale saponina ha un'azione emolitica, dannosa all'organismo, che si annulla, pare, per aggiunta di colesterina. Quanto infine all'impiego di saccarina come dolcificante, va notato che in molti stati, ed anche in Italia, ne è vietato l'uso, a scopo fiscale, e perciò queste bevande vengono, anche sotto tale aspetto, rigorosamente controllate.
Le fabbriche di acque gassose in Italia nel 1913-14 furono 808, di cui 767 attive (il 95%); nel 1924-25 salirono a 3716, di cui 3602 attive (il 97%); la produzione, che nel 1913-14 fu di 38.000 hl., salì nel 1924-25 a 406.000 hl. con un incremento del 1070%.
Acque industriali.
Si chiamano acque industriali quelle acque che, presentando determinati requisiti fisici, chimici e talora anche batteriologici, possono venir impiegate in particolari processi industriali; vanno anche comprese sotto tale nome quelle acque che, provenendo da certe lavorazioni, devono subire speciali trattamenti per poter essere impunemente immesse nei condotti ordinarî di scarico. I principali requisiti, cui devono soddisfare le acque industriali nei loro principali impieghi, sono qui raccolti.
Acque per caldaie. - Una buona acqua per caldaie non deve corrodere le lamiere di ferro e deve dare poche incrostazioni. Corrodono in modo particolare gli acidi liberi (anche gli acidi umici liberi), i grassi che si decompongono in prodotti acidi, l'acido solfidrico, ecc. Le corrosioni più frequenti e più intense sono quelle prodotte dalla ruggine, dall'ossigeno sciolto nell'acqua, particolarmente in impianti a funzionamento discontinuo; infine corrosioni pericolose si verificano quando si trovano presenti, ad esempio, acido carbonico e cloruro sodico; solo sostanze alcaline, la soda ed il borace per esempio, contrastano il procedere della ruggine. I danni più gravi alle caldaie sono portati dalle acque marine, sicché oggi sulle navi viene usata per le caldaie unicamente acqua distillata; ciò va posto in relazione anche al contenuto in sali di magnesio delle acque marine.
Le incrostazioni provengono dal fatto che nelle acque naturali sono contenuti bicarbonati di calcio e di magnesio, solfato di calcio ed anche silicati. I bicarbonati di calcio e di magnesio, per il prolungato riscaldamento alla temperatura di ebollizione dell'acqua, si trasformano in carbonato neutro di calcio, carbonato basico di magnesio e idrato di magnesio, che precipitano; i solfati precipitano invece in seguito all'aumentata concentrazione. Gli inconvenienti portati dalle incrostazioni sono: minor conduzione del calore, pericolosi sovrariscaldamenti locali con arroventamento delle lamiere, abrasioni di valvole e di organi in movimento di macchine a vapore, prodotte dai sedimenti polverulenti trascinati dalla corrente di vapore.
Si suole perciò dire che un'acqua per caldaie deve essere poco dura, intendendosi per durezza la quantità di bicarbonati e solfati di calcio e magnesio. Si misura la durezza di un'acqua secondo Boutron Boudet con soluzione titolata alcoolica di oleato potassico che, combinandosi con i bicarbonati e i solfati di calcio e di magnesio, dà i corrispondenti oleati; il termine di detta reazione è riconoscibile dalla schiuma particolarmente persistente, che si forma per un'energica agitazione del liquido.
In base a questo metodo si misura la durezza in gradi: i gradi francesi esprimono in grammi di carbonato di calcio tutti i sali di calcio e di magnesio contenuti in 100 litri di acqua; i gradi tedeschi indicano direttamente in grammi di ossido di calcio tutti i sali di calcio e di magnesio contenuti in 100 litri di acqua.
Molti sono i metodi proposti per rendere poco dure le acque; va ricordata poi che è sempre più razionale e conveniente la separazione dei principî incrostanti prima di introdurre l'acqua nelle caldaie. Il procedimento migliore è la separazione dei bicarbonati e dei solfati secondo le reazioni:
Diversi apparecchi di depurazione basati sulle soprascritte reazioni sono entrati nella pratica industriale; particolarmente noti sono gli impianti italiani tipo Rossetti. Il loro funzionamento consiste nel fare arrivare contemporaneamente in una vasca una certa quantità di acqua da correggere, di acqua di calce, di soluzione di carbonato sodico in modo che i reagenti siano nel rapporto richiesto dalla durezza dell'acqua; l'acqua corretta va poi filtrata su letto di sabbia.
Con questo procedimento non si ottiene mai acqua di durezza zero; questa si ottiene facendo passare l'acqua attraverso della zeolite sodica artificiale (permutite = silico-alluminato sodico). Avviene una reazione di doppio scambio: si formano da una parte silico-alluminato di magnesio e di calcio, dall'altra carbonato e solfato di sodio, sali solubili che non dànno incrostazioni nelle caldaie quando son assenti i sali di calcio.
Come già si è detto, oggi in impianti molto importanti e delicati di produzione di vapore (navi, grandi centrali termiche) si preferisce l'impiego dell'acqua distillata.
Acque per industrie tessili ed affini. - In tutte queste industrie, come pure in tintoria, si impiega, come detergente, l'acqua unitamente al sapone. Occorrono perciò acque che non contengano ioni alcalino-terrosi, poiché essi fanno precipitare i saponi, neutralizzando la loro azione anche sulla fibra stessa in modo che le successive operazioni di tintoria e di finissaggio dei tessuti non dànno risultati soddisfacenti.
Nelle acque per tintoria si richiede anche l'assenza di metalli pesanti, del ferro in ispecie, e degli acidi che modificano i colori, producendo tinte non pure e macchie. La presenza di ioni alcalinoterrosi e di metalli pesanti porta anche alla formazione di lacche insolubili.
Invece, nella tecnica della seta naturale e della lavorazione dei bozzoli si ritiene da taluni che un'acqua troppo poco dura sciolga le sostanze gommose unite da filamento serico al di là del necessario, rendendo la seta meno resistente e meno lucente.
Anche l'acqua per cartiere non deve contenere ferro; una quantità troppo forte di calcio e di magnesio porterebbe alla decomposizione dei saponi di resina.
Importante è invece la purezza batteriologica per tutte le industrie fermentative e chimico-agrarie, quali le fabbriche di birra, le distillerie d'alcool, le fecolerie, gli zuccherifici; va inoltre notato che nelle birrerie si richiede acqua di media durezza, in modo da trovare il giusto mezzo tra il potere solvente dell'acqua impiegata e l'insolubilizzazione delle sostanze albuminoidi prodotta da acque molto dure. Si dice poi da molti che l'acqua impiegata ha una importanza grandissima sul tipo di birra prodotta.
Anche nell'industria della panificazione l'acqua ha notevole importanza: deve essere potabile, non deve assolutamente contenere sostanze organiche in decomposizione perché altrimenti l'azione del lievito non si esplica nel modo voluto.
Infine l'acqua per industrie conciarie deve avere particolari requisiti: se è dura, l'inverdimento (rigonfiamento) delle pelli da una buona resa, mentre un'acqua poco dura dà pelli molto morbide.
Si sono passate così in rassegna in modo sommario le principali utilizzazioni dell'acqua a scopo industriale. Il lettore ben può comprendere che ogni nuovo impiego dell'acqua a scopo industriale è un problema che può presentarsi con molte difficolta al chimico e all'ingegnere.
Un problema del pari importantissimo e connesso intimamente a quello delle acque industriali, è quello della depurazione e dello smaltimento delle acque industriali di rifiuto. Infatti molte industrie scaricano acque contenenti sostanze nocive (sotto i più svariati aspetti) a persone, coltivazioni, ecc.; d'altra parte l'urbanesimo ha determinato il sorgere di vastissimi quartieri industriali al limitare delle metropoli, inevitabilmente, cioè, a contatto con agglomerati urbani da un lato e dall'altro con zone agricole, talvolta assai ricche: viene così prospettato il problema nella sua importanza ed estensione.
La legislazione su questo punto è poi argomento assai delicato e discusso e ne sono prova le modificazioni che essa subisce continuamente.
Molte volte il problema di queste acque di rifiuto non è che un problema di economia industriale: lo scaricare acque innocue significa talora migliorare la lavorazione o ricuperare fino al limite della convenienza sostanze anche di un certo pregio.
Si comprende, dunque, che questi sistemi di depurazione sono svariatissimi: lo scopo però di queste manipolazioni si può così riassumere:
1. trattenere le sostanze solide in sospensione, i liquidi non miscibili e raffreddare le acque troppo calde;
2. neutralizzare completamente l'acidità e tutte le sostanze sciolte comunque nocive;
3. ridurre convenientemente l'alcalinità e il tenore di sostanze organiche.
Lo scopo può venir raggiunto con procedimenti meccanici, chimici e biologici.
a) Processi meccanici. - Sostanzialmente hanno lo scopo di trattenere le materie in sospensione, perciò sono costituiti da bacini di decantazione, in cui forma, capacità, velocità dell'acqua sono legate alla natura della sospensione: i dati di optimum sono però per lo più empirici.
Quando si tratti di separare liquidi non miscibili all'acqua e di questa più leggeri, bene si prestano dei manufatti estremamente semplici, come quelli rappresentati nella fig. 7. Le acque di scarico vanno in una vasca A di riposo: lo strato superficiale viene ad essere costituito dai liquidi da eliminare, che mediante uno stramazzo tracimano in un pozzetto B, mentre le sottostanti acque purificate vengono allontanate, attraverso la vasca C, mediante un sifone. Recenti disposizioni di regolamenti comunali (per esempio, Milano) rendono obbligatoria l'istallazione di detti manufatti per rimesse d'autoveicoli, ecc. In altre città, p. es. Parigi, mentre la separazione è obbligatoria, viene lasciata ai singoli la scelta del modo.
Vanno poi ricordati i provvedimenti adottati perché le acque calde di scarico da grandi centrali termiche raggiungano i condotti di fognatura ad una temperatura non superiore ai 30°, ché altrimenti i manufatti di cemento subirebbero rapidi deterioramenti. Si costruiscono canali coperti in forma tale da consentire la massima evaporazione possibile alle acque calde (fig. 8) e, allo stesso scopo, prima di immetterle nei collettori principali, si fanno attraversare manufatti a gradinate opportunamente costruiti. Le figg. 8 e 9 rappresentano le provvidenze adottate nella centrale termica di Milano (Piazzale Trento).
b) Processi chimici. - I processi chimici hanno in massima il compito di portare a reazione neutra un'acqua (per esempio le acque acide di scarico dell'industria della seta artificiale viscosa e le acque alcaline di lavaggio delle lane). Sovente queste neutralizzazioni sono legate alla formazione di precipitati, che, per ben noti fenomeni di chimica colloidale, portano anche alla chiarificazione delle acque in questione. Comunque, si tratta di operazioni molto delicate, poiché vi è l'assoluta necessità di dosare i reattivi depuranti allo scopo di evitare sprechi e di avere efficaci depurazioni: all'uopo si compiono misure assai precise. I prodotti chimici depuranti sono in genere poco numerosi: calce, sali di ferro, di alluminio e di magnesio, acidi, ecc.
c) Processi biologici. - Questi processi si applicano sotto determinate condizioni alla depurazione di acque contenenti materie organiche più o meno facilmente putrescibili.
Anzitutto vi è una depurazione biologica naturale: le acque di scarico torbide e colorate, immesse in un canale, vanno gradualmente chiarificandosi e decolorand0si: questa trasformazione è dovuta all'attività di batterî a spese delle materie organiche in sospensione, che vengono così ad essere combuste. Si può quindi concludere che il fattore principale è l'ossigeno. Questo processo ha un particolare interesse allorché le acque da depurare vengono immesse su vaste zone di terreno in lame sottili: occorre però che il terreno sia sufficientemente poroso per permettere all'ossigeno dell'aria e all'acqua di infiltrarsi in modo conveniente. Classico esempio di questo metodo di depurazione sono le marcite della bassa pianura milanese.
La depurazione biologica artificiale ha, come prima fase, la semplice decantazione meccanica. Poi bisogna far arrivare le acque su letti batterici, specie di suoli artificiali costituiti da materiali ad alta superficie specifica: qui avviene l'ossidazione delle materie organiche. Procedimento più moderno è quello dei così detti fanghi attivi: nelle acque da depurare vengono immessi questi fanghi, veri nidi di batterî, circolanti mediante getti d'aria nelle acque da depurare.
Tutti questi fenomeni sono assai complicati e il mettere e tenere accuratamente in funzione questi impianti non è cosa semplice.
Le principali industrie che scaricano acque da depurarsi sono le seguenti: industrie dell'alimentazione (soprattutto purificazione biologica); industrie chimiche propriamente dette (neutralizzazione, decantazione), industrie conciarie (purificazione biologica); industria degli amidi e fecole, distillerie, ecc. (precipitazione chimica di soluzioni colloidali per mezzo di soluzioni di sali di ferro, purificazione biologica); industrie minerarie e metallurgiche (decantazione, neutralizzazione); industrie della cellulosa (decantazione, purificazione biologica, neutralizzazione); industrie tessili (decantazione, precipitazione mediante sali ferrici, neutralizzazione, purificazione biologica).
Rapporti dell'acqua col terreno agrario.
Le condizioni di vita dei vegetali sono intimamente legate alle seguenti proprietà del terreno agrario, le quali riflettono i rapporti del terreno stesso con l'acqua; esse prendono nome di permeabilità, capaatà idrica, capillarità, disseccabilità, igroscopicità.
a) Permeabilità. - È l'attitudine del terreno agrario a lasciarsi penetrare dall'acqua. Essa dipende principalmente dal diametro e quindi dal numero delle particelle che costituiscono un dato volume di terreno, ma dipende anche dalla disposizione di esse, dall'altezza della colonna liquida soprastante, dalle condizioni di temperatura, ecc. È ovvio infatti ch'essa debba essere massima in un terreno ricco di elementi grossolani, minima in un terreno costituito da elementi molto fini: nell'uno i porocanali presentano una notevole ampiezza, nell'altro sono estremamente sottili. Men chiare appaiono le relazioni tra permeabilità e struttura, alla quale ultima è intimamente legato il carattere di porosità. Sta di fatto che, in terreni a struttura cosiddetta verticale, la permeabilità è maggiore che non in quelli a struttura obliqua, ma, mentre in ciascuno di questi tipi di struttura, il grado di porosità ha un valore costante, indipendente dal diametro delle particelle, la permeabilità varia notevolmente a seconda della grossolanità e sottigliezza di queste. In un terreno p. es. a struttura verticale, gli spazî vuoti tra particelle, quelli cioè che dànno il grado di porosità, rappresentano costantemente il 47% del volume totale. Per contrario la permeabilità assume valori decrescenti man mano che decresce il volume delle particelle, man mano cioè che si assottigliano i canalicoli attraversabili dall'acqua; e quando sulle forze capillari finiscono per prevalere le forze molecolari il terreno diventa impermeabile.
Secondo il Quinke, con particelle aventi un diametro massimo di mm. 0,00005, qualunque sia la struttura del terreno, si raggiunge la impermeabilità. A ciò, nei casi ordinarî, si oppone la coagulazione dei colloidi e quindi la formazione di glomeruli, i quali determinano la struttura lacunare.
Le stesse considerazioni valgono per i terreni a struttura obliqua, la cui porosità è del 25,95% del volume totale, laddove la permeabilità varia pure col diametro delle particelle. Diverso è invece il caso di terreni a struttura mista nei quali la porosità può decrescere fino ad annullarsi, e con essa si annulla la permeabilità, salvo il passaggio alla struttura lacunare.
b) Capacità idrica. - È l'attitudine del terreno agrario a trattenere l'acqua dalla quale sia penetrato. Essa pure ha valori variabili con la composizione del terreno, ma dipende soprattutto dal contenuto di elementi colloidali. Trattasi infatti di manifestazioni di energia superficiale, tanto più intensa quanto maggiore è la superficie di contatto fra le particelle solide e liquide. In un terreno sabbioso la somma delle superfici di contatto è minore che in un terreno argilloso, dove le particelle scendono alle dimensioni colloidali; nel primo la capacità idrica deve essere ed è infatti minore che nel secondo. Versando infatti volumi eguali di acqua, p. es. 100 cmc., su due imbuti contenenti l'uno 100 gr. di terreno sabbioso, l'altro 100 gr. di terreno argilloso, si osserva che, cessato lo sgocciolamento, dal primo sarà passato un volume d'acqua notevolmente maggiore che dal secondo.
Qualunque variazione della superficie interna del terreno deve dunque condurre a una variazione della capacità idrica, misurata dalla quantità massima di acqua che un terreno può contenere: quantità che si suol riferire all'unità di peso del terreno, o anche all'unità di volume. Le concimazioni organiche, p. es., come quelle che aumentano la superficie interna di contatto fra solido e liquido, innalzano notevolmente la capacità idrica del terreno, come risulta dalla seguente tabella, dovuta a Droble e Thomson.
Essa riassume i risultati ottenuti con diverse qualità e quantità di concimi organici: si tenga presente che il campione i fu addizionato di foglie di salice poco decomposte e il 2 di foglie miste a radici: che il 5 fu addizionato di humus molto decomposto, e il 7 di foglie di salice indecomposte e di strame grossolano di graminacee.
Per determinare la capacità idrica di un terreno si adopera per lo più l'apparecchio di Hilgard, che consta di un recipiente cilindrico, di rame, avente 6 cm. di diametro ed 1 cm. di profondità, col fondo costituito da una lastra di rame bucherellata. Di esso son conosciuti il volume ed il peso: si riempie esattamente del campione di terra (secca o umida), si ripesa per conoscere la quantità di terra impiegata, e poi si colloca in un piatto contenente acqua, quanto basta perché il livello di questa sorpassi di 1 mm. il fondo del cilindro.
L'acqua penetra nella terra dal basso verso l'alto, scacciando via via l'aria che incontra e dopo circa un'ora l'operazione è compiuta. Si toglie quindi il cilindro dall'acqua, si lascia gocciolare, si asciugano con carta bibula le goccioline aderenti e si passa alla pesata.
Nel seguente specchietto sono riassunti i risultati ottenuti da Hall da quattro terreni tipici.
Ma in natura i terreni non raggiungono che raramente un tale stato di saturazione, in quanto la pioggia penetrando dall'alto, ed inumidendo anzitutto lo strato superficiale, rende difficile la sfuggita dell'aria confinata nel suolo: fatto importante perché ad una saturazione completa corrisponderebbe una completa eliminazione dell'aria, e il terreno diventerebbe inadatto alla vegetazione.
Nella seguente tabella è data la percentuale di acqua contenuta in terreni esaminati ad un giorno o due di distanza da una lunga pioggia.
c) Capillarità. - Il terreno agrario è anche sede di fenomeni di capillarità (per la presenza di canalicoli capillari) e per effetto di tali fenomeni l'acqua assume nel terreno un movimento ascensionale in opposizione alle forze di gravità. Parrebbe che la capillarità dovesse manifestarsi assai più intensamente nei terreni argillosi, che non, per esempio, in quelli sabbiosi; dovesse cioè variare nello stesso senso della capacità idrica. Ma in realtà le cose vanno diversamente. Si riempiano tre tubi di 2 a 3 cm. di diametro e di 15 a 20 cm. di lunghezza, rispettivamente di sabbia silicea, di calcare e di argilla, mescolando le tre sostanze con una certa quantità di solfato di rame anidro. Le estremità si chiudano con rete metallica e con un po' di cotone, e si immergano per qualche centimetro in acqua. Questa sale per effetto della capillarità e si può seguirne il movimento ascensionale, per la colorazione azzurra che va assumendo il solfato di rame. Ma nel primo tubo (a meno che i granuli non siano troppo grandi) l'ascensione è rapida, men rapida nel secondo, meno ancora nel terzo: sicché nell'argilla il fenomeno presenta un minimo d'intensità. Questo fatto, a prima vista anormale, trova spiegazione nella estrema sottigliezza dei porocanali e nella prevalenza delle azioni molecolari su quelle di capillarità.
In pratica le maggiori e più rapide ascensioni si osservano nei terreni ricchi di particelle fini, ma non eccessivamente, i quali contengano piccole quantità di argilla. Valgano le seguenti serie di risultati ottenuti dall'Hilgard:
Come si vede l'altezza massima giornaliera è data dal terreno 2.
Qui l'ascensione massima ha luogo nel terreno 1, avente particelle di mm. 0,016 di diametro.
d) Disseccabilità. - È l'attitudine del terreno agrario a perdere più o meno rapidamente l'acqua della quale è imbevuto. Si determina per mezzo di un recipiente cubico fatto con rete metallica a maglie sottili, che è prima pesato, poi riempito di terra e pesato di nuovo. Si ha così la quantità di terra inzuppata. Ripesando dopo un certo tempo di esposizione all'aria, si ottiene il peso dell'acqua evaporata, la quale esprime la maggiore o minore attitudine al disseccamento. Con l'impiego di questo apparecchio è dimostrato che, in seguito ad evaporazione spontanea, per lo stesso periodo di tempo:
Come si vede, qui pure i colloidi presentano una notevole influenza; del resto è risaputo che le terre argillose disseccano più difficilmente che le sabbiose, e che i terreni ricchi di humus sono sempre più freschi di quelli che ne sono scarsamente provvisti.
e) Igroscopicità. - È l'attitudine che ha il terreno a condensare sulla sua superficie il vapore d'acqua dell'atmosfera, concorrendo così alla fissazione e conservazione dell'umidità del terreno e ad abbassare il limite minimo delle precipitazioni atmosferiche necessario allo sviluppo delle piante.
Si determina col metodo di Mitscherlich, il quale consiste nel pesare l'acqua assorbita da un dato peso di terreno lasciato a contatto dell'aria in un essiccatore contenente acido solforico al 10%.
Essa presenta delle variazioni notevolissime da terreno a terreno, offrendo valori sempre più elevati man mano che dai terreni prevalentemente sabbiosi si passa a quelli prevalentemente argillosi. Così p. es. lo stesso Mitscherlich, ha trovato:
Bibl.: Ulpiani, La chimica-fisica e l'agricoltura in Atti della Società italiana per il progresso delle scienze, IV (1910), p. 317; Atterberg, Studien auf dem Gebiete der Bodenkunde in Landwirtsch. Versuchsstationen, LXIX (1910), p. 93; F. Todaro, Lezioni di agricoltura, Casalmonferrato 1917, I, pp. 118, 125.
Acqua di drenaggio.
È quella che si ottiene dai canali di scarico dei sistemi di drenaggio, destinati a liberare i terreni acquitrinosi dall'eccesso di acqua (v. drenaggio). Sulla qualità e quantità di essa hanno influenza le condizioni del terreno (nudo o coperto da vegetazioni, concimato o non concimato, ecc.), e i fattori capaci di indurre variazioni nelle sue proprietà.
a) Acque di drenaggio da terreni nudi, non concimati. - Dalle esperienze eseguite a Rothamsted da Lawes, Gilbert e Warington risulta:
1. Che le quantità d'acqua drenanti variano notevolmente con le stagioni e con le annate, tanto che per 100 parti d'acqua caduta si raccoglie, in estate il 26% e in inverno il 69,9%.
2. Che le acque di drenaggio sono particolarmente ricche di azoto nitrico, dovuto al processo di nitrificazione, la cui intensità raggiunge un massimo nella stagione estiva.
3. Che in esse manca l'azoto ammoniacale, o vi si riscontra solo in tracce.
4. Che la loro durezza aumenta con l'aumentare dei nitrati ed è perciò rappresentata prevalentemente da nitrato di calcio.
5. Che le acque di drenaggio asportano annualmente da ogni ettaro di terreno non coltivato kg. 47 di azoto nitrico, equivalente a kg. 300 di nitrato di sodio.
Questi risultati trovano conferma in ulteriori ricerche di Warington, Berthelot, Déhérain, ecc. le quali conducono ad un'altra importante conclusione, che cioè quando la calce è in difetto, l'azoto si elimina sotto forma di nitrato potassico, e che perciò un conveniente ammendamento calcareo serve ad evitare gravi perdite di potassa.
b) Acque di drenaggio da terreni nudi, ma concimati. - Da numerose esperienze del Déhérain risulta che dette acque sono tanto più ricche di azoto nitrico, quanto più abbondante è stata la concimazione del terreno; conclusione però subordinata alla natura del concime impiegato e alla sua velocità di nitrificazione. I sali ammoniacali infatti, se l'umidità è sufficiente, nitrificano rapidamente, ma la velocità si attenua via via dai composti organici azotati ai concimi torrefatti, sino a giungere allo stallatico, il quale presenta una minore facilità all'ammonizzazione, che in ogni caso precede la nitrificazione.
c) Acque di drenaggio da terreni coperti di vegetazione e non concimati. - Questo terzo caso fu pure studiato dal Déhérain, il quale stabilì dei conftonti fra terreni coperti da piante a rapida vegetazione, e gli stessi terreni lasciati a maggese. Le acque raccolte da questi ultimi presentano azoto nitrico in quantità doppia, o più che doppia, che non quelle provenienti da terreni coltivati, p. es. con mostarda bianca. Qui è evidente che le piante assorbono e sottraggono i nitrati al disperdimento, trasformandoli in materia proteica. Da ciò le colture di straforo, con impiego di piante a rapido ciclo di sviluppo, che gli agricoltori francesi son soliti di praticare nella stagione autunnale, quando cioè il terreno presenta la maggiore ricchezza di nitrati: dette colture conducono a un buon foraggio o a piante da sovescio, senza dire che attenuano gradatamente l'umidità del terreno e rallentano i processi di nitrificazione.
d) Acque di drenagOio da terreni coperti da vegetazione e concimati. - Dagli studî di Lawes e Gilbert, compiuti sui campi sperimentali di Rothamsted, risulta quanto appresso:
1. I terreni coperti di vegetazione e concimati con stallatico lasciano percolare poca acqua, con lieve perdita di azoto nitrico.
2. Le perdite di azoto nitrico aumentano se la concimazione è fatta con sali ammoniacali, e sono tanto più rilevanti, quanto più abbondante è la concimazione stessa.
3. La nitrificazione dei sali ammoniacali, per quanto rapida, non riesce a controbilanciare le perdite di azoto, che si verificano impiegando nitrato di sodio.
4. Con l'impiego di solfato ammonico si va incontro a perdite, le quali, durante l'inverno, possono raggiungere percentuali notevoli.
5. Il terreno trattiene l'ammoniaca, l'acido fosforico e la potassa; per contro cede all'acqua di drenaggio la calce, la soda, e gli acidi cloridrico e solforico.
I.'acqua di drenaggio, in quanto è acqua filtrata attraverso il terreno, risulta batteriologicamente pura, e perciò trova impiego non solo come acqua di irrigazione, ma anche come acqua alimentare.
Bibl.: G. Schübler, Grundsätze d. Agrikultur-Chemie, Lipsia 1838, II, p. 80; C. Trommer, Die Bodenkunde, Berlino 1957, p. 267; J. Sachs, Handbuch der Experimental. Physiol. der Pflanzen, Lipsia 1865, p. 174; Heinrich, in Landwirtsch. Versuchs-Station, XVIII, 1865, p. 74; Mangon, in Comptes-rendus de l'Acad. des sciences de Paris, LXIX, 1869; Meyer, in Landw. Jahrbücher, III, p. 781; Centralblatt für Agrikulturchemie, XI, 1877, p. 243; Lawes, GIlbert e Warington, in The Journal of the Agricultural Society, 1881; Dumont, in Comptes-rendus, de l'Acad. des sciences de Paris, XVIII, 1881, p. 630; Schloesing, in Comptes-rendus, ecc., XCIX, 1884; M. Berthelot, in Comptes-rendus, ecc., CIV, 1887, p. 208; CV, 1887, p. 649; M. Berthelot, Chimie végétale et agricole, Parigi 1899; W. Knop, Lehrb. d. Agrik. Chemie, Lipsia 1867, II, p. 14; Risler, in Journal d'Agriculture pratique, serie 4ª, IV, p. 77; Déhérain, in Ann. agron., XVI, p. 337; XVII, p. 49; Dobeneck, in Forsch. a. d. Gebiete d. Agrik. Physik, XV, 1892, p. 163; Mitscherlich, in Landwirtsch. Jahrb., XXXI, 1902, p. 577; Rodewald e Mitscherlich, in Landwirtsch. Versuchsstation, LIX, 1903 p. 433; Patten e Gallager, in U. S. Depart. of Agric., Bureau of soils, LI; Ehrenberg e Pik, in Zeitsch. f. Forst- und Jagdwesen, 1911, 43, 35; Hatsche, in Colloid-Zeitschr., II (1912), p. 288; Pratolongo, in Le Stazioni sper. agric. italiane, XLVI, 1913, p. 219; E. W. Hilgard e R. H. Loughridge, The conservation of soil moisture and economy in the use of irrigation water, Berkeley 1898, p. 199; Backer, in Zeitsch. f. phys. Chemie, LXXXVI, 1914, p. 129; Ehrenberg, Die Bodencolloide, Lipsia 1918, p. 268; Mitscherlich, Die Bodenkunde, Berlino 1920, p. 75.
Acque stagnanti.
Il ristagno delle acque, siano esse piovane, sorgive o di corsi di acque, in specchi più o meno vasti e profondi, è favorito dalla poca permeabilità dei terreni invasi, e viene mantenuto dalla mancanza o dall'insufficienza, sia per ampiezza sia per pendenza, di emissarî o di canali di scolo, che ne permettano il regolare deflusso.
Le acque stagnanti interessano l'igiene, in parte perché spesso dànno luogo a esalazioni moleste, ma specialmente perché offrono di regola condizioni propizie allo sviluppo (da uovo ad immagine) delle zanzare; fra le quali importantissimi per noi gli anofeli, che trasmettono l'infezione malarica.
Non tutte le acque stagnanti sono però ugualmente favorevoli agli anofeli. Generalmente occorre per ciò: poca profondità, presenza di vegetazione palustre orizzontale, che non occupi però tutta la superficie del bacino, limpidezza, debole salsedine, scarsezza o assenza di materiali in putrefazione, aria in abbondanza, luce non troppo forte, temperatura non molto bassa né troppo elevata. Le esigenze, peraltro, variano non poco da specie a specie anofelica. Lo stesso dicasi delle altre zanzare, sebbene queste di solito si dimostrino assai più adattabili, e spesso pullulino anche in acque notevolmente contaminate da materiali putrefattivi.
Il prosciugamento delle acque stagnanti (v. bonifica), oppure la loro trasformazione in acque sufficientemente correnti, limpide e pure, costituisce pertanto opera di grande utilità, particolarmente poi se in esse vivano e prosperino gli anofeli o, comunque, zanzare trasmettitrici di malattie.
L'acqua negli organismi viventi.
Di tutte le sostanze che partecipano alla composizione degli organismi viventi, l'acqua è quella che presenta la più meravigliosa combinazione di proprietà fisiche e chimiche, importantissime per lo svolgersi dei processi vitali. Solo l'estrema familiarità che si ha con essa induce i più a non tenerla in quel conto che merita.
Delle proprietà fisiche e chimiche dell'acqua trattano altre parti di questo articolo. Qui l'acqua è considerata come componente degli organismi, e in particolar modo se ne studia il ricambio. Delle sue proprietà fisiche e chimiche, considerate dal punto di vista fisiologico, non possiamo quindi fare che un brevissimo cenno.
1. L'acqua è il solvente capace di tenere simultaneamente in soluzione il maggior numero di composti chimici diversi (si pensi al numero di sostanze diverse che si trovano sciolte nel plasma del sangue e nell'urina): siano gas (O2, CO2), o corpi solidi; e questi ultimi, di natura inorganica od organica, cristalloide o colloide; e allo stato di ioni, di molecole o di micelle. Trovandosi poi nei liquidi dell'organismo anche sostanze allo stato di dispersità colloidale, corpi insolubili o poco solubili in acqua possono esistere nei medesimi, assorbiti dalle micelle colloidali, e pertanto mantenuti a quel grado di dispersità che è proprio delle ultramicrosospensioni. Questa proprietà, di mantenere in soluzione (meglio sarebbe dire, in stato di dispersione colloidale) sostanze insolubili o poco solubili, che è attribuita ai colloidi in generale, compete particolarmente ai colloidi proteici, in quanto possono formare soluzioni otticamente vuote o ultramicrosospensioni solo con l'acqua. Oltre che solvente, l'acqua è il veicolo delle sostanze chimiche di sopra accennate, nonché delle cellule libere del sangue e della linfa.
2. Dotata di altissima costante dielettrica, l'acqua è il solvente più atto a produrre la dissociazione elettrolitica, cioè a scindere in ioni, forniti della massima reattività chimica, le molecole, assai meno reattive (perché non possono reagire, se non per mezzo delle valenze residue). Meno reattive ancora sono le micelle colloidali. Ma gli alimenti colloidali (polisaccaridi, lipoidi, proteine) sono, durante la digestione, trasformati in molecole semplici per idrolisi enzimatica, cioè per un processo di scissione che esige la partecipazione dell'acqua alla reazione.
La stessa acqua è in minima proporzione elettroliticamente dissociata in H• e OH′, ioni dotati di grande velocità di migrazione e reattività. (A 22°, su 555 milioni di molecole d'acqua ce n'è sempre almeno una dissociata, e però vengono a trovarsi 62 miliardi di H• e altrettanti di OH′ in un millimetro cubo d'acqua a 22°).
3. Un fenomeno differente dall'elettrolisi è quello dell'idrolisi, che l'acqua rende possibile, e che si svolge tutte le volte che vi si trovano sciolti composti contenenti una base debole o un acido debole. Volendo illustrare il caso del composto contenente un acido debole, può essere preso come esempio il cianuro di potassio, che nell'acqua forma acido cianidrico e soda caustica:
Siccome l'acido cianidrico è pochissimo dissociabile e solubile, esso subito si forma per l'unione dell'H• dell'acqua con l'ione CN′, mentre gli OH′ e i Na• rimangono dissociati essendo l'idrossido di sodio una base forte. Ne segue che la soluzione, data la presenza di OH′ in eccesso sugli H•, acquista reazione alcalina. Poiché la massima parte dei composti salini dissociabili che si trovano nei liquidi degli organismi viventi è formata di un acido debole e di una base forte, dalla loro idrolisi dipende la reazione debolmente alcalina dei liquidi stessi.
4. L'acqua ha spiccata tendenza a formare associazioni: 1° delle sue stesse molecole semplici (idrolo) tra loro, onde nascono molecole doppie (diidrolo), triple (triidrolo) e così via; 2° di esse con ioni o molecole o micelle colloidali di diversissima natura, onde hanno origine gl'idrati, che possono contenere fino a dodici molecole d'acqua per molecola di idrato. Il processo d'idratazione dei colloidi solidi dicesi particolarmente imbibizione micellare, perché, a differenza della imbibizione capillare, l'acqua nel colloide è attratta e mantenuta da valenze residue, non da capillarità; infatti, nel colloide solido non esistono, come nei corpi porosi, spazî capillari, ma spazî virtuali intermicellari, nei quali le molecole dell'acqua s'insinuano respingendo e allontanando le une dalle altre le micelle del colloide, che perciò si rigonfia, e può esercitare una cospicua pressione di imbibizione.
La massima parte dell'acqua contenuta negli organismi viventi si trova appunto allo stato di acqua d'imbibizione dei suoi colloidi. Ora, il trovarsi i colloidi organizzati dei tessuti viventi a un certo grado, del resto variabile, d'imbibizione acquosa, determina una serie di vantaggi della massima importanza fisiologica, che meritano d'essere rammentati: 1° la plasticità della materia vivente, in tutte le sue forme di differenziazione, e con tutte le molteplici conseguenze biologiche, come mobilità ed elasticità delle strutture viventi, adattabilità delle forme, ecc.; 2° la capacità di costituire una riserva d'acqua, alla quale l'organismo può fare ricorso quando ne ha bisogno; 3° la possibilità delle sostanze solubili di diffondersi dai liquidi intercellulari, nelle cellule e nelle altre formazioni istologiche, e da queste in quelli. Le sostanze nutritive e i prodotti del catabolismo, infatti, prima d'essere trasportati con le correnti circolatorie (v. più sotto), in queste pervengono, dalle superficie assorbenti e rispettivamente dai focolai di loro produzione, per diffusiqne; 4° le cellule e le altre formazioni istologiche, essenzialmente perché son0 microscopiche masse di un colloide sui generis a un certo grado d'imbibizione acquosa benché insolubile in acqua, hanno la capacità di assumere dai liquidi che le bagnano più solvente o più sostanza sciolta, per elezione fisico-chimica, e di creare pertanto: a) differenze di concentrazione osmotica, da cui dipendono i fenomeni di turgore (tanto importanti per la conservazione delle forme organiche e del volume degli organi) e varî fenomeni di movimento nelle piante; b) differenze di concentrazione ionica, e quindi i doppî strati elettrici alle interfasi separanti fasi distinte; e quindi c), differenze di reazione, se gli ioni in questione sono H•.
5. L'acqua, essendo nel tempo stesso il più efficace solvente di sostanze cristalloidi e mezzo dispersivo di colloidi, nonché il più potente mezzo di dissociazione elettrolitica, accelera grandemente, non solo le reazioni chimiche dei composti inorganici e di quelli organici, ma anche le scissioni enzimatiche degli alimenti, in parte agendo essa stessa da catalizzatore per gli H• e gli OH′ che contiene, ma soprattutto mantenendo allo stato di grande dispersità gli enzimi, in alto grado d'imbibizione i colloidi proteici e i polisaccaridi, e allo stato di finissima suddivisione microgranulare (emulsione) i grassi e i lipoidi. E siccome negli organismi l'acqua con le sostanze in essa sciolte non ristagna mai, essa favorisce le reazioni chimiche, anche perché allontana dalla sfera in cui queste si svolgono i prodotti che incessantemente si formano.
6. Un ufficio importantissimo spetta all'acqua nella termoregolazione, dovuto alle seguenti sue proprietà fisiche: 10 massima conduttività del calore (= 0,0012), per cui l'eguaglianza della temperatura per il corpo è raggiunta con grande velocità; 2° massima capacità termica (calore specifico =1), onde gli apportamenti e le sottrazioni di calore producono nell'organismo minimi cambiamenti della temperatura (per tale sua proprietà l'acqua è stata scelta per stabilire l'unità di misura delle quantità di calore, la caloria); 3° massimo calore latente di vaporizzazione (= 536), per cui l'evaporazione anche di poca acqua (del sudore) dalla superficie del corpo produce una notevole sottrazione di calore, e quindi è il miglior mezzo per rinfrescare l'organismo e tenerlo al riparo da forti aumenti della temperatura centrale; 4° massimo calore latente di fusione (= 80), che costituisce per gli organismi un valido mezzo di difesa contro il congelamento, mezzo di difesa che viene ad essere accresciuto dalla proprietà che hanno le sostanze sciolte nei liquidi dell'organismo di abbassare il punto di congelamento dell'acqua, e tanto più, quanto maggiore è la loro concentrazione.
Abbiamo detto che le proprietà fisiche e chimiche dell'acqua di sopra enumerate sono, a titolo dimrso, della massima importanza per l'economia degli organismi viventi. Infatti, nessun altro liquido le possiede tutte insieme e in grado così alto, e quindi a nessun altro liquido potrebbe essere mai riconosciuta uguale importanza per lo svolgimento dei processi vitali. Ora ciò può essere spiegato ammettendo, che la vita ebbe origine nell'acqua, e propriamente nei mari, che nelle remotissime epoche geologiche coprivano il nostro globo. Qui basti aggiungere che nella primordiale materia vivente e nei primissimi organismi animali non poterono differenziarsi se non strutture fisiche, costituzioni e proprietà chimico-fisiche e attività funzionali, che fossero la resultante di un progressivo adattamento all'ambiente acquoso nel quale gli organismi fecero la loro prima comparsa.
Contenuto in acqua degli organismi viventi. - Dalle tabelle I e II risulta che l'acqua è il costituente maggiore, per quantità, degli organismi, perché essa sola costituisce, nel maggior numero dei casi, più della metà, spesso i due terzi o i tre quarti del loro peso e talvolta anche più. Esclusi, da una parte, gli organismi e gli organi nei quali il residuo solido è ridotto a un minimo (alcuni invertebrati acquatici inferiori, certe parti di organismi vegetali, ecc.), e, dall'altra parte, quelli che contengono in sé accumulate grandi quantità di grassi, o di sostanze minerali (nelle strutture scheletriche), in generale si può dire che il contenuto in acqua degli animali adulti di una stessa specie è tanto maggiore quanto maggiore è il protoplasma in essi contenuto, cioè la loro massa attiva, e quindi più intensa la loro attività metabolica, a parità di peso del corpo. Infatti, essendo il tessuto adiposo e lo scheletro le parti più povere di acqua, quegli organismi che contengono relativamente più grasso e più strutture scheletriche, sono anche i più poveri di acqua.
Onde l'apparente antagonismo tra il contenuto in acqua e il contenuto in grasso degli organismi, quale risulta dalla seguente tabella:
la quale inoltre dimostra come il contenuto in acqua di individui adulti della stessa specie varî pochissimo, quando si considerino privi del loro grasso. Assai grande è il contenuto in acqua delle uova fecondate e degli embrioni; ma diminuisce durante lo sviluppo, come risulta dalle seguenti tabelle:
Non solo durante lo sviluppo ontogenetico, ma anche col progredire dello sviluppo filogenetico, scema, in generale, il contenuto in acqua degli animali: infatti, gli animali inferiori contengono, d'ordinario, più acqua che i superiori. Ma il maggior contenuto in acqua degli animali inferiori, rispetto ai superiori, ha ben altro significato di quello degli embrioni dei feti e dei neonati, rispetto agli animali adulti. Nel primo caso, l'acqua compie spesso ufficio meccanico, servendo a mantenere il turgore degli organi; nel secondo, invece, il suo prevalere negli organismi giovani è espressione di minor contenuto in grasso e in strutture scheletriche.
Da quanto abbiamo fin qui detto risulta, dunque, che il contenuto in acqua di un animale dipende, in primo luogo, dalla specie e dall'età: e questa è la legge di v. Bezold.
Cl. Bernard considerò l'acqua come l'ambiente liquido in cui vivono, non solo gli organismi acquatici, unicellulari e multicellulari, vegetali e animali, ma anche le cellule dei tessuti profondi di ogni pianta e d'ogni animale, perché una soluzione acquosa è quel velo liquido interstiziale che bagna tutti i loro elementi istologici. Onde ben a ragione Hoppe-Seyler scrisse che tutti gli organismi vivono nell'acqua, e aggiunse, nell'acqua corrente, perché l'acqua dei succhi interstiziali non ristagna, ma incessantemente si rinnova.
Negli organismi viventi l'acqua si trova: 1° in parte, allo stato di acqua libera, nel plasma del sangue e della linfa, nei succhi interstiziali o intercellulari, nei succhi intracellulari, nei liquidi di secrezione; ma questa non è la parte maggiore; 2° in parte, assai maggiore, allo stato di acqua d'imbibizione dei colloidi, sia sciolti sia organizzati, e questa, che è evidentemente acqua costitutiva dell'organismo, rappresenta anche una grande riserva; 3° in piccola quantità, finalmente, anche allo stato di vapore, nelle vie respiratorie.
Ponendo come media del contenuto in acqua di un uomo adulto del peso di circa 66 kg. il 64% (mentre per il corpo del neonato dovrebbe porsi almeno il 70%), ne segue che esso contiene circa 44 kg. di acqua (2/3 del peso del suo corpo). Quest'acqua si troverebbe approssimativamente così distribuita:
Varie sorgenti dell'acqua. - Acqua esogena. - L'acqua penetra dall'esterno nell'organismo degli animali superiori e dell'uomo esclusivamente per la via del canale alimentare, e particolarmente dell'intestino, perché lo stomaco non ne assorbe quasi punto. E nel canale alimentare giunge sotto forma: 1° di acqua libera delle bevande; 2° di acqua allo stato d'imbibizione degli organi e tessuti vegetali e animali, cioè degli alimentì solidi, crudi o cotti, dei quali gli animali e l'uomo si cibano; 3° di acqua dei succhi digerenti (saliva, succo gastrico, pancreatico ed enterico, bile), che nell'intestino si versano durante la digestione. L'acqua d'imbibizione dei cibi solidi diviene però, per buona parte, libera, già durante la cottura degli alimenti (perché il calore coagula le proteine organizzate, e la coagulazione è accompagnata da disimbibizione delle medesime); e quanto al resto, diviene libera per effetto della distruzione dello stato colloidale dell'amido, del glicogeno, delle proteine semplici e coniugate, e dei lipoidi, che è necessariamente effetto della digestione.
L'acqua che si versa nel canale alimentare coi succhi digerenti è rilevantissima, perché d'ordinario, nell'uomo il volume totale minimo di questi succhi ammonta a circa 7300, il massimo a circa 8800 cmc., come appare dal seguente specchietto:
Quest'acqua che deriva dallo stesso organismo, in condizioni normali è riassorbita; essa non fa che circolare dall'organismo alla cavità del canale digerente e da questa a quello (eccetto la parte, del resto normalmente piccola, che può andar perduta con la saliva espulsa dalla bocca e con le feci). Data la grande quantità di acqua che nel canale alimentare giunge coi cibi e coi succhi digerenti, si comprende come la digestione e l'assorbimento possano aver luogo anche se l'animale non introduce affatto bevande.
La presenza di una certa quantità d'acqua nell'intestino è indispensabile: 1° perché possano svolgersi i processi d'idrolisi dei polisaccaridi, dei gliceridi, delle proteine, dei fosfatídi ecc.; 2° perché i prodotti di questa idrolisi possano sciogliersi e formare soluzioni non eccessivamente concentrate, le quali siano poi rapidamente assorbite, nel qual modo si evita che le preziose sostanze nutritive giungano in quantità abnorme nel colon, e qui cadano in balìa dei batterî della putrefazione; 3° perché il contenuto dell'intestino acquisti quella consistenza semiliquida che è la più atta ad agevolarne il progressivo spostamento dal duodeno alla valvola ileocecale sotto l'azione delle contrazioni peristaltiche.
Acqua endogena. - Oltre all'acqua che viene dall'esterno, acqua si forma nell'organismo per la ossidazione dell'idrogeno degli acidi grassi, degli aminoacidi e degl'idrati di carbonio; e una piccola parte deriva anche dalla formazione del glicogeno, dei grassi neutri e delle proteine organizzate, nonché da altre reazioni sintetiche.
Questa è l'acqua endogena, che può essere approssimativamente calcolata, perché, secondo Magnus-Levy, dall'ossidazione di
Una razione mista ordinaria dà circa 300 gr. di acqua. Una razione di 2000 calorie dà, secondo Magnus-Levy, circa 240 gr. di acqua, e una di 4000 calorie ne dà circa 480 gr.: onde, in media, si hanno circa 12 gr. d'acqua per ogni 100 calorie.
Più difficile, se non impossibile in pratica, riesce il calcolo dell'acqua che si forma nelle reazioni sintetiche, e nei processi di deidratazione degli ioni inorganici e organici, e di disimbibizione dei colloidi, nonché di quella che si libera quando, nei processi metabolici, il glicogeno e le proteine sciolte, o organizzate, vengono idrolizzate.
Circolazione dell'acqua nell'organismo animale. - Abbiamo detto che nell'organismo l'acqua non ristagna. Essa è tenuta in incessante movimento dalle seguenti forze:
1. L'azione del cuore, l'elasticità e la contrattilità delle pareti vasali, che sospingono il sangue e la linfa; le contrazioni dell'uretere e di altri condotti ghiandolari, che fanno avanzare i secreti, ecc.
2. La pressione osmotica, dovunque esista una caduta di concentrazione e una membrana semipermeabile che separi una soluzione acquosa più concentrata da una meno concentrata.
3. La pressione d'imbibizione, detta pressione oncotica da Schade, attiva in tutte le strutture organizzate, dovuta all'attrazione che sull'acqua esercitano i colloidi finché non sia raggiunto il loro grado ottimo d'imbibizione, che del resto varia col variare dello stato chimico-fisico dei colloidi stessi, della temperatura, della concentrazione dei varî ioni nel liquido circostante ecc.
La direzione in cui avviene lo spostamento dell'acqua attraverso le membrane composte di cellule è diversa, e dipende da proprietà peculiari di queste. Le cellule ghiandolari esocrine promuovono lo spostamento dell'acqua nella direzione dal sangue verso l'esterno; le cellule dell'epitelio intestinale, nella direzione dal lume dell'intestino verso il sangue. E siccome in molti casi lo spostamento avviene con esecuzione di lavoro osmotico da parte delle cellule secernenti o assorbenti (le cellule salivari producono la saliva, che di solito è ipotonica; le cellule renali, l'urina, che è normalmente, nei mammiferi e nell'uomo, ipertonica, rispetto al sangue), così deve ammettersi che le cellule ghiandolari sono dotate di proprietà chimico-fisiche peculiari, per eseguire il corrispondente lavoro di concentrazione o di diluizione, e di una singolare polarità funzionale (v. ghiandole).
Possiamo distinguere varie grandi correnti nel movimento dell'acqua.
1. Una è la corrente circolatoria (del sangue e della linía). Essa è contenuta in un sistema di canali chiuso in sé stesso, e riguarda solo una piccola parte dell'acqua totale contenuta nel corpo (v. sopra).
2. Un'altra è rappresentata dal volume totale dei secreti che si versano nel canale alimentare. Questi derivano immediatamente dal sangue (ma in ultima istanza dalla riserva d'acqua dei tessuti), e al sangue e ai tessuti ritornano (aumentati del volume d'acqua introdotta coi cibi e le bevande, meno l'acqua espulsa con le feci), durante l'assorbimento intestinale. Anche questo è un circolo chiuso (sangue → intestino → sangue), e comprende parecchi litri d'acqua (v. sopra).
3. La terza grande corrente è quella che è diretta verso gli organi emuntorî: i reni (urina), la pelle (sudore), i polmoni (vapor d'acqua esalato), qualche volta (nelle profuse diarree) lo stesso intestino.
La seconda corrente apporta all'organismo le sostanze nutritive; la terza ne allontana i prodotti terminali del catabolismo; la prima costituisce l'anello intermedio necessario fra l'organismo e l'intestino, e fra l'organismo e il mondo esterno.
4. Uno spostamento di acqua, in doppio senso, avviene incessantemente fra apparato circolatorio e tessuti, attraverso le sottili pareti dei capillari sanguigni, arteriosi, venosi, e linfatici. L'acqua si sposta verso i tessuti quando sia pervenuta in quantità eccessiva nel sangue, o quando i tessuti l'attraggano per essersi elevato il potere d'imbibizione dei loro colloidi o la concentrazione osmotica dei loro succhi intracellulari; si sposta nella direzione contraria, quando un aumento della concentrazione osmotica del sangue, o l'attività secretiva delle ghiandole esocrine, o la termoregolazione, ecc., determinino un richiamo dell'acqua depositata nei tessuti. Ma le cellule non sono a immediato contatto col sangue o con la linfa; fra le cellule e il sangue è posto, oltre alla parete dei capillari e alla membrana protoplasmica delle cellule, un velo di liquido interstiziale, che bagna così le cellule come le pareti dei capillari. Questo liquido interstiziale, che trovasi interposto ai due estremi della duplice corrente e per il quale l'acqua deve passare quando si sposta sia nell'una sia nell'altra direzione, contiene meno proteine che non la linfa e il plasma del sangue, da un lato, e ancora meno che non i tessuti, dall'altro. Un aumento della pressione oncotica dei colloidi sanguigni, da un lato, e di quelli dei tessuti, dall'altro; un aumento o una diminuzione della pressione osmotica del sangue, da un lato, o dei succhi intracellulari, dall'altro, possono essere causa dello spostamento dell'acqua nell'una o nell'altra direzione. Finalmente, può variare la permeabilità delle pareti dei capillari o quella delle cellule: se quella aumenta, l'acqua passa più velocemente dall'interno dei capillari negli spazî interstiziali. Analogamente, nei processi secretivi, si deve pure ammettere un aumento della permeabilità delle cellule ghiandolari, oltre che delle pareti dei capillari. Il liquido interstiziale di cui parliamo, solo in piccola parte, però, trovasi libero negli spazî intercellulari. Per la massima parte esso è imbevuto dalla massa dei colloidi (estracellulari) del tessuto connettivo, la cui importanza, come deposito di acqua al quale l'organismo attinge, quando ne ha bisogno, certamente prima che al deposito intracellulare, riesce pertanto evidente.
Bilancio dell'acqua. - Il bilancio dell'acqua può esser definito, dicendo che esso è il rapporto giornaliero fra la quantità totale di acqua entrata nell'organismo con gli alimenti (essa comprende anche quella che nell'organismo si genera dall'ossidazione delle sostanze nutritive assorbite o di sostanze già depositate nei tessuti), e l'uscita totale di acqua dal corpo per i reni, l'intestino, i polmoni e la pelle.
L'italiano Santorio (1561-1636) fu il primo che fece su sé stesso ricerche sul ricambio dell'acqua determinando il peso delle bevande e dei cibi introdotti pro die, e confrontandolo col peso dell'urina e delle feci emesse. Da questi dati, e dalle variazioni in peso del suo corpo, dedusse "la quantità di materia perduta per traspirazione insensibile attraverso la pelle e i polmoni".
Per fare il bilancio del ricambio dell'acqua bisogna, dunque, conoscere particolarmente le varie frazioni che formano, da una parte la quantità totale di acqua introdotta, e dall'altra quella dell'acqua espulsa.
Diamo qui alcuni esempî di tale bilancio.
1. (Dalla tabella a p. 107 del Lehrbuch der Physiol. des Menschen di R. Tigerstedt, 10ª ed., Lipsia 1923):
Poiché il bilancio si chiude in deficit, l'individuo deve aver introdotto, in questo caso, meno acqua di quanta gliene occorreva per intrattenere un'attività normale dei reni e delle ghiandole cutanee, e per rendere l'aria espiratoria satura di vapor d'acqua alla temperatura di circa 35°.
Il deficit del peso del corpo fu press'a poco eguale a quello del bilancio dell'acqua. Anche in questo caso, l'individuo, per avere introdotto meno acqua di quanto gli occorreva, ne ha dovuto cedere dai suoi tessuti.
In un organismo adulto, che abbia raggiunto l'equilibrio del peso del corpo, l'introduzione e l'eliminazione dell'acqua debbono pareggiarsi. Perché il bilancio si chiuda in pareggio, l'uomo adulto deve introdurre, secondo Camerer, circa 35 gr. di acqua per kg. di peso del corpo, che, aggiunti ai 5 gr. circa derivanti dalle ossidazioni organiche, fanno in tutto 40 gr. per kg. Il bambino poppante, invece, ha bisogno di una quantità d'acqua 3-4 volte maggiore. Il suo bilancio dell'acqua, come del resto il bilancio di tutto il suo ricambio materiale, si chiude in guadagno, evidentemente perché l'organismo cresce; e per la formazione delle cellule occorre l'acqua non meno delle proteine, dei grassi, dei sali minerali ecc.
Soltanto certi organismi inferiori, quali le tìgnole, possono vivere con la sola acqua endogena, prodotta dalle loro ossidazioni organiche. È stato infatti dimostrato, che esse possono stare in un essiccatore nutrendosi di materiali contenenti non più del 5-10% di acqua, e tuttavia generare larve, che ne contengono dal 50 all'80%. Si comprende, che solo l'ossidazione di grandi masse di grasso o d'idrati di carbonio può fornire tanta acqua. Per anni vivono senza bere i conigli e le cavie, perché ricevono acqua a sufficienza con gli erbaggi freschi; ma se sono alimentati, per es., con crusca o con cereali, essi sono costretti a bere. Anche noi possiamo astenerci dall'acqua, o berne pochissima, ma solo durante la stagione fredda, quando cioè l'emissione per la via della pelle è di molto ridotta. Gli animali ibernanti non ne introducono affatto, durante l'intero periodo d'ibernazione, onde quella che emettono deriva tutta dai processi di ossidazione.
Per quanto riguarda l'uscita dell'acqua dal corpo, meritano d'essere rilevati i seguenti fatti. Piccola è la quantità che normalmente va espulsa con le feci. Perdita d'acqua, per vie diverse dalle ordinarie, si può avere per vomito copioso, quando si dà esito a grandi ascessi o raccolte sierose, in alcuni fumatori per lo sputo, nelle donne per la secrezione lattea e per l'emissione di sangue mestruale. Notevole è la quantità d'acqua che viene emessa per i polmoni. Se una persona stesse in un'atmosfera satura di vapor d'acqua alla temperatura di 37° C, eliminazione d'acqua non avrebbe luogo per le vie respiratorie. Come la temperatura dell'aria satura di vapor d'acqua si abbassa, essa ne contiene sempre di meno, e a 22° C. ne conterrà solo la metà che a 37°. Se però l'umidità dell'aria è ridotta, per esempio al 50% a 22°, allora l'aria inspirata contiene solo un quarto di quella che contiene l'aria espirata. Per questa via, l'uomo può emettere da 250 a 400 grammi d'acqua, e una quantità anche maggiore, se aumenta la frequenza degli atti respiratorî, e se si abbassano la temperatura e l'umidità dell'aria (Rubner, Benedict).
L'eliminazione dell'acqua per la pelle, che costituisce un potente mezzo di termoregolazione, somiglia, in certo modo, a quella per le vie respiratorie. L'evaporazione è accresciuta da scarsa umidità atmosferica, non che da alta temperatura e rapido ricambio (ventilazione) degli strati d'aria che si trovano a contatto con la pelle. Söderstrom e Du Bois hanno trovato che, a una temperatura media di 22-25° C e a un'umidità dell'aria variabile dal 30 al 50%, gli uomini normali, ed anche quelli affetti da malattie diverse, perdono, in media, il 24% delle loro calorie mediante evaporazione cutanea dell'acqua. La perdita di acqua per la via della pelle fu trovata in media di 700 gr. Risultati analoghi sono stati ottenuti da Levine e Wilson nei bambini. Quando si suda, e il sudore prodotto è più di quello che può evaporare, di guisa che esso gocciola giù dalla pelle, per la parte che non evapora, il corpo perde di peso ma non di calore. C'è chi afferma che tutta l'acqua eliminata per la pelle è acqua di sudore, sia questo secreto visibilmente, o no. Ma che ciò non sia vero è dimostrato dall'assenza congenita di ghiandole sudoripare in alcuni individui, i quali, ciò non ostante, si comportano come individui normali per quanto concerne l'evaporazione dell'acqua dalla pelle, almeno finché l'aria non abbia oltrepassato la temperatura (30°-33°), alla quale s'inizia la secrezione del sudore.
Per i reni emettiamo la maggior quantità d'acqua. In generale, essa aumenta con l'aumentare dell'acqua ingerita, e diminuisce con l'aumentare di quella eliminata per i polmoni e per la pelle. In un clima caldissimo e asciutto, può essere grandissima la quantità d'acqua ingerita, e assai scarsa l'urina.
L'alimentazione influisce notevolmente sul contenuto in acqua dell'organismo. Benedict e Carpenter hanno osservato che una dieta ricca d'idrati di carbonio determina notevole ritenzione d'acqua e aumento del peso del corpo; mentre, se la dieta è povera d'idrati di carbonio e ricca di grassi, acqua è ceduta dall'organismo.
V'influisce anche l'esercizio. Ma a questo proposito si osservano singolari differenze: vi sono individui che sudano copiosamente per un lieve esercizio muscolare, ed altri, invece, che non secernono una stilla di sudore, nemmeno durante l'esecuzione di un lavoro intenso. Ciò dipende in parte dall'allenamento, in parte dalla diversa eccitabilità del sistema nervoso, da cui dipende l'attività secretiva delle ghiandole sudoripare.
Abnormi variazioni del contenuto in acqua dell'organismo. - Varie sono le cause che possono determinare un abnorme aumento o un'abnorme diminuzione del contenuto in acqua dell'organismo. Indipendentemente da condizioni di natura patologica, però, assai difficilmente accade che un individuo introduca spontaneamente acqua in eccesso. Né, d'altro canto, gli animali superiori e l'uomo vengono mai a trovarsi in quella che è la condizione normale degli Anfibî, di rimanere frequentemente e per lunghi periodi immersi in acqua dolce, possedendo una pelle che è permeabile all'acqua. Ciò che qui possiamo rilevare, quindi, è principalmente il resultato di ricerche sperimentali, fatte sugli animali e sull'uomo.
Le ricerche, però, consistono per la massima parte in determinazioni del contenuto percentuale in acqua del sangue, piuttosto che dell'organismo intero, o di organi e tessuti. Ora si sa che l'acqua nel sangue rimane solo per brevissimo tempo, anche se vi sia pervenuta in quantità considerevole, perché è rapidamente ceduta ai tessuti che la fissano, per la maggior parte come acqua d'imbibizione. Può darsi benissimo quindi che, dopo aver somministrato molta acqua a un animale, per qualunque via, ricercandola a un dato momento, non la si trovi più nel sangue, e nemmeno negli escreti nell'intervallo emessi, perché è ancora trattenuta dai tessuti. Per conseguenza i risultati di determinazioni quantitative concernenti il solo sangue non debbono essere ritenuti come indici anche del contenuto in acqua dell'organismo intero.
1. - Iperidremia. - Un abnorme aumento del contenuto in acqua dell'organismo si può avere per ingestione di molta acqua potabile. Tuttavia l'iperidremia sarà constatabile solamente, o subito dopo l'ingestione, o quando il potere dei tessuti d'imbevere acqua sia stato oltrepassato tanto, che l'acqua ancora penetrata nel sangue vi debba rimanere, aumentandone il volume. Gli effetti evidentemente dipendono, oltre che dalla quantità d'acqua introdotta nel canale digerente, anche dalla velocità con cui essa è assorbita dall'intestino (lo stomaco, si sa, non assorbe acqua in quantità degna di nota).
Secondo Rowntree, nell'uomo e negli animali, l'acqua ingerita in eccesso, oltre la capacità escretiva dell'organismo, produce una intossicazione, che si manifesta con irrequietezza, astenia, poliuria e pollachiuria, diarrea, salivazione, nausea, conati di vomito, tremori e scosse muscolari, atassia, convulsioni toniche e coliche violente, emissione di schiuma dalla bocca, stupore, coma, e finalmente morte, se non cessa l'introduzione dell'acqua. Di regola, questi sintomi dell'intossicazione acquosa scompaiono prontamente, se all'animale si fa un'iniezione intravenosa di soluzione salina ipertonica in quantità sufficiente. Negli animali ai quali l'autore somministrava 50 cmc. di acqua per kg. di peso del corpo a intervalli di mezz'ora, trovò diminuzione del contenuto percentuale in emoglobina (fino al 25%) del sangue, e diminuzione delle proteine, della viscosità, della conduttività elettrica specifica e dell'abbassamento del punto di congelamento del siero. Queste ultime osservazioni dimostrano, che quando l'acqua assorbita è veramente in grande eccesso, e le determinazioni si fanno durante la somministrazione, si verifica veramente uno stato di iperidremia, con aumento di volume del sangue.
Secondo Haldane e Priestley, l'ingestione di molta acqua provoca enorme diuresi, che però non può dipendere da aumento di volume del sangue, perché non si osserva nello stesso tempo diminuzione del contenuto percentuale dell'emoglobina. Per mettere in chiaro le cause determinanti tale diuresi, gli autori fecero nuove ricerche, e trovarono che essa era accompagnata da diminuzione della conduttività elettrica del siero del sangue, dovuta al fatto che sali passano dal sangue nell'acqua contenuta nell'intestino. Il volume del sangue, quindi, non cambia, e naturalmente nemmeno il contenuto percentuale in emoglobina, ma diminuisce il contenuto in sali, e questo basta per provocare la diuresi. Se invece di acqua, o di soluzione salina diluita, si somministra soluzione salina press'a poco isotonica rispetto al sangue, questa è assorbita come tale, e ha per effetto aumento della conduttività elettrica del siero e del volume del sangue, con diminuzione percentuale dell'emoglobina. La diuresi che si osserva in questo caso è dovuta all'eccesso in cui acqua e sali vengono a trovarsi nel plasma rispetto agli altri suoi costituenti. Degno di nota è il fatto, messo in chiaro da questi esperimenti, che piccolissimi cangiamenti del plasma del sangue provocarono enorme diuresi (emissione fino a 1200 cmc. di urina per ora). Poiché gli autori non osservarono i fenomeni d'intossicazione descritti da Rowntree, è evidente, però, che essi somministrarono l'acqua in minore quantità e con minore velocità.
D'Errico ha osservato che, dopo iniezione intravenosa, in un cane del peso di kg. 7,600, di 300 cmc. di soluzione ipotonica di NaCl (0,4%), che causava un lieve abbassamento della concentrazione osmotica del sangue (da Δ = 0,580° a Δ = 0,550°), l'acqua somministrata per lo stomaco (500 cmc.) passava subito nell'intestino, dove era assorbita, provocando un ulteriore abbassamento della concentrazione del plasma del sangue (Δ = 0,525°). Urina però non era secreta dai reni, perché all'autopsia la vescica fu trovata sempre vuota. Da queste ricerche risulta che l'intestino non costituisce una difesa contro un'invasione con acqua dell'organismo, visto che esso l'assorbe sempre, anche a costo di produrre un forte abbassamento della concentrazione molecolare dei liquidi interni e un enorme aumento del grado d'imbibizione dei tessuti.
2. - Ipoidremia. - Gli organismi superiori possono perdere un eccesso d'acqua: 1° per ipersecrezione di secreti ipotonici (saliva, sudore); 2° per eccessiva ventilazione polmonare in aria molto secca; 3° quando introducono alimenti secchi, senza poter introdurre nel tempo stesso acqua; 4° nel diabete insipido; 5° nelle stenosi piloriche, poiché lo stomaco non assorbe acqua, e nell'intestino, che l'assorbirebbe, l'acqua ingerita non può passare; 6° dopo ingestione di cibi o bevande molto salate, o dopo iniezioni intravenose di soluzioni saline molto ipertoniche, le quali sottraggono acqua per diluirsi, e così diluite essere escrete per i reni; 7° nei bambini, sia perché essi hanno già normalmente bisogno di ingerire una grande quantità d'acqua, sia perché non possono soddisfare da sé tale bisogno, e dipendono per questo dalla madre o dalla balia, talvolta incurante o ignorante di tal bisogno, ecc.
Solo nei casi gravi di essiccamento si ha, probabilmente, una ipoidremia degna di nota; e allora si verificano disturbi: della circolazione, perché la viscosità del sangue aumenta; dei processi metabolici, per la diminuita velocità di circolazione del sangue; della termoregolazione ecc. E si verificano anche disturbi funzionali del sistema nervoso, muscolare ecc., perché l'ipoidremia sta ad indicare anche una sottrazione d'acqua al protoplasma. Ma nei casi lievi, una vera ipoidremia non può verificarsi, almeno finché i colloidi del tessuto connettivale possono cedere al sangue parte della loro riserva d'acqua, e finché acqua può formarsi dalla ossidazione dei grassi e degl'idrati di carbonio. Czerny provocò un alto grado di ipoidremia nei gatti, esponendoli all'aria calda e secca; e Adolph l'osservò in un uomo che aveva sudato moltissimo in una stanza molto riscaldata.
Il grado di essiccamento dei diversi tessuti varia notevolmente. Il tessuto adiposo, il tessuto nervoso, il cuore e lo scheletro perdono relativamente poca acqua, in confronto coi muscoli e con la pelle. Ma principalmente il tessuto connettivo dei muscoli e della pelle, quello sottocutaneo ecc., anche qui, entra prima in azione, cedendo l'acqua che conteneva in deposito. I muscoli forniscono il 67,89% dell'acqua perduta (Engels), perché costituiscono poco meno della metà del peso del corpo (42,8%), e contengono, come la pelle, molto tessuto connettivo.
Nelle condizioni dianzi dette, l'essiccamento è, tra l'altro, inevitabile, perché l'organismo non può fare a meno di eliminare incessantemente acqua: 1° per i polmoni (per inumidire l'aria respiratoria); 20 per la pelle (per regolare la temperatura del corpo); 3° per i reni (perché l'urina è secreta incessantemente, e la sua pressione osmotica non può superare, e nemmeno uguagliare la pressione idraulica del sangue circolante nel glomerulo, altrimenti la secrezione si arresterebbe).
Molti batterî, certi animali inferiori (come i Rotiferi ecc.), i semi dei cereali ecc. possono esser privati della maggior parte della loro acqua, senza che periscano. In questo stato di relativo essiccamento, però, la loro vita è sospesa, come latente; ma tornano in vita piena, non appena vengano a trovarsi in condizioni da acquistare l'acqua perduta. Anche alle rane, però, purché tenute a bassa temperatura, cioè in condizioni da poter ridurre di molto il loro metabolismo, può esser sottratta la maggior parte dell'acqua, fino al punto che i loro muscoli ne contengano solo il 18-26%, invece del 75%.
Assai minore resistenza alla perdita dell'acqua offrono gli animali superiori. L'uomo non può perderne assai più del 10% (il suo contenuto medio normale in acqua è di circa il 63%), senza soffrirne gravemente. Un cane può essere mantenuto in vita benissimo, se è nutrito con sola carne fresca, senza aggiunta di acqua; ma non sopporta per più di 4-5 giorni una dieta di sola carne secca polverizzata. Con questa alimentazione secca, perde circa il 10% dell'acqua del suo corpo (i soli muscoli ne perdono il 20%), e poi muore.
Mentre un mammifero durante il digiuno assoluto consuma, prima di morire, tutti gl'idrati di carbonio, quasi tutto il grasso, e circa il 50% delle sue proteine organizzate; se, invece, è lasciato a digiuno solamente di acqua, muore non appena abbia perduto dal 10 al 20% di quella che conteneva. Lasciati solamente senz'acqua, i topi muoiono dieci volte più presto che se sono lasciati affatto digiuni; e i piccioni muoiono in 5-10 giorni, dopo aver perduto circa il 20% del proprio peso. In altre parole, si muore più presto di sete, che di fame. Tutti questi fatti dimostrano (notava già F. A. Pouchet, 1800-1872) che l'acqua è assolutamente indispensabile per il mantenimento in vita degli organismi; che essa è, anzi, di tutte le sostanze che s'introducono con la razione alimentare giornaliera, la più indispensabile.
Costanza del contenuto medio in acqua degli organismi viventi e meccanismi che provvedono al suo mantenimento. - Più Sostanze chimico-fisiologiche e chimico-fisiche esistono negli organismi superiori : 1° costanza della composizione chimica del nucleo e del protoplasma cellulare dei varî tessuti di uno stesso individuo; 2° costanza della concentrazione osmotica totale dei liquidi costitutivi (sangue, linfa, succhi intercellulari, succhi intracellulari); 3° costanza della proporzione in cui nei detti liquidi sono rappresentati i varî ioni, e particolarmente i Na•, i K•, i Ca••; 4° costanza della reazione dei detti liquidi, cioè della concentrazione degl'H• nei medesimi; 5° costanza della temperatura interna del corpo; 6° costanza della tensione superficiale del sangue in ciascuna specie; 7° costanza del contenuto medio in acqua dell'organismo.
Di queste costanze, solamente l'ultima dobbiamo qui prendere in considerazione. In condizioni normali, le oscillazioni, dovute alle varie cause di sopra rammentate, debbono compensarsi, e il contenuto totale in acqua del sangue e dell'intero organismo deve presentare un valore medio costante, specie se il corpo è considerato come approssimativamente privo di grasso. Si sa, infatti, che nemmeno dopo lunghe esaurienti malattie il contenuto in acqua dei muscoli differisce sensibilmente dal normale; né differenze rilevanti esistono tra animali digiuni e animali ben nutriti, a questo riguardo. Evidentemente, come per mantenere le altre costanze, anche per questa debbono entrare in azione meccanismi regolatori adeguati, atti a difendere l'organismo sì dagli eccessivi aumenti e sì dalle eccessive diminuzioni di acqua.
1. - Difesa dalle cause capaci d'indurre iperidremia e aumento abnorme di acqua nei tessuti. - Contro l'iperidremia, con inevitabile aumento del volume del sangue, l'organismo si difende in primo luogo mediante la proprietà, inerente ai colloidi dei suoi tessuti, d'imbevere acqua; e in questa difesa, prima entrano in azione le stesse cellule sanguigne, rigonfiandosi, poi il tessuto connettivo interstiziale, e solo da ultimo le cellule degli organi parenchimatosi. Né le cellule del sangue, né quelle dei tessuti nervoso, muscolare e ghiandolare possono imbevere troppa acqua, senza alterarsi gravemente, le prime cedendo l'emoglobina (emolisi), le seconde presentando alterazioni funzionali simulanti vere e proprie intossicazioni. Ne segue, che il tessuto connettivo interstiziale deve principalmente costituire una difesa contro l'iperidremia e contro l'eccessivo aumento dell'acqua nei tessuti, agendo, per così dire, da puffer idrico; e, nel tempo stesso, un deposito dove l'organismo può attingere in caso di bisogno d'acqua. Questo deposito, per esempio, si vuota in parte durante la secrezione dei succhi digerenti, le copiose sudate ecc., e torna a riempirsi durante l'assorbimento dell'acqua dall'intestino. Se la funzione degli emuntorî è insufficiente a liberare l'organismo dell'acqua che lo ha invaso; se il potere d'imbibizione del connettivo interstiziale è oltrepassato, e minaccia di verificarsi una reale inondazione dell'organismo; allora si hanno i sintomi d'intossicazione acquosa descritti da Rowntree; e finalmente la morte, se anche la diuresi, il vomito, la diarrea ecc. si dimostrano insufficienti mezzi di difesa.
Gli anfibî che passano gran parte della loro vita nell'acqua degli stagni, mantengono nel loro interno liquidi di concentrazione osmotica di molto superiore a quella dell'acqua in cui vivono, espellendo, con un'urina molto ipotonica, l'eccesso di acqua, cui la loro pelle non può impedire l'entrata nel corpo. Probabilmente lo stesso si verifica nei teleostei d'acqua dolce. Anche negli uccelli però (D'Errico), e nei mammiferi, i reni possono liberare l'organismo d'un eccesso di acqua penetratavi, secernendo urina molto diluita. Naturalmente, oltre ai reni possono entrare in azione i polmoni e le ghiandole sudorifere, allo stesso effetto di eliminare acqua. E se si eccita la secrezione salivare in animali ai quali sia stata somministrata acqua o soluzione salina molto diluita (2-4 per mille di NaCl), si vede venir fuori persino dalle ghiandole salivari una saliva ancora più ipotonica della normale (G. Jappelli).
2. - Diffsa contro le cause di essiccamento del corpo. - I teleostei marini, il cui sangue ha un valore di Δ crioscopico approssimativamente costante, ma della metà inferiore a quello dell'acqua marina in cui vivono si difendono contro l'essiccamento verosimilmente isolandosi dall'ambiente esterno mediante membrane (pelle ed epitelio branchiale) impermeabili all'acqua. Se così non fosse, dovrebbero secernere un'urina fortemente ipertonica, mentre la loro urina è praticamente isotonica rispetto al sangue.
Negli animali superiori vien ridotta al minimo l'eliminazione dell'acqua, ma ciò non sempre costituisce difesa bastevole. Per riparare agli effetti dell'ipoidremia non c'è altro mezzo, che introdurre acqua, o per la via naturale del tubo digerente, o per via parenterale. La sete avverte del bisogno di acqua, e stimola alla ricerca di essa.
Una singolare osservazione fece D'Errico in cani, ai quali aveva iniettato nelle vene soluzione ipertonica (4-10%) di NaCl. Somministrata acqua per la via dello stomaco' dopo l'iniezione intravenosa, egli osservò non solo che non era da questo assorbita, ma che pergiunta non passava nemmeno nell'intestino, causa uno spasmo del piloro. Ma egli trovò che nell'acqua trattenuta nello stomaco eran passati sali dal sangue, e certamente anche succo gastrico, perché il liquido era acido, e presentava un Δ = 0, 120°-0,530°. Probabilmente l'organismo tentava di liberarsi dell'eccesso del sale eliminandone una parte attraverso la parete gastrica. Il liquido qualche volta era espulso per vomito. Se l'acqua era introdotta direttamente nell'intestino, veniva subito assorbita.
In conclusione, possiamo dire col Rubner, che "la regolazione del contenuto medio in acqua dell'organismo è scrupolosamente sorvegliata". Se le deviazioni dal contenuto normale sono lievi, i varî meccanismi regolatori le compensano rapidamente; se sono di grado maggiore, il compenso si stabilisce più lentamente, perché allora debbono entrare in azione organi ghiandolari, la cui attività esige sempre un tempo considerevole per svolgersi efficacemente.
Bibl.: F. Bottazzi, Die Regulation des osmotischen Druckes im tierischen Organismus, in A. v. Korànyi e P. F. Richter, Physikalische Chemie und Medizin, 1907, I, p. 475; G. D'Errico, Beitrag zum Studium der Wasseresorption durch das Magen-Darmrohr, in Bioch. Zeitschr., VII (1908), p. 338; E. H. Starling, The fluids of the body, Londra 1909; J. S. Haldane e J. G. Priestley, The regulation of excretion of water by the kidneys, in Journal of Physiol., (1916); L. J. Henderson, The fitness of the environment, New York 1913; L. Loeb, Edema, Baltimora 1923; W. Mc Kim Marriott, Anhydremia, in Physiological Review, III (1923), p. 275; L. G. Rowntree, The water balance of the body, in Physiol. Review, II (1922), p. 116; G. Leonard Rowntree, Water intoxication and associated changes in the composition of the blood, in Quart. Journ. of experim. Physiol., 1923, suppl., p. 213; H. Schade, Wasserstoffwechsel, in L. Oppenheimer, Handb. der Biochemie, 2ª ed., VIII (1925), p. 149; E. H. Starling e E. B. Verney, The secretion of urine as studied on the isolated kidney, in Proceed. of the Roy. Soc. of London (B), XCVII (1925), p. 231; E. B. Verney, The secretion of pituitrin in mammals, as shown by perfusion of the isolated kidney of the dog, in Proceed. of the Roy. Soc. of London (B), XCIX (1926), p. 487; E. F. Dubois, Basal metabolism in health and disease, 2ª ed., Filadelfia 1927 (cap. XVIII, The water metabolism, p. 399 segg.).
L'acqua nella storia umana.
a) Nel mondo antico. - Le acque avevano per gli antichi grande importanza o come bevanda, o come lavacro igienico e purificatore, o come apportatrici di salute, o, infine, come elemento necessario per l'agricoltura. E l'acqua è così necessaria per la vita dei popoli, specialmente se primitivi o abitanti in regioni che ne scarseggiano, che questi la pensarono sempre come dotata di vita e di potere sacro, e perciò le diedero parte cospicua o predominante in un gran numero di riti e di atti magici e religiosi, ritenendola sede di spiriti e di divinità, che dovevano tutelarla.
I.'acqua era usata nelle feste celebranti il ritorno della vegetazione, nei riti per procurare la pioggia, nelle cerimonie di purificazione in occasione di parti, mestruazioni, malattie, contagi, peccati, spargimento di sangue, contatti coi morti e con le cose sacre (si vedano le prescrizioni degli Ebrei e dei Greci per le purificazioni dei sacerdoti e di coloro che hanno celebrato sacrifici), matrimonî e iniziazioni. Specialmente le acque correnti, o vive, erano ritenute efficaci contro le malattie, soprattutto se accompagnate da eruzioni della pelle, e ancor oggi sono numerose negli usi popolari le tracce di questa credenza. L'acqua era usata anche come strumento di divinazione (p. es., l'acqua oracolare di Delfo) e quindi come mezzo di prova, donde i riti delle ordalie. È uno degli elementi naturali che meglio poteva dare l'impressione dell'animato, e quindi veniva personificata, e fiumi e fonti erano considerati come divinita, cui si erigevano altari e si offrivano sacrifici; il mito di Andromeda e i molti affini si collegano con antichissimi sacrifici di vergini a dèmoni delle acque. Come causa della fertilità e della vita, l'acqua è in molti miti e atti rituali in relazione con le donne (p. es., il bagno delle donne nello Scamandro).
Poiché la civiltà antica si svolse specialmente nei paesi subtropicali attorno al Mediterraneo, ove l'acqua è in genere scarsa e quindi preziosa, la ricerca e l'uso delle acque fu nell'antichità oggetto di cure e di prescrizioni minute. Meno frequenti sono invece le notizie di cure rivolte alle acque nei paesi umidi settentrionali, ove le tracce preistoriche di lavori idraulici sono rarissime, poiché o l'uomo non compiva lavori attorno alle sorgenti naturali, o essi erano di sì poco conto che non hanno lasciato generalmente traccia. Pozzetti e grandi vasi trovati fra gli avanzi delle abitazioni preistoriche dovevano spesso servire a contenere l'acqua. Fonti artificialmente ricereate o adattate appaiono nell'età del bronzo e continuano negli stadî di civiltà successivi; avevano importanza soprattutto nei recinti fortificati, nei quali l'acqua assicurava la possibilità della resistenza.
Nell'Egitto le precipitazioni atmosferiche non hanno praticamente importanza e non esistono, o quasi, sorgenti; solo l'acqua del Nilo rende possibile la vita del paese. Da ciò la gran parte che l'elemento acqueo ha nelle cosmogonie egiziane, l'importanza del culto del fiume e delle varie divinità fluviali che personificano gli svariati aspetti del beneficio delle sue acque, le commosse lodi che perennemente si innalzavano in suo onore, e la cura con la quale veniva misurata la maggiore o minore altezza della piena. Non solo, ma l'organizzazione sociale e statale dell'Egitto è prevalentemente determinata dalle necessità dell'irrigazione e dell'utilizzazione delle acque di piena del Nilo. Bisognava proteggere il paese dai danni dell'inondazione costruendo dighe; favorire la sommersione o facilitare il deflusso per mezzo di sbarramenti e canali, e curarli diligentemente. Nell'Egitto faraonico queste opere erano compiute da corvées requisite a questo scopo. Pene severissime erano comminate a chi danneggiasse i lavori idraulici, e dighe e canali erano sorvegliati da guardie armate e dai proprietarî. La vallata era divisa in bacini, nei quali si immetteva l'acqua al momento opportuno, distribuendola poi nel modo píù equo con procedimenti ingegnosissimi, e trattenendola con sbarramenti a seconda del bisogno. Anche i serbatoi erano noti agli antichi Egiziani. Le zone più elevate, che l'inondazione non avrebbe raggiunto, venivano irrigate per mezzo di canali derivati a monte e di pendenza più debole di quella del fiume, che si suddividevano via via in infiniti rigagnoli. Quando era necessario portare l'acqua nei canali più elevati in tempo di magra, si usavano varî sistemi di sollevamento; il più comune era lo shādūf, denominazione araba attuale del bilanciere per attingere e sollevare nei secchi l'acqua del fiume, che si usava in Egitto dai tempi più antichi (fig. 10), e forse anche la sāqiyah o ruota idraulica. La legislazione sulle acque era precisa e minutissima e un numeroso corpo di impiegati ne regolava e sorvegliava l'uso e decideva le questioni che potevano sorgere. I governi tolemaico e romano ereditarono questa amministrazione idraulica il cui funzionamento per l'epoca greco-romana ci è noto nei suoi particolari da molti documenti su papiro.
Gli Egiziani bevevano l'acqua del Nilo, alla quale si attribuivano virtù terapeutiche, tanto che principesse egiziane domiciliate fuori d'Egitto se la facevano recare. L'acqua si trasportava in otri; nelle case si tenevano grandi vasi porosi nei quali essa si rinfrescava e si purificava. Fonti termali sgorgano in Egitto presso Ḥelwān, a sud del Cairo; l'amica sorgente d'acqua dolce, celebrata dagli Egiziani come cosa divina e collegata poi con la leggenda cristiana di Maria, è a Maţariyyah presso Elopoli. (v. Hartmann, L'Agriculture daus l'ancienne Égypte, Parigi 1923, p. 113 seg.: elenco delle figurazioni relative a p. 294; Wiedemann, Das alte Aegypten, Heidelberg 1920, p. 22; Erman-Ranke, Aegypten, Tubinga 1922, pp. 20 e 513; per l'epoca greco-romana Schubart, Einführung in die Papyruskunde, Berlino 1918, pp. 408 e 412 e la letteratura ivi indicata).
Anche per i Babilonesi l'acqua è uno dei tre elementi divini primordiali, Ea, e dall'acqua del grande abisso (Asuu) tutto era stato generato. L'acqua era personificata e venerata; e aveva grande importanza negli oracoli, e nelle diverse pratiche magiche. Varie ed importanti erano le divinità delle acque o in stretta relazione con le acque. E infatti anche in Babilonia l'agricoltura e la vita dipendevano interamente dalla conduttura e dalla distribuzione del prezioso elemento. Quindi la costruzione di canali, alle volte lunghissimi, era l'occupazione e il vanto principale dei governanti, e la loro manutenzione il compito più importante dell'amministrazione. Siccome poi il livello dei fiumi e dei canali era in genere (tranne cioè nei periodi di piena) più basso del livello della campagna, l'irrigazione era fatta per sollevamento, di solito col sistema dello shādūf praticato anche dagli Egiziani (v. sopra) e che appare nei monumenti babilonesi. Anche la legislazione babilonese sulle acque era minuta e rigorosa (v. Meissner, Babylonien und Assyrien, Heidelberg 1920, I, p. 191; Delaporte, La Mésopotamie, Parigi 1923, p. 115; per l'Assiria, ove le precipitazioni atmosferiche erano più copiose, v. Scheil, Recueil de lois assyriennes, Parigi 1921, leggi XVII-XVIII sull'uso delle acque).
Per la Palestina le fonti sono piuttosto numerose, ma irregolarmente distribuite. Nell'antichità stavano sotto la protezione delle divinità, che sopravvivono nei dèmoni e spiriti che ancor oggi si ritiene vi abitino. L'importanza delle acque nelle credenze e nel culto degli Ebrei è grandissima; anche nella loro cosmogonia l'acqua era l'elemento primordiale. In Palestina condutture d'acqua presa dai fiumi si fecero raramentc, poiché il Giordano ha un letto molto incassato. Acquedotti per condurre l'acqua nelle città e nei campi e giardini si costruirono solo tardi, all'epoca romana, p. es. a Gerico, a Damasco e nel Ḥawrān. La grande diga che sbarra l'Oronte e forma il lago di Homs è, pare, opera degli Egiziani del tempo di Seti I. Si cercò invece nei tempi più antichi di regolare, proteggere e rendere accessibili le fonti, che avevano importanza decisiva per l'ubicazione delle città e fortezze; perciò i numerosi toponimi ebraici in be'êr o ‛en, "fonte, sorgente". La posizione di Gerusalemme sul colle di Sion fu determinata dalla fonte che vi sgorga al piede (giḥon), e già i Cananei, prima che la città cadesse in potere degli Israeliti, avevano scavato la galleria che assicurava l'accesso alla fonte: Ezechia (ca. 725-715) fece poi costruire per approvvigionare la città in caso d'assedio, il famoso traforo di Siloe, (II [IV] Re, XX, 20) ove fu trovata nel 1880 la celebre iscrizione, che ricorda l'incontro delle due squadre di scavatori (v. siloe). Anche altrove in Siria e Palestina si fecero gallerie per catturare falde d'acqua sotterranea, vasche, cisterne e serbatoi: costruzioni necessarie data la irregolarità delle precipitazioni, che sono eccessive o nulle a seconda delle stagioni, e la natura calcarea del terreno (v. Thomsen in Reallexicon der Vorgeschichte, II, p. 10 seg.).
L'arte di costruire acquedotti, nota anche ai Persiani, ebbe in Oriente il maggiore sviluppo nella Siria e a Cipro; in quest'isola si scopersero condotti sotterranei per portar acqua ai templi e alle città, a Cizio, Amatunte, ecc. (Cesnola, Cyprus, Londra 1877, p. 187, 341): famoso l'acquedotto di Rās el-‛Ain al quale attingevano gli abitanti di Tiro.
In Grecia, paese arido, l'acqua è molto pregiata. L'ἄριστον μὲν ὕδωρ di Pindaro verissimo per chi percorre d'estate la Grecia o certe regioni dell'Italia. I Greci bevevano l'acqua pura o mescolata col vino (al massimo metà e metà, di solito due terzi d'acqua); l'usavano inoltre per lavare, per bagnarsi e per pratiche religiose e magiche. Le acque termo-minerali, raramente ricordate per l'Oriente, erano ben note ai Greci (ϑερμά, ϑερμαί), che le apprezzamno e spesso vi erigevano accanto templi di Esculapio e asili per malati (v. l'enumerazione in Hermann-Blümner, Lehrbuch der griech. Privatalterthümer, Tubinga 1882, p. 13; Briau in Daremberg-Saglio, Dictionnaire des Antiquités, I, 1, p. 334). Raramente in Grecia dei fiumi portavano come in Egitto o in Babilonia acqua in gran copia alle città, e si dovettero quindi per tempo escogitare provvedimenti per rifornire del prezioso liquido i centri urbani. Mirabili lavori per conduttura e scarico delle acque si trovarono a Creta nel palazzo di Cnosso (v. Evans, The Palace of Minos, I, Londra 1921, p. 142 e 225), lavori che sono probabilmente in relazione con la tecnica idraulica siriaca. Vennero quindi i lavori dei Greci, cominciando da quelli del lago Copaide che consistono propriamente in emissarî, ma che tecnicamente precorrono i lavori degli acquedotti. Condutture d'acqua antichissime a Tebe e ad Argo venivano attribuite a Cadmo e a Danao. Veri e proprî acquedotti (‛Υδραγωγεῖον, ὑπόνομος) si cominciarono a costruire quando lo sviluppo dell'urbanesimo fece sentire l'insufficienza delle piccole fonti naturali e dell'acqua piovana raccolta nelle cisterne. Si ebbero allora famosi acquedotti. Uno ne costruì a Megara, per ordine del tiranno Teagene, Eupalino, il quale costruì anche, forse per incarico di Policrate, l'acquedotto di Samo descritto da Erodoto (III, 60). Atene aveva originariamente solo le due povere fonti Clessidra e Calliroe, ma in seguito varî acquedotti, che si cominciarono a costruire all'epoca dei Pisistratidi (due dall'Imetto, uno dal Pentelico, altri dal Parnete e dal Licabetto), fornivano di acque la città. Due acquedotti aveva Siracusa, e l'approvvigionamento idrico di Selinunte era attribuito ad Empedocle. Molti altri sono ricordati dalle fonti o se ne conservano gli avanzi, in altre regioni greche o ellenizzate, in Asia Minore (cfr. Weber, in Jahrb. d. deutsch. Archäol. Instituts, XIX, 1904), Siria, Fenicia ecc. (cfr. Saglio in Dict. des. Ant., I,1, p. 338).
Naturalmente l'acqua condotta alle città con tanti sforzi doveva essere utilizzata convenientemente, e perciò la polizia delle acque nelle città greche fu sempre attivamente esercitata e gli acquedotti sorvegliati e mantenuti con cura. Temistocle fu ὑδάτων ἐπιστάτης; nel secolo seguente è ricordato ὁ τῶν κρηνῶν ἐπιμελετής, l'αἱρεϑείς ἐπὶ τὰς κρήνας, l'ἀρχὴ ἐπὶ τῆς ἐπιμελείας ὕδατος, e si tratta certo della stessa carica, una delle più antiche in Atene, che al IV secolo era permanente, e non assegnata a sorte, ma elettiva, per la competenza specifica che richiedeva. La durata era di quattro anni, da una festa Panatenea ad un'altra. Questo magistrato, coadiuvato da κρηνοϕύλακες, doveva sovrintendere alla costruzione e alla riparazione delle fonti e degli acquedotti, vegliare che si rispettassero le norme, codificate specialmente da Solone, sull'uso delle acque, e poteva infliggere multe ai trasgressori (v. spec. Aristotile, Resp Atheniens., 43,1; Inscr. Gr. II, 338, Dittenberger, Sylloge inscript. graec., 3a ediz., p. 281; Wilamowitz, Aristot. u. Athen, I, p. 207; Glotz in Darenberg- Saglio, Dict des. Ant., Il, p. 668; Oehler in Pauly-Wissowa, Real - Encycl., VI, col. 163). Magistrati analoghi, ricordati anche da Platone (Leg., VI, p. 763), sono testimoniati da iscrizioni per Chio, Ceo, Pergamo, Palmira, ecc.; essi dovevano sorvegliare le fonti, impedire che in esse si lavasse o si prendesse il bagno o in altro modo si contaminassero (prescrizioni del genere sono già in Esiodo, Op. et dies, vv. 755-7), e infliggere al caso multe pecuniarie (fino a 10 dramme a Ceo) e corporali (a Ceo, in caso di flagranza).
I rapporti giuridici relativi alle acque erano disciplinati dalla consuetudine e dalle leggi, delle quali Platone vanta la saggezza (Leg., VIII, p. 884 e). I fondi inferiori erano obbligati a ricevere le acque piovane naturalmente scorrenti dai fondi superiori, e i loro proprietarî non potevano fare dei lavori per impedirne il deflusso; però i proprietarî dei fondi superiori non potevano lasciar scolare le acque in modo pericoloso. Lo scolo poteva essere regolato con lavori fatti in base ad accordi che si dovevano rispettare (v. su tutto ciò l'orazione LV di Demostene e V. Scialoia, L'orazione contro Callicle, Torino 1890); e se i proprietarî non riuscivano ad accordarsi, una delle due parti poteva rivolgersi ai magistrati urbani o dei cantoni rurali, e si doveva stare alle loro decisioni (Platone, l. c.). I fondi che davano su una via pubblica scaricavano in essa e nel relativo fossato le proprie acque e quelle dei fondi superiori; era vietato ostruire i fossi e alzare o restringere le strade. Per le acque di sorgente c'erano minuti regolamenti che disciplinavano il loro uso per bere e per l'irrigazione, che era già ben nota ad Omero (Iliade, XXI, v. 275 segg.); Senofonte (Anab., II, 13) ricorda i lavori d'irrigazione dei Milesî, e Platone (Timeo, 77) paragona i canali irrigatorî alle vene del corpo umano. Esistevano servitù di acque (Demostene, in Calliclem; Dittenberger, op. cit., p. 1186). Un saggio di questi regolamenti, ispirati a concetti in parte diversi da quelli dei Romani, ci è dato da Platone nel citato luogo delle Leggi (cfr. anche il patto di Cherefane in Inscr. Graecae, XII, 9, n. 191 A 18 seg.); si riconosceva il diritto di attingere alle sorgenti pubbliche costruendo un acquedotto sul fondo altrui, purché non si intercettassero fonti già aperte e non si attraversassero case, luoghi sacri e monumenti. Se in un fondo non c'era acqua da bere, si doveva tentare lo scavo di un pozzo fino allo strato compatto; se l'acqua non si trovava, si aveva il diritto di chiederla al vicino per bere; se l'acqua del vicino era scarsa. si doveva stabilire un turno di attingimento, per il quale decideva l'ἀγρονόμος (cfr. la legge analoga di Solone in Plutarco, Sol., 23). Le acque correnti pubbliche erano a disposizione dei rivieraschi, con l'obbligo però di osservare certe norme particolari, per assicurare p. es. un minimo d'acqua nel fiume (legge di Gortina, in Dittenberger, op. cit., p. 1183) e nei ruscelli, che non si potevano sbarrare o altrimenti deviare. L'acqua per l'irrigazione, ripartita tra i varî fondi, veniva anche misurata (μέρις, ὕδατος, νομή, κλῆρος cfr. Dittenberger, op. cit., p. 1186). Era vietato derivare le acque altrui, corromperle e rubarle, anche se di acquedotti pubblici (Guiraud, La proprieté foncière en Grèce, p. 189, vers. ital. in Pareto, Bibl. di Storia econ. II, 2, p. 134; Beauchet, Hist. du droit privé de la république Athénienne, Parigi 1897, III, p. 162 segg.; Kohler-Ziebarth, Das Stadtrecht von Gortyn, Gottinga 1912, p. 120).
Anche nell'Italia centrale l'acqua era un elemento prezioso. Lo dimostrano i tenaci lavori di captazione d'acqua che forano gli strati tufacei della campagna di Roma e di altre regioni circostanti (v. Fraccaro in Bollett. della R. Società geografica italiana, 1919, p. 186), i culti religiosi e le figure mitiche in relazione con le acque (si ricordino per Roma le fonti Iuturna, le Camenae, Egeria, Feronia) e lo spirito profetico e magico che si attribuiva alle divinità delle fonti. I Romani distinguevano le varie specie di acque a seconda della loro origine e qualità: aquae marinae e aquae dulces, aqua fontana e puteana, pluvialis e nivalis, fluvialis, profluens e stagnans, pigra, aqua tenera, dura, viva, calda, gelida, tepida. L'ottavo dei libri De architectura di Vitruvio può dare un'idea del corpo di dottrine sulle acque e sulle loro proprietà, che s'era venuto formando in Roma.
I Romani bevevano l'acqua pura (aqua mera) o mescolata al vino, come i Greci; d'estate la facevano rinfrescare in grotte dopo averla spesso fatta bollire (decoctae nobile frigus aquae, Marziale, XIV, 116) o vi mescolavano neve e ghiaccio (uso che i medici riprovavano, Gellio, XIX, 5,3); d'inverno la facevano intiepidire. Inoltre l'adoperavano in tutti gli usi comuni (bagni, lavature, fontane, irrigazioni) e in molte pratiche religiose (sacrifici, purificazioni) e terapeutiche. Per quest'ultime, specialmente se derivate da antichissime pratiche magiche, si usava anche l'acqua comune; ma i Romani conoscevano, come i Greci, i benefici delle acque termo-minerali, che erano molto frequentate (v. la serie delle Aquae, fonti termo-minerali, ricordate dagli antichi, in Darenberg-Saglio, op. cit., I, 1 p. 335 e in Pauly-Wissowa, Real-Encycl., II, col. 294 segg., s. v. Aquae).
Nei tempi più antichi della città, i Romani dovevano attingere l'acqua dei fiumi, delle fonti e delle cisterne (Frontino, De aquae ductu, 4) e l'intervento dello stato si doveva limitare alla tutela della purezza delle fonti pubbliche, in modo che potesse essere soddisfatto prima d'ogni altro il bisogno fondamentale del bere (v. il fr. di legge in Frontino, 97), e alla protezione, a vantaggio comune, dei corsi d'acqua perenni. Ma naturalmente, fin da tempi remotissimi, man mano che la proprietà si costituiva nella sua forma tipica, si era venuto formando un diritto consuetudinario delle acque. La servitù di aquae ductus, cioè il diritto di derivare acqua dal fondo altrui o di condurla attraverso il fondo altrui, è una delle più antiche servitù prediali; venivano poi la servitù di aquae haustus, il diritto di attinger acqua sul fondo altrui, e la servitus pecoris ad aquam adpellendi o adpulsus (P. Bonfante, Istituzioni di diritto romano, 8a ediz., Milano 1925, p. 322); tutte si costituivano su acque perenni. Quando poi, nella stagione delle pioggie, torrenti d'acqua incidevano i fondi e ne travolgevano la terra vegetale, l'acqua piovana doveva esser lasciata andare secondo il suo naturale decorso, ma il proprietario del fondo superiore non poteva fare alcun lavoro che ne alterasse la qualità o aumentasse la velocità e quindi la capacità di danneggiare i fondi sottostanti, e viceversa i proprietarî di questi non potevano artificialmente respingere le acque piovane. Per una lesione di questi diritti si poteva richiedere al pretore l'azione aquae pluviae arcendae già contemplata nelle XII tavole (fr. VII, 8 Bruns), e far rimettere le cose come prima (Bonfante, op. cit., p. 297). In generale il più antico diritto romano delle acque ama di regolare questi necessarî rapporti avendo il massimo riguardo alla signoria assoluta del proprietario sul suo fondo; e solo con Giustiniano si fanno strada concetti più moderni e si ha riguardo alle esigenze generali dell'agricoltura, riconoscendo il pieno diritto del proprietario sulle acque del suo fondo solo fino al limite dell'utile proprio (cfr. Bonfante, op. cit., p. 298, e più ampiamente, Corso di Diritto Romano, II,1, Roma 1926, p. 422 segg.).
Un diritto pubblico molto complesso sulle acque si venne formando specialmente con la costruzione delle grandi condutture artificiali destinate a rifornire copiosamente d'acqua la città di Roma in continuo rapido sviluppo. Il primo di questi acquedotti è del 312 (aqua Claudia), opera del censore Appio Claudio Cieco; seguirono poi l'Anio vetus, iniziato dal censore M. Curio Dentato e terminato nel 271, l'aqua Marcia del 144 (pretore Marcio Re) e la Tepula del 126 (cens. Gn. Servilio Cepione e L. Cassio Longino). Gli imperatori accrebbero poi a 9 gli acquedotti nel sec. I d. C. (tanti erano in funzione nel 97 quando Igino era curator aquarum), e successivamente a 11 (i 14 acquedotti ricordati per il tempo di Vitige e i 19 della Notitia regionum e del Curiosum dovevano comprendere delle ramificazioni). La pratica di tali costruzioni si diffuse poi da Roma nel resto d'Italia e nelle provincie (v. l'elenco degli acquedotti ricordati in iscrizioni in De Ruggiero, Diz. epigrafico, I, p. 564), ove vennero edificati o dallo stato romano, o dalle comunità, o per munificenza di privati.
Nella legislazione sugli acquedotti ha la sua espressione più energica il concetto romano, espresso dalla coscienza di un popolo che vive in una regione solcata da pochi fiumi e di scarsa portata, che sono pubbliche le acque perenni (flumina perennia), in quanto nessuno può essere privato dall'altrui monopolio o abuso della facolta di servirsi dell'acqua per i bisogni fondamentali della vita, soprattutto quando l'acqua, incanalata nell'acquedotto pubblico, ha un'attitudine ancora maggiore a servire al pubblico vantaggio ed è quindi specialmente meritevole della vigilanza degli enti pubblici. La grande estensione del demanio pubblico, che comprendeva quasi per intero le montagne non suscettibili di coltivazione, le foreste e le zone marginali dei territorî comunali divisi di solito da fiumi, importava di per sé la pubblicità di un grandissimo numero di corsi d'acqua in tutto o nella parte superiore del loro percorso, e questa pubblicità fu mantenuta per i flumina perennia trascorrenti su suolo privato e centuriato, il cui letto e lo spazio eventualmente destinato a protezione contro gli straripament; è intra centurias exceptus. Tutte l'altre acque (laghi, ruscelli, sorgenti, torrenti dal letto instabile) sono private se su un terreno privato e liberamente utilizzabili. Per i fiumi pubblici, lo stato provvede a che l'uso privato non li esaurisca e che con lavori sul fiume non si arrechi danno ai vicini e alla navigabilità del fiume. Perciò l'obbligo della cautio damni infecti al vicino quando si intraprenda un lavoro sul fiume o sulle rive, il diritto di reclamare se altri modifica il corso normale del fiume, e viceversa la tutela con actio iniuriarum o con interdetti per i lavori di derivazione e per le opere di navigazione che non ledano il diritto altrui. Solo con Giustiniano, e avendo riguardo alla navigazione, il diritto di derivazione venne limitato e sottoposto ad una più rigida concessione da parte dello stato, interpolando la famosa lex quominus (l. 2 D 43, 12) (cfr. Bonfante, Il regime delle acque dal diritto romano al diritto odierno, in Scritti giuridici varî, IV, Roma 1926, p. 242 seg.).
Al concetto della preminenza dell'utilità comune si ispira anche l'organizzazione giuridica del servizio e della tutela degli acquedotti. Costruttori degli acquedotti sono in Roma repubblicana i magistrati cui spetta in primo luogo l'amministrazione dei beni pubblici, cioè i censori (solo uno dei quattro acquedotti repubblicani fu costruito, e per ragioni speciali, da un pretore); successivamente gli imperatori. Il Senato concedeva ai censori i fondi necessarî, e i lavori venivano, come al solito, appaltati. I fondi privati, sui quali gli acquedotti passavano, venivano acquistati, e il terreno riservato al servizio dell'acquedotto, per una larghezza da 15 a 5 piedi ai due lati della conduttura a seconda che questa era sospesa o sotterranea, dentro o fuori della città, e il terreno delimitato con cippi iscritti o no. Non si potevano addossare alle condutture case o sepolcri, o far piantagioni d'alberi troppo vicine. I proprietarî dei fondi attigui dovevano concedere l'estrazione e il trasporto dei materiali per le riparazioni, e in certi casi curare anche la manutenzione dei canali, dietro dispensa dalle contribuzioni straordinarie.
La sorveglianza, manutenzione e polizia degli acquedotti erano affidate ai censori e, se questi non erano in carica, agli edili, i quali costituivano garanti delle fontane pubbliche due cittadini abbienti per. ogni quartiere. I lavori relativi erano dai magistrati appaltati e collaudati (locatio e probatio) ed eseguiti da schiavi dell'appaltatore i cui nomi, distribuiti secondo i settori della conduttura, erano tenuti in un registro ufficiale. V'erano disposizioni generali e leggi dei singoli acquedotti relative alla destinazione delle acque e alle penalità per i contravventori, che andavano dalle multe (fino a 100.000 sesterzî nella lex Quintia del 9 a. C. per la rottura del canale a scopo di irrigazione: cfr. Frontino, 129) alla confisca dei terreni abusivamente irrigati: v. anche le prescrizioni nell'editto di Augusto per l'acquedotto di Venafro in Corp. Inscr. Lat., X, 4842, e in Bruns. Fontes, p. 249. Catone censore si distinse per il suo rigore nel togliere gli abusi d'acqua (Livio, XXXIX, 44, 4). Questa doveva essere destinata in primo luogo ad uso pubblico, fontane, bagni, ecc., e subordinatamente (e dapprima la sola aqua caduca, sovrabbondante) a servigio dei privati, a favore dei quali si potevano costituire certi diritti sulle acque pubbliche, riconosciuti e tutelati dallo stato, che però mai assumevano figura di servitù regolate secondo le norme del diritto privato. Di solito i privati corrispondevano dei canoni, che erano versati ai questori, cui ad un certo momento, pare, fu affidata la complessa gestitone amministrativa delle acque (provincia aquaria). Quando si trattava non di contravvenzioni, ma di litigi relativi alle acque pubbliche, era competente il pretore.
Sotto Augusto, si ebbero dapprima i grandi lavori idraulici eseguiti da Agrippa come edile nel 33 a. C. e negli anni seguenti (condutture dell'aqua Iulia e della Virgo, restauri dell'Appia, Anio, Marcia, molti castelli e fontane pubbliche); poi, alla morte di Agrippa, venuta meno ormai l'attività dei censori, Augusto fu investito della cura aquarum, che egli delegò ad un curator aquarum, scelto fra i senatori consolari e assistito da due altri curatori di rango inferiore, da tecnici, aquarii, e dal corpo di operai specialisti che Agrippa morendo aveva lasciato ad Augusto, e tutta l'amministrazione fu riordinata (v. i senatus consulta in Frontino, 100, 104, 106, 108, 125, 127), in base specialmente ai Commentarî di Agrippa. Claudio, dopo il 52, per accentrare ancor più nelle mani del principe il servizio, istituì accanto al curator aquarum un procurator aquarum (di solito un liberto imperiale e solo per un certo periodo un cavaliere), che dipendeva dal curator, ma che aveva attribuzioni assai late, specialmente tecniche ed amministrative, e trasformò gli operai di Agrippa in familia Caesaris di servi imperiali pagati dal fisco. L'ufficio (statio aquarum), almeno dalla fine del sec. II, aveva sede nella porticus Minucia nel Campo Marzio, d'onde il titolo di curator aquarum et Minuciae. Dopo Costantino, il curator fu sostituito dal comes formarum, e il procurator, pare, dal consularis aquarum et Minuciae. Alla fine dell'impero troviamo un tribunus aquarum, forse ultima trasformazione del procurator. Nei municipî dell'impero, l'acqua veniva amministrata dai magistrati superiori, e in qualche caso si avevano magistrati speciali. Le iscrizioni ci dànno un'idea delle varie forme di queste amministrazioni locali, che ricalcavano più o meno da vicino quella della metropoli.
Noi siamo abbastanza bene informati sull'amministrazione degli acquedotti nell'età imperiale dalle iscrizioni e dalle leggi a noi giunte e dagli accenni nei titoli relativi del Digesto. In generale si può dire che ai più rigidi concetti pubblicistici dell'età più antica sottentra verso la fine della repubblica la tendenza a permettere una più larga utilizzazione delle acque degli acquedotti, compatibilmente con la soddisfazione dei servizî pubblici. La concessione, spesso anche gratuita, deve però esser data dall'imperatore; ma gli abusi sono frequenti e vengono spesso lamentati.
Fonte principalissima è l'opera di Sesto Giulio Frontino, curator aq. nel 97, De aquae ductu urbis Romae libri II, ediz. del Bücheler, Lipsia 1858: del Krohn, ib., 1922; ediz. con riproduzione fotografica del cod. Cassinese, traduzione inglese e commento di C. Herschel, Boston 1899.
b) Il Medioevo e l'età moderna. - Il rapido decadere della minuziosa regolamentazione delle acque, elaborata con grande saggezza e con mezzi poderosi dalle civiltà del mondo antico, è una delle salienti manifestazioni del periodo alto-medievale. Le conseguenze furono assai gravi: città abbandonate, porti interrati, contrade rese per lunghi secoli sitibonde, agricoltura in isfacelo, plebi assalite da malattie endemiche, poca sicurezza delle comunicazioni. Ad Aquileia, p. es., collegata col mare per mezzo della Natissa, quando la tutela dello stato si affievolì e gli abitanti della seconda Roma, non più protetti da forti guarnigioni e avendo patito varie volte l'invasione barbarica, cominciarono ad allontanarsi, l'incuria delle acque permise la progressiva ostruzione dei canali e il formarsi di stagni, cui seguì la diffusione della febbre palustre. I Patriarchi emigrarono a Cividale e di là, sul finire del sec. VIII, un anonimo (forse lo stesso grande patriarca Paolino) cantava in uno di quei lamenti tanto in voga fra i poeti dell'età carolingia:
Quae prius eras civitas nobilium
Nunc heu, facta es rusticorum speleum;
Urbs eras regum, pauperum tugurium
Permanes modo.
(si veda: P. Paschini, S. Paolino patriarca e la chiesa aquileiese alla fine del sec. VIII, Udine 1906, p. 179).
Interessanti sono le fasi della lotta sostenuta dai Veneti contro l'interramento della laguna (fig. 11). La loro grande vigilanza ed abilità è una delle prime cause della floridezza goduta da Venezia per tanti secoli. Negli ultimi secoli dell'impero i danni delle frequenti alluvioni avevano reso impraticabile la via litoranea (Popilia) fra Rimini ed Aquileia, così da far preferire la via d'acqua nel tratto che metteva capo ad Altino. Durante la guerra gotica, Narsete fu soccorso dalla flottiglia degli abitanti delle lagune, altrimenti avrebbe dovuto prendere le assai più lunghe vie superiori. Il diluvio del 589 d. C. peggiorò la situazione, giacché alterò la fisionomia del litorale. Il Mincio, tutto intero, si trasportava a sboccare nel Po a Governolo; l'Adige, che prima per Montagnana ed Este sfociava nel porto di Brondolo, rompeva alla Cuca sotto Albaredo e andava al mare per Legnago, invadendo e cancellando gli antichi alvei del Mincio, del Tartaro e delle Fosse Filistine; il Brenta lasciava Padova e il ramo di Malamocco (Medoaco maggiore), dirigendosi tutto verso Chioggia (Medoaco minore). Di certo anche il Piave, divulso in tale occasione dal Sile e dal Piavon, scaricava l'intera sua massa nell'alveo di San Donà formando il delta equiliano; il Tagliamento abbandonava il Lemene, anche l'Isonzo subiva qualche alterazione nella foce un tempo fondentesi con quella del Vipacco nel lago Timavo.
In questo sec. VI abbiamo traccia delle prime disposizioni per impedire l'interramento. Teodorico vieta (come poi faranno i Veneziani) di porre graticci nei canali. Ma è piccola provvidenza di fronte alla vastità del fenomeno: il Po fa avanzare sempre il suo delta nel mare. Nel 1152, rotto l'argine fra la Stellata e Ficarolo, punta verso Brondolo, antica sua foce, invadendo la laguna di Chioggia. L'Isonzo e il Tagliamento riempiono le lagune di Grado e della Pineta, la Livenza e il Piave quelle di Eraclea e di Equilio, il Sile quelle di Ammiana e Costanziaca; il Brenta, che i Padovani non riescono a contenere con argini, viene scaricato nelle lagune di Venezia ed aumenta la rovina formando laghi litoranei dove erano fiorenti villaggi, portando le sue sedimentazioni fino a Venezia e al porto di San Nicolò sviluppando il canneto e la malaria. In questo momento appunto i Veneti iniziano la più grande lotta contro gli elementi che vogliono soffocarli (v. per queste notizie sui fiumi veneti: G. Pavanello, Litorale veneto e lagune veneziane, in Le vie d'Italia, febbraio 1923). S'incominciò con piccoli tagli ed altre diversioni fatte per rompere la corrente. Alcuni provvedimenti incontrarono l'ostilità dei Padovani e perciò le relative opere subirono danneggiamenti o ritardi.
Nel sec. XIII Torcello (che nel sec. X era indicato dal Porfirogenito come centro fervidissimo di commerci) cominciava ad impaludarsi. Nel Cinquecento molti dei suoi abitanti passarono a Murano; oggi è pressoché deserto. Aumiana e Costanziaca furono nel sec. XV abbandonate. S. Ilario a ponente di Fusina era nel 1443 circondato di stagni e il Cornaro guardava con tristezza l'abbandono della "ricca et nobil abbatia dei SS. Ilario e Benedeto, nel qual luocho è sepulti cinque doxi de Venezia et molti Procuratori et dignissimi Zentilhomini de Venezia". Lo stesso Cornaro in una memorabile seduta, il 13 agosto 1459, discorrendosi sulla diversione del Brenta, propose con pochi altri di farlo passare per una via alta da Stia a Chioggia a fine di ottenere la pendenza richiesta per tanta corrente. Prevalse il criterio della via bassa, sostenuto anche da illustri "esperti" come fra' Mauro, e il Cornaro si ritirò sdegnosamente ammonendo i concittadini in alcuni scritti nei quali anche sostenne la diversione di tutti i fiumi da Chioggia a Caorle. Il suo programma venne attuato più tardi, quando si videro gli effetti della errata deliberazione.
Nel Medioevo la tutela demaniale della laguna era esercitata dal magistrato del pióvego; tale magistratura fu dapprima affidata a una sola persona e poi (dal 1282) a tre judices pedolicorum. Ai Provveditori del comune spettava la vigilanza sui lavori della laguna. Vi erano inoltre gli officiales super pontibus et rivis che indicavano i rivi da scavare e quelli da interrare vel revolvi (B. Cecchetti, La vita dei Veneziani nel 1300, in Arch. ven., XXVII, 1884, p. 16). Insorgendo difficili questioni d'idraulica, la Signoria eleggeva temporanee commissioni (Savi alle acque). Ma un Magistrato alle acque organicamente costituito e con vasti ed autonomi poteri comincia soltanto nella prima metà del Cinquecento. A questo istituto si devono i provvedimenti fondamentali per l'esistenza stessa di Venezia. Così nel 1507 il Brenta era portato dal Dolo in Bacchiglione e intorno a questo periodo le acque di Mestre furono condotte ad Altino. Nel 1610 si compiva lo scavo del Novissimo, in cui nel 1613 veniva riversato il Musone. Nel 1598 si ricacciava il Po lontano col taglio di Porto Viro. Nel 1641, dopo aver frenate le rotte con l'Argine di S. Marco (del 1535), si conduceva il Piave verso la Livenza e la Livenza verso il Lemene. Nel 1683 il Sile veniva riversato nell'alveo relitto del Piave e solo alla vigilia della caduta della Repubblica si deliberava la diversione alta del Brenta da Stia, come aveva proposto il Cornaro (v. Pavanello, art. cit.).
In quanto ai provvedimenti per l'interno della città, ricordiamo che in ogni tempo si volle assicurare il libero movimento del flusso e deflusso delle acque, non compiendo alcun'opera che ostacolasse le correnti. Si ripararono lidi, si chiusero e apersero ponti, si assoggettarono a vincoli le valli pescherecce contro l'uso soverchio degli argini e dei graticci. Nel 1324 il perimetro lagunare fu cinto verso terraferma da un argine di cinque miglia a fine d'impedire l'ingresso delle acque dolci nelle salse, dal cui miscuglio si credeva che sorgesse la malaria (v. P. Molmenti, Storia di Venezia nella vita privata, I, Bergamo 1927, pp. 41-42). Così i Veneziani poterono in gran parte dominare quelle acque che nel Cinquecento erano considerate sanctos muros patriae. Dobbiamo tener conto anche della importanza di taluni canali navigabili. Fin dal 1189 si intraprende lo scavo del canale fra Padova e Battaglia, nel 1201 di quello fra Monselice e Battaglia, nel 1209 di quello da Padova a Strà. La terebrazione di quest'ultimo dovett'essere consigliata dalla tradizione che il Brenta ai tempi romani attraversasse la citta, e si dirigesse a Noventa, defluendo quindi col braccio maggiore a Strà, col minore a Noventa e Saonara (Muratori, Antiquitates italicae Medii Aevi, IV, p. 1123; v. pure a p. 1124). Prima del 1236 già si regolamentavano minuziosamente il transito e la manutenzione del canale. Sempre nel Duecento i Padovani disponevano importanti arginature e nel 1314 conducevano a mezzo della Brentella le acque del Brenta dall'alveo del Bacchiglione a Brusegana. Tali argini dovevano essere di grande imponenza, giacché Dante, che fu a Padova nel 1306, li paragona alle dighe dei Paesi Bassi.
Quale i Fiamminghi tra Guizzante e Bruggia,
temendo il fiotto che 'nver lor s'avventa,
fanno lo schermo perché 'l mar si fuggia;
e quale i Padovan lungo la Brenta,
per difender lor ville e lor castelli,
anzi che Chiarentana il caldo senta....
(Inferno, XV, vv. 4-9).
Nel basso Medioevo si compiono altri lavori importantissimi nella Lombardia. Intorno al mille viene scavato il canale della Vettabia ed indi il Ticinello, derivandosi il Ticino presso Tornavento per condurlo ad Abbiategrasso. Quest'ultima via d'acqua, iniziata dai monaci di Morimondo, è proseguita dal comune di Milano che nel 1177 la conduce in città creando così il Naviglio Grande, lungo 50 chilometri, e ponendo Milano in comunicazione col lago Maggiore, il Ticino e il Po. Nel 1220, il comune medesimo deriva presso Cassano d'Adda il canale che prese il nome di Muzza. Passata la città agli Sforza, venne costruita nel 1457 da Francesco I la Martesana, altro canale derivato dall'Adda. Sul finire del sec. XV, per gl'ingegnosi dispositivi ideati da Leonardo da Vinci, si riescono a porre in comunicazione i canali artificiali, i fiumi e i torrenti che recingono Milano (fig. 12).
Sui lavori leonardiani dà preziose notizie E. Solmi (Leonardo, Firenze 1919, p. 180 segg.). A fine di rendere navigabile il canale della Martesana da Milano sino al lago di Como, bisognava continuarlo da Trezzo a Brivio e fondarvi due chiuse su di una lunghezza di sei miglia e mezzo. Allora Leonardo elabora un grande piano (le cui note esistono nel celebre Codice Atlantico dell'Ambrosiana). Molti pensavano che con le nuove modifiche sarebbe diminuita la potenza dell'Adda e sarebbe mancata l'acqua in varî luoghi fra cui a Giaradadda. Leonardo rispondeva sdegnosamente: "I paesani potran fare dei fontanili, perché una medesima acqua bevuta da' prati più volte riserve a tale uffizio". Pian piano molti entrarono nell'ordine di idee dell'artista e si offersero di fare le spese. Infatti scriveva Leonardo allo Chaumont: "Ecci, Signore, molti gentiluomini che faranno infra loro questa spesa, lasciando loro godere l'entrate delle acque, mulini e passaggi de' navili. E quando e' sarà renduto loro il prezzo, loro renderanno il Naviglio di Martesana". Malgrado queste buone disposizioni il progetto dovette rimanere ineffettuato. Nel 1519 fu ripreso con qualche modificazione, ma il compimento avvenne alla fine del sec. XVI, non conservandosi la sapiente economia del sistema ideato da Leonardo. Miglior esito ebbe l'esecuzione della chiusa di scarico del Naviglio Grande presso San Cristoforo. A mezzo di essa e con un grande serbatoio s'impedì ogni eventuale danno di inondazioni presso le mura di Milano. L'opera ebbe fine nel 1509, anno in cui Luigi XII, entrando in Milano, trova Leonardo tutto preso dalle sistemazioni idrauliche della Martesana e del Naviglio Grande.
Quanto alle derivazioni d'acqua potabile, gli acquedotti di Roma furono interrotti più volte durante le invasioni dei secoli V e VI, e più volte riattivati. Particolarmente gravi furono gli effetti dell'assedio di Vitige nel 537-538, come narra Procopio, testimonio oculare. Vitige pose uno dei suoi accampamenti presso la villa dei Quintilî, là dove le arcate dell'acqua Claudia s'incontrano due volte con quelle della Marcia formando un'area chiusa cui più tardi restò l'appellativo di campus barbaricus. Indi Vitige si diede a far tagliare tutti gli acquedotti e il danno della sua opera fu molto sentito quando, avendo interrotto il traiano che scendeva dal Gianicolo, immobilizzò i molini di granaglie che si servivano della sua acqua. Belisario non se ne scoraggiò, ma congegnò dei molini attivati dalla corrente del Tevere. Invano i Goti si studiarono di rovinarli buttando grossi tronchi d'albero perché s'impigliassero nelle pale, arrestandole. I Romani posero di traverso al fiume delle reti che fermavano i tronchi prima che arrivassero ai molini. Il tipo di questi molini è durato sul Tevere fino al sec. XIX. Costituivano anzi un motivo assai pittoresco che piacque particolarmente agli artisti dal Seicento all'Ottocento.
Durante il Medioevo non si trovano molte tracce di costruzioni d'acquedotti e di conserve d'acqua: a Bisanzio lo straordinario acquedotto del tempo di Giustiniano (con la sua duplice fila d'arcate che hanno un sesto leggermente acuto e i suoi massicci pilastri tenuti saldi da contrafforti prismatici) è, secondo lo Strzygowski, l'opera di un maestro sconosciuto che fu sicuramente uno dei primi ingegneri del suo tempo (Byzantinisme Denkmäler, II, p. 14). Ma più meravigliose ancora sono le cisterne (anche giustinianee) di Yereh Baṭṭān Serāï e di Bīn Bir Direk. La prima ha un solo ordine di colonne coperto da calotte. Nella seconda, che è del 528, si vedono, come nelle cisterne alessandrine, due piani di esili colonne sovrapposte che l'architetto, con grande ardire, ha congiunte con semplici catene di legno. Su questo fragile appoggio sono state basate le volte a cupolei (Diehl, Manuel d'art byzantin, 2a ed., Parigi 1925, I, pagg. 150-151).
L'importanza dell'approvvigionamento dell'acqua in tutto l'Oriente ha fatto per tempo considerare la necessità della costruzione di conserve, acquedotti, ecc. In Persia vi sono acquedotti sotterranei con aperture protette di distanza in distanza che permettono di visitarli (fig. 13). Nelle pianure prossime a Qaṣr-i Qāgiār si vedono filari ininterrotti di questi ingressi a piccola iorre. Gli acquedotti dalle montagne arrivano alle riserve sotterranee delle città. Le riserve sono scavate molto in profondità e chiamate Āb anbār. Al difuori hanno un gran portale ornato di maioliche: un esempio ne offre Iṣpahān (fig. 14). Si discende per una trentina di gradini e s'arriva ad un muro alla cui base sono rubinetti di bronzo che permettono di prender l'acqua fresca in ogni tempo. Spesso le acque sono fermate da sbarramenti. Dieulafoy ne descrive due tipi: quello di Saveti con i contrafforti terminanti a forma di torre e il Bend-Emīr vicino a Persepoli che fu costruito da ‛Aḍud ad-dawlah, principe del sec. IV dell'ègira. Nelle regioni desertiche della Persia le cisterne son costruite presso le strade ed hanno spesso forma rotonda e son coperte da cupole. L'acqua viene da un acquedotto che parte dalle montagne (Saladine Migeon, Manuel d'art musulman, I, L'architecture, Parigi 1907, p. 425 segg.).
In Egitto vi sono delle riserve per contenere l'acqua del Nilo, e gli acquedotti sono alimentati con il sollevamento meccanico. Nell'Africa settentrionale sotto i Fatimidi i cronisti parlano di grandi lavori per la conduzione dell'acqua (cfr. al-Bakrī, citato da G. Marçais: Manuel d'art musuhan, I, L'architecture, Parigi 1926, pp. 138-139). Al Qal‛ah Banī Ḥammād è molto interessante la cosiddetta Fontana del Sultano. Il Marçais la descrive come un rettangolo di 9 metri su 6, circuito da muri a blocchi e spalleggiato da contrafforti semicilindrici che ricordano quelli delle riserve aghlabite della campagna di Qairawān. Nel bacino, l'acqua fluiva per un condotto nella vasca di marmo, i cui orli sono tagliati in otto lobi circolari, in modo analogo a certe vasche battesimali cristiane.
Nella Spagna musulmana la cittadella (del sec. X) di Madīnat az-Zahrā' ha tuttora il resto di un acquedotto che portava l'acqua dalla Sierra al palazzo principesco (fig. 15). La condottura è coperta da volte a culla ed ha di tratto in tratto dei pozzi d'aerazione. Un torrente è attraversato dall'acquedotto su tre arcate (della tipica forma a ferro di cavallo). La distribuzione dell'acqua avveniva per fistole plumbee. Essa arrivava fra l'altro in un bacino e in una fontana decorata con un leone bronzeo ricoperto di lamine di oro e con gli occhi fosforescenti di píetre preziose. Dopo di avere irrorato i giardini, l'acqua defluiva nel Guadalquivir (cfr. lo studio di Velázquez Bosco su Medina Azzahra p. 85 segg., citato da Marçais, o. c., I , p. 254). Lavori idraulici importanti furono pure eseguiti a Tunisi e nel suo territorio, dove specialmente l'acquedotto romano (fig. 16), venne restaurato e in parte ricostruito dagli architetti di al-Mustanṣir (Cfr. Marçais, op. cit., II, p. 578 segg.).
Il primo acquedotto che si ricordi nel Medioevo occidentale, è quello costruito a Mans dall'832 all'857 dal vescovo S. Aldrico, lungo una mezza lega e con una riserva a vòlta che ancora esiste. L'acquedotto passa sotto il vescovado e la cattedrale ed alimenta due fontane. L'abate di St. Bertin, Lamberto (1095-1123), dotò la sua abbazia di un acquedotto alimentato da una macchina di sollevamento che era azionata dalle ruote motrici dei molini della badia. I monaci, soprattutto i benedettini cisterciensi, furono buoni ingegneri e costruirono acquedotti nel sec. XII e nel XIII. L'abbazia di S. Policarpo nell'Hérault ha un acquedotto del 1159. In Italia i benedettini di Casamari provvidero la badia di un acquedotto in pietra ad archi a tutto sesto (del 1200 circa). A Limoges vi sono ancora tre antichi acquedotti sotterranei che servivano alla abbazia della Règle e ad altri luoghi. Splendido fu l'acquedotto gotico di Coutances (del 1277) che però è oggi molto restaurato e in gran parte distrutto. Ha piloni consolidati da contrafforti e in alto vi sono delle bocchette per riversare l'eccedenza della portata. A Sulmona vi è un bell'acquedotto del 1256 (fig. 17) e a Salerno ve ne sono del sec. XIV. La civiltà monastica ha provveduto largamente a queste opere di pubblica utilità per il convogliamento delle acque (cfr. Enlart, Manuel d'archéologie française, II, Architecture civile et militaire, Parigi 1904, pp. 272-76). Il tipo delle fonti medievali è bene indicato dal Toesca (Storia dell'arte ital., I, Torino 1927, p.714 segg.). Vi è quello di origine agreste, boschiva, nato dalla necessità di raccogliere la vena proteggendo il serbatoio dell'acqua; già in antico era costituito da una vasca rettangolare sotto voltone profondo, forma seguìta anche dai costruttori romanici e gotici (la si vedeva nella fonte Vagino di Bergamo cantata da un poeta del sec. XII; fu tenuta rusticamente nel castello di Andora, presso la pieve di Pienza, a Perugia, e fu ampliata con arcate su pilastri a S. Gimignano ed altrove; nobilissima diventò nell'architettura senese: in Fontebranda, del 1246, in Fonte di Pescaia, del 1247, in Fonte Nuova, del 1298). Un tipo derivato da questo restringe in una breve loggetta la vasca alimentata da zampilli. Ad Aquila, nella fontana delle 99 cannelle, di maestro Tancredi di Valva (1272), gli zampilli sgorgano dalla parete. Il terzo tipo è quello in cui l'acqua spiccia da un alto stelo nel mezzo della vasca. È un tipo molto antico e se ne hanno esempî nell'arte bizantina e nella musulmana; fu adottato dai costruttori viterbesi (Fontana grande del 1279, ecc.), ebbe grande splendore a Perugia (Fonte Gaia del 1278 con le sculture di Nicola e Giovanni Pisano).
La cattura e la distribuzione delle acque sottostavano anche nel Medioevo a determinate norme giuridiche. Fin dove giungeva il potere del principe, le acque sfuggivano alle usurpazioni private. Clodoveo vantava il suo diritto di proprietà sui corsi d'acqua, che alienava a titolo gratuito od oneroso, o di cui concedeva il dominio utile a perpetuità (Iure perpetuo fixun cum piscationibus et portu navium). I capitolari di Carlo Magno dispongono che le strade maestre e i corsi d'acqua siano sotto la giurisdizione dei conti e dei loro luogotenenti e vicarî incaricati dell'amministrazione, della polizia e delle contravvenzioni. Nelle leggi longobarde non v'è traccia di quella libertà che un tempo si credeva vi fosse: lo Schupfer ha ben dimostrato che anche quando si parla di publicum si accenna a cosa appartenente al re e allo stato (Il diritto privato dei popoli germanici, III, Città di Castello-Roma 1915, pagg. 144-147). La regalia delle acque, che contiene tutti i diritti dell'uso di tali acque per bevanda, lavaggio, pesca, irrigazione, forza motrice (molini), navigazione, ecc., si afferma in epoca molto remota nel Medioevo. Col tempo si allarga ed assume confini precisi (ultima espressione giuridica nella constitutio de regalibus della Dieta di Roncaglia del 1158, in Mon. Germ. Hist., Constit., I, 244).
La formazione del comune implica la lotta contro il diritto sovrano e quello dei feudatarî. Nella pace di Costanza i comuni lombardi si fanno convalidare l'esercizio del loro diritto. Nel sec. XIII si trovano già negli statuti delle città disposizioni che regolano l'uso delle acque di proprietà del comune. In quello di Milano del 1216 si dispone: "Aquam unicuique licet ducere ex flumine publico et privato ad irriganda sua prata, vetera vel nova, et praecipue vetera, si absque aliorum incommodo id fiat, et praecipue molendinorum quorum usus favorabilis est". Molte altre disposizioni dello stesso statuto prevedono e condannano tutte le forme di usurpazione (estratti in Digesto Italiano, I, pagg. 489-90).
Nel basso Medioevo è straordinaria la cura delle città italiane (in particolare quelle dell'Italia superiore) nel provvedere alla costruzione e riparazione dei ponti, alla erezione degli argini, allo scolo e all'approfondimento degli alvei dei corsi d'acqua, provvidenze che riguardavano i fiumi, come pure i torrenti (v. estratti degli statuti di Piacenza del 1391, di Parma del 1255, di Modena del 1327, di Bologna del 1250, ecc. raccolti da E. Costa: Le acque nel diritto romano, Bologna 1918, p. 81 segg.). Anche il diritto di passaggio d'acquedotto era nel Medioevo regolamentato. Nel 1277 i consoli di Riom acquistavano dall'abate di Mozat il diritto di condurre alla città per un acquedotto attraverso le terre dell'abbazia le acque che dovevano alimentare la fontana detta Dragonesche. Le canalizzazioni del Medioevo non erano così abbondanti da permettere ai privati di avere delle prese d'acqua presso di loro. Tuttavia nel 1265 Luigi IX di Francia accordò questo privilegio alle Filles de Dieu. Nel sec. XIV le concessioni si moltiplicarono al punto che nel 1392 il re dovette prescrivere la soppressione di ogni concessione privata, eccezion fatta per lui e la sua famiglia. Ma le concessioni ricominciarono più tardi (Enlart, op. cit., pp. 275-76).
Infine, l'acqua fu in molti casi considerata anche nel Medioevo oggetto di culto. La venerazione di talune acque, connesse a divinità pagane, non fu potuta facilmente sradicare dal cristianesimo. Molte volte si pensò di volgerla al culto dei santi. Così, accanto alla fons Iuturnae ed all'aedes Vestae del Foro, sorse l'oratorio dei quaranta martiri di Sebaste (che furono immersi nell'acqua gelida in prossimità di un luogo riscaldato) e una grande basilica della Vergine (S. Maria Antiqua). Più significativa ancora, nello stesso Foro, la sostituzione del culto dell'aedes dei Penati con quello degli Anargiri (cioè dei medici che curavano "senza mercede") Cosma e Damiano. E nella basilica dei due santi dovette praticarsi, come forse nel tempio dei Penati, il rito della incubazione. Oggi in un sotterraneo della rotonda anteriore della basilica si vede ancora il resto di un pozzo che certo dovette contenere un'acqua per abluzioni sacre, o per libazioni. Altre libazioni rituali (refrigerationes) si fecero di sicuro sotto la basilica di S. Sebastiano ad Catacumbas (pure in Roma) in un corso d'acqua esistente in prossimità della zona ove furono, nel sec. III, temporaneamente deposte le salme degli apostoli Pietro e Paolo.
Questo hanno dimostrato taluni elementi che son venuti in luce negli scavi di questi ultimi anni.
I pozzi di talune basiliche e chiese romane (a S. Pudenziana, a S. Prassede, a S. Lorenzo in Lucina, ecc.) debbono riferirsi a qualche pratica del culto popolare. Per quello della chiesa di S. Maria in Via vi è la graziosa tradizione della immagine della Vergine che vi fu trovata galleggiante nel sec. XIII. Una fonte miracolosa esistette presso la tomba del martire egizio S. Mena. Ne fu trovata traccia negli scavi compiuti dal Kaufmann (vedasi per S. Sebastiano le relazioni Mancini e Marucchi in Notizie Scavi, 1923, fasc. 1°-2°-3°; per i Ss. Cosma e Damiano lo studio di Biasiotti e Whitehead in Rendiconti Pontificìa Accad. romana di Archeologia, III, 1925, avvertendo che la deduzione circa il rito della incubazione è particolare del Cecchelli; così pure il Cecchelli ha parlato della Madonna di S. Maria in Via nella collezione: Le Chiese di Roma illustrate, n. 14, Roma 1925; per la fonte di S. Mena, v. C.M. Kaufmann, Die Menasstadt und das Nationalheiligtum der altchristlichen Ägypter in der westalexandrinischen Wüste, Lipsia 1911).
Ma un vero culto superstizioso dell'acqua si rintraccia presso le popolazioni barbariche. Gli atti dei concilî ed altri documenti (v. un capitolare franco in Baluze, Capitularia regni Francorum, I, p. 150-151) ce ne parlano molto esplicitamente. L'acqua aveva per i Germani virtù soprannaturali e serviva alle prove giudiziarie. Frequentissimi nel costume scandinavo i bagni e le abluzioni. Presso gl'Islandesi, in Svezia e in Danimarca il settimo giorno della settimana si chiama ancor oggi il giorno del bagno. In pieno cristianesimo continuavano pratiche di origine pagana: il Petrarca, trovandosi a Colonia la vigilia di S. Giovanni, vide le donne coronate di fiori raccogliersi sulla riva del Reno e là inginocchiarsi per bagnare le mani e le braccia mormorando parole superstiziose; era persuasione generale che il fiume portasse via con l'abluzione tutti i mali che minacciavano l'anno (De rebus familiaribus, I, ep. II). Il popolo di Magdeburgo, scrive Ozanam (Les Germains avant le Christianisme, 6a ed., Parigi 1894, pp. 91-92), crede ancora che la Saale voglia ogni anno la sua vittima, scegliendola fra i più bei giovani del paese. Quando i Franchi, già cristiani, discesero in Italia con Teodeberto, al momento di passare il Po vi precipitarono donne e fanciulli sgozzati in onore delle divinità del fiume (Ozanam, op. cit., p. 97). Nella vita di S. Eligio scritta da S. Audoeno (pubblicata dal D'Achery, Spicilegium, V, p. 215) vi è una omelia del santo (sec. VII) in cui si pongono divieti alle pratiche idolatriche. In un punto si dice: "Che nessuno accenda delle lampade presso i santuarî pagani, o presso le pietre, le fontane, e gli alberi", ecc.
Il culto della dea della terra, Nerthus, era strettamente connesso con il culto dell'acque, e, nelle fiabe vive ancor oggi, i genî delle fonti ricordano tuttora l'antica adorazione. Si credeva d'intendere nel mormorio dell'acque il sussurro di voci divine, e si usò fare la consacrazione dei bambini immergendoli nell'acqua (v. Minutti, Mitologia tedesca, Milano 1910, p. 289). Altri riti dell'acqua si connettono con le ordalie (v.). Senza dubbio per un residuo di superstizione pagana un duca longobardo del sec. VII fu sepolto in Cividale con accanto il vaso d'acqua che all'atto dello scoprimento fu trovato ancor pieno per due terzi.
D'origine pagana è senza dubbio la favola della "Fontana di gioventù" (dove i vecchi, bagnandosi, tornano giovani) che fu magnificata dai poeti dell'età romanica ed ebbe anche qualche rappresentazione artistica.
Del resto potrebbe essere ritenuto di carattere superstizioso anche il battesimo del nuovo cavaliere. Esso rappresenta per lo meno un sostituto di originarie immersioni rituali dirette a procacciarsi una qualità nuova sotto la tutela di una divinità. Ricordiamo come magnifico esempio di questi strani battesimi quello di Cola di Rienzo che, a detta del suo biografo, prima di farsi armare cavaliere si bagnò nel battistero lateranense, nella vasca medesima di "pietra di paraone" che si credeva avesse servito al battesimo dell'imperatore Costantino.
Contro tali pratiche si levarono più volte voci cristiane di protesta. Di carattere superstizioso era ritenuto da S. Cesario d'Arles il bagno che prendeva il popolo negli stagni e nei fiumi alla vigilia di S. Giovanni Battista. S. Cesario (Sermo CCLXXVII, 4, in Patrol. Lat. XXXIX, col. 2268) affermava essere quello un costume pagano. Abbiamo già veduto che il Petrarca trovò questa usanza ancora nel sec. XIV presso le popolazioni germaniche. Attone di Vercelli (960 o 961) proscrisse i bagni d'acqua benedetta (Capitulare LXXVI, in Patr. Lat., CXXXIV, col. 43): "In aqua vero sanctificata nullus balneum facere audeat pro aliqua infirmitate vel necessitate, quae spargi tantummodo concessa est. Huiuscemodi enim lavacra nec in sacris invenimus, nec a Patribus acta audivimus, nec nobis utilia videntur".
Tuttavia S. Wilfrido di York (morto nel 709; v. la Vita scritta da Stefano di Canterbury in Mabillon, Acta Sanctorum Ord. S. Bened., IV,1, p. 676-722 C. XX) aveva costume di lavarsi la notte, sia d'inverno come di estate "in aqua sanctificata et benedicta". Ma era senza dubbio un uso irlandese connesso a quelle immersioni rituali di cui abbiamo parlato.
Quanto all'acqua benedetta, o acqua santa, il costume di benedir l'acqua del battesimo (v.) risale certo a tempo molto antico, perché se ne trovano le formule nell'eucologio di Serapione di Thmuis e nei Canones Hippolyti. Ma l'uso di un'acqua benedetta diversa dalla battesimale, ed utilizzata a scopo di lustrazione, non appare nel cristianesimo prima del sec. V. Le pretese prove anteriori sono equivoche e del resto si comprende come la Chiesa volesse evitare confusioni con quanto si praticava nei templi pagani. L'accenno del Liber Pontificalis relativo a una costituzione di papa Alessandro I (107-116?) sulla benedizione dell'acqua commista al sale non è autentico, ma deve riportarsi almeno al sec. VI o anche al VII, epoche fra le quali oscilla la composizione primitiva del Liber (v. l'ed. Duchesne, I, p. 127). Nei rituali dell'alto e basso Medioevo si parla di esorcismi dell'acqua e del sale, e alle virtù dell'acqua benedetta alludono i liturgisti Rabano Mauro, Walafrido Strabone, Onorio d'Autun, Durado di Mende, ecc., nonché i teologi (Tommaso d'Aquino, Ugo di S. Vittore, ecc.).
L'uso di aspergere le case con l'acqua benedetta risale in Inghilterra al sec. VIII. In Italia e in altri luoghi si diffuse un identico rito.
Bibl.: v. l'art. Water, Water-Gods, in Hastings, Encyclopaedia of Religion and Ethics, XII, Edimburgo 1921, p. 704 segg.; G. Karo, Bewässerung und Wasserversorgung, in Reallexikon der Vorgeschichte, II, Berlino 1925, p. 8 segg.
Per l'età romana: Lanciani, I commentari di Frontino intorno alle acque e gli acquedotti e silloge epigrafica acquaria in Atti della R. Accademia dei Lincei, Memorie della classe di Scienze morali, IV, 1880; articoli Acqua-Aquaeductus in De Ruggiero, Dizionario epigrafico, I, p. 537 seg.; Th. Mommsen, Röm. Staatsrecht, II., 3ª ed., Lipsia 1887, pp. 436, 508, 1044; O. Hirschfeld, Unters. auf dem Gebiete der röm. Verwaltungsgeschichte, Berlino 1877, I, p. 161; E. Costa, Le acque nel diritto romano, Bologna 1918.
Per l'età medievale: Scritture sulla Laguna, in Antichi scritti d'idraulica a cura del R. Magistrato delle Acque, Venezia 1919, I, p. 153; H. Grisar, Roma alla fine del mondo antico, trad. ital. di A. Mercati, Roma 1908, p. 540 segg.; F. Cabrol, Eau: Usage de l'eau dans la liturgie, in F. Cabrol-H. Leclercq, Dictionn. d'arch. chrét., IV, ii, Parigi 1921.