ACQUAFORTE
(fr. eau-forte; sp. agua fuerte; ted. Radierung; ingl. etching; dal nome medievale dell'acido nitrico, aqua fortis). È un disegno ottenuto incidendo una lastra di metallo per mezzo di un acido. La lastra, ricoperta d'un sottile strato di vernice grassa sul quale si eseguisce il disegno con una punta di acciaio, viene sottoposta all'azione di un acido (morsura), che, non avendo presa sulle parti protette dalla vernice, intacca il metallo in quelle messe a nudo dalla punta, e vi scava segni di una profondità proporzionata al tempo della sua azione. La lastra acquista così la facoltà di trattenere nei segni incisi l'inchiostro, che cederà poi alla carta sotto la pressione del torchio.
Le possibilità di espressione offerte da tale processo sono ricchissime, arrivando fin quasi al colore, che si può tradurre in equivalenze efficaci. I più labili effetti di luce, i più delicati passaggi, le ombre più misteriose e profonde trovano nell'acquaforte un compiuto, sensibile e potente istrumento. La materiale assenza del colore, evitando, si direbbe, quel che di sensuale è inerente alla pittura, permette all'acquafortista di cercare, sebbene in un campo più ristretto, mète altrettanto alte, con mezzi più semplici ed austeri. La qualità delle materie adoperate, il metallo e la carta, tanto più pure degli olî, delle vernici e delle sostanze coloranti, le conferisce una durata illimitata, immune dalle menomazioni cui la pittura va soggetta. E se consideriamo ancora la facilità di moltiplicare le copie, l'esiguità dello spazio di cui l'acquaforte si accontenta, la modestia del suo valore venale, possiamo agevolmente spiegarci come la sua diffusione sia venuta continuamente aumentando nel tempo, fino a raggiungere la considerevole importanza che ha nei giorni nostri. Il suo è un linguaggio caratteristico e diverso da quello di tutte le altre maniere di disegno e d'incisione: la punta da acquaforte non è la matita, non la penna, non il bulino. Il suo segno è quanto di più spontaneo, preciso, immediato, libero e personale l'artista possa desiderare per dar vita rapidamente ed efficacemente alla propria visione.
Ogni incisore ha la sua grafia, vale a dire un modo tutto suo, quasi istintivo, di attaccare il metallo, derivato dalla sua forma mentale, dalla costruzione del suo occhio, dalla conformazione e innervazione delle dita. Per garantirne appieno l'originalità e l'efficacia, egli deve costantemente tracciare il segno non come fine a sé stesso, ma come mezzo per preparare e sfruttare nel miglior modo le possibilità di lavoro dell'acido che dovrà scavarlo, e che è il vero strumento dell'acquaforte. Deve dunque prevedere chiaramente l'effetto che a morsura ultimata risulterà da quel certo aggruppamento, orientamento e incrocio di linee; contenere la sua visione nelle possibilità della materia, senza chiedere più di quello che può da essa ottenere; pensare tutto il lavoro in rame; studiarne e fissarne le varie fasi; prevedere e preparare l'azione del mordente; garantirsene la padronanza, nel senso di poter arrestare la morsura in certi piani al momento opportuno, e continuarla in altri senza intralci; pensare a lungo ed eseguire rapidamente; badare molto ad assicurare alla stampa il prezioso giuoco del bianco attraverso la rete nera dei segni. Il bianco dà vibrazione e respiro alle ombre, limpidezza e vitalità al lavoro. È il vero segreto dell'acquaforte.
Ecco ora un breve riassunto di quanto è indispensabile sapere per incidere un rame.
Lastre. - Le lastre preferite per incidere all'acquaforte sono quelle di rame; per lavori più semplici e meno delicati, si adopera spesso lo zinco; si lavora talvolta sull'acciaio per la sua maggior durata. Le migliori lastre di rame sono quelle preparate al martello, che garantisce durezza giusta e omogenea, spianate e ripulite a mano. Debbono avere superficie piana e specchiante, immune da qualsiasi difetto. Lo spessore più conveniente è da uno e mezzo a due millimetri. È bene sceglierle di dimensioni maggiori del disegno, per riservare un margine, necessario nelle varie operazioni, ottimo per inquadrare la prova, intorno alla quale esso lascerà la sua impronta caratteristica.
Pulitura. - Prima cura dell'acquafortista è la pulitura della lastra, operazione delicata e capitale per la riuscita del lavoro, inquantoché una traccia anche tenue di grasso rimasta sul rame provoca il distacco della vernice sotto la punta, o, quel ch'è peggio, sotto l'azione dell'acido, con conseguenze difficilmente riparabili. Molte sono le sostanze adoperate a tale scopo; le più efficaci sono la soda e la potassa caustiche, il cloroformio, l'acido solforico. Un modo pratico e sicuro è il seguente: si polverizza sulla lastra del bianco di Spagna bene stacciato, e con un pezzo di garza da medicazioni imbevuta di alcool denaturato (l'alcool puro è di dubbia efficacia) si strofina il rame in ogni senso finché l'alcool sia del tutto evaporato, ripetendo l'operazione più di una volta per maggior garanzia. Le mani, ben pulite, non debbono mai toccare il rame. La garza, appena estratta dal pacco, è il solo tessuto che dia sicurezza di assoluta pulizia.
Verniciatura. - Le vernici di cui si vale l'acquafortista sono solide e liquide. Ne esistono numerosissime ricette. Le qualità fondamentali di una buona vernice sono aderenza perfetta e tenace, e morbidezza al taglio. Le materie più comunemente adoperate sono la cera vergine, l'asfalto o bitume giudaico, e il mastice in lacrime. La cera è la base, cui l'asfalto dà consistenza e il mastice elasticità. Queste tre sostanze dànno la vernice nera; eliminando l'asfalto, si ottiene la vernice bianca, trasparente, pei ritocchi. Entrambe sono solide e si foggiano in piccoli pani o pallottole. Le vernici liquide si fanno sciogliendo per lo più il bitume negli oli di trementina e di lavanda; si distendono col pennello. Liberata la lastra da ogni residuo di bianco, si fissa a metà d'uno dei suoi lati un morsetto a vite con manico di legno; se la lastra è pesante, due contrapposti. I morsetti debbono aver presa sui margini, il meno possibile; tra la ganascia e il rame s'interpone una strisciolina di carta solida, perché i denti non intacchino il metallo. Si espone ad una fiamma di spirito, petrolio o gas il rovescio della lastra, sostenendola pei morsetti e movendola di continuo per distribuire regolarmente il calore su tutte le sue parti. Si prende una pallottola di vernice nera, avvolta in un pezzetto di seta solida, pulita e senza peli, che deve servire a filtrarla. Appena la lastra ha raggiunto il calore sufficiente a fondere la vernice, si fa scorrere questa sulla sua superficie con movimento uguale, senza interruzioni, prima in un senso, poi nel senso opposto, per linee parallele, in modo da coprirla tutta con la maggiore uniformità. Ciò fatto, con piccoli colpi elastici di un tampone formato con ovatta compressa entro un involucro di seta, si batte leggermente e regolarmente la superficie verniciata. Il tampone distribuisce la vernice in uno strato leggiero e uniforme, assorbendone l'eccesso. Durante tutta l'operazione, occorre mantenere un calore costante. L'eccesso di calore si traduce in un leggiero fumo che si sprigiona dalla vernice; segno che è prossima a bruciarsi. Prima che la lastra così preparata si raffreddi, è bene affumicarla. Ciò si fa esponendo la parte verniciata al fumo prodotto da un mazzo di lunghi cerini da cantina, oppure da una fiamma di lampada a petrolio a cui è stato tolto il tubo; mantenendola ad una distanza di dieci a quindici centimetri, e agitandola con movimento regolare. Il nerofumo si fissa nella vernice, la rinforza e la rende di un bel nero lucido, che facilita la visibilità del lavoro. Si mette quindi la lastra a raffreddare in un cassetto perché sia riparata dalla polvere. Per lavori di breve lena si può adoperare la vernice liquida, che si distende con un pennello morbido, lasciando asciugare. È molto comoda, ma perde rapidamente la sua elasticità, diventando presto fragile e scrostandosi sotto la punta.
Calco. - Il miglior modo di ricalcare un disegno è quello d'inciderlo con la punta sopra un foglio di talco sottile e trasparente. Dopo aver tolto, col raschiatoio tenuto in piano, le barbe che la punta ha lasciate ai bordi del segno, si riempiono i segni di sanguigna o di pastello chiaro, togliendone l'eccesso; si applica il talco sulla lastra, con l'incisione a contatto della vernice, e si passa al torchio, oppure si preme in ogni senso con uno stecco di legno ingrassato. Il disegno rimane impresso al rovescio, così bisogna eseguirlo affinché ritorni nel suo senso normale dopo stampato. Per calchi sommarî si può servirsi di carta oliata, che si rovescia sul rame, interponendovi carta da calchi rossa, oppure spalmando la parte utile di un leggierissimo strato di bianco ad olio. Si ripassa il disegno con la punta.
Punta. - Si dispone la lastra sul tavolino, avanti alla finestra, sotto un trasparente inclinato, che elimina il luccichìo dei segni, permettendo di seguire bene il lavoro. Per eseguire il disegno si può valersi di una sola punta, oppure di più punte di varia grossezza. La punta deve solamente scorrere sul rame per metterlo a nudo; non deve essere tagliente; se è, occorre smussarla girandola sopra una lastra di vetro. Deve essere tenuta perpendicolarmente il più possibile, il che le dà più libertà e sicurezza, e condotta sempre con la stessa pressione della mano per garantire regolarità di morsura, tranne che non si voglia profittare del maggior vigore con cui l'acido attacca i segni già intaccati. La punta può esser fissata in un'asticciola di legno, oppure stretta nel portapunte, più comodo e pratico, permettendone la immediata sostituzione. La lucentezza dei segni sul nero fa sì che il lavoro sembri più nutrito di quello ch'è in realtà; del che occorre tener conto. Durante l'inverno è bene, lavorando, conservar tiepida la lastra (ottimo il termoforo elettrico) per mantenere ubbidiente la vernice e raggiungere maggiore finezza. Non si appoggi la mano sopra la lastra; ma sopra una riga che possa scorrere su due sporgenze fissate ai lati di essa. Gli eventuali errori si possono correggere con coperture di vernice liquida, su cui si può riprendere il lavoro, appena asciutta.
Mordenti. - Gli acidi più comunemente usati sono tre:
a) il nitrico o "acquaforte", che ha dato il nome al processo. Si adopera alla densità di 20° all'aerometro Beaumé, che praticamente si ottiene aggiungendo ugual quantità d'acqua a quello che è in commercio. Morde vivacemente, sviluppando innumerevoli bollicine di gas tossico, che occorre continuamente rimuovere con le barbe di una penna per evitare che il segno risulti interrotto sotto la bollicina per arresto di morsura. Ha tendenza ad allargare il segno, e quindi ad accoppiare i segni molto vicini, fondendoli in uno, aiutato in questo dal forte sviluppo di calore e dall'ebollizione, che compromettono la resistenza della cera. Dà un lavoro robusto e pittorico;
b) il mordente olandese (acqua 1000, acido cloridrico 125, clorato di potassa 25, sale comune 25), che lavora in profondità, nettamente e lentamente, rispettando il segno. È costante, sicuro, e non richiede sorveglianza. Non sviluppa vapori apprezzabili;
c) il percloruro di ferro a 32%, che ha morsura nettissima senza esalazioni; in soluzione concentrata è rapidissimo. Con questi tre mordenti si può far fronte a qualsiasi esigenza di lavoro.
Morsura. - Sulla durata della morsura non si possono dare norme precise. Essa è agevolata dalla durezza del rame, e soprattutto dal calore, tanto che in estate occorre ridurla di circa la metà rispetto all'inverno. È buona norma fare per ogni mordente una lastra di prova, con un tracciato regolare di segni, diviso in piccoli riquadri, che si fanno mordere a periodi successivi varianti da un minuto a tre o quattro ore, annotando sopra ognuno il tempo relativo, oltre alla densità del mordente e alla temperatura. Questa lastra, stampata, costituisce un'ottima tastiera di valori, preziosa per orientarsi. Prima di mordere un rame, se ne ricoprono gli orli e il rovescio con la vernice al pennello; appena questa è asciutta, si può senz'altro immergerlo nella bacinella contenente il mordente, il cui livello deve superarlo di almeno due centimetri. Vi sono due modi di morsura: la morsura piana e la morsura per coperture successive.
a) Piana è la morsura ottenuta con una sola immersione. La profondità di tutti i segni risulterà uguale. Se furono tracciati con una sola punta, sarà uguale anche la loro intensità, e quindi l'effetto è interamente affidato alla distanza fra l'uno e l'altro, che dovrà essere minore nei primi piani e negli scuri, maggiore nei lontani e nei chiari. Se si adoperano punte di varia grossezza, l'effetto sarà anche dato dalla larghezza del segno, naturalmente maggiore nei primi piani, scemante gradualmente verso gli ultimi. Nella morsura piana, insomma, la modellazione è data unicamente dalla grossezza e dal giuoco della punta.
b) La morsura per coperture consiste nell'arrestare l'azione dell'acido sulle parti del lavoro per le quali si giudica sufficiente, continuandola successivamente nelle altre, fino a raggiungere i massimi scuri. Per far questo, occorre togliere ogni volta la lastra dal bagno, risciacquarla in acqua pura, asciugarla e coprire con la vernice al pennello i piani risolti. In questo caso, l'acido ha la parte preponderante nel determinare i valori. Il disegno può esser fatto con una o più punte.
Stati. - Coi modi sopra descritti si può cercare di risolvere "alla prima" un rame, oppure cominciare con l'ottenere ciò che si chiama un primo stato, limitando il disegno alle parti essenziali, o anche ad alcune parti staccate del lavoro, mordendo e provando, sia per assicurarsi del suo buon andamento, sia per risolvere partitamente le difficoltà di esecuzione e ottenere risultati più efficaci; che si cercherà di raggiungere con successive riprese, i cui risultati costituiranno il secondo stato, il terzo stato, ecc.
Prova e controprova. - Fatta una morsura, si toglie la vernice dalla lastra con acquaragia o benzina o petrolio, e se ne tira al torchio una prova. Per continuare il lavoro, si rivernicia con vernice bianca, che lascia vedere i segni fatti. Sulla prova ottenuta, il lavoro appare a rovescio; per averlo sott'occhio nello stesso senso in cui è sul rame, il che agevola i raffronti e la continuazione e permette di eliminare lo specchio, basta sovrapporre alla prova fresca un foglio di carta umida e ripassarla subito sotto il torchio. Se ne avrà una ristampa nel senso desiderato, che si chiama controprova.
Ritocchi. - Può accadere che, alla prova, la lastra risulti deficiente di morsura in tutto o in parte. Per rimorderla si ricorre al rullo di pelle o di gelatina, con l'aiuto del quale si stende sulla lastra fredda accuratamente pulita uno strato sottilissimo di una vernice speciale semiliquida (cera, bitume, mastice ed essenza di lavanda), fissandola alla fiamma. Se l'operazione è fatta bene, la vernice copre la superficie senza entrare nei segni, e la morsura potrà essere ripresa. Questa vernice non regge a lungo, e occorre sorvegliarla attentamente. Per approfondire i segni isolati, si può adoperare il bulino o la puntasecca, eccellenti anche per armonizzare il lavoro, purché non se ne abusi.
Se invece la morsura è stata troppo violenta, i rimedî sono: il carbone, il raschiatoio, il brunitoio. Un pezzo di carbone dolce, bagnato con acqua o con olio d'oliva, consuma regolarmente la superficie del rame, alleggerendo piani non troppo incisi. Azione più potente è quella del raschiatoio (v.), che, bene affilato e condotto, logora il rame senza graffiarlo. Il brunitoio (v.) agisce per schiacciamento; lo si unge d'olio, e lo si fa scorrere con adeguata pressione lungo il segno, provocando il ripiegamento dei bordi verso l'interno. Per fare scomparire le tracce di questi varî mezzi meccanici, sono ottime le carte smerigliate finissime nella serie degli zeri, adoperate successivamente, fino a quella rossa e a quella bianca da orafo. Nei punti di massima luminosità, il brunitoio d'agata compirà l'opera.
Acciaiatura. - Sotto l'azione dei veli e più ancora del palmo della mano nella tiratura, la lastra si logora abbastanza presto, soffre nelle finezze. Volendo conservarla indefinitamente, vi si fa depositare, per mezzo di un bagno galvanico, un sottilissimo strato di acciaio, che non la altera menomamente. Quando, dopo varie migliaia di copie, l'acciaiatura comincia a cedere, la si toglie del tutto con un acido debole, e si rinnova.
Tiratura. - L'inchiostro calcografico è composto della materia colorante macinata in olio di noce cotto. È una pasta che deve avere più o meno la consistenza del miele in inverno. Ma per ogni lastra occorre trovare, oltre al colore, la densità che ne rende meglio il carattere. Le carte sono quelle senza colla o a mezza colla. Le migliori sono le olandesi, solidissime, più o meno filigranate; le giapponesi bionde, setacee, che rendono bene i valori profondi; le cinesi, ottime per le lastre deboli. La carta si adopera umida, affinché penetri nel segno a ricercarvi l'inchiostro. Bisogna bagnarla parecchie ore prima, e tenerla fra due piani di marmo. Ultimata la lastra, se ne arrotondano gli angoli e se ne smussano e bruniscono i bordi, che, altrimenti, romperebbero la carta e le flanelle; si libera da ogni residuo di vernice con acquaragia o benzina; indi, per la prima stampa, si unge di olio d'oliva, per preparare meglio il segno a ricevere l'inchiostro. Si asciuga con cura e si dispone sopra una cassetta di ferro con sportellino anteriore e con prese d'aria laterali, avente nell'interno una fiammella qualsiasi, regolata in modo da offrire al piano superiore della cassetta un calore costante, vivo, ma sostenibile con la mano. Con una stecca di legno si cosparge la lastra di piccole masse d'inchiostro, che si schiacciano e si allargano con un tampone di pelle, finché l'inchiostro abbia ricoperto interamente la superficie, riempiendo bene ogni segno. Se ne toglie l'eccedenza con un velo di tarlatana arrotolato stretto, indi con un secondo velo più leggiero, avendo cura di non premere e di non arrestare la mano. Quindi con piccoli colpi a sfiorare, dati col palmo della mano tenuta aperta e rigida, si completa la pulizia della superficie.
Velatura. - La lastra così preparata dà alla stampa un'impressione di secchezza, che non sempre è nelle intenzioni dell'artista. Per armonizzarla, si ricorre alla velatura, che consiste nello sfiorarne la superficie con un velo leggermente avvolto. Per un fenomeno di capillarità il velo succhia un poco dell'inchiostro ch'è nei segni, lasciandolo nello spazio interposto. Effetti diversi si ottengono passando con rapidità, dopo la pulitura con la mano, un velo forte arrotolato stretto; si può anche tralasciare la pulitura con la mano, cominciando e terminando con un velo forte, o anche lavorando successivamente con veli di varia forza, lasciando per ultimo il più leggiero. Velata la lastra, se ne ripuliscono accuratamente gli orli con gesso in polvere, e la si pone sul piano del torchio, centrandola sopra un foglio di carta umida più grande di essa, chiamato sottoforma, che serve di guida per disporre con sicurezza sul rame, la cui parte inchiostrata è al disopra, il foglio destinato a riceverne l'impressione. Su quest'ultimo si distendono da tre a cinque spesse flanelle di lana, che garantiscono la regolarità e l'elasticità della pressione, e si gira la ruota o stella del torchio con movimento ininterrotto. La lastra, passando in mezzo ai cilindri, imprime sulla carta il lavoro. Appena uscite dal torchio, le prove si lasciano per qualche minuto appassire all'aria, indi si mettono ad asciugare in mezzo a fogli di cartone di legno ben secchi e spianati, che si caricano di un peso. Dopo uno o due giorni si ritirano, si firmano e si numerano apponendovi a matita, in uno degli angoli inferiori del bordo, due cifre, la prima delle quali rappresenta l'ordine di uscita della prova dal torchio, la seconda il numero complessivo degli esemplari tirati. La tiratura di un rame è cosa che richiede gusto, discernimento e pratica; l'artista dovrebbe sempre personalmente accudirvi (tavv. LV-LVI).
Per la storia di quest'arte, v. incisione su metallo.
Bibl.: A. Bosse, De la manière de graver à l'eau-forte et au burin, Parigi 1645, 1701, 1745, 1758; G. Longhi, La calcografia propriamente detta, ossia l'arte d'incidere il rame con l'acquaforte, Milano 1830; A. P. Martial, Nouveau traité de la gravure à l'eau-forte, Parigi 1873; M. Lalanne, Traité de la gravure à l'eau-forte, Parigi 1897; F. Vitalini, L'incisione su metallo, Roma 1904; P. A. Gariazzo, La stampa incisa, Torino 1907.