Abstract
La disciplina pubblica delle acque, sin dalla antichità al centro della nascita degli ordinamenti giuridici generali, assume tratti nuovi nel XIX e nel XX secolo.
La presente voce darà conto di queste trasformazioni, analizzandone i riflessi sulle funzioni primarie dei pubblici poteri sulle acque interne (fiumi, torrenti, laghi, ecc.): compiute rapide osservazioni introduttive (§ 1), verranno affrontati i nodi relativi alla gestione delle acque (la disciplina dominicale, § 2), alla loro utilizzazione (le concessioni, § 3), alla loro tutela (la pianificazione, § 4), alla loro distribuzione (i servizi idrici, § 5).
Sin dall’antichità, le prime grandi società si sono formate attorno alle più ricche riserve idriche, per disciplinare l’utilizzo delle quali sono sorti gli ordinamenti giuridici generali: per questo, l’acqua è da sempre argomento stimolante per storici, sociologi e giuristi.
È un bene fondamentale, necessario a soddisfare i bisogni primari dell’uomo, ma è, ed è stato, anche un rilevante mezzo di produzione: proprio questa sua intrinseca plurifunzionalità lo ha posto all’attenzione delle elaborazioni giuridiche, con la necessità di conciliare usi esclusivi e diritti collettivi.
La disciplina pubblica delle acque, quindi, non è un fatto nuovo, ma assume contorni particolari nel corso del XIX secolo. Fino a quel momento, la loro distribuzione tra usi confliggenti è deputata, prevalentemente ma non esclusivamente, ad istituti privatistici, capaci di garantirne il massimo sfruttamento possibile.
Il sistema moderno, che si delinea lungo il corso del XIX secolo, in parallelo alla progressiva nascita del diritto amministrativo, si definisce verso la fine dell’Ottocento, quando emergono due esigenze che reclamano il consistente intervento dei poteri pubblici nella gestione, nel controllo e nella regolazione sulle acque: da una parte lo sfruttamento delle risorse idriche, “carbone bianco”, per la produzione di energia idroelettrica, con conseguenti incidenti modifiche nella disciplina dominicale e concessoria; dall’altro lato, l’irrompere della questione degli usi domestici ed il contemporaneo processo di urbanizzazione, che fanno scoprire il ruolo dell’acqua nella tutela della salute pubblica.
Questo sistema subisce una nuova svolta nella seconda metà del XX secolo, quando la dimensione ambientale, correlata alla scarsità delle acque, si insinuerà nelle ricostruzioni giuridiche sino a trasformarle radicalmente.
La presente voce darà conto di queste evoluzioni, analizzandone i riflessi sulle funzioni primarie dei pubblici poteri sulle acque interne (fiumi, torrenti, laghi, ecc.): gestione (proprietà), programmazione e tutela (pianificazione), utilizzazione (concessione), distribuzione (servizi idrici).
La categoria delle acque pubbliche ha conosciuto, a partire dalla fine dell’Ottocento, una lenta, ma constante estensione, culminata con la l. 5.1.1994, n. 36.
I passaggi fondamentali sono stati tre.
La prima fase fu segnata dalla disciplina del Codice civile del 1865 (restrittiva, se si guarda a quella attuale, ma estremamente ampia rispetto a quelle coeve), secondo cui appartenevano al demanio le acque di fiumi e torrenti. Prevaleva, quindi, un criterio meramente fisico-ontologico: semplificando oltremodo la complessità del dibattito dell’epoca, può dirsi che erano sottratti alla proprietà privata i corsi d’acqua che la scienza idrologica, secondo una valutazione tecnica, considerava fiumi e torrenti.
La prima svolta è frutto dell’elaborazione giurisprudenziale di fine Ottocento e inizio Novecento, fatta propria, poi, dalla legislazione della prima Guerra mondiale e consolidata nel grande Testo Unico delle disposizioni di legge sulle acque e gli impianti elettrici (R.d. 11.12.1933, n. 1775), secondo il quale erano pubbliche «tutte le acque sorgenti, fluenti e lacuali, anche se artificialmente estratte dal sottosuolo, sistemate o incrementate, le quali, considerate sia isolatamente per la loro portata o per l'ampiezza del rispettivo bacino imbrifero, sia in relazione al sistema idrografico al quale appartengono, abbiano od acquistino attitudine ad usi di pubblico generale interesse».
Il nuovo criterio di individuazione, teleologico-funzionale, era costruito attorno alla capacità di soddisfare interessi pubblici. La pubblicità delle acque doveva esser considerata tenendo conto del contesto geografico, economico e sociale nel quale esse si trovavano. Si trattava di una nozione aperta e flessibile che la pubblica amministrazione ed un organo specializzato della magistratura ordinaria, il Tribunale delle Acque Pubbliche, erano tenuti ad applicare in concreto: una sorta di «riserva in bianco per qualsiasi uso» utile a superare la rigida predeterminazione del novero delle acque pubbliche ed a consentirne il continuo ampliamento (l’espressione è di Pototschnig, U., Vecchi e nuovi strumenti nella disciplina pubblica delle acque, in Riv. trim. dir. pubbl., 1969, 1016).
Il percorso evolutivo giunge a conclusione nel 1994, quando vengono dichiarate pubbliche «tutte le acque superficiali e sotterranee» (l. n. 36/1994, art. 1, co. 1). La svolta sembra totale: infatti, l’interpretazione letterale del dato normativo parrebbe ammettere la titolarità dello Stato su tutti i corpi idrici, obliterando, così, la nozione di acque private e, contemporaneamente, rendendo inutile ogni speculazione relativa a qualsivoglia criterio di individuazione delle acque pubbliche.
In realtà, il risultato della modifica normativa è più limitato: è esteso l’oggetto della pubblicità (alle acque sotterranee e non ancora estratte dal sottosuolo), e per tutte le acque è presunta la capacità di soddisfare interessi pubblici.
Resta, quindi, la possibilità di individuare delle acque private, ma il percorso che amministrazione e giudice specializzato dovranno compiere è inverso rispetto al passato: prima, con la nota giurisprudenza della Cassazione di Roma (in particolare, 13.12.1910; 16.8.1911; 19.12.1916), poi cristallizzatasi nella legislazione del 1933, le acque si presumevano private, salva la possibilità di dimostrarne l’idoneità all’uso pubblico; oggi, invece, opera una analoga, ma opposta presunzione iuris tantum: le acque si ritengono pubbliche, ma di esse può sempre provarsi l’inattitudine a soddisfare interessi generali e, di conseguenza, accertarsi la natura privata (Cass. S.U., 27.7.1999, n. 507; Cass., 11.1.2001, n. 315; Cass. pen., 9.4.2012, n. 12998).
Il cambiamento è dovuto alla emersione della questione ambientale ed alla percezione della scarsità delle acque: nella legislazione compaiono vocaboli e diritti nuovi (le acque superficiali divengono una «risorsa che è salvaguardata ed utilizzata secondo criteri di solidarietà» ed il loro uso è ammesso solo a condizione di non pregiudicare «le aspettative ed i diritti delle generazioni future a fruire di un integro patrimonio ambientale»: l. n. 36/1994, art. 1, co. 1-2).
Insomma, l’attenzione «si è soffermata sull'acqua (bene primario della vita dell'uomo), configurata quale «risorsa» da salvaguardare, sui rischi da inquinamento, sugli sprechi e sulla tutela dell'ambiente, in un quadro complessivo caratterizzato dalla natura di diritto fondamentale a mantenere integro il patrimonio ambientale». Di conseguenza, «la dichiarazione (…) di pubblicità di tutte le acque non deve indurre ad un equivoco: l'interesse generale è alla base della qualificazione di pubblicità di un'acqua, intesa come risorsa suscettibile di uso previsto o consentito; ma questo interesse è presupposto in linea di principio esistente in relazione alla limitatezza delle disponibilità e alle esigenze prioritarie (specie in una proiezione verso il futuro), di uso dell'acqua, suscettibile, anche potenzialmente, di utilizzazione collimante con gli interessi generali» (C. cost., 10.07.1996, n. 259; si veda anche la successiva C. cost., 12.12.1996, n. 419).
L’effetto è evidente: «la nuova legge n. 36 del 1994 ha accentuato lo spostamento del baricentro del sistema delle acque pubbliche verso il regime di utilizzo, piuttosto che sul regime di proprietà» (C. cost, n. 259/1996).
Un esito interpretativo perfettamente coerente con lo spirito che aveva animato il legislatore del 1994, ben descritto da Giancarlo Galli, relatore della legge in questione, il cui pensiero è opportuno riportare estesamente: «con la dichiarazione (di pubblicità di tutte le acque) contenuta all’art. 1 non si è tanto voluto “statalizzare” ciò che era nella disponibilità privata, bensì recuperare – per quanto possibile – la nozione introdotta dal “rapporto Brundtlant” di “beni comuni globali” (oceani, spazio cosmico, ecc.). Nel nostro caso in particolare, si tratta di far emergere una questione su cui lo stesso rapporto Brundtlant tace: quella del dominus. Nel sistema giuridico la nozione di bene è infatti legata a quella di dominus. Non c’è quindi dubbio che occorre sciogliere il nodo legato alla individuazione dei soggetti titolari del “dominio” sui beni ambientali: gli stati oppure i cittadini del pianeta? Le generazione presente o anche le generazioni future? È evidente come in prospettiva vi sia la necessità di un diritto comune internazionale intorno ai beni non definibili in senso classico, ma che svolgono una funzione insostituibile ed il cui valore è pari a quello che si può attribuire alla vita. Allora dichiarare la natura pubblicadella risorsa acqua non significa tanto “statalizzare” quanto porsi in questa nuova prospettiva per una forma di Stato che consenta di attuare i principi di solidarietà economica e sociale per realizzare uno sviluppo sostenibile. Si profila così la concezione di uno Stato portatore di valori non immanenti alle presenti generazioni ed aperto al superamento di tutti i confini. In conclusione, porre i principi dell’art. 1 a fondamento della riorganizzazione dei servizi idrici significa introdurre nella legislazione e nella prassi amministrativa precisi valori (morali ed ambientali) capaci di guidare in modo coerente e rigoroso gli usi della risorsa-acqua e dei servizi connessi» (Galli, G., Introduzione, in Greco, C.-Mastelloni, U., a cura di, La nuova legge sulle risorse idriche. Legge 5 gennaio 1994 n. 36, Roma, 1994, 32 s.).
Come tutti i punti di arrivo, la l. n. 36/1994 è stata anche il punto di inizio di un nuovo percorso, senza alcuna apparente soluzione di continuità.
Infatti, questa impostazione è stata mantenuta ed arricchita dal d.lgs. 3.4.2006, n. 152 (d’ora in avanti, il codice dell’ambiente) ed ha costituito la lente attraverso cui è stata reinterpretata l’intera disciplina amministrativa delle acque, ed in particolare quella delle pianificazioni e delle concessioni (come si avrà modo di approfondire infra §§ 3 e 4).
Ma dalla nuova disciplina della pubblicità delle acque del 1994 si apre, come accadde già in passato (cfr. Ranelletti, O., Su le disposizioni del progetto del libro II del Codice civile concernenti le “cose pubbliche”, in Foro it., 1938, 105 ss.), anche un secondo percorso, più ampio, che coinvolge l’intera disciplina della proprietà pubblica.
Nelle parole di Galli, infatti, oltre alla dimensione diacronica, traspariva il grande tema del soggetto (e della funzione) della proprietà pubblica – lo Stato apparato o lo Stato comunità, l’amministrazione o i cittadini – e riecheggiava, in maniera probabilmente inconsapevole, uno storico quesito: «chi è il vero soggetto della proprietà pubblica? È lo stato gerarchico? È il popolo o la collettività? Sono i singoli?» (la nota espressione è di Meucci, L., Instituzioni di diritto amministrativo, VI ed., Torino, 1909, 335; il tema non può essere approfondito in questa sede, ma si vedano Giannini, M.S., I beni pubblici. Dispense dalle lezioni del Corso di Diritto Amministrativo tenute nell’Anno Acc. 1962-63, Roma, 1963; Cassese, S., I beni pubblici. Circolazione e tutela, Milano, 1969; Cerulli Irelli, V., Proprietà pubblica e diritti collettivi, Padova, 1983; in giurisprudenza, Cass. S.U. 14.02.2011, n.3665).
Questo percorso, insomma, ha riacceso il dibattito attorno alla inadeguatezza funzionale dell’attuale disciplina della proprietà pubblica ed ha anticipato l’impostazione utilizzata dalla Commissione incaricata del più recente tentativo di riforma, nel corso del quale si tentò di operare un’inversione concettuale e procedere, nella classificazione dei beni pubblici, «dai beni ai regimi», valorizzando i peculiari «fasci di utilità» che li caratterizzano, in collegamento con la tutela dei diritti della persona e degli interessi pubblici essenziali (così, Commissione per la modifica delle norme del codice civile in materia di beni pubblici, Relazione finale, Roma, 2008; su di essa si vedano Mattei, U.-Reviglio, E.-Rodotà, S., a cura di, I beni pubblici. Dal governo democratico dell’economia alla riforma del codice civile, Roma, 2010 e Mattei, U.-Reviglio, E.-Rodotà, S., a cura di, Invertire la rotta: idee per una riforma della proprietà pubblica, Bologna, 2007).
Che l’acqua sia stato il primo bene interessato da questa sensibilità nuova non è una sorpresa ed è dovuto sia a ragioni di carattere generale che eminentemente tecnico.
Quanto alle prime, le acque sono state un cardine fondamentale per la costruzione delle comunità e sono, quindi, i primi beni ad esser coinvolti nei mutamenti socio-culturali, obbligando, così, il giurista ad esser consapevole ed attento lettore dei fenomeni sociali (Gazzaniga, J.-L., Droit de l’eau et organisation sociale, in Harouel, J.-L., a cura di, Histoire du droit social. Mélanges en hommage à Jean Himbert, Paris, 1989, 268 ss.).
Non è un caso che già nel 1964, in una delle più belle pagine moderne sul regime giuridico delle acque, di cui fu materiale redattore Giovanni Cassandro, la Corte Costituzionale abbia definito l’approvvigionamento di risorse idriche «un bisogno primario e fondamentale degli abitanti» e abbia rilevato che la previsione di un piano che garantisse i «rifornimenti idrici a tutta la popolazione della Repubblica» fosse di «preminente e fondamentale interesse nazionale» (C. cost. 24.01.1964, n. 4).
Quanto alle seconde, le nuove sensibilità in materia di titolarità dominicale erano state anticipate da acute ricostruzioni relative alla tutela giurisdizionale dei cittadini.
Infatti, già dagli anni Settanta, era stata avvertita la necessità di ampliare il novero dei soggetti legittimati ad agire in giudizio a tutela delle acque pubbliche, scindendo la nozione di interessato dalla titolarità di un diritto d’uso esclusivo per estenderla, invece, anche ai semplici fruitori di utilità derivanti dalle acque in relazione a determinate situazioni territoriali e sostanziali (in proposito, si rinvia a Costantino, M., Sfruttamento delle acque e tutela giuridica, Napoli, 1975 e Cerulli Irelli, V., Acque pubbliche, in Enc. giur. Treccani, Roma, 1988, 16-17). Insomma, uno degli aspetti fondamentali della disciplina della proprietà pubblica, la tutela dei consociati, era già stato oggetto di un percorso, proficuo, di scomposizione e rielaborazione in senso ampliativo.
Storicamente, le concessioni sono state il fulcro fondamentale dell’attività di regolazione pubblica delle acque, lo strumento a mezzo del quale lo Stato ne ha consentito lo sfruttamento economico e razionale.
Già negli anni Trenta dell’Ottocento, in occasione dei lavori preparatori del Codice albertino e nella vigenza di un modello legislativo ancora fortemente imperniato su moduli privatistici, Giovanetti aveva proposto di catalizzare l’intera disciplina delle acque attorno all’istituto concessorio: in particolare, questi intendeva sostituire al binomio acque pubbliche/acque private quello acque vacanti/acque occupate. Tutte le acque erano da considerarsi, all’origine, vacanti, ma potevano esser utilizzate dai privati, previa concessione dell’amministrazione pubblica, divenendo così occupate (su questi temi si rinvia al completo studio di Moscati, L., In materia di acque. Tra diritto comune e codificazione albertina, Roma, 1993, 122-141).
Una proposta analoga venne presentata poco più tardi anche al legislatore francese: si sostanziava nell’esigenza di prevedere un regime di pubblicità delle acque generalizzato, per consentire allo Stato, attraverso il regime concessorio, di svolgere una incidente attività di bilanciamento tra interessi individuali ed usi pubblici, al fine di soddisfare i primi e tutelare efficacemente i secondi (cfr. Giovanetti, G., Del regime delle acque (1844), Venezia, 1873, ristampa anastatica Novara, 1989, 44-52).
Non è un caso se la prima grande svolta nel regime della titolarità pubblica delle acque ha avuto luogo proprio quando le concessioni sulle acque per lo svolgimento di attività idroelettriche diventavano una esigenza ampiamente avvertita nella Penisola (in proposito, si rinvia a Manetti, D., La legislazione sulle acque pubbliche e sull’industria elettrica, in Mori, G., a cura di, Storia dell’industria elettrica in Italia. Le origini. 1882-1914, I, Roma, 1992, 111 ss. e a quanto osservato in Caporale, F., L’attività giuridica in materia di acque: tra inadeguatezza funzionale della legislazione e “interpretazione progressiva” della norma giuridica, in Moscati, L., a cura di, Dialettica tra legislatore e interprete. Dai codici francesi ai codici dell’Italia unita, Napoli, 2013, 33 ss.).
Il regime concessorio ha operato, quindi, tra la seconda metà dell’Ottocento e lungo quasi tutto l’arco del Novecento, come strumento di politica economica, manifestazione dell’approccio appropriativo/dissipativo dei poteri pubblici sulle acque. Le amministrazioni, infatti, avevano l’obiettivo di premiare utilizzi individuali realizzando, così, indirettamente, anche interessi pubblici (per collocare le concessioni sulle acque nel contesto generale della disciplina concessoria e nella teoria generale del diritto amministrativo, è da leggersi D’Alberti, M., Le concessioni amministrative. Aspetti della contrattualità delle pubbliche amministrazioni, Napoli, 1981).
Questo modello caratterizzava, del resto, non solo l’azione della pubblica amministrazione, ma anche l’interpretazione di alcuni classici istituti privatistici: basti pensare alla peculiare applicazione del divieto di compiere atti emulativi in materia di acque, utilizzato per incuneare nel sistema del codice il principio dell’uso razionale ed economico delle risorse idriche e per leggerne l’intera disciplina nell’ottica dello «speciale principio (…) che (le acque) si possono adoperare solo ad usi utili» (così, Scialoja, V., Del divieto degli atti emulativi in materia d’acque, in La Legge: Monitore giudiziario ed amministrativo, 1879, III, 235 ss.).
Il punto di svolta è ancora una volta costituito dai decenni conclusivi del Novecento, quando l’emersione degli interessi ambientali prevalse sulla vecchia concezione utilitaristica, secondo cui lasciar scorrere l’acqua nei fiumi senza utilizzarla costituiva lo spreco di un essenziale mezzo di produzione. Le concessioni, da istituto predominante, sono divenute strumento recessivo rispetto alle pianificazioni, che hanno acquisito, invece, nuova centralità, proprio perché più indicate a contemperare le esigenze ambientali con quelle economico-produttive (per un approfondimento si rinvia alla accurata monografia di Boscolo, E., Le politiche idriche nella stagione della scarsità. La risorsa comune tra demanialità custodiale, pianificazioni e concessioni, Milano, 2012, passim).
Infatti, il sistema concessorio di primo Novecento si basava, nella valutazione delle domande concomitanti ed incompatibili, dapprima, sul principio cronologico (la prima domanda presentata otteneva la concessione) e, poi, a partire dalla legislazione introdotta nel corso della prima guerra mondiale, su quello della migliore utilizzazione idraulica. Questo sistema era chiaramente orientato ad una maggiore valorizzazione – ed al più efficace sfruttamento – delle risorse idriche esistenti.
Anche il termine di durata delle concessioni subì una evoluzione analoga: nell’Italia preunitaria sine die; nella legislazione di guerra limitato a seconda delle utilizzazioni, prima, e della grandezza delle derivazioni, poi, ma con un ampio ricorso al diritto di insistenza come prolungamento pressoché sistematico del provvedimento concessorio.
La grande novità, nel Testo Unico del 1933, è costituita dall’introduzione della possibilità di rilasciare una nuova concessione, incompatibile con una preesistente, laddove ciò consenta uno sfruttamento più ampio delle risorse idriche, a ulteriore dimostrazione di come l’obiettivo del legislatore sia quello di ottenere la massima utilizzazione delle acque (per un approfondimento, si rinvia a Boscolo, E., Le politiche idriche, cit., 441-456).
Questo disegno è mutato con l’incedere della stagione della scarsità. L’emergere degli interessi ambientali ha obbligato ad un cambiamento di segno ed a rinnovare in radice la disciplina delle concessioni idriche, attraverso un processo lento e costante, in cui si è stratificata una pluralità di provvedimenti, più o meno innovativi (d.lgs. 12.07.1993, n .275; l. n.36/1994; d.lgs. 11.05.1999, n.1 52; d.lgs. 18.08.2000, n. 258; d.lgs. n. 152/2006).
Preliminarmente, va ricordato che il codice dell’ambiente ha stabilito con chiarezza – in una norma di principio che però incide in maniera significativa nell’attività interpretativa – la prevalenza dell’interesse ambientale in materia di utilizzazione delle acque: «(c)oloro che gestiscono o utilizzano la risorsa idrica adottano le misure necessarie all'eliminazione degli sprechi ed alla riduzione dei consumi e ad incrementare il riciclo ed il riutilizzo, anche mediante l'utilizzazione delle migliori tecniche disponibili» (art. 98).
Il quadro che ne risulta attribuisce una posizione rilevante agli interessi ambientali, tanto nella fase procedimentale che in quelle successive al rilascio della concessione.
In primo luogo, l’Autorità di Bacino (organo di governo delle acque, insediato in ogni distretto idrografico, v. d.lgs. n. 152/2006, art. 63) acquista un ruolo nevralgico all’interno dell’attività procedimentale: le nuove concessioni idriche rimangono di competenza del Ministro dei lavori pubblici, ma le relative domande devono essere trasmesse alle Autorità, le quali emanano un parere vincolante circa la compatibilità della domanda con il Piano di tutela. Intervento, questo, finalizzato al «controllo sull'equilibrio del bilancio idrico o idrologico», che opera anche laddove un Piano di tutela ancora non sia stato approvato (R.d. n. 1775/1933, art. 7).
In secondo luogo, sono stati ridefiniti i contorni del principio della razionale utilizzazione delle risorse idriche, decisivo per risolvere conflitti tra domande concorrenti, attraverso la tassativa individuazione dei criteri che lo compongono. Ben la metà di essi, accanto ad interessi di carattere sociale (il livello di soddisfacimento delle esigenze essenziali dei concorrenti anche da parte dei servizi pubblici di acquedotto o di irrigazione e della prioritaria destinazione delle risorse qualificate all'uso potabile) ed economico (le effettive possibilità di migliore utilizzo delle fonti in relazione all'uso) sono funzionali alla tutela ambientale: si tratta del riferimento alle caratteristiche quantitative e qualitative del corpo idrico oggetto di prelievo e alla quantità e qualità dell'acqua restituita rispetto a quella prelevata (R.d. n. 1775/1933, art. 9, co.1).
Nell’ipotesi, poi, in cui due domande concorrenti riguardino il medesimo uso, i criteri manifestazione di interessi ambientali diventano addirittura dirimenti: «è preferita la domanda che, per lo stesso tipo di uso, garantisce la maggior restituzione d'acqua in rapporto agli obiettivi di qualità dei corpi idrici» ovvero «per lo stesso tipo di uso è preferita la domanda che garantisce che i minori prelievi richiesti siano integrati dai volumi idrici derivati da attività di recupero e di riciclo» (R.d. n. 1775/1933, art. 9, co.1-bis ed 1-ter).
La prevalenza degli indici meramente economici, non a caso, riemerge solamente laddove si tratti di «progetti (…) sostanzialmente equivalenti» (R.d. n. 1775/1933, art. 9, co. 1-ter).
In terzo luogo, la nuova considerazione degli interessi ambientali nel procedimento concessorio emerge tra le cause di impedimento al rilascio della concessione: essa non deve pregiudicare «il mantenimento o il raggiungimento degli obiettivi di qualità definiti per il corso d'acqua interessato»; deve garantire «il minimo deflusso vitale e l'equilibrio del bilancio idrico»; non devono poter sussistere «possibilità di riutilizzo di acque reflue depurate o provenienti dalla raccolta di acque piovane ovvero (…) il riutilizzo non (deve) risulta(re) sostenibile sotto il profilo economico» (R.d. n. 1775/1933, art. 12 bis, co. 1).
Ancora: il provvedimento deve chiaramente disciplinare quegli aspetti della utilizzazione delle acque che possono nuocere agli interessi ambientali. Ecco, quindi, che «i volumi di acqua concessi sono altresì commisurati alle possibilità di risparmio, riutilizzo o riciclo delle risorse»; che il «disciplinare di concessione deve fissare, ove tecnicamente possibile, la quantità e le caratteristiche qualitative dell'acqua restituita» (R.d. n. 1775/1933, art. 12 bis, co. 2); che nei casi di prelievo da falda è necessario garantire la soddisfazione di ulteriori specifiche condizioni di compatibilità con il sistema idrico (R.d. n. 1775/1933, art. 12 bis, co. 2 e 3).
Infine, il codice dell’ambiente è intervenuto a limitare la durata dei provvedimenti concessori, sottolineandone, in maniera perentoria, la temporaneità e, comunque, condizionandola fortemente alle esigenze ambientali (R.d. n. 1775/1933, art. 21; C. cost. 20.05.2010, n.180).
Questa nuova impostazione impone di rileggere i poteri assegnati al Ministero nella versione originaria del Testo Unico del 1933: gli interessi ambientali devono essere, in via interpretativa, considerati tra quelli che consentono, in via eccezionale, di ammettere all’istruttoria una domanda incompatibile presentata tardivamente (R.d. 1775/1933, art. 10) e di modificare i progetti allegati alla domanda (R.d. n. 1775/1933, art. 12) o i casi in cui si possa procedere a nuove concessioni incompatibili con quelle preesistenti (R.d. n. 1775/1933, art. 45 e 47).
Da ultimo, espressione della medesima tendenza è anche il potere unilaterale di interrompere il rapporto concessorio attribuito alla pubblica amministrazione (su cui, in una prospettiva generale, cfr. D’Alberti, M., Concessioni amministrative, in Enc. giur. Treccani, Roma, 1988, 10-11).
Tra i casi tipici in cui la pubblica amministrazione può far decadere il concessionario dal diritto di derivare acqua, alcuni vanno interpretati alla luce delle nuove esigenze ambientali: si tratta, ad esempio, dell’«inadempimento delle condizioni essenziali della derivazione ed utilizzazione» e della «abituale negligenza ed inosservanza delle disposizioni legislative e regolamentari in vigore» (R.d. n. 1775/1933, art. 55, co. 1, lett. c e d).
Infine, l’emersione degli interessi ambientali e la specialità del regime giuridico delle acque pubbliche potrebbe condurre anche a configurare il potere di revoca della pubblica amministrazione secondo caratteri parzialmente diversi rispetto a quello generale di cui all’art. 21-quiquies della l. 18.08.1990, n.241 (su cui si soffermano Boscolo, E., Le politiche idriche, cit., 491-510 e Lugaresi, N.-Bercelli, J.-Fieramosca, A., Revoca o modifica delle concessioni idriche per motivi di compatibilità ambientale, in Riv. giur. urb., 1998, 449 ss.).
La perdita di centralità delle concessioni è, quindi, riconducibile al loro esser funzionali allo sfruttamento, piuttosto che alla protezione delle risorse idriche, ed al fatto di obbligare i poteri pubblici ad agire caso per caso, senza quella gestione organizzata, sistematica, coordinata, generale e di ampio respiro che la tutela ambientale richiede.
Lentamente, quindi, l’attenzione del legislatore si è spostato sul momento della pianificazione, attraverso un denso cammino legislativo, lento ma costante, che dai primi provvedimenti degli anni Sessanta del Novecento è approdato sino alla l. 18.05.1989, n.183 e alla l. n.36/1994 (una descrizione puntuale è in Boscolo, E., Le politiche idriche, cit., 341-353).
A questo percorso si aggiungono anche i formanti comunitario e internazionale: a partire dal 1968, con la Carta Europea dell’Acqua, si afferma la necessità di una «buona» e «razionale» gestione dell’acqua, che può ottenersi solo attraverso un «piano che concili nello stesso tempo i bisogni a breve e a lungo termine» (Carta Europea dell’Acqua, art. 8). A questo testo seguono varie dichiarazioni internazionali, tra cui le più note e rilevanti sono quelle di Dublino e di Rio de Janeiro, entrambe nel 1992, che riconoscono la necessità di politiche di pianificazione in materia ambientale e di gestione delle acque in particolare, suggerendo di implementare, al contempo, gli strumenti di partecipazione dei cittadini, anche attraverso accorte politiche di decentralizzazione.
Neppure il diritto comunitario è rimasto indifferente alla questione: con la direttiva quadro 2000/60/CE del 23.10.2000 viene ridisegnata l’attività amministrativa di tutela delle risorse idriche. In particolare, il legislatore europeo è intervenuto tanto sui profili di partecipazione (con un approccio, tuttavia, ancora focalizzato sulle garanzie di informazione – art. 14 e considerando 46) che sulla nozione di distretto idrografico (e non più di bacino idrografico, facendo presagire una rottura del nesso esistente tra dimensione amministrativa e caratteri fisici e geografici del territorio).
L’ampio percorso descritto, costituito da un faticoso cammino legislativo interno, dalla disciplina comunitaria e dai testi internazionali, ha portato alla radicale ridefinizione della normativa nazionale, versata nel codice dell’ambiente.
Il territorio italiano è stato suddiviso in otto distretti idrografici, risultati dall’accorpamento di vari bacini, spesso non perfettamente omogenei, tradendo la morfologia idrica nazionale, analogamente a quanto accorso nell’individuazione delle competenze geografiche delle autorità di ambito territoriale ottimale per i servizi idrici (sui distretti idrografici, cfr. Pioggia, A., Acqua e ambiente, in Rossi, G., a cura di, Diritto dell’ambiente, Torino, 2011, 266 e, sulle autorità di ambito territoriale dei servizi idrici Caporale, F., La soppressione delle Autorità d’ambito e la Consulta: le prospettive nella regolazione locale dei servizi idrici, in Munus ( Rivista giuridica dei servizi pubblici, 2012, 275-279).
Il compito principale delle autorità preposte al governo dei vari distretti è la redazione del piano di bacino distrettuale, l’atto deputato alla tutela qualitativa e quantitativa della risorsa idrica ed alla corretta utilizzazione delle acque, sulla base delle caratteristiche fisiche ed ambientali del territorio interessato (d.lgs. n. 152/2006, art. 65). Il piano è un’opera mastodontica e centrale nella gestione delle acque, che incorpora interessi ambientali e valutazioni economiche, con ricadute importanti sui privati e sulle amministrazioni pubbliche interessate (d.lgs. n. 152/2006, art. 65, co. 4-6): esso contiene una ricognizione del patrimonio esistente e della sua utilizzazione; una valutazione dei rischi idrogeologici attuali; la individuazione delle opere infrastrutturali, delle prescrizioni e dei vincoli necessari a farvi fronte, con l’indicazione di uno schema di priorità degli interventi ed una previsione del tempo necessario affinché essi siano efficaci; la programmazione delle diverse utilizzazioni della risorsa nel breve e nel lungo periodo.
La rilevanza del piano nell’ambito delle politiche idriche è dimostrata da una pluralità di disposizioni particolari: infatti, esso deve esser sottoposto alla procedura di valutazione ambientale strategica (VAS) e a specifici adempimenti atti a favorire la partecipazione degli interessati (d.lgs. n. 152/2006, art. 66); nelle more della sua approvazione o in casi di particolare rischio, l’Autorità di bacino può emanare degli atti dotati di efficacia interinale o straordinaria (d.lgs. n. 152/2006, art. 67).
Accanto al piano di bacino si pongono altri due piani, quello di gestione e quello di tutela: il primo si accompagna al piano di bacino e di esso è articolazione (d.lgs. n. 152/2006, art. 117); il secondo, invece, è di competenza delle regioni e contiene le misure necessarie alla tutela quantitativa e qualitativa del sistema idrico (d.lgs. n. 152/2006, art. 121). Esso recepisce, perlopiù, i risultati della pianificazione di bacino, che, quindi, rimane l’atto nevralgico della pianificazione della gestione e della tutela delle risorse idriche (C. cost. 30.7.2009, n. 254).
Infine, l’analisi della disciplina pubblicistica delle acque non può prescindere da alcuni accenni ai servizi idrici, poiché è grazie ad essi che l’acqua viene distribuita ai singoli cittadini, soddisfacendone i diritti fondamentali (per un approfondimento, cfr. Frosini, T.E., Dare un diritto agli assetati, in Analisi giuridica dell’economia, 2010, 29 ss.).
Si tratta dei servizi di acquedotto (distribuzione, captazione e adduzione), di fognatura e depurazione delle acque.
Originariamente queste competenze appartenevano ai singoli comuni, che gestivano in proprio il servizio, con strutture separate, nella grande maggioranza dei casi, per i servizi di acquedotto e di fognatura e depurazione.
Questo impianto, frammentario e inefficiente, è stato modificato con la l. n.36/1994, poi inglobata, inalterata nei suoi tratti fondamentali, nel Codice dell’Ambiente.
L’obiettivo del legislatore era la riduzione del numero dei gestori e la realizzazione di economie di scala e di scopo: i due tasselli centrali della riforma sono state le nozioni di servizio idrico integrato (d’ora in avanti SII, cioè l’affidamento ad un unico gestore, contemporaneamente, dei servizi di acquedotto e di depurazione e fognatura) e di ambito territoriale ottimale (entità geografica sovracomunale di dimensioni idonee ad ottimizzare i costi di produzione del servizio). La razionalizzazione è stata operata individuando 92 ambiti omogenei, di dimensione generalmente provinciale – talora regionale – nei quali tutti i servizi idrici sono stati affidati ad un unico gestore. In concreto, quindi, si è passati, nell’impianto teorico, da due gestori per ogni singolo comune, ad un gestore unico per ogni agglomerato di decine di comuni.
Nella pratica, il percorso di riforma è stato più lento e segnato da alterne fortune. Per il servizio di acquedotto (ma i numeri sono simili anche per fognatura e depurazione) si è passati dai 7826 gestori del 1999, anno in cui la Legge Galli era ancora lontana dall’essere attuata, ai 115 attuali, cui si devono aggiungere, però, le vestigia del passato: le ben 1856 gestioni cui ancora non è stata applicata la riforma (le 1760 gestioni in economia, le concessioni esistenti, le gestioni salvaguardate, gli affidamenti dei comuni con meno di 1000 abitanti; i dati sono tratti da Istat, La gestione dei servizi idrici in Italia al 31 dicembre 2007, Roma, 2007 e Commissione nazionale per la vigilanza sulle risorse idriche, Rapporto sullo stato dei servizi idrici. Situazione organizzativa. Investimenti. Tariffe. Criticità, Roma, dicembre 2011, 31-71).
In totale, quindi, il 64% della popolazione è oggi servito da gestori che hanno ricevuto l’affidamento SII (Commissione nazionale per la vigilanza sulle risorse idriche, Rapporto sullo stato dei servizi idrici, cit., 70).
Il sistema di governo è molto complesso ed interessa lo Stato, le regioni e gli enti locali. Per questa ragione, la Corte Costituzionale è stata chiamata con notevole frequenza a definire i confini tra potestà legislativa statale e regionale.
La ricostruzione del giudice della leggi muove dalla individuazione dei servizi idrici come servizi pubblici a rilevanza economica (C. cost. 3.11.2010, n. 325; C. cost. 12.1.2011, n. 26), ritagliando, in tal modo, un ampio margine di azione al legislatore statale: lo Stato, infatti, può stabilire modalità e forme di gestione uniformi a livello nazionale, seppure entro limiti ben definiti; agli enti locali spetta l’organizzazione materiale del servizio, operando con una certa discrezionalità entro i confini dettati dal legislatore centrale (C. cost. 13.7.2004, n. 272). A questi ultimi, in particolare, è preclusa la possibilità di derogare in senso peggiorativo alla normazione statale, ma è consentito, invece, integrarla attraverso previsioni volte a potenziare la libertà di concorrenza (C. cost. 23.1.2006, n.29; C. cost. 16.11.2009, n.307).
Nella prassi, la giurisprudenza costituzionale ha attribuito allo Stato ampia potestà legislativa su molte attività di regolazione settoriale (determinazione della tariffa; disciplina delle autorità di ambito e dei relativi bacini di gestione; predisposizione, aggiornamento e verifica del piano d’ambito; individuazione delle modalità del conferimento del servizio e dei requisiti soggettivi del gestore; definizione dei termini di aggiudicazione; individuazione della competenza ad approvare lo schema-tipo di contratto di servizio e di convenzione), facendole rientrare ora nella materia della tutela della concorrenza, ora in quella della tutela dell’ambiente (su questi temi, si rinvia a Sandulli, A., L’acquedotto pugliese e la gestione del servizio idrico: slapstick comedy del legislatore regionale e carattere pervasivo della tutela della concorrenza, in Giur. cost., 2012, 828 ss.; Cecchetti, M., L’organizzazione e la gestione del Servizio idrico integrato nel contenzioso costituzionale tra Stato e Regione. Un colosso giurisprudenziale dai piedi d’argilla, in Gigante, M., a cura di, L’acqua e la sua gestione. Un approccio multidisciplinare, Napoli, 2012, 59 ss.; Caporale, F., Tendenze, controtendenze e ipostatizzazioni nel governo e nella gestione dei servizi idrici, in Munus ( Rivista giuridica dei servizi pubblici, 2013, 1 ss.).
Solo una sparuta decisione, rimasta isolata, ha fondato la competenza legislativa esclusiva dello Stato sulla disciplina delle funzioni fondamentali degli enti locali (C. cost. 16.11.2009, n. 307, su cui Cecchetti, M., L’organizzazione e la gestione, cit., 104).
Il sistema di regolazione, controllo e gestione di questi servizi è ancor più complesso e opaco, polverizzato fra competenze statali – Ministero dell’ambiente e Autorità per l’energia elettrica e il gas – ed autorità regionali e sovracomunali, con non poche sovrapposizioni, spesso foriere di inefficienze e lacune, soprattutto in relazione alle funzioni di regolazione e controllo della gestione (il tema è svolto con maggiore ampiezza in Caporale, F., La soppressione delle Autorità d’ambito e la Consulta, cit., 279 ss.).
Indubbiamente, al centro delle politiche di tutela delle acque e di organizzazione dei servizi idrici sono le autorità locali, succedute alle Autorità di ambito territoriale ottimale, abrogate con il d.l. 25.1.2010, n. 2, convertito in l. 26.03.2010, n.42. Si tratta di strutture amministrative di estrazione politica e di dimensione variabile – in alcuni casi regionali, in altri provinciale o interprovinciale – con competenze di pianificazione, regolazione, controllo e affidamento dei servizi idrici.
Esse svolgono una attività ampia e variegata, funzionale alla tutela dell’ambiente, alla organizzazione dei servizi idrici in maniera economicamente efficiente, al perseguimento dei diritti fondamentali che i servizi di distribuzione di acqua e di fognatura garantiscono: una pluralità di direttrici ben incorporata nel piano d’ambito, l’atto che meglio rappresenta la sintesi dei molteplici interessi entro cui l’azione delle autorità idriche si svolge.
Sempre alle autorità locali spetta, inoltre, affidare il servizio e provvedere alle attività di regolazione e controllo della gestione (d.lgs. n. 152/2006, art. 148-152). Mette conto ricordare che, a seguito del referendum abrogativo del giugno 2011, le autorità di ambito possono scegliere liberamente tra gestione in house ovvero conferimento del servizio a società mista (con socio privato scelto mediante gara pubblica) ovvero a società privata individuata mediante procedure ad evidenza pubblica.
Queste funzioni spesso si sovrappongono a quelle assegnate a livello centrale: il Ministero dell’Ambiente è deputato alla tutela degli interessi ambientali correlati allo sfruttamento delle risorse idriche, attraverso l’individuazione degli indirizzi e delle politiche di conservazione e miglioramento della qualità delle acque, specialmente in materia di servizi di depurazione e fognatura (d.P.C.M. 20.7.2012, art. 1); mentre le funzioni di regolazione in materia economico-sociale afferiscono, oggi, al termine di un farraginoso iter legislativo, all’Autorità per l’energia elettrica ed il gas (d.lgs. 16.1.2008, n. 4, art. 2, co. 15; d.l. 28.4.2009, n. 39, art. 9 bis, co. 6; d.l. 13.5.2011, n. 70, art. 10, co. 11 e ss.; d.l. 6.12.2011, n. 201, art. 21, co. 20; d.P.C.M. 20.7.2012, art. 2 ss.).
R.d. 11.12.1933, n.1775; l. 10.5.1976, n.319; l. 18.5.1989, n. 183; d.lgs. 12.07.1993, n.275; l. 5.1.1994, n. 36; l. 5.1.1994, n. 37; d.lgs. 11.5.1999, n. 152; d.lgs. 18.8.2000, n. 258; dir. 2000/60/CE del 20.10.2000; d.lgs. 3.4.2006, n.152; d.lgs. 16.1.2008, n. 4; d.l. n. 25.6.2008, n. 112 (conv. nella l. 6.8..2008, n. 133); d.l. 30.12.2008, n. 208 (conv. nella l. 27.2.2009, n. 13); d.l. 28.4.2009, n. 39 (conv. nella l. 24.6.2009, n. 77); d.l. 25.9.2009, n. 135 (conv. nella l. 20.11.2009, n. 166); d.l. 25.1.2010, n. 2 (conv. nella l. 26.3.2010, n. 42); d.P.R. 7.9.2010, n. 168; d.l. 29.12.2010, n. 225 (conv. nella l. 26.2.2011, n. 10); d.l. 13.5.2011, n. 70 (conv. nella l. 12.7.2011, n. 106); d.P.R. 18.8.2011, n. 113; d.P.R. 18.7.2011, n. 116; d.l. 6.12.2011, n. 201 (conv. nella l. 22.12.2011, n. 214); d.l. 24.01.2012, n. 1 (conv. nella l. 24.3.2012, n. 27); d.l. 6.7.2012, n. 95 (conv. nella l. 7.8.2012, n. 135); d.P.C.M. 20.7.2012; d.l. 18.10.2012, n. 179 (convertito nella l. 17.12.2012, n. 221); l. 11.12.2012, n. 216
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