Acque e lagune da periferia del mondo a fulcro di una nuova "civilitas"
Chi percorra i vari itinerari di lettura proposti da studi recenti sulle Venezie (1) vede emergere con nitidezza, pur muovendo da differenti angolature, due fili conduttori in reciproca connessione, tali da riportare a unità momenti storici dell'area veneta fra loro lontani e diversificati, dagli inizi remoti - appena intuibili attraverso i flashes dell'archeologia e del mito - sino alla "preistoria recente" di Venezia città, sul limitare fra tardoantico e alto medioevo.
Un primo referente è costituito dalla costante funzione mediatrice dell'area veneta fra l'Oriente (più o meno prossimo) e l'entroterra norditalico e nordeuropeo. Il secondo Leitmotiv si lega a una situazione topografica e paesaggistica che va facendosi via via anche tema culturale emergente, quella delle acque: fiumi, paludi, lagune, canali; vita anfibia di cui l'entroterra stesso è compenetrato in profondità lungo la rete fitta dei suoi corsi d'acqua navigabili. Entrambi gli aspetti si annodano a istanze economiche e commerciali, a realtà etnico-sociali in movimento incessante, ad apporti culturali, artistici, religiosi sempre nuovi. Ciò che qui importa è delineare, attraverso le permanenze, le variazioni nel tempo di entrambe queste costanti, cogliendone motivazioni e sviluppi essenziali ed evidenziando alcune connessioni rilevanti.
Discontinua nel tempo fu l'attenzione degli scrittori greci per l'Italia settentrionale (in contrasto con l'ampia e precisa conoscenza delle regioni meridionali della penisola), ma con guizzi repentini d'interesse per alcuni ben circoscritti luoghi di frequentazione commerciale greca, soprattutto attorno agli empori nordorientali dell'Adriatico (Adria e Spina) (2). Se già nel VI/V secolo a.C. Ecateo di Mileto aveva menzionato Adria nelle sue Genealogie (3), soltanto Polibio nel II secolo a.C. si sarebbe occupato delle aree deltizie padane dandone una descrizione geografica realistica, funzionale all'intelligenza dei fatti storici e militari che lo interessavano e, almeno in parte, fondata su esperienza diretta. Polibio non soltanto liquidò le leggende sul Po-Erídano elaborate dagli scrittori "tragici" che lo avevano preceduto (la caduta nel fiume di Fetonte fulminato da Zeus, le lagrime d'ambra delle Elíadi - le vergini sorelle di Fetonte trasformate da Zeus in pioppi - e altri racconti che lo storico giudicava complessi e strani), ma ebbe pure a criticare con severità la disinformazione di Timeo di Tauromenio nel merito (4).
Nondimeno, sono proprio questi miti "complessi e strani", in parte arrivati fino a noi attraverso autori più tardivi, a costituire una traccia significativa - che le emergenze archeologiche recenti tendono vieppiù a confermare, ad esempio per Adria protostorica - di diaspore etnico-insediative e di scambi commerciali che già nell'età tardomicenea avevano fatto convergere verso le foci del Po i contatti fra il mondo egeo e il nord/nord-ovest d'Europa. Pensiamo al commercio dell'ambra (un materiale che arrivava alle coste adriatiche, attraverso le Alpi, dalle remote foci della Vistola, e che per le sue proprietà di profumo e di magnetismo era altresì ritenuto intriso di virtù magiche): ne sono un riflesso il mito fetonteo delle Elíadi piangenti lagrime di elettro e tutte le leggende in cui compaiono le isole Eléttridi (con ogni probabilità da riconoscere nei banchi sabbiosi dell'area deltizia, giusta la spiegazione dello Pseudo-Aristotele secondo cui Dédalo avrebbe eretto sulle due Eléttridi statue di se stesso e del figlio Ícaro, l'una in stagno e l'altra in bronzo, dopo essere scampato a Minosse e avere trovato rifugio presso le foci eridanie) (5). Pensiamo ai contatti fra Spagna e Sicilia attraverso le Gallie, le Alpi Graie, la valle del Po e l'Adriatico, lungo la cosiddetta via dei metalli (rame e stagno: ne è traccia anche la leggenda testé ricordata delle statue dedaliche nelle Eléttridi). Vi si collega il mito di Gerióne e dell'itinerario percorso da Ercole dopo la decima fatica, muovendo dall'Oceano (Tartesso) con le mandrie sottratte a Gerióne: il culto di Gerióne come dio benefico, guaritore ed elargitore di oracoli, è in effetti testimoniato sia ad Ábano nelle Venezie sia ad Agýra in Sicilia. Pensiamo anche ai movimenti di popoli e culture dall'area del Baltico e del Mar Nero verso l'alto Adriatico passando per le terre illiriche: ne serba qualche memoria il mito degli Argonauti - fuggiaschi dinnanzi ai Colchi di cui avevano ucciso il capo -, a un certo punto approdati alla "sacra isola Eléttride, l'ultima fra tutte le altre [isole> vicine al fiume Erídano", per proseguire in seguito verso il Mare Ausonio (il Tirreno) risalendo l'Erídano e ridiscendendo il Rodano, a compimento di un vaticinio oracolare ricevuto appunto presso l'isola Eléttride. Sembra che tale leggenda sulle peregrinazioni degli Argonauti presenti connessioni e analogie con tradizioni antichissime sulla diaspora dei Pelasgi, lungo percorsi in parte simili; il comense Plinio il Vecchio, il padano Cornelio Nepote e il gallico Pompeo Trogo (Giustino) riferiscono a loro volta di tradizioni circa la provenienza degli Istri dalla Cólchide all'inseguimento degli Argonauti, risalendo il Danubio e la Sava, passando le Alpi orientali e stanziandosi infine, per stanchezza, presso un fiume Histrus collegato con l'omonimo Danubio/Istrus - o Histrum, o Ister - ma che si gettava nell'Adriatico (donde il nome del popolo e della regione) (6). Si tratta invero di un complesso mitico dalle molte e oscure ramificazioni (rivalorizzate in seguito soprattutto dagli storici dell'età augustea), il quale pone ripetutamente in risalto l'attiva prossimità alle foci padane del mondo illirico. Già Ecateo aveva infatti narrato di come i Pelasgi, cacciati dalle proprie sedi dai Greci, attraverso l'Illirico e l'Adriatico fossero approdati alle foci dell'Erídano alcune generazioni prima della guerra di Troia (XIII secolo a.C. all'incirca), fondando quivi la città di Spina. E lo scritto pseudo-aristotelico Sulle meraviglie conserva a questo proposito anche un aggancio con il mito di Dédalo, raccontando come costui fuggisse dalle Eléttridi proprio all'arrivo dei Pelasgi e trovasse rifugio nell'isola Icária (7). Sempre ai Pelasgi - che sarebbero venuti dalla Tessaglia - riconducono in sostanza altre varianti della tradizione leggendaria secondo cui tanto Spina quanto la vicina Ravenna sarebbero state fondate da genti téssale, giunte attraverso il mare alle foci del Po e di qui passate poi a conquistare e a colonizzare le terre etrusche oltre l'Appennino (8). Spina, di fatto, nacque sul finire del VI secolo a.C. come emporio adriatico in stretto collegamento con l'Etruria tramite Félsina (Bologna) e Marzabotto, avviandosi rapidamente a sostituire la più settentrionale Adria quale cerniera privilegiata fra i Greci e il mondo etrusco, l'area padana e il centro-Europa (9).
Tutto ciò è stato ben più ampiamente trattato in studi intesi a illuminare l'ininterrotta permeabilità di navigazione dell'area deltizia e lagunare veneta, e quindi a illustrare la sua vocazione, fin dall'età micenea, come nodo importante all'incrocio d'itinerari commerciali terrestri, fluviali e marittimi che attraversavano l'Europa da occidente e da nord verso il mondo greco-egeo e viceversa: perciò luogo di precoci scelte insediative - e collegatamente - forse anche di primordiali interventi di canalizzazione e di bonifica. Se ne potrebbe infatti riconoscere una traccia nel nome della Fossa Philistina (ancor oggi presente nel toponimo di Pellestrina, litorale lungo la laguna di Venezia fra il Porto di Malamocco e il Porto di Chioggia), forse collegabile con gli "illirici" Filistei. Né è privo di significato il fatto che proprio in quest'area la tradizione mitografica collocasse i vari insediamenti di Dédalo, il leggendario artefice ateniese inventore di statue semoventi e precorritore di quelle arti meccaniche che nell'ámbito dell'ingegneria idraulica tanto avrebbero contribuito, nel tempo, a riplasmare l'aspetto di questi luoghi, razionalizzandone e disciplinandone la fisionomia con grandiose opere di canalizzazione e contenimento di acque vaganti senza controllo nel paesaggio primitivo (nell'età gotica Cassiodoro ancora si richiamava a Dédalo per esaltare l'arte del mechanicus, che completa l'opera della natura cooperando mirabilmente con essa) (10).
Ma ciò che ora interessa sottolineare, attraverso questi cursorî riferimenti mitopoietici, è piuttosto come in tali leggende affiori ripetutamente un'immagine alquanto singolare del mondo alle foci del Po, mutevole nella cangiante fisionomia delle sue paludi e lagune, delle isole che - come scrive l'autore del trattatello Sulle meraviglie già ricordato - l'Erídano medesimo "forma e sparge innanzi alla sua foce" (11): un'immagine nell'insieme positiva, in quanto sempre congiunta all'idea di rifugio sicuro e di congruità con il volere degli dèi (per Dédalo, per gli Argonauti, per i Pelasgi); e tuttavia tale proprio in grazia della quasi irraggiungibile eccentricità di queste terre. Siffatto mondo "alluvionato" attorno alle foci dell'Erídano - residuo ultimo, ai margini dell'ecumene, di quel diluvio universale voluto da Zeus stesso per estinguere la conflagrazione provocata dalla follia di Fetonte (12) - sembra avere occupato costantemente, nei miti e nella mentalità di chi li andò elaborando, spazi e ruoli avvertiti come alternativi rispetto a quelli che venivano riconosciuti al mondo "politico" della grecità civile.
L'estetica antica del paesaggio - come modello astratto in senso vuoi positivo (locus amoenus ideale) vuoi negativo (locus horridus, "ingiusto") - è stata fatta oggetto, in anni recenti, d'indagini interessanti (13). Una disamina ampia delle testimonianze letterarie, sgranate nel tempo, evidenzia di fatto un'oscillazione costante fra giudizi opposti, tutti però accomunati dalla considerazione della vita palustre come elemento naturale del paesaggio, uno fra i tanti modi d'essere della natura non manipolata dall'uomo. Vi fu dunque chi ne valutò positivamente la genuinità inviolata, spesso idealizzandola: ancora se ne coglie un'eco in Cassiodoro nel VI secolo d.C., nella celebre descrizione della vita semplice ed egualitaria nelle isole della laguna veneta, paragonata a quella degli uccelli acquatici (14). Ma talvolta si apprezzarono anche le connotazioni favorevoli reali delle paludi: ad esempio Elio Aristide, nel II secolo d.C., incluse le zone acquitrinose fra i pregi del territorio di Cizico, nella sua ékphrasis della città (15). Nei fatti, in ogni caso, anche le aree paludose vennero sfruttate in modo adeguato: sia a livello strategico-polemologico, come baluardi naturali che isolavano e difendevano (16), sia a livello economico: pesca; caccia palustre; pascolo e collegata produzione di tessuti di lana; allevamenti ittici; saline; raccolta di legname; industria laterizia grazie all'abbondante argilla alluvionale; forme particolari di agricoltura palustre - ad esempio certi tipi di vigneto -, secondo quanto anche l'archeologia e la paleobotanica vanno oggi confermando a rincalzo delle fonti letterarie (Plinio il Vecchio parla addirittura di un ingegnoso sistema d'allevamento delle api, praticato risalendo ogni notte il Po per cinque miglia dal vicus di Hostilia, onde sfruttare prati fioriti sempre nuovi) (17).
In qualche caso atteggiamenti siffatti si ispiravano, piú o meno consciamente, a una concezione animistica della natura riguardata come entità contrapposta all'uomo, quasi gigantesco organismo intangibile e divino (Plinio il Vecchio). Per secoli una parte cospicua della cultura ne fu dominata, specie fra i Romani che aderivano allo stoicismo; e vi furono intellettuali che condannarono come sacrilego qualsiasi tentativo operato dall'uomo per domare, manipolare e sottomettere questa natura alle proprie esigenze (18). Significative in proposito - e influenti su certo pensiero cristiano successivo - appaiono le idee che Seneca ebbe a esporre a Lucilio nell'epistola 90, in polemica non soltanto con le dottrine di Posidonio di Apamea circa la omogeneità culturale di pensiero e di azione nell'uomo, ma anche - forse soprattutto con ideologie al tempo suo già vincenti e da lui combattute attraverso la condanna astratta ed esasperata di tutte le invenzioni e applicazioni tecniche in quanto strumenti di degenerazione, sofisticazioni asservite alla bramosia di lusso e di guadagno (è in questo senso eloquente la contrapposizione senechiana fra Diogene, filosofo perfetto, e Dédalo artefice geniale, due figure che non è possibile ammirare contemporaneamente) (19). Altrettanto dense di significato appaiono le ragioni che, al dire di Tacito, furono messe avanti (con successo) al tempo di Tiberio contro il progetto di modificare corsi di fiumi e sbocchi di laghi, onde evitare piene rovinose del Tevere (20): vale a dire il rispetto della natura (optume rebus mortalium consuluisse naturam), le difficoltà di realizzazione tecnica, i tabù religiosi (ossia la preoccupazione - viva soprattutto presso le città dell'area interessata - di violare spazi consacrati a divinità delle acque, templi, boschi, altari e altri sacra paganorum: un complesso di credenze folkloriche secolari, che Tacito classifica come superstitio). Remore analoghe nei confronti di un'alterazione "empia" del rapporto terra-acqua affiorano anche nei resoconti di Svetonio, di Plinio il Vecchio e di Tacito sui lavori faticosi e lunghissimi richiesti dalla canalizzazione del Fúcino, negati ai Marsi da Augusto ma avviati poi da Claudio e definitivamente compiuti sotto Traiano e Adriano, dopo ben due disastrosi tentativi di inaugurazione al tempo di Claudio (21). Sembra qui soggiacere l'idea, di chiara ascendenza greca, che le grandi opere pubbliche (di canalizzazione e deviazione di fiumi in particolare) fossero tipiche dei re barbari, i quali in passato avevano sconvolto l'ordine naturale con giganteschi artifici grazie all'opera di masse asservite, spesso suscitando l'ira vendicatrice degli dèi (così Eródoto, a proposito del re di Lidia Creso, del leggendario faraone egiziano Sesóstri, del sovrano persiano Serse, ecc.) (22).
Nel mondo greco fra V e IV secolo a.C., del resto, la polemica aveva coinvolto anche il processo - allora in corso - di artificializzazione della forma urbana, dividendo l'opinione pubblica. Da una parte vi furono i sostenitori della città concresciuta "naturalmente" su se stessa: come Platone, che nel Crizia contrapponeva Atene alla struttura "geometrica" e di sapore barbaro - in quanto evocatrice delle sette cinte di Babilonia - della città di Atlantide (23); come Aristofane, che negli Uccelli irrideva al piano urbanistico studiato dall'architetto Métone per Nephelokokkyghía, la città fantastica (24). Su posizioni opposte si schierarono invece gli ammiratori della città "artificiale", pianificata secondo un progetto rigorosamente geometrico: come Aristotele, che ammirò le concezioni urbanistiche d'Ippódamo di Mileto (riteneva infatti la téchnē capace non solo d'imitare la natura, ma anche di completarne l'opera eseguendo ciò che la phýsis non era in grado di effettuare); e come i suoi discepoli in quella scuola del Perípato che fu l'incubatrice teorica delle scienze meccaniche (25).
Secondo un'antica leggenda ancora evocata dal grammatico Servio alla fine del IV secolo d.C., era stato l'oracolo di Apollo a sconsigliare il prosciugamento di una palude malsana presso Camarína in Sicilia ("non muovere Camarína"), punendo poi la città per non avere tenuto conto del responso: i nemici penetrarono infatti nella cittadella proprio dalla parte in precedenza preclusa dall'acquitrino. Allo stesso modo - stando a Erodoto - l'oracolo di Apollo delfico aveva dissuaso i Cnidii dal tagliare un promontorio che avrebbe trasformato la loro città in un'isola, alterando il rapporto terra-acqua già stabilito dalla natura (26). Ma nella cultura dell'ellenismo e nel suo fecondo rimescolamento di apporti greci e orientali il pregiudizio - antitecnico e antibarbarico assieme - nei confronti della manipolazione e regolarizzazione della "natura" (agreste e urbana) mediante grandiose opere pubbliche si andò dissolvendo, di pari passo con il pregiudizio verso la regalità. In séguito, gli imperatori romani si compiacquero di mostrarsi degni eredi dei sovrani ellenistici e del loro evergetismo monumentale. In misura progrediente nel tempo, sia per frequenza sia per intensità di accenti, un'ammirazione senza riserve venne tributata a quegli interventi tecnici che dimostravano la capacità dell'uomo di dominare anche gli spazi marginali, acquitrinosi e selvatici, eliminando gli ostacoli da questi frapposti a una prosperità agraria e civile garantita dall'ordine. Alle soglie del III secolo d.C., nell'Africa romana in pieno essor culturale, politico ed economico, l'avvocato cristiano Tertulliano poteva così esaltare con enfasi, nel De anima (210/213 d.C.), il progresso umano del tempo suo, che popolava di città il mondo intero e d'insediamenti persino isolette minime e scogli sperduti, cancellava i deserti, prosciugava le paludi, sostituiva i campi e i pascoli alle foreste selvagge (27). Siamo ormai mille miglia lontani dal giudizio di Erodoto sulle grandi realizzazioni idrauliche come opera della regalità barbarica: una nuova etica politica si era andata sviluppando al servizio del principe e del potere. Il vagheggiamento senechiano di un rassicurante immobilismo conservatore - intrecciato con quello utopico di un ritorno al primitivismo dell'età dell'oro - in questo senso può intendersi come sintomo delle scissioni e della duttilità dei valori e delle ideologie già al tempo dei Giulio-Claudii; e alle soglie del III secolo d.C. esso doveva suonare più che mai "datato" e superato nei fatti.
Soprattutto nell'immaginario della produzione letteraria romana, la considerazione negativa del paesaggio selvatico durò a lungo: foreste, acquitrini e acque vaganti divennero le connotazioni topiche degli spazi barbari rozzi, crudeli e quindi suscitatori di diffidenze e di paure. L'esemplificazione abbonda; ed è facile constatare l'influenza di una tale visione classicistica anche nel pensiero moderno, specie a partire dall'Illuminismo, con la sua incondizionata ammirazione per le campagne ben strutturate, da cui acquitrini e malaria devono venire a ogni costo estromessi mediante bonifiche integrali (28). La civiltà urbanizzata ellenistico-romana rifiutò dunque, in generale, di accettare positivamente il mondo della palude e della laguna a livello speculativo, salvo a riconoscergli un qualche ruolo se riferito a luoghi e a popoli lontani nello spazio e (o) nel tempo. Pensiamo per esempio alla rappresentazione dei confini del mondo in Plutarco, fatti di fiumi, fango, sabbie e pertanto coincidenti con le frontiere stesse della storia, ma al tempo stesso ospitanti, all'estremo nord, isole deliziose dal clima dolce e bizzarramente portentoso, abitate da divinità e da esseri sacri (29). Né appare dissimile, ancora nell'avanzato IV secolo d.C., la descrizione del mondo "prima della storia" (poco dopo la creazione, quando l'uomo non esisteva) in Ambrogio di Milano - vescovo e scrittore cristiano, ma di solida cultura tradizionale -, secondo cui la terra si presentava allora scomposta, inondata da flutti erranti, invasa da quella fanghiglia palustre che l'uomo avrebbe poi detestato perché nemica del vomere (dagli scritti di Ambrogio emerge qua e là pure il riferimento realistico a terreni coltivati frammisti a paludi infestate da rane e zanzare, e a foreste popolate di cinghiali anche in stretta prossimità dei luoghi abitati nel cuore della pianura). La rappresentazione ambrosiana del paradiso - sviluppando in chiave simbolica un immaginario già biblico e giudaico (Giuseppe Flavio, Filone), e nel contempo sulla scia delle laudes hortorum secondo il gusto letterario ellenistico-romano - fu pertanto quella di un luogo fertile e ben coltivato, ricco di pometi, vigneti, alberi, fiori e acque disciplinate, non diversamente dalle descrizioni paradisiache che troviamo circa nella medesima epoca anche nel centone virgiliano della nobile romana Valeria Faltonia Proba, in Mario Vittorino e poi in Celio Sedúlio nella prima metà del V secolo (30). Ma, più spesso, il tema del mondo palustre venne silenziosamente rimosso e relegato nell'ombra, dando quindi l'impressione - deviante per il lettore di oggi - che la campagna antica coincidesse tout court con l'agro coltivato.
La convergenza fra sviluppo agricolo e civile - essendo il primo considerato tappa obbligata nel passaggio dal vivere selvaggio e asociale a quello aggregato in comunità "politiche" era stata invero caratteristica già del pensiero greco, e ne troviamo formulazioni particolarmente esplicite ad esempio nell'opera geografica di Strabone nell'età cesariano-augustea (31). Negli Oneirocriticá Artemidoro di Efeso, verso la fine del II secolo d.C., poteva interpretare come sogno favorevole quello del volo su città incastonate fra campi coltivati e fittamente abitati dall'uomo; mentre veniva inteso in chiave negativa il sognare di forre, foreste, fiumi debordanti, paludi (32). Circa un secolo più tardi, le Etiopiche di Eliodoro introducono invece nel contesto "popolare" del romanzo un'ottica più complessa di repulsione/fascino, là dove entrano in scena i briganti indigeni del delta nilotico (Boukóloi): la loro esistenza - si dice - si svolgeva in un dedalo di laghi e acquitrini, in una sorta di città con regole diverse e capovolte rispetto a quelle della città greca (Alessandria). E vale la pena di fermare la nostra attenzione su questa descrizione eliodorea di "città alla rovescia" alle soglie del tardoantico, dal momento che vari autori sia greci sia latini - come si vedrà fra breve - sin dal principio dell'età imperiale ebbero a paragonare le forme insediative dell'area egiziana sul delta con quelle lagunari e deltizie delle Venezie (Strabone, Plinio) (33).
Se, dunque, si guarda alla globalità delle testimonianze, si ha l'impressione che nel mondo di cultura greca andasse affiorando con una certa precocità una valutazione più curiosa e meno prevenuta di realtà diverse da quelle della città pianificata e dell'agro coltivato: tendenza forse alimentata anche dal riallacciarsi a tradizioni di pensiero antiche e dal contrapporsi alla politica di urbanizzazione e d'incremento delle colture portata avanti da Roma, che certo veniva associata - con disaffezione crescente da parte dei sudditi - alle idee di impero e di fiscalità. Nel mondo romano, invece, le resistenze furono maggiori perché si complicarono, dall'età di Cesare in avanti, con l'impatto delle esperienze di guerriglia con il barbaro. Fu allora che fece il suo ingresso nella storiografia la figura del barbaro celato tra selve e paludi divenute teatro di tranelli e d'imboscate, in luogo dei leali scontri in campo aperto fra nemici "civili" (34). Il topos si sarebbe conservato per qualche secolo; ma il binomio barbari-terre acquitrinose non si sarebbe più cancellato: neppure quando, a partire dal III secolo d.C., il rapporto fra i due termini si sarebbe andato capovolgendo nei suoi valori.
Si è cercato di delineare l'intrecciarsi di giudizi positivi o negativi sul mondo lagunare-palustre con l'articolarsi o l'evolvere di filoni culturali diversi nel mondo greco-ellenistico e romano. Vi furono atteggiamenti favorevoli sia in senso astratto, idealizzante, utopico (mondo inviolato e sicuro), sia calati nella concreta individuazione di forme congrue a un adeguato utilizzo economico, in equilibrata complementarietà con economie differenti, così nell'Oriente greco come nell'Occidente romano. A entrambe le posizioni fu comune, in sostanza, l'ostilità verso un'alterazione tecnologica del paesaggio naturale, avvertita quale frutto di una cultura politica e religiosa "barbarica", fondata sull'asservimento dell'uomo e della natura: dunque un tabù politico antimonarchico, affiancato a un tabù religioso ostile alla violazione del rapporto terra-acqua. D'altro canto, specie nel mondo romano, vi furono ottiche del tutto negative nel modo di guardare al paesaggio selvatico, sia che esse sfociassero nello sforzo d'intervenire tecnicamente per disciplinarlo, rimuovendo paludi e foreste (con l'incoraggiamento dei vertici del potere: sovrani ellenistici prima e imperatori romani più tardi, assieme con le élites che motivatamente scelsero di farsene supporto); sia che questo mondo "altro" rispetto ai campi coltivati e alle città razionalmente strutturate venisse rifiutato quale spazio barbaro, incivile, malfido e quindi spesso rimosso in obliteranti silenzi. Solo assai lentamente, verso la fine della parabola imperiale e nella prima età gotica, l'attenzione verso queste realtà sommerse si sarebbe andata imponendo a una più larga considerazione pubblica per l'Italia nord-adriatica, vuoi attraverso l'aperta polemica vuoi nel panegirico ufficiale (V-VI secolo d.C.).
È pertanto in questo humus storico-culturale ampio che vanno lette tutte le testimonianze specificamente riferite al paesaggio lagunare veneto, a partire dai primi tempi della romanizzazione. Nel contempo, le diverse valutazioni su questa terra di adýnata, di selvatichezza emarginata e di téchnē "dedalica" allo stato nascente devono essere inserite nella griglia evenemenziale della politica romana nei confronti delle Venezie a partire dal III secolo a.C.
Come si è veduto, l'area del delta padano era stata un centro focale delle frequentazioni e degli insediamenti precoloniali e protocoloniali (porti e scali sia lagunari sia marittimi) a partire quanto meno dalla tarda età micenea. Sempre sull'area deltizia insistettero i più importanti empori paleoveneti ed etruschi frequentati dai commerci greci nei secoli successivi, quali Adria sul Tartaro (Fossa Philistina) e Spina sul ramo eridanio detto più tardi "del Vatreno" (35). Anche l'idronimo Padus Messanicus o "Po dei Messeni" - denominazione antica, secondo una notizia erudita riportata da Plinio il Vecchio, del ramo deltizio in seguito designato come Padúsa e collegato con Ravenna mediante la Fossa Augusta - si connette con presenze greche in loco, forse al tempo di Dionigi il Vecchio (la cui azione fu legata tanto ai Messeni del Peloponneso quanto a quelli di Sicilia), secondo una suggestiva ipotesi formulata anni or sono da Santo Mazzarino (36). Ma l'avventura adriatica del greco Cleónimo sul finire del IV secolo a.C. - la cui tradizione è stata preservata dal patavino Livio al tempo di Augusto in un excursus di "storia locale" denso di significati - sembra additare con chiarezza come, nel frattempo, si fosse andato realizzando un allargamento e uno spostamento di attenzione anche verso aree contermini (37).
Nel racconto di Livio la spedizione veneta di Cleónimo nel 302/301 a.C. si presenta come appendice determinante all'impresa in Magna Grecia, ove il re spartano era giunto (come già, prima di lui, Archídamo e Alessandro il Molosso) per sollecitazione dei Tarentini in guerra con Lucani e Romani, ma altresì pungolato da personali ambizioni di conquista (38). Nel corso di tali campagne italiote Cleónimo non mancò pertanto di assicurarsi il controllo di Corcíra, supporto strategico importante per qualsivoglia impresa autonoma nell'area adriatica. Spezzatasi l'effimera intesa con Taranto, al dire di Livio Cleónimo sarebbe stato indotto a lasciare il Salento e a riprendere il mare dalle minaccianti forze romane al comando del dittatore Giunio Bubulco (39). La sua flotta - vincendo la sfida dei venti impetuosi che la sospingevano, l'inospitalità delle coste importuose dell'Italia da un lato e il pericolo dei feroci pirati liburni e istri dall'altro - si sarebbe indi spinta sino alle coste venete (ad Venetorum litora). Di qui Cleónimo, utilizzando notizie raccolte sul luogo dagli esploratori, si sarebbe avventurato nelle lagune spazzate dalle maree e in diretto contatto con il mare aperto, fra lo stretto cordone costiero (tenue praetentum litus) e i campi coltivati interni alla gronda lagunare, fino a raggiungere le foci di un fiume profondo, il Brenta (Medúacus amnis), là ove i colli [Euganei> si profilavano in lontananza. Quivi il re spartano avrebbe deciso di risalire il fiume, presto sostituendo le navi pesanti con imbarcazioni più leggere, raggiungendo tre miglia più a monte (5 Km) le floride campagne attorno a "tre villaggi marittimi dei Padovani" (ad frequentes agros tribus maritimis Patavinorum vicis colentibus), dandosi al saccheggio e allontanandosi sempre più dalle imbarcazioni. Ma non appena la notizia arrivò a Padova - ove la minaccia dei Galli teneva gli uomini validi sempre in allerta - la iuventus in armi, divisa in due squadre, raggiunse la zona dei saccheggi e, per via diversa, l'ancoraggio sul fiume a 14 miglia dalla città (21 Km), attaccando con successo sia i razziatori nelle campagne sia i marinai greci rimasti a presidiare le imbarcazioni; e poi si spinse fino all'attracco della flotta di Cleónimo nella laguna. Le navi greche, raggiunte dai Patavini sulle stesse imbarcazioni leggere catturate e, in parte, su barche a chiglia piatta disponibili in loco, tentarono la fuga nel mare aperto, ma molte s'incagliarono nelle secche e nei bassi fondali e vennero incendiate. I Patavini riportarono nella loro città i rostri delle navi distrutte e le spoglie degli Spartani, trofei che ancora al tempo di Livio certi anziani ricordavano d'avere veduto nel tempio di Giunone (certo da identificare con l'indigena Réitia, massima divinità paleoveneta di tipo mediterraneo, protettrice della vita e della fecondità animale e vegetale) (40). E da allora invalse l'uso di celebrare la vittoria, ogni anno, con una grande naumachía fluviale. Cleónimo, da parte sua, ritornò donde era partito con quanto rimaneva della sua flotta (un quinto circa), "avendo fallito ogni tentativo di sbarco nelle regioni del Mare Adriatico". L'approdo marittimo ove Cleónimo raccolse informazioni e decise di raggiungere la laguna può essere identificato con l'attuale porto di Malamocco (secondo Strabone distante da Padova 250 stadi = 45 Km, e il cui nome - Methamáucus - risale alla medesima radice del nome antico del Brenta, Medóakos, Medúacus) (41). La "sottile striscia di terra" fra il mare e gli stagna lagunari corrisponde ai litorali di Pellestrina (toponimo collegato, come si è veduto, alla Fossa Philistina) e del Lido. Lo scalo fluvio-lagunare può riconoscersi in S. Ilario presso l'odierna località di Fusína sulla laguna di Venezia. L'ubicazione dei "tre villaggi marittimi" padovani sembra da collocare nei pressi dell'attuale Porto Menái, ove in antico correva il ramo principale del Brenta (Medúacus Maior) e dove, secondo i dati forniti dalla Tabula Peutingeriana (III/IV secolo d.C.), si trovava una stazione stradale Ad Portum sulla romana Via Annia fra Padova e Altino, che certo ricalcò in questo tratto una pista più antica congiungente i due centri paleoveneti, in parallelo al corso del fiume (42). L'innesto poi, sul percorso della Via Annia dalla stazione Fossis (a sud di Chioggia) fino ad Altino, della Via Popillia proveniente da Ravenna, con il suo tracciato fortemente arcuato verso l'interno sembra confermare l'esistenza di un ampio spazio lagunare nell'area attuale di Venezia sin dall'età romana e certo anche prima, pur ammettendo grosse trasformazioni morfologiche quivi intervenute specie dopo l'alluvione catastrofica del 589 d.C.: un elemento importante, con altri, per contraddire teorie recentissime circa la presunta origine di Venezia su di una terraferma centuriata e coltivata, che solo in età medievale sarebbe stata invasa dalle acque trasformandosi in laguna attraverso subsidenze e bradisismi (43).
Non è possibile sceverare con nettezza, nel racconto liviano circa le fortunose vicende di Cleónimo nell'alto Adriatico, gli ingredienti storici di fondo autentici e antichi dalla loro trasfigurazione eroizzante nella tradizione locale, che lo storico patavino raccolse quasi tre secoli più tardi. Taluni aspetti meritano tuttavia di essere evidenziati. Innanzittutto, pur dando per scontato che Livio, nella precisa descrizione del quadro ambientale, si rifacesse a realtà etno-geografiche del tempo suo, a lui familiari; e pur rinunciando a completare le molte oscurità d'una esposizione fortemente ellittica (quale scopo in effetti si era prefisso Cleónimo in questa sua spedizione all'apparenza demotivata? Fin dove aveva pensato di spingersi?), il nocciolo storico essenziale dell'impresa stessa presuppone l'esistenza di un paesaggio lagunare già fittamente popolato da insediamenti sparsi e da villaggi, incastonato sullo sfondo di campi coltivati, attraversato da piste terrestri convergenti verso attracchi della navigazione fluviale, lagunare e marittima raggiungibili mediante imbarcazioni idonee ai bassi fondali, e con ogni verisimiglianza già allora serviti anche da opere di canalizzazione artificiale.
È inoltre significativo il fatto che Cleónimo - quali che fossero i suoi propositi - orientasse la spedizione verso le lagune alle foci del Brenta e verso l'entroterra risalendo il fiume, anziché approdare in uno dei consueti e ben noti scali del delta padano (Adria, per esempio). Il re spartano pensò forse d'imitare Dionigi di Siracusa non soltanto nel suo sogno di egemonia adriatica, ma anche nel saccheggio di un grande santuario? Nel 384 a.C. Dionigi il Vecchio aveva infatti depredato il tempio etrusco di Pyrgi sul Tirreno, nel territorio di Cere (44); Cleónimo avrebbe potuto invece essere stato attratto dal celebrato santuario alle sorgenti termali del dio Ápono sui colli Euganei, ricco di donarii, com'è stato ipotizzato di recente (45). Sembra in ogni caso certo che lo sviluppo antropico ed economico degli insediamenti veneti sulla terraferma costiera e precostiera, in comunicazione diretta con il mare, già dovesse attirare l'attenzione non soltanto di tranquilli mercanti e navigatori, ma anche di eventuali predatori e avventurieri provenienti da sponde lontane.
Lo scenario appare dunque mutato: la Venezia marittima non svolge più il ruolo primordiale d'una terra di rifugio ai margini del mondo, come le lagune eridanie negli antichi miti e quelle venetiche stesse nella leggenda di Anténore. Sia pure in proiezione eroicizzata, già in età preromana si ha a che fare con un'area caratterizzata da una precisa fisionomia etnica, da un'economia fiorente, dalla presenza di strutture politiche e insediative che i locali appaiono ben decisi a tutelare da intrusioni e violenze straniere. Livio ebbe a discorrere con malcelata fierezza anche in altro luogo - prendendo le mosse dall'incursione dei Sénoni su Chiusi e su Roma nel 390 e dalle reiterate invasioni dei Galli nella Valle Padana che l'avevano preceduta - di questo Venetorum angulus o Venezia minore, abitata dalle stirpi venete "insediate attorno al golfo adriatico" e su cui anche Padova dava mostra di gravitare con il suo orgoglio di città "portuale" (un orgoglio che andò forse accentuandosi nel tempo, ma che amava riallacciarsi a una tradizione vecchia di secoli). I Galli tracimati al di qua delle Alpi - afferma Livio - non erano mai riusciti a intaccare l'indipendenza dei Veneti qui sinum circumcolunt maris; e questi Veneti erano stati il solo popolo che non si era lasciato penetrare neppure dalla colonizzazione etrusca, quand'essa aveva superato l'Appennino espandendosi dal Po alle pendici alpine (prima che i Galli, nel IV secolo a.C., l'annientassero) (46). Il motivo antigallico affiora in Livio qui, come pure nel racconto su Cleónimo (Padova in armi contro possibili assalti gallici nel 302/301). Colpisce pertanto questo insistito parallelo fra i Veneti e i Romani: entrambi in lotta vittoriosa contro l'invasore greco; entrambi, del pari, sempre alle vedette contro i Galli, a tutela della propria indipendenza.
Di fatto, lo spartano Cleónimo appare in Livio nel ruolo di un eroe negativo, fuggiasco dalla Venezia marittima dopo l'inane tentativo di depredarla o, forse, di stabilirvisi: un personaggio che, per contrasto, doveva subito evocare nell'immaginario del tempo, sia dotto sia popolare, l'eroe positivo Anténore, il guerriero troiano che anche Livio ebbe a ricordare proprio al principio delle sue Storie, il quale era stato contrario alla guerra con gli Achei come Enea e proprio per questo, come Enea, era stato risparmiato dall'eccidio dopo la distruzione di Ilio; come Enea egli era quindi emigrato verso l'Occidente e l'Italia, ponendosi a capo di Enéti (Veneti), alla ricerca di una nuova patria perché scacciati dall'originaria Paflagonia dopo avere combattuto a fianco dei Greci e perduto il loro re Pylaeménes sotto le mura di Troia. Secondo la leggenda, peraltro, la spedizione di Anténore e dei Veneti, all'opposto di quella spartana circa otto secoli dopo, era stata coronata dal successo, con lo sbarco sul litorale "nella parte più interna dell'Adriatico" (in intimum Maris Hadriatici sinum), con la fondazione di una Troia il cui nome si sarebbe perpetuato - a detta di Livio - in quello di un pagus Troianus ancora esistente nella zona al tempo suo, con l'occupazione delle terre fra il mare e le Alpi, scacciandone gli Euganei (47), con la fondazione di Padova da parte di Anténore (48).
Il punto di partenza di siffatta leggenda fu, con ogni evidenza, l'Iliade, là ove si menzionavano gli Enéti venuti dalla Paflagonia per combattere contro i Troiani (49). Ma proprio al tempo di Livio, nell'età cesariano-augustea, godettero di particolare fortuna letteraria i miti che, attraverso diffuse ramificazioni, favoleggiavano di una pretesa consanguineità sia fra i Veneti e i Romani (Livio stesso, gli scolii veronesi a Virgilio, con particolare riferimento a Padova) (50), sia fra i Romani e i Galli (Cesare, Cicerone) (51). Nel contempo, i Veneti venivano identificati con i Galli da una tradizione erudita (52); mentre per i Galli stessi - che nei miti "siracusani" del IV secolo a.C. erano stati collegati geneticamente ai Greci e contrapposti agli Etruschi e ai Romani nel segno dell'Ellade e di Troia (53) - nel I secolo a.C. si andava ormai favoleggiando di una loro origine troiana (Timágene) (54). Fonti latine, al tempo di Augusto, parlano anche di un'origine greca dei Veneti (si sarebbe in ogni caso trattato di Greci amici dei Troiani, come i sudditi di Evandro nelle vicende leggendarie di Enea nel Lazio). E già Catone nel II secolo a.C., nelle Origini, aveva discorso dei Veneti come di una stirpe troiana (55) .
In questo complesso intreccio di spunti mitopoietici sono di fatto riconoscibili sollecitazioni politico-ideologiche diversificate nel tempo e nello spazio. In quanto ispirati da un orgoglio "patriottico" e locale che guardava a Padova come altera Roma vanno letti i passi di Livio che esaltano gli antichi vincoli di amicizia tra Veneti e Troiani, la comune lotta dei Romani e dei Veneti contro gli invasori stranieri sia Galli sia Greci. Un binomio, quest'ultimo, che mostra assai ben in qual modo potesse riplasmarsi in chiave locale - calandosi nella specularità Roma-Padova - quel pregiudizio (psicosi addirittura) antigreco e antigallico assieme, che nel IV-III secolo a.C. promosse in Roma rituali di aversione straordinari e feroci, quali il seppellimento nel Foro Boario di coppie viventi di Galli e di Greci: un rito più volte replicato in momenti di pericolo (forse già nel 349, e sicuramente poi nel 228, 216, 113 a.C.), verosimilmente ispirandosi ad analoghi sacrifici già praticati dagli Etruschi, che per primi avevano subíto l'attacco simultaneo - e talora concertato - dei Galli e dei Greci di Siracusa (56).
La valorizzazione politico-diplomatica delle origini troiane di Roma a sua volta si incentivò soprattutto a partire dal III secolo a.C., parallelamente all'emergere della città come potenza egemone in Italia e con il crescere delle sue ambizioni di presentarsi quale elemento "greco" o "semigreco" alla testa del mondo magnogreco e siceliota, in funzione anticartaginese (57); mentre l'amicizia e le alleanze "storiche" fra Veneti e Romani si collocano nel III secolo a.C., con probabili precedenti più antichi. Sono dunque le esigenze di propaganda connesse con tali circostanze che stanno a monte dei vari miti di consanguineità troiana o greca fra i Veneti e i Romani, riallacciandosi al ciclo leggendario troiano e alla figura di Anténore e di Enea. Della pretesa origine troiana dei Galli e della loro "parentela" con i Romani si incominciò invece ripetutamente a parlare soltanto più tardi, nell'età di Cesare, di Augusto, di Cicerone, dello storico greco-alessandrino Timágene, allorché il capitolo celtico della storia di Roma era ormai concluso, la "paura gallica" dimenticata per sempre (58), solidamente avanzato l'assorbimento dei Galli cisalpini e transalpini nelle forme sociali, culturali e giuridiche del mondo romano: sicché i Galli non venivano collegati più con l'idea di barbarie (59). Allo stesso modo, a seguito dell'amalgama culturale - rafforzatasi nel tempo - fra i Veneti e i Galli padani loro contermini, nacque la leggenda dotta che identificava i due popoli, certo favorita dalla presenza di Veneti anche in Armórica (60).
Non esistono di fatto documenti che consentano di definire con precisione in quale momento si siano stabiliti i primi effettivi contatti fra Roma e l'area veneta (61). Le popolazioni venete - indoeuropee e inumatrici, venute a insediarsi nell'Italia del nord verso la fine del XIII secolo a.C., ossia nell'età del bronzo recente, qualche generazione prima della distruzione di Troia - sin dagli albori della loro storia parvero caratterizzarsi per un geloso, radicato attaccamento alle proprie costumanze tribali: si è visto come ancora alle soglie dell'impero Livio celebrasse con orgoglio questa remota tradizione d'indipendenza presso gli abitatori della sua terra (62). Ma ciò non escluse affatto, s'intende, l'instaurarsi di precoci, fitte relazioni con le culture vicine, oggi archeologicamente verificabili anche per un'epoca assai antica: ché anzi le Venezie, per ragioni geografiche e storiche, si trovarono all'incrocio d'influenze plurime e disparate (retica dalle zone alpine, carnica da oriente, euganea da sud-ovest, etrusca e poi celtica lungo l'asse padano da ovest, da sud e dalle Alpi nord-orientali verso l'area friulana) (63). La dinamicità di tali compresenze culturali avrebbe finito col plasmare un tutto composito ma anche saldamente unitario.
La circolazione in loco pure di manufatti di provenienza centroitalica illumina in realtà ben poco circa l'esistenza di rapporti specificamente politici fra Roma e questo mondo assai per tempo apertosi a una koiné economica e culturale di raggio ragguardevolmente ampio. Già fra il V e il III secolo a.C. si erano potenziati i circuiti di scambio lungo le direttrici fluviali e vallive anche nei comparti pedemontani, che tendevano vieppiù a gravitare verso la pianura aperta. Si erano incrementati i traffici diretti o indiretti sia all'interno del mondo paleoveneto sia con le culture contermini etrusca e celtico-padana, mentre prendeva piede l'uso del bronzo con funzione monetale (a partire dall'aes rude e dall'aes signatum). Erano andati emergendo centri urbani che esercitavano un'egemonia culturale sul territorio circostante e polarizzavano verso la pianura l'incremento demico (Este, Padova, Vicenza, ecc.); mentre, per conseguenza, regrediva il popolamento su tutto l'arco alpino periferico. Accanto all'allevamento - stanziale (bovini) ovvero transumante - conobbe allora un notevole sviluppo lo sfruttamento agrario, mentre la produzione del bronzo e della lana continuava ad alimentare vivaci attività artigianali. Indizi archeologici convergenti sottolineano come un tale processo di trasformazione socioeconomica già fosse bene avviato spontaneamente quando Roma cominciò a interessarsi in concreto delle aree transpadane: quindi esso non può essere in alcun modo riguardato come il frutto d'interventi esterni, "colonizzatori".
La prima, indiretta, connessione con le vicende di Roma emerge dall'opera storica di Polibio nel II secolo a.C., là ove questi afferma che i Galli Sénoni avrebbero rinunciato all'assedio di Roma, durante la celebre scorreria del 386 a.C. (390 a.C. secondo la tradizione antica), perché attaccati alle spalle dai Veneti nei territori padani (64). Non vi è motivo di respingere la notizia come poco attendibile, anche se taluni studiosi preferiscono scorgervi l'anticipazione - costruita a posteriori - dell'alleanza antigallica fra i Veneti e i Romani nel 225-222, allorché questi ultimi già si stavano estendendo nelle contrade galliche della Cispadana (65). L'alleanza del III secolo - menzionata anch'essa da Polibio (66) - vide allinearsi con i Veneti anche i Celti Cenómani (stanziati nell'area veronese e già alleati dei Veneti) contro Ínsubri, Boi e Gesáti, garantendo a Roma un supporto di ben 20.000 soldati: a monte di tale appoggio stava certo una ponderata valutazione politica, da parte delle due genti, circa l'opportunità di stabilire e di mantenere buoni rapporti e intese pacifiche con la nuova potenza italica in espansione inarrestabile. Anche Roma d'altro canto - allora duramente provata dagli scontri con i Galli, e timorosa, sempre al dire di Polibio, di un accordo fra i Celti e i Cartaginesi (67) - dovette incoraggiare orientamenti concilianti di tal fatta: lo si è visto più sopra attraverso il filtro dei miti "propagandistici" coevi (68). E se ne conserva un'eco ancora nell'opera di Servio sul finire del IV secolo d.C., là ove - nel commentare l'Eneide virgiliana - questi parla dei leggendari aiuti militari che i Veneti avrebbero assicurato a Enea nella guerra contro i Rútuli, i Prisci Latini e gli Etruschi di Cere (69).
La capitolazione dei Boi e degli Insubri dopo l'epico scontro di Clastidium (Casteggio), nel 222 a.C., aprì la Valle Padana alla conquista dei Romani. Mediolanum (Milano) venne tosto occupata dalle legioni di Claudio Marcello (il generale vincitore a Casteggio) e di Cornelio Scipione. Né sembra che i buoni rapporti fra Veneti e Romani s'incrinassero neppure negli anni successivi. Nel 220 a.C., infatti, le legioni attraversarono la regione veneta fino alle Alpi orientali (certo marciando lungo piste già esistenti, che i tracciati viari romani avrebbero in séguito ricalcato), impegnate in una spedizione bellica che avrebbe assicurato il controllo indiretto di Roma fino ai valichi alpini orientali (70). E quando, poco dopo, le truppe cartaginesi al comando di Annibale piombarono sull'Italia del nord dalle Alpi occidentali, mentre le stirpi galliche testé sottomesse defezionarono contribuendo alle sconfitte dei Romani fino a Canne (218-216 a.C.), i Veneti rimasero invece tranquilli, fornendo aiuti militari a Roma in qualità di mercenari, se non di alleati (71).
Svanita la minaccia punica, Roma riprese il controllo sulle aree padane occupate dai Liguri, dai Boi e dagli Ínsubri con una serie di difficili operazioni militari (200-191 a.C.); e soltanto i Cenómani, che si erano staccati dagli altri Galli verso la fine della guerra, furono trattati con mitezza (72). Fu in tale occasione che il territorio veneto venne inglobato nel dominio romano? Vari studiosi propendono a crederlo; ma altri lo hanno invece escluso, come per esempio Roberto Cessi, convinto assertore di una totale autonomia delle stirpi venete rispetto a Roma, preservatasi addirittura fino al 43 a.C., allorché il territorio venne occupato da Antonio. Per conseguenza - secondo l'opinione di Cessi appunto - il console Marco Claudio Marcello, muovendo nel 183 a.C. dal territorio ligure verso il Friuli, sarebbe transitato non lungo la più rapida via di terra per Piacenza e Cremona, bensì per mare da Genova a Rimini, circumnavigando la penisola italica. E dal mare (poggiando su Ariminum/Rimini) sarebbero giunti un paio d'anni dopo anche i Romani diretti a fondare la colonia latina di Aquileia (181 a.C.). È in ogni caso certo che, a partire dal II secolo a.C., per tutte le aree venete sino alle valli alpine incluse già circolavano monete romane, non per caso quei "vittoriati" che corrispondevano nel peso e nel metallo (l'argento) alle dracme padane sinallora localmente in uso presso le popolazioni celtiche del Norditalia (73).
Significativa fu, in particolare, la condotta di Roma nel 186 a.C., allorché circa 12.000 Galli transalpini - spinti dal sovrappopolamento e dalla fame - decisero di trasferirsi pacificamente in Italia, nell'area già celtizzata del Friúli. La reazione del senato fu dura e fermissima: vennero mandati ambasciatori a protestare presso i Celti d'oltralpe (i quali negarono qualsivoglia responsabilità o connivenza), e s'impedì ai nuovi venuti di costruire l'oppidum che avevano progettato, costringendoli a consegnare le armi e ad abbandonare il territorio, benché costoro affermassero di avere occupato soltanto spazi disabitati e incolti, fra le varie "isole" insediative già coltivate (74). Il console Marcello, come s'è detto, nel 183 a.C. mosse contro questi Galli dalle terre dei Liguri (75). E un paio d'anni dopo (181 a.C.) venne dedotta la colonia di Aquileia proprio in quel medesimo ager Gallorum ove poco prima i Celti intrusi avevano tentato senza successo di fondare un loro centro fortificato, a formale protezione degli "amici" Veneti (i cui territori verso est arrivavano allora, a quanto pare, fino al Livenza) (76). In questo tempo dunque, di fatto se non di diritto, lo stato romano già considerava le Venezie una parte integrante della propria sfera d'interessi e di controllo politico-militare diretto, guardando alle Alpi come a un confine che i popoli esterni non erano più autorizzati a superare e disponendo dell'agro veneto-friulano per le prime, incisive ristrutturazioni connesse con l'insediamento dei propri coloni-soldati (3.000 tra fanti, centurioni e cavalieri nel caso di Aquileia). Secondo quanto già era avvenuto in passato (a partire dal IV secolo a.C.), anche ora il deterrente celtico continuava a fungere da elemento catalizzatore favorendo l'accettazione della supremazia romana, sia in Italia sia altrove (per esempio nell'Asia Minore minacciata dai Gálati nel 189-188 a.C.) (77).
Tutto ciò non sembra peraltro implicare di necessità una presenza romana già massiccia nell'area endolagunare, né l'introduzione nei territori veneti di nuove strutture operative e viarie di sostegno (78): si è visto com'esse dovessero essersi andate incentivando per impulso spontaneo durante l'ultima fase paleoveneta. In ogni caso si assiste, nel corso del II secolo a.C., a un moltiplicarsi d'interventi da parte delle supreme autorità di Roma anche nelle vicende interne delle città venete. Nel 175 a.C., per esempio, il console Marco Emilio Lépido (il costruttore della Via Aemilia nel 187, che proprio allora stava stendendone il prolungamento fino ad Aquileia per Este e Padova) funse da arbitro per sanare i gravi contrasti che travagliavano Padova. Il patavino Livio tace sulla natura di tali dissidi, forse non lusinghieri per la sua patria; il console era stato comunque sollecitato a intervenire da una delegazione inviata a Roma dagli stessi Padovani (79). Nel 141 a.C. il proconsole romano Lucio Cecilio Metello Calvo arbitrò in una contesa fra Padova ed Este per questioni riguardanti il confine dei rispettivi territori (80). Alcuni lustri più tardi (135 a.C.) si ha a che fare con un nuovo intervento romano, questa volta da parte del proconsole Sesto Attilio Serrano, per dirimere una controversia gravemente inaspritasi fra le città di Vicenza e di Este, ancora una volta per questioni confinarie (81). Sempre negli anni centrali del II secolo a.C. venne costruita la Via Postumia da Genova ad Aquileia, iniziata nel 148-147 a.C. dal console Spurio Postumio Albino partendo da ovest, con caratteristiche militari di "strada di arroccamento". Le fece seguito, intorno al 132-131 a.C., la Via Annia che congiungeva Adria con Aquileia, portando oltre il tracciato della Via Popillia fra Rimini e Adria. Sembra pertanto improbabile che imprese di tal fatta venissero realizzate dai Romani nel cuore di territori veneti rimasti soltanto "amici". Siamo qui di fronte a un protettorato di fatto, ma forse formalizzato anche giuridicamente, nel quadro di una politica viaria e di una pianificazione militare ed economica da parte di Roma ormai nitidamente delineate. Ed è nel contesto di tale ristrutturazione itineraria che si devono collocare anche i vari interventi arbitrali dei magistrati romani di cui s'è detto, intesi a risolvere con stile perentorio tensioni interne a varie comunità, destabilizzanti e quindi pregiudizievoli per Roma stessa (le iscrizioni che ricordano gli arbitrati appaiono redatte in lingua e caratteri latini, non già venetici come altre epigrafi locali coeve). Tutto ciò sembra non soltanto presupporre una soggezione effettiva della Venetia a Roma - accettata in loco per ragioni di opportunità politica, per amore di ordine e di pace -, ma altresì suggerire che proprio l'accelerazione impressa dalla presenza romana all'evoluzione economica e agraria regionale costituisse un fattore scatenante - collaterale se non precipuo - nell'esplodere delle liti e delle contese. Nel 169 a.C., di fatto, venne mandato ad Aquileia dal senato romano, per richiesta della colonia stessa, un contingente supplementare di 1.500 nuovi coloni, a migliore difesa - dice Livio - contro Histri e Illyrii sempre minaccianti da est, ma forse anche - si può supporre - a garanzia di maggiore sicurezza per i coloni che si erano insediati nella città e nell'agro circostante a spese dei locali. Catone, nelle Origini (168-149 a.C. circa), già aveva in ogni caso parlato delle Alpi come di un muro di difesa per l'Italia tutta; e anche agli occhi di un Polibio esse erano apparse come l'acropoli dell'Italia (82).
Il riassetto agrario secondo le forme di una romanizzazione graduale, pianificata ma coordinata a impulsi già spontaneamente delineati, dovette accentuarsi in séguito alle traumatiche vicende collegate con l'irruzione dei Cimbri e dei Téutoni, alle esigenze di presenze militari per conseguenza accresciute, alle assegnazioni "viritane" (ossia per lotti individuali), alle nuove fondazioni coloniarie.
Provenendo dalle plaghe settentrionali della Germania (Jutland, oltre l'Elba) i Cimbri, i Téutoni e gli Ambróni raggiunsero il Norico nel 113 a.C., infliggendo una grave sconfitta, a Noréia, alle truppe romane comandate da Gneo Papirio Carbone (83). Di qui calarono nelle Gallie lungo la valle del Rodano (110 a.C.), annientando le forze romane che presidiavano la Provenza. L'onda barbarica, respinta dai Celtibéri mentre tentava di passare in Spagna (105 a.C.), si volse quindi verso l'Italia settentrionale passando per i valichi alpini rimasti sguarniti. Ben poco si sa sugli scontri di cui la Valle Padana fu teatro prima che Mario - console per la terza volta nel 103 - riorganizzasse la difesa e sgominasse i Téutoni in Provenza, indi volgendosi contro i Cimbri che, dopo avere travolto le forze del console Quinto Lutazio Cátulo, dalla valle dell'Adige (Val Lagarína) avevano dilagato nella pianura veronese e di qui in tutta la Padánia, distruggendo e saccheggiando (101 a.C.). Alla prosperità e al clima mite delle contrade venete, in cui le rudi bande germaniche si erano installate, lo storico Floro nell'età di Adriano imputò l'infiacchimento e la sconfitta finale dei Cimbri (84). Lo scontro decisivo fra costoro e i Romani ebbe in effetti luogo ai Campi Raudii presso Vercellae, una località fra le molte di tal nome nell'area padana antica che, se si tien conto della provenienza e dell'itinerario seguito dai barbari quali sono testimoniati dalle fonti antiche, sembra doversi situare nella bassa pianura veneta fra Rovigo e Ferrara, nel "dolce piano / che da Vercelli a Marcabò dichina", per dirla con Dante (85). Parve allora rinnovarsi l'antica "paura gallica", facendo guardare alle bande germaniche come a nuovi invasori celti e inducendo i Romani a replicare proprio nel 113 a.C., per l'ultima volta, il feroce sacrificio rituale delle coppie gallica e greca, già praticato in passato sotto il premere del pericolo celtico.
Dagli accenni sin qui raccolti circa le vicende politico-militari del II secolo a. C. - sommarî e tuttavia mirati - si trae la netta impressione che i territori veneti e in particolare quelli interni fra l'area deltizia padana e il percorso di arroccamento della Postumia (Aquileia, Vicenza, Verona, Padova, Este, Vercellae) costituissero allora l'effettivo centro di gravitazione di tutta l'Italia del nord. Tali essi dovevano apparire agli occhi dei Romani, per i quali le terre fertili e amiche della Venetia erano divenute il fulcro di un'organizzazione difensiva "a ombrello" contro ogni eventuale minaccia transalpina, seguendo - in spessore - il medesimo andamento arcuato a ridosso dei monti della Postumia, e raccordandosi ad essa mediante una raggiera di strade e di vie navigabili fluviali e marittime su cui convergevano i collegamenti in verticale con il centro della penisola e con Roma (la Via Flaminia e l'Adriatico) (86). Ma ciò doveva apparire egualmente vero anche agli occhi di genti transalpine sia celtiche sia germaniche non ancora stabilizzate, le quali sembravano attratte verso il sud dai numerosi e agevoli passi delle Alpi Retiche e Giulie ben più che dai valichi - non tutti così facilmente transitabili, benché più a portata di mano - verso le piaghe italiche nord-occidentali, compattamente celtizzate.
La gravità del pericolo cimbrico aveva messo a nudo l'inadeguatezza delle difese alpine a tutela della pianura veneto-padana. Fu dunque da qui che partirono le iniziative assunte dal governo di Roma per fortificare o, comunque, rafforzare i centri strategicamente importanti, primi fra tutti quelli attorno al tratto più orientale della Postumia. Per tutto il II secolo a.C. il processo politico di romanizzazione aveva interessato quasi esclusivamente l'Italia al di qua del Po (Cispadana), anche se già allora la cultura romana appariva presente in profondità pure nelle aree a nord del fiume. Adesso, invece, incominciava nella Transpadana quella riorganizzazione politico-territoriale (quindi anche sociale) su ampi spazi, che interveniva sull'ambiente - pur tenendo conto delle condizioni geomorfologiche naturali: ciò che rende ragione del perdurare indelebile delle sue tracce nello stesso paesaggio attuale -, articolandosi in àmbiti cantonali e cittadini, gravitando su centri urbani coloniari ristrutturati secondo le norme della castramentazione militare, sviluppando la piccola proprietà contadina attraverso la parcellizzazione agrimensoria (anche se questa non mancò di convivere accanto alla media e alla grande azienda agricola sia indigena sia romana, dapprima estesa solo sulle aree non centuriate, ma destinata con il tempo a ricrearsi dall'assemblaggio di molteplici lotti centuriati).
Nelle Venezie furono per l'appunto impostati lungo il percorso della Postumia agri centuriati, in assegnazione a coloni destinati a difendere, assieme con le loro proprietà, anche la grande arteria di scorrimento degli eserciti fra l'Adriatico e il Tirreno. Il tribuno della plebe Lucio Apuleio Saturnino, un anno dopo la vittoria riportata sui Cimbri ai Campi Raudii (100 a.C.), presentò una legge secondo la quale l'agro "gallico" - ossia cisalpino - già occupato dai Cimbri avrebbe dovuto passare al popolo romano "per diritto di guerra" e quindi essere destinato ad assegnazioni agrarie. Non si sa se tale legge - pur approvata - abbia conosciuto un'applicazione effettiva: secondo Cicerone, le nuove colonie progettate da Saturnino (romane ma includenti anche alleati italici) non vennero dedotte mai (87). È tuttavia probabile che a tali anni o a quelli immediatamente successivi risalgano le centuriazioni sparse sui territori di Verona e di Vicenza a cavallo della Postumia, nonché quelle riconoscibili nelle vicine aree di Cittadella e di Ásolo a nord di Padova, a loro volta impostate sulla Postumia. Anche la trasformazione di Verona in colonia latina potrebbe collocarsi nel contesto di questa ristrutturazione agrimensoria, la cui realizzazione viene tuttavia abbassata da taluni studiosi all'88 a.C. o addirittura agli anni seguenti, dopo la conclusione della Guerra Sociale e la concessione del diritto latino (ius Latii) a tutta l'Italia padana mediante la Lex Pompeia (88). A tale legge - promossa dall'allora console Gneo Pompeo Strabone, padre del più celebre Gneo Pompeo Magno - si riferisce lo storico ed erudito patavino Quinto Asconio Pediano nel 54/56 d.C., nel suo commento all'orazione di Cicerone contro Pisone, precisando che la Lex Pompeia comportò la trasformazione artificiale in colonie latine di tutti i centri di tipo urbano già esistenti: quindi attraverso una finzione giuridica, e non per rifondazione esogena effettiva. Come s'è detto, a tuttoggi molto si discute fra gli studiosi circa le precise modalità e i tempi reali con cui tali "deduzioni" coloniarie formali furono attuate (89). Non pare dubbio in ogni caso che un'importante trasformazione giuridica fosse in atto. Tappe successive di essa furono l'ammissione della Transpadana nella cittadinanza romana nel 48 a.C. e la fine quivi, nel 42 a.C., del regime provinciale, istituito prima del 75 a.C. (allorché Sallustio ne attesta esplicitamente l'esistenza), ma in contraddizione appunto con la cittadinanza romana acquisita ormai da questi "provinciali". Padova, Feltre e Vicenza, a quanto pare, divennero in tali anni municipi romani - da oppida veneti quali erano stati in precedenza - senza neppure passare attraverso la fase intermedia di colonie latine fittizie, come accadde invece a Verona (tornata poi allo status coloniario prima del 69 d.C.); mentre Concordia ed Este (Ateste) sarebbero state fondate come colonie con deduzioni effettive di veterani e con lottizzazioni centuriate ancora al tempo di Augusto, rispettivamente dopo Filippi (41 a.C.) e dopo Azio (31 a.C.) (90).
Discordi sono i pareri anche sui tempi e sugli strumenti legislativi con cui l'integrazione totale della Cisalpina nell'Italia romana venne realizzata (Lex Roscia del 49 a.C., di cui è menzione in una iscrizione di Este? o Lex Rubria, un plebiscito proposto fra il 49 e il 41 a.C. e da taluni identificato con la legge De Gallia Cisalpina, parzialmente tramandata da una tavola bronzea di Veleia presso Piacenza?).
Pure incerto è il rapporto fra tale normativa e la Lex Iulia municipalis del 45 a.C., menzionata nell'iscrizione padovana del quattuorviro Marco Giunio Sabino in età probabilmente augustea (91). Fra tante ambiguità, lacune d'informazione e opinioni in contrasto, due punti importanti sembrano comunque chiari. È innanzittutto evidente che la concessione della cittadinanza nelle aree transpadane si realizzò sotto il patronato di Giulio Cesare, per suo impulso diretto e indiretto: non è infatti casuale che quando Cesare e Pompeo entrarono in conflitto aperto la maggioranza dei Transpadani si schierasse dalla parte del primo, come si legge in una lettera di Cicerone (92); e fu dalle colonie dei Transpadani che Cesare attinse nuove leve in vista dello scontro con i Pompeiani a Farsálo (48 a.C.). In secondo luogo pare incontestabile che i testi giuridici sopra ricordati abbiano rappresentato altrettanti momenti di un processo di riordino che, dopo avere preso l'avvio al tempo di Cesare, sarebbe giunto a compimento soltanto dopo vari lustri (e dunque con tempi più attardati di quanto supponessero in genere gli studi del passato), via via eliminando vistose difformità ancora presenti nella prima, tumultuosa fase e consentendo di raggiungere quella relativa omogeneità di ordinamenti municipali che si riscontra poi nell'età imperiale.
È cosa sempre ardua assegnare una precisa cronologia alle vestigia della centuriazione, sicuramente collegata al dopo Filippi e al dopo Azio - come s'è veduto - solo nel caso di Concordia e di Este; mentre cronologicamente più fluttuanti sono altre tracce rilevate nelle Venezie, negli agri di Altino, Treviso e Vicenza, nelle Valli Grandi Veronesi, in Val Belluna, nella Saccísica a sud di Padova. Di recente tuttavia Emilio Gabba - osservando quanto scarse siano le notizie certe di assegnazioni e di confische triumvirali a nord del Po da Torino fino ad Aquileia fra il 43 e il 31 a.C. (Mantovano a parte) - ha supposto che a quest'epoca gran parte dei territori in questione ancora non fosse stata sottoposta a quella sorta di "monumentalizzazione" dell'agro che fu la centuriazione, e continuassero di fatto a prevalere le strutture della grande proprietà preromana di tipo "feudale", in cui molti fra gli stessi Romani andavano subentrando: per comodità, infatti, gli espropri dovettero focalizzarsi sulle aree già riorganizzate dal punto di vista agrario; né è un caso che Servio - il celebre commentatore di Virgilio a fine IV secolo - precisi come i municipi transpadani che non avevano avuto terre confiscate dai triumviri per le assegnazioni ai veterani fossero costretti a versare somme sostitutive in denaro (93). In sostanza, dovettero mancare in tali aree, nei primi tempi della romanizzazione, sia la necessità di distribuire terre ai veterani-coloni, sia quella volontà di snazionalizzazione che penalizzava le élites indigene attraverso una ristrutturazione radicale del paesaggio e urbano e agreste (rompendo quindi consapevolmente con le culture e le mentalità preesistenti), che assai precocemente si fece invece sentire in altre zone, ove i Romani si erano insediati imponendo la propria egemonia attraverso durissime campagne di conquista.
Anche al tempo della Cisalpina ancor provincia, le condizioni di sudditanza erano state moderate, rispettato l'antico diritto di proprietà individuale ed evitata l'esazione di gravami tributari per solito richiesti ai provinciali. Tale autonomia - che di fatto era la rinuncia a un controllo diretto da parte di Roma - non fece che accentuarsi con l'integrazione della Cisalpina nell'Italia, realizzata da Augusto sino all'arco alpino: un'unità di status giuridico (ius Italicum) e di consenso unanime alla politica di Roma (si pensi alla iuratio Italiae in favore di Augusto contro Antonio prima di Azio, sia pur confluente nel più generale "giuramento comune" delle province occidentali), che fu in realtà il risultato proprio del non ostacolato sbriciolamento in plurime autonomie locali. Assai più tardi, una tale diversificazione nell'unità si sarebbe travasata anche nell'articolazione delle varie Chiese insistenti sulla medesima area, fedeli sì a Roma, ma nel contempo quanto mai distaccate e consapevolmente autonome rispetto ad essa.
Questa "storia dell'impero senza l'impero" (già rilevata nel cuore dell'Ottocento, in termini di autonomia delle aristocrazie municipali, dallo storico calvinista François-Pierre-Guillaume Guizot, che se ne entusiasmò leggendovi una premessa lontana a quell'armonizzazione delle nazionalità nella libertà che avrebbe accompagnato la nascita della cultura europea a partire dal Medioevo) (94) fu senza dubbio una peculiarità rilevante, soprattutto nelle aree norditaliche, sin dal principio della romanizzazione. E con essa si spiegano importanti sviluppi regionali anche in epoche successive.
Non soffocate, le tradizioni locali e regionali, specialmente nell'area veneta, lasciarono un solco profondo e duraturo nelle costumanze, nelle parlate, nei toponimi e negli antroponimi, nelle consuetudini devozionali, come tante iscrizioni di età imperiale ancora testimoniano. E proprio quei fattori geopolitici ed etnici che per lungo tempo avevano disseminato d'incognite e di paure la storia di Roma repubblicana (valichi alpini aperti a spinte incontrollate dal nord, bellicosità delle stirpi locali) si tramutarono in altrettanti elementi di vitalità: tutta la Cisalpina, e le Venezie anche qui in modo particolare, si fecero serbatoio per il reclutamento delle legioni (già lo si è veduto nell'età di Cesare e di Pompeo; ma se ne leggono patenti conferme pure in Cicerone, al tempo di Antonio, Ottaviano e Decimo Bruto) (95); divennero una retrovia che convogliava vettovaglie, manufatti e uomini verso gli eserciti impegnati nelle campagne di espansione transalpina (cominciando da quelle di Druso contro i Reti, iniziate nel 15 a. C. e che portarono alla creazione di due nuove province, la Rezia e il Nórico). Instaurata la pax Augusta con le sue tanto propagandate nuove idealità di ordine, prosperità, sicurezza interna ed esteriore, e smobilitata buona parte delle legioni (ridotte da 50 a 28 e poi a 25), questo esercito divenuto ormai professionale e permanente fu dislocato a tutela di confini ben lontani dall'Italia e dalle Venezie. E furono proprio questi soldati italici - norditalici soprattutto - i vettori della romanizzazione delle province nella fase più antica, lasciando impronte indelebili, ma a loro volta spesso riportando in patria acquisizioni culturali non minori.
della navigazione fluvio-lagunare e marittima (I secolo a.C. - II secolo d.C.)
L'assestamento del Norditalia nel passaggio dalla romanizzazione alla romanità vide dunque la trasformazione di quest'area da frontiera militare con precipuo ruolo protettivo "a ombrello", incardinato sulla linea di arroccamento della Via Postumia, a frontiera economica e logistica in supporto delle forze militari e civili romane dislocate nei territori transalpini e a sostegno dell'egemonia di Roma anche sui mercati provinciali. Di necessità, ciò comportò una trasformazione profonda pure nelle funzioni svolte sinallora dalla rete delle comunicazioni fluvio-lagunari e marittime nel settore nordorientale della penisola. Subordinandosi ormai a una strategia di espansione politica, le vie di comunicazione regionale si fecero direttrici di penetrazione, sviluppandosi e protendendosi a raggiera oltre le barriere alpine. Loro punto di partenza erano soprattutto gli scali portuali dell'Adriatico, che grazie alla navigazione fluvio-lagunare si raccordavano con gli itinerari di terra che attraversavano la Venezia più interna, "continentale" (in mediterraneo, com'ebbe a precisare Plinio il Vecchio attorno alla metà del I secolo d.C.) (96), con ruolo di giunzione e di smistamento per scambi di vario tipo - nelle due direzioni - rispetto alle aree transalpine. La Venezia dell'entroterra o "mediterranea" - che al dire di Plinio includeva i territori di Este, Ásolo, Padova, Oderzo, Belluno e Vicenza - si valorizzò allora come entità connotata da una fisionomia e funzionalità sue proprie, complementari e tuttavia distinte rispetto a quelle della più meridionale Venetia maritima o inferior: Venetorum angulus in vitale collegamento con il mare, che dal tempo di Polibio a quello di Livio era stato al centro dell'attenzione romana in quanto luogo di affluenza per uomini, prodotti e culture di provenienza sia peninsulare sia transmarina (97).
Nell'ottica del potere, peraltro, siffatta complementarietà portò ben presto alla considerazione globale di una Venetia più ampia, la quale incluse in un'unica provincia tutti i territori compresi fra l'Arsia a est, l'Oglio a ovest, le Alpi Retiche, Carniche e Giulie a nord, il Po di Volano a sud (il ramo padano ormai più frequentato dalla navigazione da e verso il mare, mentre la più meridionale diramazione della Padusa doveva apparire senescente e paludosa già al tempo di Polibio) (98). La salda unità di questa Venezia dilatata - consacrata ufficialmente dal riconoscimento imperiale e della quale la Venetia maritima costituiva ormai soltanto una parte - doveva con ogni evidenza aderire a una situazione socioeconomica già evoluta in tale direzione. Proprio in ragione di ciò essa si sarebbe conservata tenacemente anche nella trasformazione della X regio in provincia, a seguito del riassetto amministrativo tetrarchico (il quale, anzi, ne avrebbe potenziato l'ámbito estendendone il confine occidentale fino all'Adda) (99); e ancora avrebbe costituito il presupposto remoto della ricongiunzione politica fra laguna e terraferma attuata dalla Repubblica di Venezia agli albori dell'età moderna.
Dell'articolazione regionale interna a questa Venetia imperiale nella sua estensione massima - sommersa ma non per questo annullata - è probabilmente traccia la designazione della provincia come Venetiae al plurale, che prese il sopravvento a partire dall'età di Costantino (ossia proprio a ridosso di quel riassetto dioclezianeo che aveva rinsaldato e potenziato la provincia veneta), soprattutto nel linguaggio burocratico-amministrativo: in iscrizioni anteriori al 340 d.C.; nel commento di Servio a Virgilio; in Cassiodoro nella prima metà del VI secolo; nella Cosmográphia dell'Anonimo Ravennate a fine VII; in Paolo Diacono a fine VIII (100). È inoltre significativo che soltanto fino alle soglie dell'impero il triangolo dell'apparato deltizio padano includente Adria, Ravenna e Bútrium costituisse una sezione a sé stante iscritta in un'unica tribù (Camilia), un blocco staccato dai territori più stabili ove i Romani avevano incominciato a realizzare opere di bonifica, il quale trovava in se stesso la giustificazione del proprio autonomo esistere. Ma al tempo di Augusto esso venne ripartito fra la X regio a nord (Venetia, di cui Adria sarebbe entrata a far parte) e l' VIII a sud (Aemilia, in cui si collocò Ravenna)(101): segno che il Po aveva cominciato a controbilanciare la funzione di asse portante che, al momento della colonizzazione, era stata affidata alle vie terrestri (Aemilia, Postumia), innestando inoltre un processo di avanzata integrazione dell'Aemilia nell'ámbito cisalpino.
Ravenna conobbe di fatto, a partire dall'età augustea, un grande sviluppo, venendo prescelta come base della flotta adriatica. Assieme con Milano e Aquileia essa fu l'unica méta dei brevi viaggi di Augusto fuori Roma, al dire di Svetonio: ché già erano questi, come si vedrà più chiaramente negli sviluppi di quattro secoli dopo, gli osservatorî privilegiati da cui il principe poteva seguire dal Norditalia le vicende delle province (102). Di pari passo, si andò sviluppando nella vicina area deltizia l'insediamento sparso, incrementato dalla presenza stabile di militari e di classiarii concentrati in Ravenna, più precisamente nell'arsenale di Classe: le tracce archeologiche di fattorie di diversa importanza (villae), i riferimenti toponomastici, la qualità dei monumenti funebri nei sepolcreti delle ville stesse e degli insediamenti vicani, il grado di alfabetizzazione dei veterani e la loro provenienza - quali emergono dalla correlata epigrafia funeraria e dall'instrumentum bollato (ossia dai bolli di fabbricazione impressi sul materiale laterizio presente in abbondanza negli insediamenti rustici) - mettono in luce tutta una varietà di processi in corso. Fino alle soglie del medioevo l'area del delta non conobbe impianti urbani, non v'è dubbio (la crescita di alcuni centri minori come Comacchio - il cui nome, derivante da commeatulus, significa "luogo secondario di raccolta per navi" - risale infatti a un'epoca in cui il porto di Classe era già insabbiato, fra V e VI secolo) (103). La toponomastica riflette la presenza di folti centri di produzione agricola inseriti in luoghi soggetti a inondazioni, fra lagune naturali pescose, stagni e anguillare, nel quadro di un'economia rurale modesta ma tutt'altro che infima (104). Nel contempo, i processi di alfabetizzazione e la qualità artistica dei monumenti e dei manufatti locali mettono in luce il progrediente passaggio dalla gravitazione culturale atestina dell'età più antica a influenze ravennati, nettissime soprattutto a partire dal II secolo d.C. (105). L'onomastica funeraria testimonia l'afflusso e la presenza non transitoria di militari e di veterani della più variegata provenienza (danubiana, spagnola, pannonica, dalmata, siriaca), proprio come in Ravenna stessa (106): un crogiuolo etnico e culturale aperto a sollecitazioni plurime e a manifestazioni non spregevoli (si pensi per esempio ai carmi funerari localmente così frequenti sui sepolcri). Anche i possedimenti imperiali si rivelano ampiamente presenti, attraverso innumerevoli iscrizioni di schiavi e poi di liberti imperiali (I-II secolo d.C.: il monumento forse più antico si riferisce a un liberto di Livia, moglie di Augusto). Il sopravvento di questo ceto libertino, gravitante soprattutto attorno al vicus di Voghenza (Vicus Aventínus o Vicus Habéntia, all'origine centro amministrativo di un saltus imperiale, che più tardi si sarebbe sviluppato addirittura in sede di vescovado), appare continuativamente bene attestato sino alla più matura età imperiale (107). Dopo il II secolo d.C. colpisce in ogni caso la compresenza - rilevabile attraverso i diversi tipi di sepolture - di famiglie di notabili accanto a più umili ceti di contadini, operai, pescatori.
Com'è ovvio, un tale sviluppo trasse vantaggio dall'incremento di nuove, grandiose infrastrutture viarie e di canalizzazione, a sua volta contribuendo a potenziarle ulteriormente: una sfida all'ambiente e alla morfologia del terreno, che si esplicitò nella capacità tecnica di controllare un paesaggio "difficile" rendendolo funzionale, economicamente ed esteticamente godibile. In particolare venne messo in atto tutto un sistema di fossae artificiali, che spesso raccordavano in trasversale i percorsi delle vie d'acqua naturali, tendenzialmente paralleli. Plinio il Vecchio ricorda il complesso dei bracci e canali artificiali che deviavano il Po lungo un arco di 120 miglia fra Ravenna e Altino, onde allentare la spinta dell'enorme portata fluviale: conosciamo la Fossa Augusta (oggi Fodesta), che doveva potenziare la funzione della più antica Fossa Aemilia (Scauri), menzionata da Strabone in connessione con il Trebbia e con Parma; la Fossa Augusta - oggi Agosta -, collegante il porto di Ravenna con la navigazione padana; la Fossa Drusiana; la Fossa Claudia o Clodia (da cui deriva il toponimo attuale di Chioggia); la Fossa Neronia; la Fossa Regia; la Fossa Augústula, sempre presso Chioggia. Come si vede, l'onomastica di questa fitta rete di canali si richiama a iniziative della famiglia imperiale Giulio-Claudia. Innumerevoli altre fossae, pur attestate soltanto in documenti dell'alto Medioevo - hanno denominazioni che rimandano a famiglie romane, come la Fossa Aburiána, Albána, Anchariána, Bábia (= Baebia o Bálbia), Cassíola, Constantíola, Fabiána, Firmána, Liciniána, Petrónia. Un proseguimento del canale navigabile lungo la Via Annia fino ad Altino è noto dall'evidenza archeologica, e cronologicamente si colloca fra il tempo di Augusto (che lo progettò) e quello di Vespasiano (allorché Plinio il Vecchio ne fa menzione esplicita) (108).
Già nella primissima età imperiale Ravenna poteva apparire "una dimora sicura e onorevole" - nel giudizio del principe - per un capo barbaro in esilio: una residenza, peraltro, di tipo particolarissimo. Si trattava infatti di ospitare personaggi barbari importanti ma scomodi, che era opportuno confinare in questo centro romano sì, ma dalla spiccata fisionomia militare, base della flotta adriatica, isolato e difeso dalle paludi circostanti e nel contempo proteso verso le regioni illirico-danubiane. Augusto collocò in Ravenna Thusnelda figlia di Segeste (un capo dei Cherusci fedele a Roma) ma sposa di un altro pericolosissimo principe dei Cherusci, Arminio; e fu a Ravenna che ella diede alla luce il figlio di Arminio (109). Un po' più tardi Tiberio assegnò Ravenna come residenza al re dei Marcomanni, lo svevo Marabóduo, estromesso dal proprio paese (16-19 d.C.); e qui egli trascorse gli ultimi diciotto anni della sua vita, arma vivente di pressione diplomatica nelle mani dell'imperatore, che - scrive Tacito - "lo faceva balenare agli occhi degli Svevi come quello che sarebbe tornato a regnare su di loro se avessero alzato la cresta" (110). Meno felice (e del tutto transitorio) fu invece l'esperimento di Marco Aurelio che, durante la seconda fase delle guerre marcomanniche (172-175 d.C., ma prima della rivolta di Avidio Cassio), accolse in territorio romano un buon numero di Germani di varie tribù arresisi a discrezione (dediticii), trapiantandoli come coltivatori non solo sui campi di province limitanee come la Dacia, la Pannonia, la Mesia e le due Germanie, ma pure nell'Italia del nord (sentita dunque pur essa come terra "di confine"?) e in particolare attorno a Ravenna, le cui campagne palustri certo abbisognavano di un'ininterrotta coltura e di drenaggio; ma costoro si ribellarono, impadronendosi momentaneamente della città; sicché il principe bandì dall'Italia tutti i barbari che vi aveva in precedenza collocato, rinunciando a ripetere siffatti esperimenti nella penisola (111).
La ristrutturazione del porto di Ravenna ad opera di Traiano (base adriatica per le campagne di costui in Dacia), coniugata con il riassetto urbanistico e con la costruzione dell'acquedotto; la presenza di flotte in funzione dei contatti con le sponde illiriche e con l'Oriente mediterraneo; la conseguente installazione di veterani nel risistemato entroterra fino al Po e all'Appennino: senza dubbio furono tutti fattori di gran peso non soltanto nell'allargarsi dei circuiti economici e commerciali regionali, ma anche per la "cosmopolitizzazione" di tutta una cultura, che faceva ormai capo al grande scalo ed emporio ravennate. Ravenna si andò dunque collocando al centro di un'importante area di gravitazione economico-strategica e politica in stretta relazione con Roma, entro la quale venne in breve tempo assorbito in buona parte il triangolo deltizio padano. Può sembrare curioso, ma è in verità risultanza di un'evoluzione affatto coerente, il fatto che la crescita del nuovo baricentro ravennate non abbia in nulla pregiudicato l'essor (fra l'altro più civile che militare, per il momento) dei centri più settentrionali lungo le coste e le lagune della Venezia. Con ogni probabilità esso fu, anzi, il portato di un loro coagularsi entro il disegno di uno sviluppo mediterraneo sempre più autonomo rispetto all'Urbe. Come s'è veduto (112), la fase "difensiva" durante l'occupazione romana della Venezia (dalla costruzione della Via Aemilia nel 187 a.C. e del suo prolungamento verso Aquileia nel 175 a.C. - passando il Po alle spalle del suo corso inferiore e puntando su Este e Padova nella Venezia interna - fino alla realizzazione della Via Postumia nel 148 a.C.) si era caratterizzata per il rilievo strategico-politico conferito all'entroterra, per un'accentuata marginalità invece dell'area padana inferiore e deltizia (certo più significativa per eventuali commerci che non per il consolidamento e poi l'espansione militare verso e oltre l'arco alpino), per una sorta d'importanza a sé stante attribuita alla "Venezia marittima". Quest'ultima si era incentrata su Aquileia in quanto città di frontiera presso i rilievi carsici e alpini, proiettata verso i paesi danubiani (113) ma nel contempo anche in dipendenza strettissima da Roma, come sembrano confermare - a livello archeologico-artistico - non solo il pedissequo plasmarsi, quivi, della monumentalità ufficiale su quella di Roma, ma pure la produzione della più libera committenza privata, che sino alla metà del I secolo a.C. non rivela alcun segno di autonomia culturale rispetto alle influenze medio-italiche e urbane (114). Già tuttavia la costruzione della Via Popillia da Rimini ad Adria e quella della Via Annia da Adria ad Aquileia lungo l'arco lagunare-costiero (un tratto nuovo e più diretto sul cordone sabbioso lungo la laguna, fra Ravenna e Altino, venne poi realizzato nella prima età imperiale, forse da Claudio) vanno riguardate come altrettanti simboli, negli ultimi decenni del II secolo a.C., di una politica romana di attenzione adriatica del tutto nuova. La fondazione della colonia di Iulia Concordia nell'età triumvirale, con il suo scalo sul mare a Cáorle; la fioritura di Altino sulla costa interna della laguna alla foce del Sile (forse anche con un attracco sul mare); il potenziamento della dimensione marinara di Aquileia in relazione con un sistema di scali sull'Adriatico, tra cui quello nell'isola di Grado (il toponimo Gradus indica appunto un attracco a mare): sono tutti segni dell'incalzare di esigenze nuove attraverso il moltiplicarsi degli scali lungo l'arco costiero in comunicazione diretta con i porti fluviali e con i centri veneti più interni (115). Una vera e propria politica marittima programmata da parte di Roma, intesa a mettere in rapporto la costa altoadriatica con le città della Venezia interna, si andò poi sviluppando con tratti espliciti solo un po' più tardi, nel corso del I secolo a.C. Anche di ciò è rilevabile un significativo riscontro nella produzione artistica, ove l'influsso italico e urbano si eclissò rapidamente in tutta l'area in questione proprio a partire dalla metà circa del I secolo a.C., per lasciare posto a prevalenti, vivaci, eclettiche suggestioni greco-ellenistiche soprattutto nell'arte vetraria e musiva e nella lavorazione delle pietre dure, che si andarono localmente organizzando come attività artigianali di spicco, con ampio raggio d'influenza e di smercio: quasi che la mediazione di Roma fosse ormai divenuta secondaria rispetto a un flusso economico-culturale mediterraneo, che risaliva sino al fondo dell'Adriatico per innestarsi nelle correnti di traffico verso il Danubio e verso la Vistola (ridiscendendone poi con altrettante - ma diverse - merci e suggestioni culturali, dirette verso Oriente) (116).
Un ruolo egemone nella regione per recettività ed elaborazione di tanti stimoli esterni ebbe senza dubbio Aquileia. Ma soprattutto a livello politico-economico fu Altino, con la sua collocazione più mediana, a svolgere una funzione primaria di raccordo fra il mare, l'Italia peninsulare e l'entroterra padano (anteriormente all'inizio, nel III secolo d.C., di un processo di regressione parallelo al grande decollo di Aquileia e che fu conseguenza dell'instaurarsi di un nuovo asse di gravitazione politico-strategico fra le Gallie e l'Illirico) (117). Già perno tattico, assieme con altri centri veneti, dei brillanti exploits di Gaio Asinio Pollione e delle sue legioni per mantenere la Venezia sotto il controllo di Antonio, Altino - a circa 2 km dall'attuale laguna di Venezia e a 13 km dall'Adriatico (Bocca di S. Nicolò) - non soltanto fu dunque un nodo vitale nel sistema viario della Venetia maritima, ma anche il centro portuale più importante della laguna veneta. L'Itinerarium Antonini - la cui redazione primitiva a quanto pare risale agli inizi del III secolo, in età severiana - indica un percorso stradale da Rimini ad Aquileia che, raggiunta Ravenna, faceva proseguire navigando sugli spazi lagunari fino ad Altino, certo raggiungendo per la Fossa Augusta le Valli di Comacchio, e di qui - per altre fossae e rami fluviali - la laguna di Adria (Atrianorum paludes o Septem Maria). La Tabula Peutingeriana - itinerario figurato a sua volta risalente forse a un originale occidentale degli inizi del III secolo, aggiornato e rifatto in Oriente fra IV e V - indica un percorso terrestre che si snodava lungo i cordoni sabbiosi della linea di costa da Ravenna sino Ad Portum e ad Altino. Assai per tempo la città fu pertanto circondata da innumerevoli ville litoranee, emule per splendore - a detta di Marziale - di quelle che già affollavano le coste campane di Baiae. Nessuna meraviglia quindi che anche da indagini recentissime, come quelle nell'isolotto di S. Lorenzo di Ammiana presso Torcello (antico vicus Aymanis), si vengano a conoscere nuove emergenze monumentali di ville e di nuclei di popolamento che riportano alla prima età imperiale (118).
Se, ora, ci volgiamo a rileggere le fonti che tra la fine dell'età repubblicana e la prima età imperiale si occupano delle aree lagunari venete, padane e ravennati, siamo in grado di percepire con maggior sottigliezza le sfumature di determinati accenni, sullo sfondo degli equilibri in evoluzione che siamo andati fin qui delineando. Vitruvio, nell'età di Cesare, è il primo autore che si sofferma in maniera esplicita - con l'occhio esperto dell'ingegnere militare e dell'urbanista - sulle realtà insediative di quelle che egli chiama "le paludi galliche", ossia la zona lagunare cisalpina da Ravenna fino ad Aquileia globalmente considerata (il termine "palude" va inteso in senso lato, non tanto come "acque stagnanti" - lo precisa Vitruvio stesso -, quanto piuttosto come zona coperta da acque non ovunque continue e perenni, certo con dossi e isolotti emergenti). L'ottica di Vitruvio è pertanto condizionata dalla considerazione dell'unità funzionale strategico-economica esplicata ormai da tutta l'area, prescindendo dai criteri etnografici che poco più tardi suggeriranno invece a Strabone di distinguere gli insediamenti lagunari veneti da quelli attorno a Ravenna da una parte e ad Aquileia dall'altra (119). Vitruvio menziona queste terre frammiste alle acque con stupore e ammirazione per la loro "incredibile salubrità", che aveva consentito l'insediarsi fra esse di centri urbani-cospicui. Diversamente infatti che nell'area delle stagnanti e malsane paludi pontine - egli scrive - la razionalità delle realizzazioni insediative era quivi garantita dalla positura più elevata rispetto al litorale marino e dal fatto che una serie di canali artificiali (fossae), tagliando le dune costiere, consentiva il deflusso delle acque interne nel mare, i cui flutti durante tempeste e maree, entrando e uscendo liberamente fra i cordoni lagunari, mantenevano mosse e pulite le paludi costiere, con le loro acque salmastre impedendo il riprodursi di animali palustri (spesso nocivi).
Fra gli elementi da ritenere, in tale serie di considerazioni e di aspetti descrittivi, è innanzittutto il fatto che sembra uscirne confermata la positura di Altino - in condizioni analoghe a quelle di Aquileia e di Ravenna - sul margine della laguna (sia pure, certo, in parte differente da quella attuale per l'emergenza alterna di fondali, dossi e isolotti in parte abitati, attraverso i quali fossae e alvei più profondi garantivano una navigazione continuativa): e dunque a indiretta smentita di recenti ipotesi secondo le quali la terraferma centuriata e coltivata si sarebbe in quel tempo estesa senza interruzione su tutta l'attuale laguna di Venezia sino al mare, ossia per 13 km fra Altino e le acque aperte (120). In secondo luogo va notato il rilievo marinaro conferito in misura equanime, oltre che ad Altino, anche ad Aquileia e a Ravenna (con ruoli convergenti, come si è accennato sopra). L'attenzione per Ravenna - questa volta dal punto di vista edilizio - emerge in Vitruvio anche in altro luogo (121), là ove egli - esaltando le qualità dell'ontano, che cresce lungo le rive dei fiumi e il cui legno è particolarmente "idoneo alla costruzione di palafitte per sostenere edifici in luoghi paludosi, [...> assorbendo l'acqua di cui è scarso" e durando intatto per tempo indefinito nella terra umida, pur sotto il peso d'ingentissime costruzioni - invoca a riprova proprio gli edifici pubblici e privati di Ravenna, che sono sostenuti sotto le fondamenta da pali di ontano. Merita infine sottolineare, in Vitruvio, la valutazione realistica e, nel caso delle lagune veneto-padane, affatto positiva della situazione idrografica e altimetrica dei loro insediamenti, benché collocati fra terreni palustri. Al principio del II secolo d.C., di fatto, il celebre giurista Publio Giovenzio Celso (riferito da Ulpiano al tempo dei Severi) avrebbe ricordato con assoluta naturalezza il caso di un personaggio che aveva sfruttato la salubrità del clima ravennate attrezzando certe sue proprietà nel luogo per soggiorni curativi annuali (122).
Una generazione dopo Vitruvio, al tempo di Augusto, il geografo ed etnografo greco Strabone torna a discorrere con curiosità e interesse sulla peculiare fisionomia della Venezia litoranea (123). Egli annota come tutta la regione abitata dai Veneti sia particolarmente ricca di corsi d'acqua, e nella striscia costiera sia spazzata dal flusso e riflusso delle maree come le terre presso l'Oceano (si noti questo richiamo, ancora una volta, al mito geografico delle paludi ai margini del mondo), con la conseguente esistenza di una vasta palude (limnothálatta). Ma "grazie a una regolamentazione delle acque mediante canali e argini come nel Basso Egitto - egli commenta - una parte di quei luoghi venne prosciugata e resa fertile, mentre l'altra è aperta alla navigazione. Delle città, poi, alcune sono come isole, altre sono in parte toccate dall'acqua, e quelle che si trovano al di là delle paludi, sulla terraferma, hanno collegamenti fluviali degni di ammirazione, in particolare il Po". Senza dubbio Strabone si riferisce qui specificamente a centri collocati fra gli specchi lagunari sulla fascia interna dell'attuale golfo di Venezia: dal suo discorso si devono infatti escludere sia Ravenna - che come Rimini egli collega al territorio degli Umbri (124) - sia Aquileia, 1'"emporio per le tribù illiriche intorno al Danubio" che egli assegna al territorio dei Carni, "fuori dai confini dei Veneti" (125).
In Strabone emergono dunque vari elementi di notevole interesse: la cospicua entità delle opere di bonifica e di canalizzazione già realizzate in loco al tempo suo; l'importanza dei collegamenti fluviali con l'entroterra; e, soprattutto, la particolarità degli insediamenti lagunari tra le acque "come isole", rilevata dal geografo greco con una nitidezza di percezione ignota agli scrittori delle età precedenti. Poco oltre (126) Strabone si occupa più ampiamente delle città venete collocate "al di là delle paludi", tra cui Padova, che tramite il fiume Medúacus (Brenta) e il porto omonimo (oggi Malamocco) invia numerose merci a Roma; passa indi a parlare di Ravenna come della città più grande fra le paludi, "interamente costruita su palafitte, percorsa da corsi d'acqua e attraversata da ponti e da barche" (una sorta di Venezia ante litteram, insomma). La città - afferma Strabone - è lambita dal mare; e le maree, assieme con le acque correnti incanalate, ne assicurano la salubrità proprio come ad Alessandria d'Egitto, al punto che Ravenna è il luogo ove si allevano e si allenano i gladiatori; né al territorio appare estranea l'attività agricola, producendo vino in abbondanza. In posizione pressoché identica a quella ravennate appare anche Altino, "situata in una palude"; e parimenti Spina, un tempo celebre centro greco, ma ormai regredita a modesto villaggio; assai limitati sono detti invece gli acquitrini nei pressi di città quali Oderzo, Concordia, Adria, Vicenza e altri centri minori, tutti in collegamento col mare tramite percorsi fluviali. Anche in Strabone pertanto - da buon greco assai sensibile alla contrapposizione fra natura selvaggia/campagna ben coltivata e città - la rivalutazione della vita sia agreste sia insediativa tra le paludi "sane" del litorale altoadriatico viene formulata con realistica evidenza, riallacciandosi con insistenza al paragone con le aree del delta egiziano, ove le acque erano imbrigliate da canali, coltivati i campi, progredita la stessa vita urbana (Alessandria). Interessante è, appunto, l'accostamento fra Alessandria e Ravenna: città, quest'ultima, bizzarra per il carattere anfibio del suo impianto urbanistico e della sua economia, ma al tempo di Strabone senza dubbio già proiettata verso una crescente rilevanza strategico-politica (127).
In Italia, dunque, fu proprio il ruolo specifico assunto dagli insediamenti lagunari e costieri altoadriatici a mettere in moto nella prima età imperiale una crescente attenzione per essi anche a livello culturale, aprendosi a una maniera assai diversa da quella romana tradizionale anche nel concepire l'assetto urbano, la vita e la funzione di una grande città.
Nella prima età imperiale, come già al tempo della conquista romana, la frequentazione non solo militare, ma anche civile degli assi in verticale fra le province transalpine e Roma (e viceversa) aveva avuto largamente il sopravvento, subordinandosi a esigenze diplomatiche, commerciali e logistiche che dal centro irradiavano verso le province. Ma nel II secolo si vide Marco Aurelio, nel corso delle sue campagne illiriche contro i Marcomanni transdanubiani (nel 168 tracimati nel cuore della Venezia fino ad Aquileia, Oderzo, Verona), trasformare Aquileia in base operativa di retrovia per le sue imprese belliche; il praetorium imperiale stesso vi risiedette nel 168-169. Vari decenni più tardi l'Augusto "semibarbaro" Massimino il Trace - dopo che le milizie del Reno ebbero eliminato Severo Alessandro nel 235 - dal Danubio marciò verso l'Italia passando le Alpi indisturbato, mentre gli imperatori voluti dal senato, Pupieno e Balbino, organizzavano l'offensiva tra Roma e Ravenna; e tentò di espugnare Aquileia, vagheggiando a sua volta di farsene una base strategica (tanto che, nel breve spazio della sua permanenza nella Venezia prima che i soldati lo uccidessero sotto le mura di Aquileia, curò il riattamento di un tratto impaludato della Via Annia, tra Concordia e Aquileia medesima) (128). Gallieno, alcuni lustri più tardi, si trovò a fronteggiare le incursioni degli Alamanni penetrati fin nel cuore dell'Italia padana (vittoria presso Milano nel 260); e qualche anno dopo (270-271) Aureliano dovette nuovamente affrontare Alamanni e Iutungi - con alterne fortune - presso Piacenza, lungo la Via Flaminia e a Ticinum. Dunque l'asse dei collegamenti preferenziali in verticale fra il Norditalia, l'Italia peninsulare e Roma - che in quel tempo era ancora residenza ufficiale degli imperatori e centro politico dell'impero mediterraneo e dell'Italia - continuava sì a dominare, ma con funzione ormai prevalentemente bellico-difensiva contro minacce transalpine, quasi con un riflusso verso la situazione che aveva caratterizzato il II secolo a.C. (129). Il moltiplicarsi dei ripostigli monetali rinvenuti nelle aree norditaliche, databili fra il regno di Gallieno e quello di Aureliano o di Probo, come quasi sempre nel caso di seppellimenti di preziosi e di gruzzoli - intenzionali ma non più recuperati - sottolinea a sua volta la presenza di fattori di minaccia incombenti, quali appunto l'annunciato transito di eserciti accompagnato da ruberie e da prevaricazioni, operazioni militari, invasioni o altri eventi calamitosi; ed evidenzia quindi un'alterazione dello stesso tessuto sociale ed insediativo (130).
Il baricentro della rinnovata funzione difensiva dell'Italia si spostava naturalmente verso la Valle Padana. È proprio uno storico dell'età di Filippo l'Arabo, il siriaco Erodiano, che nel presentare il contrasto fra Commodo (dopo la morte del padre Marco intenzionato a ritornare a Roma) e Claudio Pompeiano (fautore invece della necessità di proseguire nel consolidamento della difesa limitanea al nord già intrapresa da Marco Aurelio) formula un principio sinallora inusitato: ossia che Roma "si trova là dove si trova l'imperatore". Al di là del riconosciuto, immutato significato ideale dell'Urbe sul piano della politica e delle istituzioni, s'intravvede già qui, pertanto, l'inizio di una svalutazione di Roma dal punto di vista geopolitico, della sua funzionalità concreta, parallelo all'affermazione della non-essenzialità della presenza imperiale in essa. E viene teorizzato implicitamente il principio che sono la maestà e i carismi del principe a conferire a una grande e già prestigiosa città la maiestas di sedes imperii, di capitale a immagine di Roma: un concetto che avrebbe poi trovato formulazione esplicita a fine III secolo nei due Panegirici del retore gallico Mamertino a Massimiano Erculio (289 e 291 d.C.), con riferimento a Tréviri nel primo e a Milano nel secondo (131).
Il coinvolgimento diretto dell'Italia del nord in vicende militari nel corso del III secolo ebbe conseguenze di diverso segno, a vario livello. Per la prima volta con Gallieno e poi con Claudio il Gotico e con Aureliano, accanto alle officine monetali di Roma - che sinallora avevano alimentato con circolante bronzeo e aureo tutta l'Italia - incominciò a funzionare attivamente un atelier decentrato a Milano, a seguito della presenza quivi dell'imperatore, dei suoi eserciti e dei suoi funzionari (come indicano le marche di zecca sulle monete coeve, diffuse nell'area norditalica e transalpina fino al limes), per assicurare l'erogazione degli stipendi militari, la sovvenzione delle opere di difesa, gli acquisti di vettovaglie, ecc. Un filo rosso unisce il polarizzarsi delle vicende politico-militari nella Valle Padana - certo traumatico, ma con esiti globali non del tutto negativi - con un movimento di merci e di manufatti rinsanguato dall'allargamento del circuito monetario (132).
A partire dal IV secolo e dal riassetto tetrarchico andò crescendo d'importanza, fino a imporsi quale ossatura economico-strategica prevalente, l'asse longitudinale delle comunicazioni fra il Tirreno e l'Adriatico, fra le Gallie e le regioni illirico-danubiane fino al Bosforo e a Costantinopoli, centrandosi su Vercelli, Milano, Lodi e sul tratto più orientale della Postumia fino ad Aquileia. Tale città divenne allora il riferimento costante d'importanti operazioni politiche, militari e commerciali trasversali alla Valle Padana: non è pertanto un caso che appartenga al IV secolo, da Costantino in avanti, la stragrande maggioranza dei miliari rinvenuti lungo questi percorsi stradali dal Piemonte alle Venezie, collegati a opere di riattamento e a rinnovate cure. A partire da Massimiano, Milano fu una delle residenze imperiali più frequentate d'Occidente, decollando per conseguenza nelle sue strutture logistiche, urbanistiche e culturali con quello splendore di "capitale", che il poeta gallico Decimio Magno Ausonio avrebbe celebrato alcuni decenni più tardi come emulo di quello di Roma stessa. E la vicina cittadina di Ticinium (Pavia) assunse allora funzioni di appendice militare della nuova grande capitale "civile" mediolanense (133). Tutta l'Italia a nord dell'Arno e dell'Esíno - sette circoscrizioni italiche, divenute ora province - si riconnotò in questo tempo come un blocco amministrativo unitario, designato "Vicariato Annonario" in quanto deputato al mantenimento (annona) della corte e delle milizie armate e civili al suo séguito: un tessuto di retrovia con carattere in sostanza "limitaneo" dato il permanere prolungato - se non addirittura stabile - di truppe dislocate in prossimità sia della residenza imperiale (Milano e Ticinum) sia dei nodi viari strategici e dei valichi alpini d'accesso alla pianura (Vercelli, Laus Pompeia/Lodi, Concordia). Di tale preminenza logistico-economica (e quindi politica) è un riflesso lo slittamento semantico che, nel IV secolo, fece di Italia un sinonimo di uso frequentissimo per "Cisalpina" (o Vicariato Annonario), la sola parte della penisola che ormai contasse concretamente e dunque "Italia" per eccellenza.
Nella ristrutturazione funzionale cui il neologismo onomastico era speculare, Milano e Aquileia furono i due poli della nuova società "italica" attiva ed effervescente, via via più aperta ai contatti mediterranei e alla sprovincializzazione (134); mentre Roma appariva una capitale ormai depotenziata, solo saltuariamente visitata dagli imperatori con la distaccata curiosità di turisti-antiquari (135). L'Italia nordoccidentale continuò in questo tempo ad assolvere al ruolo che sempre le era stato precipuo in quanto area di transito verso le Gallie per i valichi delle Alpi Marittime, Cozie, Graie e Pennine. Sembra deporre nel senso indicato pure l'assenza di ateliers monetali a ovest del Ticino, fra quelli che vennero istituiti nel Norditalia a partire dall'avanzato III secolo (136). Da parte sua la Notitia Dignitatum - sorta di "annuario" degli organici burocratico-militari postdioclezianei, aggiornato fino al 420/430 d.C. circa - per l'Italia nordoccidentale non menziona neppure una fabbrica statale fra le molte di armi, vesti e tessuti enumerate per l'Italia padana in connessione non soltanto con il sistema idro-viario, ma anche con la presenza di contingenti militari semi-stanziali. Eppure anche per l'Italia nordoccidentale, nel IV secolo, si dispone di non poche testimonianze epigrafiche tarde e di alcuni riferimenti letterari in autori cristiani circa la presenza di acquartieramenti più o meno transitori (ma non è facile stabilire in qual misura) di corpi di cavalleria armena, di truppe comitatensi di origine illirica, gotica, dalmata, orientale: in particolare a Vercelli, sull'itinerario verso il Piccolo e il Gran San Bernardo (città in passato "potente" a detta di Girolamo, e ancora nel IV secolo sede di conventus - ossia luogo ove il governatore provinciale si recava di tempo in tempo ad amministrare la giustizia -, nonché unica diocesi ecclesiastica dell'Italia nordoccidentale fino alla creazione di quella taurinense fra il 371 e il 397); e secondariamente anche ad Augusta Taurinorum (Torino) sulla strada diretta al Monginevro (137). Truppe barbare di foederati - cioè "alleati" legati da foedus, trattato -, e nella fattispecie corpi di Sarmatae Gentiles stabiliti con le proprie famiglie su terre pubbliche (gruppi etnici di coloni militari controllati da appositi prefetti o "prepositi" e collocati lungo le strade di grande transito onde facilitare lo spostamento dei loro nuclei militari), furono senza dubbio stanziate anche nell'attuale Piemonte, come provano tracce toponomastiche, memorie archeologico-epigrafiche, riferimenti della Notitia Dignitatum (138).
Appare tuttavia evidente come la gravitazione primaria di tutta la Valle Padana si collocasse più a est, tra Milano - residenza imperiale, ma anche sede del governatore della provincia Liguria (più o meno corrispondente al Piemonte, Liguria e Lombardia attuali) - e Aquileia. Sarebbe sufficiente richiamarsi alla foltissima presenza a Concordia (fatta dépendance militare della "civile", splendida Aquileia, analogamente a Ticinum in rapporto a Milano nella medesima epoca) di reparti militari - 21/22 circa -, per lo più inquadrati negli auxilia palatina e nelle vexillationes palatinae e comitatenses, la cui menzione compare nelle iscrizioni del sepolcreto lungo la Via Annia tra IV e V secolo. Altre iscrizioni coeve, provenienti dalla medesima necropoli, ricordano membri del personale militarizzato della locale fabbrica d'armi (sagittaria). Come l'onomastica e la lingua di molte epigrafi suggeriscono, si trattò spesso di personaggi di origine barbarica (germanica), oppure provenienti da villaggi siriaci attorno ad Apamea e ad Antiochia, talora battezzati di recente (forse in extremis), parlanti greco; e il numero abbastanza elevato dei militari sepolti, nonché in qualche caso la loro età avanzata, la presenza di loro familiari, l'acquisto preventivo del sepolcro, sembrano escludere che si trattasse di un concentramento militare soltanto episodico (139). È inoltre soprattutto nelle Venezie che si addensano le tracce documentarie, toponomastiche e archeologiche di "prepositure" ("prefetture") di Svevi e di Sarmati Gentili: attorno a Cremona, forse Verona, Vicenza e Oderzo lungo il tracciato della Postumia; nei pressi di Padova sulle strade per Vicenza e per Altino; nel territorio di Treviso (140). Ed è sempre fra il Ticino e i territori istriani, lungo il reticolo di smistamento viario e fluviale, che sembrano concentrarsi le fabbriche imperiali al servizio delle milizie armate e civili: di archi a Ticinum (Pavia), di scudi a Cremona, di lóriche a Mantova, di scudi e altri armamenti a Verona, di frecce a Concordia, di tessuti di lana (gynaécia) a Milano e ad Aquileia, di tintura con la porpora (baphia) a Cissa (Rovigno) in Istria; mentre a Ravenna si trovava l'unico centro italico per la lavorazione del lino (linýphia), probabilmente importato quivi per mare dall'Oriente mediterraneo, che ne era produttore su larga scala (141).
Ravenna e Aquileia, accanto a Milano, acquistarono nel IV secolo un nuovo spicco in quanto gangli di presenze burocratico-amministrative imperiali ad alto livello. Per l'Italia, infatti, risultano segnalati comites thesaurorum soltanto a Ravenna, ad Aquileia e a Milano, oltre che a Roma; costoro erano preposti alla gestione dei depositi provinciali (thesauri) di metalli preziosi o di altri beni (vesti), affluiti tramite i canali fiscali e destinati a venire erogati localmente per vari scopi (ad esempio per le coniazioni delle zecche, là dove queste esistevano), oppure a essere trasmessi al comes sacrarum largitionum presso il comitatus imperiale (142). Sempre a Ravenna risiedettero sia il governatore provinciale, nel periodo in cui la città fu metropoli di provincia (dal 346/354 in avanti), sia il prefetto dei milites Italici Iuniores, sia il prefetto della flotta adriatica (143). E quest'ultimo - secondo una prassi del tutto anomala, ma applicata anche al prefetto della flotta lacustre in Como - esercitò pure la cura della città di residenza, ossia la supervisione del bilancio cittadino in mano ai magistrati locali: tutto ciò si spiega in ragione del ruolo assolutamente di spicco che entrambe le località allora si trovarono a svolgere nei collegamenti del cursus publicus e nelle attività di trasporto sia militari sia commerciali (144). Aquileia, nel IV secolo, fu a sua volta sede del governatore della Venetia et Histria. Questi fu di rango senatorio al tempo di Massimiano e di Costantino e poi dopo Giuliano - 363-373 circa -, certo in riconoscimento del rilievo acquisito dalla provincia, la cui estensione nell'età tetrarchica era stata ampliata verso ovest fino all'Adda; l'articolarsi della designazione della provincia stessa in Venetia et Histria sembra d'altro canto denotare una spiccata differenziazione interna etnico-areale (145). Aquileia fu inoltre la residenza del prefetto della flotta dei Veneti (creatasi forse da un distaccamento di quella ravennate); di un comes thesaurorum e del procuratore del gynaécium locale (come s'è veduto); del comes Italiae, il generale che sovrintendeva alla difesa delle fortificazioni sulle Alpi orientali (tractus Italiae circa Alpes) (146). Per buona parte del IV secolo, tuttavia, questi quadri e questi vertici furono in larga misura di reclutamento extraregionale (urbano - specie tra i senatori/clarissimi -, provinciale, barbarico). E soltanto progressivamente, come l'epigrafia e i riferimenti letterari più o meno saltuari testimoniano, la "mobilitazione" arrivò a coinvolgere, a livello di gerarchia politica non meno che ecclesiastica, anche i ceti emergenti locali, sinallora quasi esclusivamente legati ai loro possessi terrieri con proterva provincialità. Sono andamenti che, nelle Venezie, si colgono con particolare chiarezza nelle loro linee evolutive attraverso la prosopografia dei gruppi dirigenti vuoi laici vuoi ecclesiastici (147). Lo strutturarsi della gerarchia nelle Chiese norditaliche obbedì infatti, nel suo potenziarsi, a logiche precipuamente politiche. E quando, nel corso del IV secolo, Milano e Aquileia diventarono i baricentri, nel Vicariato Annonario, di una vita politica, economica, religiosa e culturale attivata dalla presenza frequente della corte d'Occidente e dell'entourage militare e burocratico che l'accompagnava, la crescita metropolitica delle due sedi episcopali sfociò, a livello ecclesiastico, nella consuetudine dei rispettivi arcivescovi a ordinarsi reciprocamente. Il primo impedimento sarebbe venuto soltanto sotto il pontificato di Pelagio I (556-560 d.C.), il quale chiese al patrizio Valeriano di Ravenna, in due lettere, d'intervenire contro tale prassi non canonica, esigendo l'approvazione dell'autorità imperiale bizantina: tanto già allora si sarebbe fatto sentire il peso della futura capitale esarcale, che al tempo dall'arcivescovo di Ravenna Massimiano, dopo la riconquista giustinianea, era assurta a centro ecclesiastico nodale (148).
Appaiono significativi anche certi parallelismi fra Milano e Aquileia nelle rispettive liturgie, certe opzioni cultuali di tipo greco-orientale testimoniate nell'una e nell'altra metropoli: così il canto antifonato introdotto nella liturgia milanese nel 386 da Ambrogio, mutuato a usi orientali di matrice ebraica; la cadenza della Pasqua secondo il computo giudaico-alessandrino (diversamente che a Roma) (149); una formula del Credo aquileiese tramandata da Rufino, che sembra inquadrarsi in una mentalità ebraizzante; l'analogia nella pianta ovoidale del battistero teodoriano di Aquileia con esempi orientali coevi, o quella fra le varie basiliche cruciformi per la prima volta promosse in Occidente da Ambrogio di Milano e quella di edifici cultuali già noti nell'Oriente greco; o, ancora, l'affinità tra le misure, le proporzioni e le iscrizioni pavimentali musive nella presunta sinagoga di Aquileia (in località Monastero) e la concezione spaziale, strutturale e decorativa di sinagoghe del IV secolo in Galilea e in Asia Minore. La diffusione di certi culti, come quello di s. Sofia in area veneta e centro-padana, pare a sua volta da porre in relazione con dirette influenze costantinopolitane sin dai primi decenni del IV secolo; mentre reliquie di s. Giovanni Battista, giunte in terra veneta da Sebaste (Samaría)-Alessandria dopo il 362, da Aquileia e Concordia si sarebbero rapidamente diffuse a Milano, a Brescia, a Torino, ecc. (150). Insomma, le influenze orientali viaggiavano verso ovest promanando soprattutto da Aquileia, grande collettore delle presenze più eterogenee provenienti dall'est. Ma sia ad Aquileia sia, per suo tramite, in tutta l'Italia padana, le testimonianze a nostra disposizione (in prevalenza epigrafiche) sembrano delineare un quadro sociologico in cui gli elementi siro-palestinesi - più o meno acculturati e dunque di arrivo più o meno recente - tra IV e V secolo vanno acquistando un forte sopravvento rispetto a personaggi di altra provenienza (151).
Ciò che più conta, la sociologia del clero norditalico appare speculare, nella qualità del reclutamento e nella sua evoluzione, a quella della burocrazia incardinata nell'amministrazione provinciale e regionale: solo infatti nella seconda metà del secolo a vescovi di origine romana, africana, microasiatica, siro-palestinese subentrano presuli usciti dai ceti emergenti locali. Anche al di là del consolidarsi delle comunità dei fedeli attraverso un'organizzazione ecclesiastica istituzionalizzata, sono eloquenti nel senso indicato i modi stessi della cristianizzazione, ossia della presenza in crescita di elementi cristiani nella società (un fenomeno senza dubbio collegato al primo e sua premessa ineludibile, ma distinto per la qualità, gli intenti e i ritmi di uno sviluppo spontaneo che sfugge alla pianificazione). Pure qui si osservano, nelle Venezie, parallelismi quanto mai evidenti con tendenze che oggi si vanno rilevando anche nella coeva cultura artistica (architettonica, decorativa) (152). Il filo conduttore comune, nella storia regionale, appare infatti costituito dalla costante funzione mediatrice dell'area veneto-padana fra Oriente e Occidente, Africa e mondo greco-orientale (illirico, asiatico, siriaco, egiziano), per tramite evidente, nel IV secolo, soprattutto di Aquileia e - ancora secondariamente - di Ravenna.
Esse erano i terminali delle rotte adriatiche che collegavano con i porti dell'Oriente greco (talora passando attraverso il filtro, a quanto pare sempre attivo, di Roma) e al tempo stesso lo sbocco, nel caso di Aquileia, delle grandi strade terrestri provenienti dal Nórico, dalla Pannonia, dalla Dalmazia, quindi anche dalla "nuova Roma", Costantinopoli. Altino, ormai marginalizzata rispetto alle direttrici degli scambi che più contavano, era invece in stato di avanzata recessione.
Alcune caratteristiche della circolazione monetaria padana - veneta in particolare - sembrano a loro volta inserirsi con coerenza nel quadro di cui siamo andati finora tracciando gli aspetti politici, amministrativi, militari, religiosi e artistico-culturali più salienti. Siamo in un periodo in cui la circolazione della moneta bronzea - illustrata da numerosi ripostigli e da reperti sparsi - si alimenta in tutta l'area norditalica grazie alle emissioni di Aquileia e di Ticinum (Pavia). Ad Aquileia una zecca incominciò a coniare bronzo, oro e argento nel 294, quando Milano divenne residenza dell'Augusto occidentale e si privilegiarono di conseguenza i contatti per terra e per mare con le sedi imperiali d'Oriente, passando appunto per Aquileia; e questa attività si sarebbe conclusa nel 425 dopo l'ultima sosta imperiale, quella dell'Augusta Galla Placidia e di Teodosio II. A Ticinum la zecca funzionò dal tempo di Aureliano (che l'attivò quando decise la chiusura di quella milanese prima di partire per l'Oriente) fino al regno di Costantino (326 circa), a sua volta emettendo pezzi nei tre metalli. In collegamento con la corte coniò moneta aurea anche la zecca di Milano a partire dal 352, in correlazione con il prolungato soggiorno in città di Costanzo II; esemplari argentei vi si sarebbero invece battuti solo a partire dal 387. Cospicuo appare tuttavia localmente anche il risucchio di emissioni bronzee provenienti dall'atelier pannonico di Siscia e da altre officine monetali illiriche, come pure dalle Gallie e da Roma, con indizi di tempi di diffusione assai celeri. L'abbondanza e la capillarità della circolazione di tale numerario éneo sia in città sia in campagna vanno senza dubbio intese quale segno di un'economia di mercato ancora ben vitale, in larga misura sempre fondata su di un uso abbondante di moneta minore. La parallela sporadicità invece, in tutte le Venezie, dei rinvenimenti monetali aurei e argentei sembra denotare un'accentuata riluttanza per forme di tesaurizzazione volte a congelare stipendi e profitti in sterili nascondigli. Un notevole volume di monete d'oro e in minor misura d'argento (di vario valore) era sì messo in circolazione dalle zecche sia italiche sia transalpine; ma sembra che in parte si convogliasse verso ripostigli più o meno fitti in altre regioni d'Italia (ove, per converso, il circolante bronzeo risulta carente ed eterogeneo). D'altro canto, esso alimentava con regolarità le casse imperiali dalle quali erano erogati gli stipendi per i militari e per i funzionari presenti localmente; e in gran parte vi rifluiva a ciclo breve attraverso il rastrellamento delle riscossioni fiscali, dei tributi, delle multe, dei canoni d'affitto su terre imperiali o pubbliche, e così via. Ma si ha altresì l'impressione che nelle Venezie, in molti casi, si preferisse cambiare le monete d'oro e d'argento in pezzi di bronzo, ancora favoriti come mezzo reale di scambio nelle comuni transazioni. Non v'è dubbio infatti che proprio in questa zona militarmente "movimentata" si avvertisse ben più che in altre regioni la necessità di disporre con larghezza di tale specie monetata, in rapporto con l'alto numero delle operazioni quotidiane a base monetaria (153).
La duplice preminenza di Milano e di Aquileia nel IV secolo si misura anche attraverso la comparazione fra le località italiche da cui molte costituzioni del Codice Teodosiano vennero emanate (frutto dell'attività legiferante imperiale ivi presente e degli uffici al séguito che ne redigevano i testi), o fra le città in cui si celebrarono eventi dinastici importanti, come le nozze, nel 307, di Costantino con Fausta figlia di Massimiano Erculio nel palatium di Aquileia (ove l'anonimo autore del Panegirico VI a Massimiano e Costantino profferì allora il suo discorso), o come gli sponsali di Giuliano con Elena sorella di Costanzo II a Milano nel 355 (mentre il Cesare stava per muovere contro i Germani debordanti in Alsazia) (154). Significativa in tal senso appare anche la considerazione di quali furono allora in Italia i centri prescelti per sinodi e concili (Milano nel 355, 390, 392-393; Aquileia nel 381), e quali furono le sedi vescovili ritenute politicamente preminenti in Occidente accanto a quella romana anche da un punto di vista "orientale" (Giovanni Crisostomo, quando nel 404 cercò - e ottenne - appoggi nel mondo latino da contrapporre a Teofilo di Alessandria e alla corte costantinopolitana da costui influenzata, si rivolse ai vescovi di Roma, di Milano e di Aquileia) (155).
Ma è lo stesso quadro delle vicende politiche a evidenziare come il "grande gioco" fra l'Oriente e l'Occidente nel IV secolo trascorresse ormai da Tréviri a Costantinopoli passando per Milano e per Aquileia. Le Venezie, non meno della Liguria padana, decisamente avevano cessato di essere soltanto fiorenti microcosmi regionali. Ad esempio, tutte le contese cesaree dal tempo di Costantino a quello di Teodosio - alimentate da spinte conflittuali antitetiche fra le Gallie da una parte e l'Oriente greco dall'altra - ebbero sviluppi decisivi proprio nell'Italia del nord e nelle Venezie specialmente, lungo gli itinerari pedemontani che collegavano Milano e Aquileia, le uniche civitates splendidae del Vicariato Annonario menzionate anche dalla Expositio totius mundi a metà IV secolo (156). Nel 307 il Cesare Flavio Valerio Severo mosse da Milano contro Massenzio, asserragliandosi poi nella ben munita e approvvigionata Ravenna a causa dell'incerta fedeltà delle sue truppe maure. Nello stesso anno vi fu la rapida sortita di Galerio contro Massenzio dalle aree danubiane verso Roma, attraverso l'Italia nordorientale e la Via Flaminia (157). Nel 312 Costantino marciò a sua volta contro Massenzio - le cui forze erano allora dislocate nelle Venezie - provenendo dalle Gallie per Torino, diretto a Verona (158). Nel 340 fu il turno di Costantino II, in lotta con Costante che si trovava in Illirico: egli pure dalle Gallie puntò verso Aquileia e perì in un'imboscata non lontano dalla città, presso il fiume Alsa (oggi Ausa) (159). Nel 350 l'usurpatore gallico Magnenzio mosse contro gli eserciti di Costanzo II, che avrebbe sconfitto presso Pavia prima degli insuccessi pannonici, del suo rientro in Gallia passando per Aquileia e Ticinum (351 d.C.), della sua morte a Lione nel 353. Sempre ad Aquileia, circa dieci anni dopo, si rinchiusero due legioni di Costanzo II (che poi si sottomisero a Giuliano) nel corso della loro spedizione dall'Illirico verso le Gallie (361-362) (160). Nel 367 l'usurpatore Magno Massimo scese nella Valle Padana con le sue truppe galliche, soggiornandovi finché Teodosio nel 388, provenendo dai Balcáni, lo sconfisse "sullo stesso bastione alpino" (com'ebbe a dire Ambrogio di Milano, contemporaneo agli avvenimenti), in séguito facendolo giustiziare ad Aquileia, che aveva preso d'impeto il 28 agosto di quello stesso anno (161). Anche quando fu la volta dell'usurpatore Eugenio, pochi anni più tardi (394 d.C.), si vide il generale franco Arbogaste muovere dalle Gallie incontro agli eserciti di Teodosio fino alle consuete "porte orientali" dell'Italia verso la disfatta al fiume Frigido (oggi Wippach, affluente carsico dell'Isonzo) sul prolungamento della Postumia da Aquileia verso la Pannonia (162).
Dopo circa un lustro, i Visigoti di Alarico, che già avevano militato come "federati" di Teodosio nello scontro al Frigido, insoddisfatti dei compensi ricevuti dall'imperatore d'Oriente, piombarono sull'Italia dai Balcáni attraverso le Alpi Giulie saccheggiando le Venezie, la Valle del Po e la Toscana (401 d.C.). E soltanto nel 402 il generale vandalo Stilicone, accorso dalla Rezia, riuscì a liberare Milano dall'assedio e a battere i Visigoti sull'Adda, poi a Pollenzo e infine a Verona (163).
Tutti questi avvenimenti non sono stati qui messi assieme a caso, ma rappresentano la semeiotica di un importante assestamento negli equilibri norditalici e nelle funzionalità interagenti dei centri regionali.
Ravenna (V secolo)
La preminenza di Aquileia, finché durò - ossia finché durò l'assetto politico dell'Italia tardoimperiale che si era andato configurando - rappresentò anche il trionfo di un'idea di città nel senso romano più tradizionale, dotata di tutti quei requisiti morfologici e strutturali che agli occhi di un Romano apparivano essenziali per rendere una città degna di tal nome, e in sovrappiù splendida e meritevole di ospitare i príncipi con i carísmi del potere di cui essi erano portatori. Aquileia era dotata, insomma, di tutti gli elementi che, in quanto trascrizione monumentale di certi valori politici e ideologici riconosciuti, ritroviamo come canonici nei vari panegirici di città secondo gli schemi retorici già teorizzati dal romano Quintiliano nel I secolo d.C. e dal greco Menandro di Laodicéa alla fine del III: impianto urbanistico regolare; piazze, strade lastricate, portici, acquedotto, terme, basiliche, circo, anfiteatro, palatium, mura fortificate, fontane e domus monumentali; positura al convergere di vie terrestri e di percorsi navigabili; vicinanza al mare (non però collocazione sul mare) e collegamento efficiente con un sistema di scali marittimi mediante un porto fluviale - sul Natisone (oggi Natissa) -, attrezzato di banchine, attracchi, magazzini; stanziamenti militari protettivi vicini e tuttavia segregati dalla città "civile" (in Concordia, a qualche decina di chilometri sulla Via Annia) (164).
Vari indizi qui già sparsamente segnalati sottolineano invece come a Ravenna, in età imperiale pur considerata centro portuale d'importanza strategico-logistica preminente e in lievitazione progressiva, sino al IV secolo venisse assegnato un ruolo qualitativamente secondario rispetto ad Aquileia proprio in quanto città anticonvenzionale, sede anfibia di milizie terrestri e soprattutto classiarie, quindi residenza opportuna per capi barbari in esilio, territorio ideale per stanziamenti di coltivatori barbari sulle sue difficili campagne tra canali e paludi (un destino per certi aspetti analogo a quello di Vercelli nell'Italia nordoccidentale nel IV secolo, divenuta centro di transito e di acquartieramenti militari e quindi - contestualmente - anche sede di confino per personaggi scomodi) (165).
La menzione di Ravenna emerge ripetutamente nei documenti tardivi di uso pratico o amministrativo: nelle fonti itinerarie del III/IV secolo, come si è veduto (Itinerarium Antonini e Tabula Peutingeriana, testi interessati entrambi al percorso misto terra-acqua, in cui la navigazione per fossae e lagune cominciava a Ravenna e finiva ad Altino) (166); e così pure nell'Edictum de pretiis rerum venalium di Diocleziano - tariffario generale dei prezzi e retribuzioni massime consentite -, che sembra a sua volta riferirsi a un percorso lagunare-terrestre. In esso infatti, nell'elenco delle quote di trasporto per acqua di merci onerose - derrate frumentarie nella fattispecie -, il prezzo fra Ravenna e Aquileia appare molto elevato rispetto ad altri noli marittimi su percorsi incomparabilmente più lunghi e rischiosi: il che fa supporre che su di esso incidessero i costi vuoi della navigazione in certi tratti per alaggio (controcorrente) vuoi, soprattutto, della necessità di caricare e scaricare le merci dai carriaggi alle imbarcazioni, i trasporti di terra essendo di oltre venti volte più cari rispetto a quelli per acqua. Da Ravenna ad Altino il prezzo standard per modio castrense di frumento risulta di fatto accresciuto del 15% circa dalle spese di trasporto; del 16% quello da Alessandria a Roma, pur trattandosi di un viaggio assai lungo, specie all'andata, durando 70 giorni a causa del regime dei venti dominanti che costringeva a una deviazione per Cipro, la Siria settentrionale, le coste meridionali dell'Asia Minore e Creta; del 22% dai porti della diocesi d'Oriente ad Aquileia, e del 24% dagli stessi alle Gallie; del 24% da Alessandria ad Aquileia (167). L'intensa frequentazione dell'itinerario fra Ravenna e Adria lungo la Fossa Augusta e la strada che la fiancheggiava (probabilmente la Via Popillia), nonché l'immediatezza dei contraccolpi degli eventi bellici padani su quest'area sembrano del resto comprovate, nel IV secolo, anche da reperti monetali come il tesoretto di Salto del Lupo, lungo la direttrice in questione: un gruzzolo all'origine di 1.172 monetine énee d'uso quotidiano scalate fra il 324 e il 393 - e dunque probabilmente interrate, con la cassetta che le custodiva, al tempo dell'usurpazione di Eugenio -, provenienti da molteplici zecche negli esemplari più antichi, uniformemente invece soltanto da Roma e da Aquileia dopo il 375 (168).
Tuttavia cercheremmo invano il nome di Ravenna in altri tipi di fonti più "letterarie", come per esempio negli elogi retorici delle città italiche del IV secolo (la Exposito totius mundi a metà IV secolo; l'Ordo nobilium urbium di Ausonio nel 388). Soltanto nei Carmi di Claudiano - musa della corte milanese e poi ravennate di Onorio al tempo di Stilicone - emerge una considerazione positiva delle "paludi salubri" attorno ad Altino e a Ravenna in termini pressoché vitruviani (169). Ma, a differenza di Vitruvio e analogamente invece alle fonti itinerarie e documentali tardive, l'attenzione di Claudiano appare concentrata sull'area più bassa, corrispondente a quella della navigazione lagunare fra Ravenna e Altino, trascurando completamente Aquileia e la zona marittima friulana. In effetti, ritroviamo la medesima ottica anche in Servio pochi anni più tardi: nel commentare le Georgiche virgiliane il grammatico, partendo dal termine lintres, sottolinea come tali imbarcazioni fluviali dovessero riuscire assai familiari al poeta mantovano, in quanto frequentissime su tutti i fiumi delle Venezie e impiegate per molteplici usi: non soltanto per i commercia, ma anche per la caccia, l'uccellagione, l'agricoltura, la viticultura, come a Ravenna e ad Altino. L'annotazione di Servio - quasi parentetica - sembra riferirsi a realtà da tutti ritenute scontate quanto meno al tempo suo, sebbene fatte oggetto di scarsa attenzione a livello letterario e culto (170).
Proprio l'età stiliconiana segna però un momento decisivo di passaggio nell'uso e nella considerazione degli insediamenti lagunari e palustri lungo l'arco adriatico.
Spinta evenemenziale in tale mutamento furono le vicende legate alle scorribande in Italia dei Visigoti di Alarico (401-403 e 408-410), nonché degli Ostrogoti, Svevi, Vandali e Burgundi guidati da Radagáiso nel 405 (che a differenza dei contingenti alariciani - truppe barbare "federate" ribelli, ma già collocate nei Balcáni al servizio di Roma - furono orde migranti di barbari non romanizzati, ancor pagani, provenienti in gran numero da contrade esterne all'impero, oltre il Danubio). Allora per la prima volta gli abitanti dell'Italia compresero con chiarezza che i valichi alpini orientali, quelle fauces Alpium che dal tempo di Livio in avanti (ma con precorrimenti già in Catone centocinquant'anni prima) erano state riguardate come le "mura di Roma" e che nell'avanzato II secolo d.C. anche formalmente erano state organizzate in fascia militarizzata (171), non costituivano più una barriera insormontabile. Proprio da quel tempo la difesa della penisola - non più quella delle Gallie o della province renane - fu al centro delle preoccupazioni militari di Stilicone (172). Ma mentre per tutto il IV secolo la sensibilità e la fiducia dell'opinione pubblica - nonostante qualche incrinatura dopo il disastro di Adrianopoli del 378, che aveva visto i Goti scorrazzare nei Balcáni fino alle soglie della Carnia (173) - ancora avevano puntato sulla cura limitum, cioè sulla difesa dei confini, il tempo di Alarico vide invece rigermogliare quel sentimento dell'Italia "appenninica" che era nato tanti secoli prima, durante le spinte dirompenti dei Galli e poi di Annibale verso le contrade etrusche e laziali (174). Claudiano, per esempio, considerò la penisola protetta dalla dorsale appenninica oltreché dall'arco alpino; e pochi decenni più tardi (417-418) Rutilio Namaziano, nel suo elogio ormai topico alla grandezza e all'eternità di Roma e dell'Italia, vide nello sbarramento dell'Appennino (claustra montana) le "sentinelle" (excubiae) della romanità, volute da una natura provvida che aveva ritenuto insufficienti le Alpi contro la minaccia degli "uomini del nord" (175). Si andava nel contempo riproponendo con frequenza crescente, a esaltazione di príncipi o di generali vittoriosi sui barbari irrompenti, un'immagine attinta a un repertorio topico antichissimo, che vedeva nell'eroe sgominatore dei nemici l'unico vero "bastione" a protezione dello stato: non fuggevole moda letteraria di gusto antiquario, dunque, ma espressione di significato storico e psicologico profondo, se si tiene conto del preciso momento in cui si colloca (176).
Fu precipuamente sotto l'incentivo di questo incalzante senso di minaccia che Onorio, nel 402, decise di trasferire la corte di Milano a Ravenna, proprio in quanto roccaforte ben difesa dalle paludi che la circondavano e il cui porto garantiva non soltanto approvvigionamenti sicuri e ininterrotti dal mare, ma anche la possibilità di eventuali fughe verso la Pars Orientis dell'impero (Costantinopoli).
Ancora per tutto il IV secolo la presenza imperiale a Ravenna era stata sporadica e fuggevole, come emerge dalle sottoscrizioni alle costituzioni del Codice Teodosiano, quantitativamente inferiori, per Ravenna, a quelle riferibili a Verona, ad Altino, a Padova e forse anche a Brescia e a Concordia: nel 357, nel 378, nel 399, nel 400 o 401 (177). Ma il 402 aveva finito col ribaltare valori e pregiudizi: la città militare, la città palustre, la città "barbara" diventava la città sicura e quindi la città del principe. Ben presto, pertanto, Ravenna assunse definitivamente il ruolo e la dignità di nuova sede della corte, con l'istituzione nel 403 di una zecca (che sotto Onorio coniò soltanto oro e poco argento, ma con Maioriano - 457-461 d.C. - anche moneta divisionale di bronzo). Una contrazione dell'attività monetaria si fece sentire, per contraccolpo, sia a Milano - la cui zecca continuò a funzionare, ma a intermittenze, fino al 498 -, sia ad Aquileia, le cui officine ripresero la coniazione dopo una sosta di circa sei anni (fra il 402 e il 408), ma per chiudere poi definitivamente nel 425 (178).
L'avvicendarsi della pertinenza amministrativa di Ravenna a province e a Vicariati diversi, durante il IV e V secolo, rispecchia la sua fluttuante funzionalità economico-strategica in questo periodo, importante sia come riferimento "forte" per tutto il Norditalia nel suo lembo più riparato di sud-est, sia come base e quasi "vedetta" di Roma a nord-est dell'Italia peninsulare. Vediamo infatti come la città, dopo avere appartenuto alla provincia dell'Aemilia et Liguria e quindi al Vicariato Annonario dall'età tetrarchica fino al 354 (o 346, secondo altri studiosi) (179), divenne metropoli provinciale della Flaminia et Picenum, facente invece parte del Vicariato Urbicario e gravitante su Roma, fino al 395/398. Siamo nel periodo della polarizzazione sull'asse politico-economico Milano-Aquileia. Dopo il 395/398 la città rimase capitale di provincia, ma entrò a far parte dell'Aemilia, ormai scissa dalla Liguria; e per conseguenza tornò a partecipare dei compiti fiscali deputati all'area "annonaria". Secondo quanto attesta un'iscrizione di Roma dedicata a Cronius Eusebius nel 399 (180), sarebbe stato per merito di costui (allora governatore - consularis - della nuova Aemilia e tosto vicario dell'Italia Annonaria), grazie al suo impegno e alle eloquenti argomentazioni avanzate con la competenza di un buon conoscitore della situazione regionale, che tale passaggio sarebbe avvenuto. Non par dubbio che in un momento come quello - allorché la Liguria padana e le Venezie erano state più che mai il fulcro delle lotte di potere durante e subito dopo l'usurpazione di Eugenio - l'Aemilia avesse finito col fare parte a sé, in un certo senso "periferizzandosi"; ma proprio per questo si avvertiva la necessità di rafforzarla e di estenderla come area di gravitazione ravennate, zoccolo duro al di sotto dello scottante settore veneto-padano. Siamo nei medesimi anni - 387/394 - in cui Ambrogio di Milano parla di città emiliane come Claterna, Bononia (Bologna), Mútina (Modena), Rhegium (Reggio), Brixíllum (Brescello) definendole "cadaveri" (semirutarum urbium cadavera), in quanto centri allora interessati da una crisi economico-fiscale regionale, ma soprattutto perché avviate ad accentuare la loro funzionalità strategica e militare di efficienti oppida e castra, secondo quanto testimoniano altre fonti coeve (181). Peraltro, questa riaggregazione di Ravenna all'Aemilia ebbe vita breve, dal momento che già forse nello stesso 398 la città diventò capoluogo della Flaminia, staccatasi dal Piceno e parte delle province annonarie, mentre il Piceno restava subordinato alle esigenze di Roma in una congiuntura in cui la ribellione di Gildone in Africa (398 d.C.) bloccava le importazioni frumentarie e la plebe urbana rumoreggiava per le difficoltà dell'approvvigionamento (182). Uno stato di cose siffatto durò fino al 402, l'anno della prima discesa di Alarico nel Norditalia: ed ecco allora Ravenna - fatta anche capitale dell'impero occidentale - divenire caput di una nuova provincia, la Flaminia et Picenum Annonarium, che continuava - ma con maggior forza - a fare blocco con il Norditalia. Tale assetto sarebbe durato per lo meno fino agli anni successivi all'ultimo aggiornamento della Notitia Dignitatum (420/430 d.C.). E sembra spiegarsi in questa chiave anche il configurarsi di una liturgia latina ravennate affatto indipendente da quella romana (ad esempio per l'Avvento), redatta dalla Chiesa di Ravenna nel VII secolo ma su fonti forse risalenti al V (183). Soltanto successivamente, con il consolidarsi - come si vedrà meglio in seguito - di una nuova direttrice strategica più settentrionale fra Cividale e Verona, Ravenna avrebbe ridefinito in maniera più stabile la sua funzione di polo transappenninico complementare a Roma, entro un orizzonte ormai decisamente peninsulare (184).
Ritornò in auge proprio allora - certo non per caso - un áition assai singolare circa l'antica denominazione di Ravenna come Rhḗnē, che per la prima volta compare in Olimpiodoro di Tebe in un passo ora perduto delle sue Storie in 22 libri (dal 407 al 425), dedicate a Teodosio II. Zosimo, che cita Olimpiodoro a circa un secolo di distanza (185), dissente dall'affermazione di costui secondo la quale Ravenna avrebbe ricevuto l'appellativo Rhḗnē (ma certo Olimpiodoro doveva avvalersi di una variante, Rhḗnē) perché fondata da Remo, il gemello di Romolo; e dichiara di preferire l'opinione corrente - riportata anche in un passo di Asinio Quadrato sul regno di Marco Aurelio (lo storico in questione aveva scritto attorno alla metà del III secolo d.C. 15 libri di Storie oggi perdute, dalla fondazione di Roma al regno di Severo Alessandro), secondo cui Ravenna, antica colonia dei Téssali e ora metropoli della Flaminia, si sarebbe "chiamata Rhḗnē perché circondata da ogni parte dalle acque" (e dunque connettendo Rhḗnē con il verbo greco rhéo = "scorro"). Analoghe leggende facenti risalire la fondazione di certe città a Remo, a volte assai antiche (come ad esempio quella per Capua, a quanto pare risalente al III/II secolo a.C.) ma a volte assai tardive (come quella per Reims, che incontriamo nell'Alto Medioevo), si ritiene debbano presupporre una tradizione escludente il conflitto fra Romolo e Remo (così anche in Livio e Ovidio al tempo di Augusto, e poi in Servio fra IV e V secolo); e siano quindi una prova di relazioni "fraterne" fra le città suddette e Roma (186). Sarebbe riconoscibile una traccia di un siffatto filone secondario della leggenda romulea anche nella Origo gentis Romanae (composta con tutta probabilità nella prima metà del IV secolo, ma che si rifà a Egnazio). E la puntigliosa ripresa di essa potrebbe collocarsi in rapporto con la demonizzazione cristiana del fratricidio alle origini della storia di Roma, presentato come ormai superato da un nuovo e ben diverso battesimo di sangue: quello della coppia apostolica Pietro-Paolo, i due martiri fondatori della Roma cristiana, come si legge in Prudenzio alle soglie del V secolo (187). Sia che si ammetta un recupero erudito del genere (meno perspicuo tuttavia di quanto possa sembrare), sia invece che si accetti la leggenda vulgata circa la gelosia tra Romolo e Remo, appare in ogni caso significativo questo affratellamento mitografico fra Ravenna e Roma, che torna alla ribalta dopo i primi decenni del V secolo e al quale sono pur sempre sottesi accenti di rivalità e di alternativa, se non di conflitto vero e proprio.
Con ritmo speculare al nuovo emergere di Ravenna, Milano e Aquileia si andarono invece indebolendo politicamente, strutturalmente, economicamente. Nel 397 una delegazione milanese presso Onorio capeggiata dal senatore Flavio Manlio Teodoro (un milanese di nascita, erudito e filosofo neoplatonico cristiano allora celebrato, prefetto al pretorio d'Italia nel 397-399 e poi console ordinario nel 399) ancora riuscì a ottenere che l'imperatore festeggiasse in Milano - e non a Roma come era stato ventilato dietro sollecitazione di senatori pagani quali Quinto Aurelio Simmaco e Nicomaco Flaviano Iuniore - le feste solenni del proprio quarto consolato. Ma pochi anni più tardi (404 d.C.) fu Roma a ospitare i grandi giochi per l'assunzione del sesto consolato da parte di Onorio, assieme con il suo trionfo dopo la felice conclusione della guerra visigotica: questa volta l'impaziente attesa, da parte dell'Urbe, dell'Augusto ancora trattenuto dai "Liguri" non sarebbe andata delusa, come leggiamo nei versi di Claudiano (188).
Nei lustri successivi, anche a livello ecclesiastico la giurisdizione metropolitica di Milano fu ridimensionata a vantaggio di Ravenna. Verso il 430, infatti, si ebbe il distacco dal controllo metropolitico di Milano delle diocesi dell'Emilia orientale - Forlì (Forum Livii), Faenza (Favéntia), Ímola (Forum Cornelii), Bologna, Modena, Voghenza (Vicohabéntia) -, le quali vennero collocate alle dipendenze della sede episcopale ravennate, suffraganea di Roma. Il vescovo di Ravenna finiva quindi con l'esercitare l'autorità di un metropolita di fatto, che tuttavia Roma avrebbe riconosciuto soltanto verso la metà del VII secolo (666 d.C.), contrastando a lungo anche l'uso indiscriminato del privilegio del pallium, che lo stesso pontefice aveva concesso a Massimiano di Ravenna nel 548/549, ma solo per periodi cerimoniali rigorosamente limitati (189).
Nel 452 fecero irruzione gli Unni di Attila. Essi entrarono in Italia dalla Pannonia, forzando le difese del Friúli; conquistarono Aquileia, Padova, Verona, Milano e Pavia, cosparsero di saccheggi e di rovine le Venezie, la Lombardia e l'Emilia (specie attorno a Ravenna). Ma mentre le altre città si ripresero abbastanza celermente, Aquileia - con la sua appendice concordiese - non seppe risollevarsi dal disastro attilano. Andò invece acquistando nuova importanza Grado, sin dal IV secolo elemento significativo all'estremità più orientale del sistema portuale aquileiese, ma soprattutto castrum fortificato e forse già al tempo di Alarico (come poi degli Unni) riparo provvisorio per molti fuggiaschi da Aquileia (190). Quest'ultima già da decenni aveva perduto gran parte del proprio ruolo come interlocutrice protagonista e tramite fra l'Adriatico e il Tirreno, fra la corte occidentale e quella di Costantinopoli. Il sovrano, ormai, se ne stava per lo più a Ravenna, oppure a Roma.
La soppressione, dopo il 509, del comes Italiae (ancora menzionato nella Notitia Dignitatum con il compito di sovrintendere alla difesa del tractus alpino orientale, risiedendo ad Aquileia) rivestì il significato di una rinuncia di principio a una protezione della Valle Padana contro possibili invasori arroccandosi sulle linee tradizionali delle fortificazioni alpine; essa mostrava che l'Italia era considerata ormai realmente difendibile soltanto dall'interno, grazie a spostamenti tattici in profondità di milizie tornate effettivamente mobili (quelle poste a guardia dei valichi alpini avevano espletato, di fatto, la funzione di truppe limitanee) (191). Aquileia non era più sede del comes Italiae e nemmeno del governatore provinciale, che al tempo di Teoderico stava ormai a Cividale (Forum Iulii), nuovo caput Venetiae oltre che caposaldo difensivo principale ai piedi delle Alpi orientali. Nell'età gotica Aquileia appariva in sostanza livellata a Concordia e a Cividale in quanto deposito di vettovaglie nei magazzini militari, ove gli approvvigionamenti ancora potevano giungere con facilità per via marittimo-fluviale. Vari decenni più tardi la grande alluvione del novembre 589, che fece trasbordare il Po e gli altri fiumi norditalici, avrebbe in gran parte sommerso Concordia con le acque del Tagliamento, segnandone il pressoché definitivo abbandono (192).
Sotto il dominio goto appariva dunque già nettamente delineato uno spostamento più a nord nell'asse direzionale delle Venezie, lungo i giunti delle grandi arterie terrestri che attraversavano la Valle Padana facendo perno soprattutto su Verona (al tempo di Teoderico sede di palatium nonché centro amministrativo regionale) e su Cividale. Anche Padova e Vicenza conobbero proprio in questa età una fioritura monumentale cospicua. Nel contempo, si era andata potenziando la navigazione che da Ravenna risaliva la rete fluviale del Po e dei suoi principali affluenti: al tempo di Cassiodoro ci volevano soltanto cinque giorni per raggiungere Ravenna da Ticinum (193). Furono queste le circostanze che determinarono le nuove fortune di Ticinum nell'età gotico-bizantina, promuovendola a un ruolo ben più preminente che nel passato, d'importanza superiore ormai a quella di Milano stessa: sede di palatium, centro amministrativo, porto fluviale di rilevanza economica non meno che militare in relazione strettissima con Ravenna, nodo di smistamento per le vettovaglie che affluivano da tutto il settore norditalico occidentale. Chi intendeva raggiungere Roma dal nord-ovest d'Italia o dalle Gallie già nel V secolo preferiva inserirsi sulla Via Flaminia sfruttando la navigazione fluviale da Pavia fino alla nuova capitale sull'Adriatico. Così fece sicuramente Sidonio Apollinare quando si recò da Lione a Roma per esercitarvi la prefettura urbana, descrivendo il suo viaggio all'amico Eronio - suo conterraneo e come lui poeta - in una lettera del 467. Imbarcatosi a Ticinum su di una nave cursoria, egli si avvalse di un regolare servizio di trasporto pubblico, i cui battellieri erano organizzati per province, dal momento che il poeta parla della sua navigazione lungo il Po (tra rive fitte di canneti e di uccelli acquatici, ove si vedevano confluire il Lambro, l'Adda, il Mincio, l'Adige) ed enumera scali a Cremona - ove subentrarono i marinai delle Venetiae, evidentemente dando il cambio a quelli della Liguria - e poi a Brescello (Brixíllum) a circa 60 Km di distanza, dove presero invece servizio battellieri dell'Aemilia. È quasi certo, anche se Sidonio passa qui direttamente a parlare del suo arrivo a Ravenna, che un ultimo cambio di rematori, sempre in Aemilia, avesse luogo un'altra settantina di chilometri più a valle, a Hostilia, una località che circa un cinquantennio dopo viene ricordata da Cassiodoro come sede di dromonarii, cioè di rematori "militarizzati" su battelli del servizio pubblico (detti appunto dromones o naves cursoriae) (194).
Tale nesso itinerario con Roma convogliava verso Ticinum - divenuta punto d'arrivo e non più soltanto di passaggio - i contatti più importanti con l'antica capitale dell'impero, decaduta e tuttavia sempre rimasta centro di riferimento per la grande aristocrazia (che non aveva rinunciato a condizionare la politica dei capi barbari) (195), nonché sede del papato e quindi punto d'irradiazione di una precisa politica ecclesiastica e devozionale in dialettica con le nuove residenze del potere. Gli eventi del V secolo, di fatto, avevano parzialmente rivalutato l'Urbe anche come luogo di soggiorno imperiale. Nel 455 Avíto - proclamato imperatore in Gallia - era sceso con le sue truppe gallo-barbariche fino a Roma, trovando però appoggio soprattutto nell'Italia del nord, certo in grazia di quell'atteggiamento filoprovinciale che gli sarebbe invece costato la sconfessione da parte del senato e poi la sconfitta a Piacenza (sulla via del ritorno verso le Gallie) ad opera del generale svevo Riciméro e di Maioriano, con la conseguente accettazione compromissoria, nel 456, del seggio episcopale di Piacenza stessa, onde ritrarsi dalla scena politica (196). L'imperatore Maioriano, rientrando in Italia per le Alpi Graie e per Aosta dalle campagne contro i Vandali in Gallia e in Spagna, puntò su Roma, anche se prima di giungervi incontrò la morte presso Tortona nello scontro con il patrizio Riciméro (461 d.C.) (197). Un decennio più tardi (471 d.C.) le istanze di tutti i "Liguri" vennero presentate da un'ambasceria di maggiorenti regionali (nobiles, ossia grandi proprietari) guidati dal vescovo Epifanio di Pavia e recatisi sia presso Riciméro - che da Ravenna si era spinto fino a Milano con le sue milizie - sia presso Antémio, l'imperatore occidentale inviato da Costantinopoli a Roma, perorando un accordo fra i due contendenti e ottenendo un'effimera riconciliazione (la delegazione, nel ritorno da Roma a Ticinum, impiegò eccezionalmente soltanto sette giorni in luogo dei circa venti previsti). Ma durante il conflitto armato fra Antémio e Riciméro (471-472) eserciti di Burgundi e di altri barbari si diressero ancora una volta verso Roma, assediata da Riciméro (198).
Tensioni e difformità di piani politici fra Roma e il Norditalia non mancarono dunque di accompagnare in questi decenni proprio il rafforzarsi di una bipolarità fra l'Italia peninsulare e la Gallia centromeridionale che tornava a esaltare la preminenza degli itinerari verticali dalle Alpi occidentali verso Roma e viceversa (come già prima del IV secolo). Indizi significativi in tal senso potrebbero riconoscersi anche in certe insofferenze politico-culturali, quali ad esempio l'idiosincrasia devozionale già al principio del V secolo manifestata dai Torinesi per il culto degli "apostoli romani" Pietro e Paolo, che il vescovo locale Massimo si sforzava allora - ma invano - d'incoraggiare, e che nell'età fra papa Dámaso e Leone I (metà IV-metà V secolo all'incirca) ebbe a costituire il supporto eccellente al primato spirituale rivendicato con forza da Roma (199).
Dal mutamento funzionale conseguì in questo tempo pure un infoltirsi delle omogeneità fra le due aree contermini al di qua e al di là del versante alpino - Gallie e Italia nordoccidentale -, parallelamente a un allentarsi della polarità fra le Alpi occidentali e l'Adriatico: lo si nota anche a proposito della comune diffusività di certi culti (per s. Giovanni Battista, per i martiri Tebei) e di certe manifestazioni della politica ecclesiastica (ad esempio il concilio di Torino, che sin dal 398/399 pose fine a una secessione che perdurava nella Chiesa gallica dal tempo di Priscilliano 383-385-). Questo tendenziale, accentuato coagulo culturale non meno che politico-economico fra aree galliche orientali e norditaliche occidentali sarebbe poi continuato a lungo, come mostrano sia vicende, viaggi e legami parentali innumerevoli (pensiamo per esempio a Ennodio, di origine gallica ma cresciuto fra Milano e Pavia, ove divenne presule nel 515 circa), sia una valutazione globale delle influenze culturali reciproche (per esempio a livello di architettura religiosa: battisteri, ecc.) (200).
Allo spirare del V secolo si delinea peraltro anche un riflusso, una nuova con versione verso equilibri padani in orizzontale. Nel 473 Glicerio - probabilmente un "Ligure" appena fatto Augusto per volontà del re burgundo Gundobàdo - ottenne la diversione verso le Gallie degli Ostrogoti che, guidati in Italia da Vidiméro il Vecchio (Widemer, o Videmir) e poi dal figlio omonimo Vidiméro il Giovane, provenendo dal Nórico erano entrati in Italia regnando Olíbrio, e che attraversarono quindi da amici l'Italia padana (ma al prezzo di 2.000 libbre d'oro, a quanto sembra) (201). Nell'anno seguente (474 d.C.) il vescovo di Pavia Epifanio prese parte a una nuova ambasceria dei più potenti fra i "Liguri" (Liguriae lumina), questa volta a Tolosa in nome dei maggiorenti della Liguria tutta (un'area che all'epoca corrispondeva più o meno all'antica regione Transpadana), per appianare contrasti insorti in Gallia fra il re ariano dei Visigoti, Euríco, e l'imperatore d'Occidente Giulio Nepote (202).
Nel 489 ecco entrare in Italia Teoderico dalla Mesia, seguendo il corso del Danubio e della Sava e passando per i consueti valichi delle Alpi Giulie alla testa dei suoi Ostrogoti, "federati" dell'impero d'Oriente. Beneaccolti in generale nelle Venezie e nella Liguria, essi sconfissero Odoacre prima all'Isonzo e poi sull'Adige presso Verona, in breve tempo conquistando tutta la penisola. Odoacre - il "re delle genti barbare" che nel 476 aveva abbattuto l'ultimo imperatore romano d'Occidente, Romolo Augustolo, e si era installato stabilmente in Italia con i suoi "federati" barbari - invano riconquistò Cremona e Milano e fece assediare dal suo generale Tuta gli Ostrogoti asserragliatisi a migliaia in Ticinum; in loro favore intervennero tosto, dalle Gallie, le forze dei Visigoti, e nel 490 il re érulo venne battuto sull'Adda (al confine tra Venetiae e Liguria), poi catturato e ucciso in Ravenna nel 493 dopo un lungo assedio (203). Sollecitati dalla corte di Bisanzio (che non vedeva certo di buon occhio l'eccessivo potere di Teoderico), oppure chiamati da Odoacre stesso, intervennero allora nelle cose d'Italia anche i Burgundi, il cui regno si era intanto consolidato al di là delle Alpi occidentali; e nel 491-492 essi dilagarono nella valle del Po al comando del re Gundobádo, provocando danni gravissimi e sottraendo migliaia di coltivatori alle campagne della Liguria per portarli con sé sui campi della Gallia orientale fino al Rodano, in parte come prigionieri da riscattare e in parte come emigranti spontanei, in fuga davanti alla fame e alle violenze di tanti eserciti in movimento. Soltanto nel 494 un'ambasceria presso la corte burgunda, capeggiata dai vescovi Epifanio di Pavia e Vittore di Torino, ne avrebbe ottenuta la quasi totale restituzione (204).
Durante l'età gotica i poli della vicenda politica furono dunque Ticinum e Ravenna; da un punto di vista soprattutto economico, di scambi di merci e di beni a lunga distanza, sembra peraltro che anche l'itinerario Pavia-Roma continuasse a rimanere ben attivo. Nel 468 (regnando Antémio) Sidonio Apollinare aveva testimoniato come, durante la sua prefettura urbana in quell'anno, cinque navi cariche di grano arrivassero a Roma in subbuglio per la carestia, probabilmente ridiscendendo l'Adriatico per Brindisi verso Porto, lungo la rotta fluvio-marittima dal Po al Tevere (205); ma ancora fra il 514 e il 521 Ennodio scriveva a papa Ormísda, come di cosa abbastanza ovvia, a proposito di cavalli mandati da Pavia a Roma (206).
A questo punto, torniamo a soffermarci brevemente su alcune pagine di Sidonio Apollinare. Non soltanto il senatore-poeta è un buon testimone dell'intenso uso, nell'avanzato V secolo, dell'itinerario misto terrestre-fluviale dalle Gallie verso Pavia e di qui - navigando - verso Ravenna e verso Roma (207), ma dedica a Ravenna una particolare, polemica attenzione, che si esprime soprattutto in una lettera inviata all'amico Candidiano durante il proprio soggiorno a Roma nel 468 come prefetto urbano (208). Riallacciandosi alla propria esperienza autoptica recente e affilando il suo tagliente argomentare anche sul fatto che il corrispondente - nativo di Cesena - di qui era passato a vivere in Ravenna (con qualche compito burocratico o palatino inerente alla crescita politica della nuova capitale?), Sidonio ribatte a certe facezie di Candidiano sul clima nebbioso e poco solatio di Lione (patria di Sidonio) innanzittutto definendo l'oppidum di Cesena un "forno" che l'amico stesso aveva mostrato di scambiare ben volentieri con Ravenna. Eppure, anche i pregi di quest'ultima sembravano essere decisamente scarsi. Di essa Sidonio sottolinea con acrimonia l'infelice collocazione tra le paludi, con tutti i risvolti negativi che ne conseguono, di natura e climatica e abitativa ma - soprattutto - sociale e politica, tanto da farne una sorta di "città alla rovescia", nella quale le funzioni urbane e i valori pubblici tradizionali appaiono totalmente stravolti (209). Ravenna, per Sidonio, ha la provincialità di un municipio qualunque, emarginato fra le campagne popolate da fastidiose zanzare e da rane gracidanti (municipalium ranarum loquax turba); il clima ingrato fa sì che chi vi risiede si ammali (medici compresi) (210), che il riscaldamento non funzioni (ad esempio negli impianti termali, uno dei simboli della civilitas romana); la necessità di riscaldare favorisce d'altro canto gli incendi (certo anche facilitati dalle strutture lignee delle abitazioni, tutte su palafitte, come s'è letto in Vitruvio e in Strabone) (211). Le acque presenti e affioranti un po' ovunque rendono instabili edifici, mura e fortificazioni, allagano le necropoli e rendono nel contempo problematico l'approvvigionamento idrico; ci sono sempre navi alla fonda nel cuore stesso della città, il cui territorio dispone peraltro di poca terra (terra coltivabile, è ovvio). Le autorità (potestates) non si preoccupano di garantire un'ordinata vita pubblica, consentendo ai ladri di impazzare a proprio piacimento; gli stessi sacerdoti cristiani si lasciano travolgere dalla febbre del guadagno imprestando denaro a interesse - si noti l'accostamento furesfoeneratores -, mentre gli Orientali presenti in città (Syri) affollano le chiese salmodiando; i grandi commercianti "militano" (ossia fanno parte dell'apparato burocratico imperiale); i monaci si danno a traffici lucrosi (forse approfittando degli stretti contatti con le contrade dell'Oriente mediterraneo? o forse Sidonio pensa a un "sacro commercio" di reliquie, sempre in contatto con l'Oriente?). Tra la gente ha il sopravvento il gusto per l'intrattenimento ludico (i vecchi giocano a palla, i giovani ai dadi); gli eunuchi si occupano di armi (certo si allude qui agli eunuchi palatini e agli incarichi - talora di carattere anche militare - loro affidati); mentre i soldati dei corpi "federati" barbari ostentano di coltivare la letteratura (lo strale pare indirizzarsi contro quei generali barbari che, presenti in città con le loro truppe, apprezzavano la cultura letteraria e i suoi rappresentanti: pensiamo già all'esempio del generale barbaro Stilicone in rapporto al dotto poeta alessandrino Claudiano).
Si tratta come si vede, di una violenta requisitoria ideologizzata e "politica" nella sua essenza, in cui la presentazione di Ravenna come ricettacolo di ogni possibile adýnaton urbano e urbanistico intende polemizzare - da un'ottica senatoria conservatrice e, per di più, provinciale e gallica - contro la pretesa di radicare una residenza imperiale in una palude ove "senza sosta ogni norma viene sovvertita", mostrando come, di fatto, avessero preso piede in Ravenna soltanto gli inconvenienti e i guasti collegati con il potere politico di vertice e coincidenti proprio con gli aspetti più pregiudizievoli per una corretta vita urbana, romana in senso tradizionale (campagne ben coltivate e salubri; una fisionomia urbanistica "civile" separata dagli acquartieramenti dei soldati, dei barbari, della burocrazia imperiale; un volto monumentale fedele a certi cánoni prestabiliti - solide mura, bagni pubblici confortevoli, begli edifici e, ormai, anche chiese e monasteri ben funzionanti come centri di spiritualità cristiana -; un quartiere portuale frequentato dai peregrini e riservato alle attività commerciali e alle operazioni finanziarie, prossimo alla città ma da essa distinto). Cogliamo accenti d'insofferenza "politica" assai simili anche in un'altra lettera di Sidonio, inviata un decennio più tardi (477 d.C.) a Volusiano - di famiglia senatoria galloromana, poi vescovo di Tours -, là ove il nobile gallico esalta l'asceta Abraham - dalle rive dell'Eufrate giunto a vivere poveramente in Gallia, dopo essere sfuggito alle persecuzioni sasanidi del 446 - per il dispregio da costui manifestato nei confronti di tutte le grandi città dell'impero politicamente preminenti: Roma, Bisanzio, Gerusalemme stessa, Antiochia, Cartagine, "la paludosa e affollata Ravenna" e Milano (si noti la precedenza non casuale data, nell'enumerazione, a Ravenna rispetto a Milano) (212).
Al di là della deliberata e niente affatto scherzosa invettiva (pur tenuto nel dovuto conto il condizionamento di certi cánoni retorici impliciti al tipo di composizione letteraria), i riferimenti poleografici concreti nella lettera di Sidonio a Candidiano appaiono del tutto coerenti con quelli che emergono nella sua ben più neutra e minuziosa descrizione di Ravenna, inviata poco prima all'amico Eronio e incastonata nel rendiconto del proprio viaggio dalle Gallie a Roma di cui s'è già detto (213). Il senatore-poeta - che qui parlava di Ravenna come di una città fra le altre e non già come sede in crescita dei vertici del potere (dunque con distacco) - aveva descritto la peculiare positura fra le acque dell'oppidum ravennate, riguardato, come il termine usato pare suggerire, soprattutto quale città-fortezza. Il centro abitato era attraversato da un ramo fluviale incanalato del Po (quasi a guisa di "Canal Grande" ante litteram, raccordato con tutta una rete di canali minori, dei quali già aveva parlato Strabone) (214). Nel contempo, la città era circondata tutto attorno alle mura dalle acque del Po, che scorrevano in due rami diversi derivati dall'alveo principale e su cui erano pure collocati i mulini pubblici: di modo che ne risultavano favoriti sia i commerci - grazie alle imbarcazioni che penetravano in città lungo il fiume-canale - sia la difesa (garantita dai fluenta moenibus circumfusa). Né Sidonio manca qui di sottolineare la straordinaria predisposizione di Ravenna per ogni sorta di commercio e negozio, in particolare per l'importazione di vettovaglie. L'unica nota critica - che sarebbe riaffiorata poi, assieme con altre ben più pungenti, anche nella lettera a Candidiano - riguardava l'aspetto ecologico delle acque inquinate, ossia la penuria di cisterne ben depurate, di un acquedotto privo d'infiltrazioni, di pozzi non fangosi, di sorgenti pure, a causa delle maree che sospingevano la salsedine nelle acque interne e del via-vai incessante delle lintres lungo le fossae, che smuoveva la melma dei fondali: sicché era arduo soddisfare la sete pur in mezzo a tanta abbondanza di acque (215). Si noti la presenza, in Sidonio, del medesimo termine, lintres, che qualche decennio prima anche il grammatico Servio aveva riferito alle imbarcazioni usate per i commerci, l'agricoltura e per ogni altra attività in tutta l'area fluviale-costiera delle Venezie e della Padana adriatica, in particolare a Ravenna (216).
a "Civitas Nova Heracleana" (VI-VII secolo)
Di grande utilità riesce a questo punto l'accostamento con altri due autori fra loro contemporanei e solo di pochi decenni posteriori a Sidonio: Giordane e Procopio. La testimonianza del coevo Cassiodoro, che riguarda soprattutto le relazioni fra Ravenna, le lagune venetiche e le coste istriane, completa il discorso da una prospettiva un po' diversa. Ci si augura che una conoscenza più approfondita del territorio anche da un punto di vista archeologico venga a chiarire ulteriormente alcune oscurità di carattere topografico che i testi letterari presentano.
Giordane, notarius di origine gota poi passato alla Chiesa, compose i suoi Getica a Costantinopoli negli ultimi anni della guerra gotica (551 d.C.), mentre dimorava nella capitale bizantina con altri esuli occidentali, tra cui lo stesso papa Vigilio e Cassiodoro (già ministro di Teoderico, Atalarico e Teodato); e utilizzò in compendio, con altre fonti, pure i dodici libri delle Storie Gotiche composte da Cassiodoro (oggi perdute), delle quali si era fatto imprestare l'esemplare appartenente all'autore stesso (217). Giordane, nel raccontare la spedizione di Alarico in Italia nel 401 attraverso la Pannonia, dopo avere sottolineato la mancanza di resistenza ai Goti in tutta l'Italia del nord parla dell'arrivo di Alarico a Pons Candidiani a tre miglia dall'urbs regia di Ravenna (218). E si sofferma a discorrere a sua volta della collocazione della città fra il mare e le paludi; dell'unico, stretto accesso all'interno del centro abitato attraverso un ramo del Po che fungeva da porta cittadina; dell'aspetto "insulare" della città stessa per via delle acque che la circondavano (già Strabone - come s'è veduto a suo luogo - aveva parlato d'insediamenti lagunari "come isole" tra le acque, però con preciso riferimento alla Venezia costiera) (219). Pure Giordane sottolinea la funzione portuale privilegiata di Ravenna nei contatti con l'Illirico e con la Grecia mediante una navigazione di cabotaggio lungo le coste epirote, dalmate, istriane e venete. In passato - dice - il porto ravennate di Classe aveva funzionato come statio sicura per ben 250 navi, secondo la testimonianza di Cassio Dione (in un passo a noi perduto); ma al tempo presente esso era ormai interrato, irto di alberi di mele anziché di alberi di navigli, come afferma "Favius" (il nome della fonte è senza dubbio corrotto; e io ne suggerirei l'identificazione con Ablabius/Ablavius, autore di una Storia Gotica che fu fonte precipua delle Storie Gotiche di Cassiodoro e che sta a monte di Giordane stesso, il quale lo cita in vari altri luoghi: si tratta con ogni probabilità del medesimo personaggio che fu prefetto al pretorio al tempo di Costantino, cristiano e pertanto odiatissimo da storici pagani come Zosimo) (220). Giordane - che da buon Goto parla della capitale teodericiana con ammirazione (come del resto, assai verisimilmente, già Cassiodoro) - ricorda che i grandi proprietari ravennati (possessores) in passato erano stati chiamati ainetói ossia, in greco, "lodevoli": una ben curiosa etimologia, a ben guardare, del nome di Veneti. Essa trova conferma un paio di secoli dopo anche in Paolo Diacono (221); ma solamente in Giordane il termine Veneti arriva a comprendere gli abitanti della stessa Ravenna: l'autore - è evidente - raccoglie una tradizione trasmessa da storici non solo più antichi, ma anche grecofoni, certo per tramite Cassiodoro/Ablabio. Ed è ulteriore testimonianza - collegatamente - di rapporti stretti e simpatetici fra il mondo greco-costantinopolitano e l'area altoadriatica da Ravenna fino ad Aquileia in età tardoimperiale. L'excursus di Giordane si conclude menzionando il triplice appellativo dell'insediamento, quasi "uno e trino" nella sua scansione topografica: Ravenna, Caesarea nel mezzo (certo quartiere già imperiale e ora regio), e Classe (ex zona portuale).
Procopio - originario di Cesarea di Palestina e funzionario al séguito del generale Belisario durante la campagna bizantina di riconquista dell'Italia al tempo di Giustiniano - ebbe a occuparsi delle aree lagunari veneto-padane e ravennati in due luoghi del De bello Gothico. Nel libro I, 1, riferendosi alla discesa dei Goti in Italia al tempo di Teoderico (488-489), ne descrive l'itinerario dalla Mesia a Singidunum (Belgrado) e alle coste dalmate, da dove essi avrebbero proseguito lungo la linea di costa adriatica per mancanza d'imbarcazioni, ottenendo vittorie in vari scontri ma senza riuscire a espugnare né la fortezza di Cesena (sulla Via Aemilia, prima di Rimini) né quella di Ravenna un po' più a nord (conferma dunque dell'arroccarsi delle difese della penisola non più sull'arco alpino, bensì a ridosso dei claustra montana dell'Appennino, che già Rutilio Namaziano aveva celebrato per il loro ruolo salvifico della romanità) (222). Di Ravenna Procopio sottolinea la distanza di due stadi dal mare (più o meno 350 m) e la difficile accessibilità sia per nave (a causa delle secche, estese lungo la spiaggia per circa 30 stadi - 11 Km all'incirca -), sia con un esercito terrestre, per via delle paludi formate alle spalle della città dalle acque del Po. Procopio si compiace inoltre di descrivere - certo per diretta esperienza - lo spettacolo a suo dire straordinario dell'alta marea, che allaga in quei siti la campagna su di una estensione pari in profondità a una giornata di cammino, consentendo di navigare nel bel mezzo della terraferma; mentre poi, verso sera, la massa d'acqua defluisce in senso contrario, in direzione del mare: un fenomeno di flusso e riflusso che i locali sfruttavano abilmente per far entrare o uscire le merci secondo la direzione di spinta della marea. L'autore precisa inoltre che un fenomeno siffatto era regolare lungo la costa di tutto il tratto di mare da Ravenna ad Aquileia, sebbene con forza più o meno intensa a seconda delle fasi lunari.
Il discorso sulle paludi e lagune tra le Venezie e Ravenna si ripropone in Procopio nel libro IV, 26 del De bello Gothico a proposito della spedizione bizantina contro Tótila dalla Dalmazia nel 552. Narsete (l'ambizioso eunuco antagonista di Belisario, divenuto generalissimo da alto funzionario di corte qual'era stato in precedenza) (223) si mise in marcia contro i Goti muovendo da Salona per via di terra con contingenti di fanti e di cavalieri traci e illirici. Arrivato in Istria ("ai confini della Venezia"), Narsete si vide però ostacolato dai Franchi che presidiavano allora varie città delle Venezie, segretamente alleati ai Goti ma accampanti a pretesto la presenza nell'esercito bizantino di Langobardi loro nemici. D'altro canto Teia, generale goto di Tótila e suo futuro successore, si era recato con truppe scelte in Verona e aveva reso inaccessibile tutta la regione fra l'Adige e Ravenna con vari espedienti (tipicamente "barbarici", par sottintendere Procopio, secondo un'ottica tradizionale greca che si è qui illustrata per età più antiche) (224): il terreno era stato infatti reso impraticabile costruendo imboscate, scavando fossati e voragini, ma soprattutto creando in tutta la pianura che fiancheggiava il Po profondi pantani e vasti acquitrini artificiali. Tótila era pertanto sicuro che mai le forze bizantine sarebbero riuscite a marciare lungo la costa adriatica, impedite dalle foci acquitrinose dei numerosi fiumi della zona e d'altra parte sprovviste di navi sufficienti per trasportare l'esercito tutto assieme per mare; ché, se avessero tentato la traversata dell'Adriatico a piccoli gruppi, i Goti sarebbero stati in grado di opporsi di volta in volta al loro sbarco. Però Narsete - consigliato dal magister militum Giovanni, che nei primi tempi della guerra già si era impratichito della zona (225) - con l'esercito al completo seguì la linea di costa, fiancheggiato sì da alcune navi, ma soprattutto scavalcando le foci fluviali mediante ponti galleggianti su innumerevoli, piccole imbarcazioni, grazie all'aiuto delle amichevoli popolazioni locali: probabilmente si trattò, anche in tale occasione, di quelle lintres buone a tutti gli usi, tipiche delle zone fluvio-lagunari delle Venezie sino a Ravenna, di cui avevano parlato sia Servio sia Sidonio Apollinare (226). Fu così che Narsete, contro ogni previsione, riuscì a entrare in Ravenna il 6 giugno del 552, ricongiungendosi con l'esercito bizantino ivi acquartierato.
La polemica antiravennate di Sidonio - incastonata nel quadro evenemenziale e nelle realtà urbanistiche della città fra il rapido collassare dell'impero d'Occidente nel V secolo e la "liberazione" bizantina verso la metà del VI - segna dunque il momento-chiave in cui una nuova realtà e una nuova ideologia si vanno imponendo, non senza suscitare reazioni e contrasti: la realtà e la correlata ideologia di una sede regia che viene a identificarsi con un insediamento fortificato (castrum) fra acque, lagune e canali, in essi riconoscendo la ragione sia della propria vitalità economica, sia della propria sopravvivenza politica; una "città alla rovescia" rispetto alle capitali di stampo romano, ma nella quale già gli ultimi Augusti d'Occidente - affiancati dai loro "patrizi" germanici - facendo propria un'ottica "barbarica" a lungo rigettata avevano incominciato a collocare la loro presenza "carismatica" (pur complementarmente a Roma, simbolo della tradizione) (227). I sovrani goti incrementarono in seguito, senza remore ideologiche di sorta, questo decollo di Ravenna, pur sforzandosi di rinverdire in essa valori cittadini tradizionali come l'abbellimento monumentale e il prosciugamento di una parte delle paludi nell'agro circostante, secondo quanto vantava un'iscrizione di Teoderico che ancor si leggeva nel IX secolo a Ravenna (228). I Bizantini si sarebbero a loro volta inseriti in questa nuova realtà sino a fare di Ravenna la capitale dell'esarcato italico, certo non ignari di tutto un filone culturale greco-orientale che già aveva insegnato ad apprezzare città fra le acque, lagune e paludi salubri ben dominate dall'opera dell'uomo (come Alessandria d'Egitto, non per caso accostata a Ravenna già da Strabone) (229). In senso ideale oltre che, in certa misura, urbanistico - ancorché niente affatto genetico in senso proprio -, fu insomma Ravenna la prefigurazione di una città di Venezia ancor di là da venire.
L'importanza crescente della navigazione di cabotaggio lungo l'arco altoadriatico, provenendo sia dalle coste dalmate sia da quelle italiche in direzione di Ravenna, nonché la rilevanza acquisita dal percorso litoraneo misto lagunare-terrestre, in un tempo in cui il controllo e la fruibilità delle vie di terra più interne attraverso il Norditalia si erano andati facendo sempre più aleatorî, emergono con estrema chiarezza dalla lettura sia di Giordane sia di Procopio, come si è testé veduto: in un contesto, peraltro, di manovre strategico-militari. È invece un contemporaneo (un po' più anziano) di questi due autori, Cassiodoro, che in quanto estensore di vari provvedimenti fiscali decisi dal governo goto consente di toccare con mano la funzionalità economica primaria acquisita dalla navigazione lagunare veneta già dalla prima metà del VI secolo, confermando in numerosi particolari la realtà geografica, antropica e paesaggistica delineata da Giordane e da Procopio.
Nel 535/536 Cassiodoro, allora prefetto al pretorio, dispose una remissione delle forniture a prezzo politico - ossia ribassato rispetto a quello corrente di mercato - dell'olio, vino, cereali per uomini e animali (frumento, biada), di cui i Veneti erano tenuti a rifornire i depositi di Concordia, Aquileia e Forum Iulii (Cividale) per le necessità dell'esercito comitatense goto e della corte ravennate (si noti la collocazione di tutti questi magazzini regi a ridosso dell'Istria, nell'area pedemontana friulana che fronteggiava il confine nordorientale d'Italia). Una gravissima carestia dovuta a inclemenze meteorologiche aveva infatti messo in ginocchio la produzione di tutta la Valle Padana. Nell'occasione, ai Veneti vennero dunque richieste dall'autorità regia soltanto le forniture di carne suina; si dispose che il vino venisse procurato allo stato, ai medesimi prezzi correnti nel foro, dall'Istria rimasta invece immune dalla penuria; e che i supplementi cerealicoli eventualmente necessari venissero attinti dalle scorte giacenti nei magazzini di Ravenna stessa (hinc) (230).
Negli anni successivi (536-538), essendosi aggiunte alla carestia razzíe di Alamanni e di Burgundi, non soltanto s'imposero nuovi condoni fiscali ai proprietari delle Venezie nel corso della quindicesima indizione (I0 settembre 536-29 agosto 537) (231), ma si rese necessario ricorrere di nuovo ai proprietari dell'Histria sia mediante la riscossione in natura delle prestazioni fiscali previste (cereali, olio e vino), sia costringendoli a forniture supplementari dei medesimi prodotti per la corte di Ravenna (domini) e per l'esercito stanziato nella Valle Padana (comitatenses execubiae), a prezzo fiscale ma senza ulteriori spese di trasporto (232). Nella lunga epistola indirizzata da Cassiodoro ai provinciales Histriae interessano qui soprattutto alcuni elementi ben concreti, enucleabili dalla fiorita perorazione retorica con la quale il prefetto al pretorio si adopera per convincere i contribuenti recalcitranti con blandizie coniugate a più realistiche considerazioni. Da una parte Cassiodoro esalta il clima mite e la naturale feracità della "regione collocata sopra il golfo ionico, ricca di oliveti, adorna di messi, abbondante di vigneti", e per colmo di fortuna situata in prossimità di Ravenna "tanto da poter essere definita a buon diritto la Campania di Ravenna, il granaio della città regia" (dunque nel medesimo rapporto funzionale con la nuova capitale che la Campania aveva espletato rispetto all'antica capitale, Roma). Rispunta qui, a proposito delle ville che da varie generazioni adornavano le coste come perle splendenti (praetoria longe lateque lucentia in margaritarum speciem [...> ut hunc appareat, qualia fuerunt illius provinciae maiorum iudicia), il paragone con le ville di Baiae, che già erano state accostate da Marziale a quelle proliferanti attorno ad Altino nel I secolo d.C. (233). Di pari passo vengono descritti enfaticamente da Cassiodoro gli allevamenti di ostriche nelle locali piscinae Neptuniae, paragonate ad altrettanti laghi Averni (234), gli impianti per la produzione del garum (garismátia) e le culture ittiche negli stagni formati dal mare nelle concavità costiere. È inoltre lodata l'utilità dei cordoni di isole (additur etiam illi litori ordo pulcherrimus insularum), che consentono alle navi un percorso protetto e senza pericoli - lagunare? -, garantendo quindi ricchezza agli agricoltori (presumibilmente per le opportunità di un facilitato smercio dei loro prodotti).
L'aspetto qui più interessante sta, di fatto, nel tentativo di convincere i proprietari provinciali che le forniture alla corte e all'esercito sui prodotti che eccedono i versamenti fiscali sono per loro in fin dei conti vantaggiose nelle circostanze attuali, essendo venuti meno i soliti acquirenti peregrini (ossia extraregionali), i mercanti che solevano arrivare da lontano, disposti a pagare in oro le derrate che acquistavano. Come credo di avere mostrato in altra sede (235), è quasi certo che questi mercatores esterni improvvisamente scomparsi venissero da Roma, testé caduta in mano a Belisario e assediata da Vitige. Certo, la descrizione cassiodoriana delle coste "istriane" ricche di stagni marini e protette da cordoni di isole, la esaltazione dei campi ubertosi coltivati a grano, a viti e ulivi, anche tenuto conto di una intenzionale sopravvalutazione delle risorse produttive locali, lascia in verità perplessi sulla esatta accezione del termine Histria. Si potrebbe sospettare che quest'area provinciale si estendesse verso ovest fino a comprendere quanto meno il Friúli e la linea costiera sino ad Aquileia-Grado; oppure che l'espressione Histria cominciasse proprio allora a venire impiegata, per sineddoche, a indicare tutta la Venetia et Histria (nel 537-538 non più afflitta dalla carestia). Sarà infatti questo un uso - quasi uno slittamento semantico - che invarrà presso la cancelleria imperiale bizantina e quella del papato soprattutto nell'avanzato VI secolo, al tempo di Maurizio e di Gregorio Magno (591) in parallelo con l'accresciuto peso "limitaneo" - e quindi anche ecclesiastico - dell'Istria, calamitando verso di essa ogni sforzo evangelizzatore in rapporto alla consistente presenza prima dei Goti poi dei vicini Langobardi ariani (236). Parrebbe insomma che Cassiodoro (specchio dell'ottica di governo gota), al di là del gusto per la variatio formale, si avvalga dell'espressione Venetiae (contrapposte a Histria) per designare tutta l'area provinciale più occidentale sino all'Adda; di Histria in un'accezione forse allargata, che dall'Arsia a est arrivava oltre al Timavo (fino al Tagliamento, o forse al Piave?), con possibili valenze per indicare anche tutta l'area provinciale veneta più in generale, della quale era divenuta il cuore economico e strategico. Quando egli parla di Venetiae, rivolge precipua attenzione alla zona marittima dalle foci del Po alle lagune altoadriatiche.
Il discorso di Cassiodoro in Varia XII, 27 si completa con altri due messaggi ad essa contemporanei, in cui egli specificamente si occupa delle Venezie, in passato dette "degne di lode" (Venetiae praedicabiles quondam: un'espressione che io inclinerei a considerare speculare rispetto a quella di Giordane circa la etimologia di Veneti - [...> ut tradunt maiores, Ainetói, id est laudabiles, dicebantur - , più tardi ribadita da Paolo Diacono) (237). Queste Venezie, abitate da molti nobiles, si distendono verso est lungo le coste altoadriatiche ("ioniche") e verso sud fino a Ravenna e al Po (si nota pertanto la medesima dilatazione dell'area veneta fino a Ravenna già rilevata in Giordane) (238). Nella prima lettera, indirizzata all'alto funzionario Lorenzo, Cassiodoro trasmette istruzioni circa la riscossione fiscale in natura nel 537/538, nonché l'acquisto di partite supplementari di cereali, olio e vino a prezzo calmierato presso sia i possessores sia i negotiatores, ricorrendo anche all'intervento militare in caso di renitenza (239). Un'altra lettera viene destinata contestualmente ai tribuni maritimorum che coordinano la navigazione lagunare "nella zona al margine dell'Histria" (in eius confinio) affinché provvedano, a titolo di liturgia, al trasporto fino a Ravenna delle derrate in questione (240). Quest'ultima è una lettera celeberrima per il suo idilliaco vagheggiamento degli insediamenti lagunari in cui i proprietari di barche e di navi risiedevano, vivendo in maniera libera ed egualitaria a guisa di uccelli acquatici (nel secolo XIV Andrea Dandolo, nella sua Chronica Extensa, avrebbe evocato il passo di Cassiodoro per leggervi l'anticipazione nel VI secolo della "libertà" di una Venezia lagunare autonomamente retta da "tribuni" e già esistente ben prima dell'invasione langobarda) (241). Gli abitanti di questi luoghi - dice Cassiodoro - vivono di pesca, di commerci, di produzione del sale (che serve quale merce di scambio quasi a titolo di moneta). La lavorazione nelle saline viene minuziosamente descritta. Si parla di barche (carinae, certo corrispondenti alle lintres menzionate da Servio e da Sidonio Apollinare) che navigano quietamente lungo fossae interne; che da lontano paiono quasi trascorrere per i prati, trascinate dai marinai lungo gli argini per alaggio, mediante grosse funi; che, alla sera, vengono legate alle pareti stesse delle case quasi a guisa di animali domestici (evidentemente le abitazioni si affacciavano sui canali).
Si tratta - prosegue Cassiodoro - di case che appoggiavano su fondamenta consolidate artificialmente con vimini intrecciati (pensiamo a Vitruvio e alla sua descrizione delle palafitte in ontano atte a rendere stabili le abitazioni di Ravenna fra acque e canali), e sparpagliate su isolotti paragonabili alle greche Cícladi durante l'alta marea che isola i dossi emergenti; mentre durante le basse maree le dimore assumevano piuttosto l'aspetto di residenze campestri. La descrizione è evidentemente realistica e del tutto coerente con quella fornita da Procopio delle lagune, canali e isolotti lungo il litorale fra Ravenna e Aquileia (242). Vale in ogni caso la pena di osservare come, dall'abbellimento retorico idealizzante, emerga in filigrana la percezione ben concreta di una laguna popolata da innumerevoli insediamenti su dossi, barene e argini, con una economia imperniata sulla produzione e sul commercio del sale, del garum e di altri prodotti ittici, sulla raccolta ed esportazione di derrate agricole anche a lunga distanza ("voi che spesso percorrete spazi infiniti", scrive il prefetto ai tribuni maritimorum: ciò che presuppone l'uso non soltanto di piccole lintres o carinae a chiglia piatta atte alla navigazione endolagunare, ma anche di navi vere e proprie). Ci viene presentata una laguna normalmente frequentata da mercanti provenienti da altre regioni, che comprano in forti quantità - pagando in oro - i prodotti agricoli dell'entroterra confluiti sulla laguna per fiumi e canali e trasportati sul mare aperto sfruttando il ritmo delle maree (243); una laguna abitata quindi non soltanto da umili pescatori e salinari, bensì una società insulare tutt'altro che marginale, sostenuta da un tessuto demografico abbastanza consistente e socialmente articolato, in cui i nobiles e i divites sono accomunati ai marinai e ai pescatori dal fatto di abitare com'essi tra le acque ed attingere alla medesima fonte di ricchezza, le risorse fornite dalle acque lagunari stesse (perfino il culto dei santi, negli insediamenti lagunari e dintorni, si sarebbe incentrato sulla loro funzione protettiva contro i pericoli delle acque, come mostrano i numerosi agro-idro-toponimi) (244). Si trattava di una comunità sparpagliata fra le isole ma controllata da tribuni, probabilmente funzionari civili dipendenti dal prefetto al pretorio del governo goto (245). Né tragga in inganno il vagheggiamento astratto, volutamente paradigmatico, di questa vita selvatica da liberi uccelli palustri: l'ammirazione di Cassiodoro (nobile provinciale, greco-siriaco per origine familiare) va in realtà a un mondo anfibio imbrigliato e ben dominato dall'opera dell'uomo, che l'autore contrappone alla natura selvaggia ([...> domicilia [...> sparsa, quae non natura protulit, sed hominum cura fundavit) (246).
Al tempo di Cassiodoro, di Giordane e di Procopio - ossia nel cuore del VI secolo - gli insediamenti lagunari veneti costituivano dunque una realtà economica e strategica importante per la loro vocazione commerciale e di transito, in rapporto con una situazione geografica singolare e, come tale, valorizzata e sanzionata dalla pubblica autorità. Ma la sede del potere "incastellato" fra le acque si collocava ancora altrove, gravitava su Ravenna, assieme con i nobiles che, al dire di Cassiodoro, abitavano le Venezie nelle loro vaste tenute. Ed era da Ravenna che ancora promanava una forte egemonia culturale per tutto l'alto Adriatico, come mostrano ad esempio anche i riscontri in ámbito artistico (247). L'incardinarsi di un potere politico-militare sulla laguna veneta - dapprima soprattutto esogeno (bizantino), ma poi via via più autonomo e conscio della propria identità - passò attraverso successive fasi di aggiustamento topografico oltre che politico, correlate agli sviluppi evenemenziali del periodo (secoli VI-IX).
Drammatiche vicende portarono alla lacerazione dell'Italia fra Bizantini e Langobardi a partire dalla seconda metà del VI secolo. Nella primavera-estate del 569 i Langobardi, al comando di Alboíno, entravano nella Venezia orientale per il valico di Prevál (ma già mercenari langobardi "federati", provenendo dalle loro sedi in Pannonia ove allora regnava Auduíno padre di Alboíno, si erano affacciati al di qua delle Alpi orientali durante l'ultima fase della guerra gotico-bizantina - 548-552 -, al servizio di Giustiniano e alle dipendenze di Narsete, come s'è veduto) (248). Ben tosto Cividale, Treviso, Vicenza e Verona furono sotto il controllo langobardo, come già al tempo della conquista gotica senza aver opposto resistenza alcuna (ciò che peraltro dovette risparmiare loro distruzioni e stragi): forse ci fu un accordo più o meno tacito con l'ormai vecchissimo Narsete, in funzione antifranca. Soltanto i vescovi di Milano e di Aquileia, nel 569, lasciarono le proprie sedi, l'uno per Genova e l'altro per Grado. Rimasero in ogni caso presidiate da truppe bizantine Padova, Monselice, Mantova e Adria. Fu vari decenni più tardi - scomparso ormai Narsete - che Agilulfo conquistò e rase al suolo Padova nel 601/602, e nel 603 Cremona e Mantova. E fu allora che la sede vescovile di Padova cercò temporaneo riparo a Malamocco (Metamáucus). Analogamente, nel 639, il presule di Oderzo (Opitérgium) si sarebbe rifugiato a Eracléa ovvero a Jésolo (Equílium), quando la sua città cadde in mano langobarda. Solo Adria, sulla foce padana, si sarebbe conservata bizantina sino alla fine dell'esarcato. Fu pertanto in conseguenza di una situazione siffatta che Vicenza - ormai antagonista della vicina Padova rimasta bizantina - divenne sede langobarda di ducato, in quanto punto di riferimento contro eventuali offensive bizantine e poi base per l'attacco al centro patavino, dal quale si trovò divisa da una sorta di linea difensiva per tutto il primo trentennio della conquista langobarda. Nel contempo, Vicenza acquistò autonomia anche attraverso la creazione di una propria diocesi, ormai staccata da Padova; suo protovescovo fu Oronzio, il quale fa la sua prima comparsa fra i sottoscrittori di una lettera inviata nel 591 all'imperatore bizantino dai vescovi scismatici tricapitolini delle Venezie, ed è menzionato anche da Paolo Diacono per il 589/590, a proposito del concilio di Marano (249).
Com'ebbero appunto a far presente a Maurizio i vescovi di Brixen (Bressanone/Sabióna), Zulio (Iulium Carnicum), Belluno, Concordia, Trento, Ásolo, Verona, Feltre, Vicenza nel 591, era divenuto indispensabile per la cattolicità e per l'ortodossia - dalle quali gli scismatici non si consideravano per nulla separati - fare barriera contro le "pressioni" (pressurae) messe allora in atto dai nuovi dominatori ariani a danno della retta fede. Tutta la Chiesa metropolitana facente capo ad Aquileia s'impegnava quindi nella sua fedeltà all'imperatore bizantino, pur in sedi suffraganee collocate in territorio langobardo, a patto che l'Augusto intervenisse con efficacia per allentare la stretta disciplinare (compulsio) del pontefice romano nei loro confronti (il che regolarmente avvenne poco dopo, a gran dispetto di papa Gregorio, data l'importanza della posta politica in gioco). In caso di fallimento, i vescovi tricapitolini delle Venezie minacciavano di farsi ordinare non più ad Aquileia, bensì dai vescovi delle vicine Gallie (forse alludendo a Milano?) (250). Appare dunque qui già ben delineato un orientamento dell'area veneta interessante e verificabile anche a livelli diversi da quello politico-ecclesiastico ora messo a fuoco: ossia la tendenza a porsi in asse con Bisanzio mediante contatti diretti con la sede imperiale, piuttosto che far blocco con Roma.
In un situazione così confusa, ci troviamo di fronte a una Venezia spaccata contemporaneamente sul piano politico (e quindi, in cospicua misura, anche economico, sebbene la permeabilità fra territori bizantini e langobardi in tal senso non sia venuta mai meno, incrementandosi anzi col tempo) e sul piano religioso, ma con confini niente affatto coincidenti, almeno fino all'avanzato VII secolo. Di tale frantumazione plurima può essere considerato un riflesso anche quanto si legge sulle Venezie in un testo geografico come la Cosmográphia dell'Anonimo Ravennate, che tra la fine del VII e gli inizi dell'VIII secolo utilizza fonti anteriori. Nel catalogo delle province d'Italia la provincia (o regio) Venetia viene dall'autore distinta con nettezza dall'Histria (251), che risulta costituire un distretto a parte: si è pertanto già mostrato il delinearsi di una contrapposizione siffatta - anomala rispetto al passato - durante l'età gotica, in Cassiodoro (252). Questa Venetia dell'Anonimo Ravennate include le civitates di Vicenza, Padova, Altino, Concordia, Treviso, Oderzo; e inoltre Feltre, Susónnia (Susegána in provincia di Treviso), Céneda (Vittorio Veneto), Aquileia, Forumiúlium (Cividale), mentre Trento viene collocata a parte in un elenco di città ai piedi delle Alpi (Sirmione, la Civitas Garda, Lígeris = Val Lagarina?) (253), Com'è stato osservato (254), balza all'occhio la vistosa esclusione di città come Brescia, Cremona, Verona, Este, Adria, appartenenti alla Venetia et Histria fino al tardo impero e ora enumerate invece con altre sia venete (come Ariolíta/Peschiera del Garda, Hostília/Ostiglia, Foraliéni/Montagnana) sia no (quali Como, Lodi, Milano, Novara, Vercelli, Bergamo, ecc.), oppure presso il mare (Monselice, Pucíolis = Duíno, Prosília = Conselve?, Aquileia, Trieste in Istria, Ravenna nobilissima nella Flaminia, ecc.) (255). Tra i fiumi veneti compaiono il Retróne/Bacchiglióne, l'Ástico, il Brenta, il Sile, il Livenza, il Piave, il Tagliamento; ma vengono esclusi - in quanto ricordati soltanto come affluenti del Po - l'Oglio, il Mella, il Chiese, il Mincio, il Tartaro-Canalbianco (256). Merita osservare pure la "dimenticanza" - ossia il silenzio della fonte - a proposito sia di un centro portuale fortificato ormai importante come Grado, sia del fiume Adige. In sostanza si constata come, nell'ottica dell'Anonimo Ravennate e delle sue fonti-base, le Venezie ricoprissero un settore assai più limitato che nel passato, soprattutto nell'area nordoccidentale, occidentale e meridionale, ma anche orientale istriana. Esse non coincidevano né con l'antica regione X augustea; né con la provincia Venetia et Histria post-dioclezianea; né con il Venetorum angulus o Venezia minore, di cui discuteva Plinio il Vecchio contrapponendo alla Venezia continentale (in mediterraneo) tale fascia costiera e precostiera, che forse potrebbe più o meno coincidere con la Venetia inferior di cui è menzione nella Notitia Dignitatum fra il IV e il V secolo (257); né tanto meno con la Venezia langobarda dell'entroterra dalla Pannonia all'Adda, che Paolo Diacono dichiarerà costituire ancora un'unica provincia assieme con l'Istria e avente come capoluogo Cividale, distinguendola nettamente dalle "poche isole" rimaste al tempo suo sotto il controllo bizantino e chiamate Venetiae (258); neppure, infine, si può pensare a una coincidenza con la Venetia rimasta tricapitolina sul piano-religioso-ecclesiastico al tempo di Gregorio Magno.
Alle isole lagunari pare accennare lo stesso Anonimo Ravennate, là dove afferma che nella patria Venetiae vi sono "innumerevoli isole tutte abitate" (259). La gravitazione peraltro verso nord-nord/est di questa bizzarra Venetia dell'Anonimo Ravennate - la quale però esclude l'Istria, controllata dai Bizantini - sembra avere al suo centro, quasi a guisa di spina dorsale, la catena delle fortificazioni langobarde (castra) che sono state di recente rilevate attraverso le emergenze sul terreno e le fonti documentarie nell'area pedemontana fra Bassano e Sacíle, fra il Brenta e il Livenza (260). Forse non è senza significato che il nucleo protourbano di Venezia (Rivoalto nella laguna in prossimità delle foci del Brenta) acquisti rilievo politico come sede di ducato circa un secolo dopo l'Anonimo Ravennate, nel punto più prossimo al margine meridionale della Venetia da costui delineata, sostanzialmente quella proto-langobarda che maggiormente aggettava minacciosa su Ravenna.
Nel frattempo, fra VI e VII secolo, la "peninsularità" di Ravenna - capitale della prefettura d'Italia al tempo di Giustiniano e (forse dopo il 584) sede del governo esarcale bizantino - si era andata vieppiù accentuando, in dialettica con Roma (261). In parallelo s'irrobustiva il distacco di fatto dell'area veneta dal resto della penisola italica: essa tendeva ormai a porsi in relazione diretta - via mare - con Costantinopoli, scavalcando il tramite sia dell'esarcato sia di Roma (262). L'attenzione imperiale si andò per conseguenza polarizzando sulla laguna veneta, nell'estremo tentativo di portare avanti una politica bizantina ancora proiettata verso l'entroterra, faccia a faccia con i Langobardi: e dunque con una fisionomia per molti aspetti spiccatamente militare. I nobiles che al tempo di Cassiodoro avevano abitato in gran numero le Venezie, facendo però capo a Ravenna capitale per la propria affermazione politica nell'alta dirigenza del regno goto (263), in seguito alla rovina di vari centri della terraferma e allo stabilirsi dei Langobardi sulle loro terre, fra il VI e il VII secolo, dovettero senza dubbio defluire in gran parte, con il salvabile delle proprie ricchezze, negli insediamenti lagunari e costieri, vieppiù modificandone la fisionomia sociologica. Ma decisiva in tal senso dovette essere soprattutto, lungo l'arco di molti e molti decenni, la presenza via via più radicata e "acculturata" dell'elemento militare bizantino. Vari centri costieri lagunari conobbero in questo tempouno sviluppo mai prima riscontrato, tendente - con l'incoraggiamento dell'autorità bizantina - a slittare progressivamente verso sud-ovest: concentrandosi cioè su quegli insediamenti lagunari che - accantonate per il momento come secondarie le esigenze economico-commerciali funzionali agli scambi con l'Oriente mediterraneo apparivano meglio atti a contenere eventuali spinte langobarde verso la costa fino al delta padano, le quali avrebbero potuto minacciare Ravenna dal mare.
Grado era andata emergendo nel corso del IV-V secolo soprattutto come castrum proteso sul mare e in facile contatto con Ravenna, ma in prossimità di un'Aquileia ancor grande e tale da calamitare le spinte barbariche provenienti dalle Alpi orientali (264). Senza dubbio, il trasferimento in Grado della sede patriarcale di Aquileia all'avvento dei Langobardi dovette incentivarne grandemente l'importanza, non soltanto ecclesiastica ma anche politica, militare, culturale, artistica: i molti materiali e monumenti portati quivi da Aquileia ne sono un'indiretta conferma (265): non bisogna dimenticare che, soprattutto grazie alla Pragmatica Sanctio di Giustiniano (554 d.C.), i vescovi italici erano stati valorizzati a latere dei grandi proprietari e possessori locali come veri e propri funzionari dell'amministrazione civile bizantina (266). Ma Grado crebbe di peso soprattutto dopo il distacco ecclesiastico da Aquileia (ormai parte del ducato langobardo del Friúli, che occupava tutta la terraferma), divenendo sede di un proprio patriarcato autonomo in territorio bizantino nei primi decenni del VII secolo (267). Il suo rilievo politico fu esplicitamente riconosciuto dall'imperatore Eraclio, che attorno al 630 - confermando la traslazione quivi della sede aquileiese - intese rafforzare la posizione del metropolita gradense favorendone il collegamento con la tradizione marciana attraverso il dono di una cathedra in avorio decorata con episodi della vita di s. Marco; e, nel contempo, dotò il tesoro patriarcale della Chiesa gradense di reliquie e di oggetti preziosi, fra cui una cattedra-reliquiario in alabastro con un frammento della Santa Croce (268).
Contemporaneamente andava emergendo anche Torcello all'interno della laguna veneta, a circa 5 Km dall'antica Altino ormai decaduta. Nel VII secolo essa divenne residenza del magister militum nella provincia delle Venezie insulari bizantine (prima del suo successivo spostamento a Civitas Nona Heracleana). Risale pertanto al 639 la costruzione quivi della chiesa dedicata a s. Maria Assunta - la Theotókos tanto venerata a Bisanzio -, ad opera del magister militum bizantino e governatore della Venetia et Histria Maurizio, per conto dell'esarca di Ravenna Isaac e sotto l'auspicio dell'imperatore Eraclio, come ricorda una nota e discussa iscrizione rinvenuta nel muro della cattedrale (al VII secolo par risalire, di fatto, anche una parte dei mosaici che l'adornano, quelli del diacónicon) (269). Campagne di scavo intraprese per la prima volta nel 1961-1962 hanno messo in luce i resti di un insediamento preurbano in loco risalente già all'età romana (primi secoli dell'impero, allorché la vicina Altino era ancora fiorente); ma ad esso - dopo una pausa nel V/VI secolo segnata da strati sottili e frequenti di sedimentazioni alluvionali dovute alle acque del Sile e del Piave (270) - si sovrappongono, proprio a partire dal VII secolo, i segni inequivocabili di una ripresa dell'insediamento, pur in condizioni difficili, con un poderoso rafforzamento della sponda mediante palafitte, terrazzamenti, rassodamenti e una risistemazione dell'area abitata, che si avvia verso una facies urbana. Tracce coeve di coltivazioni - soprattutto a frutteto e a vigneto - testimoniano di un rinnovarsi nel contempo, a quest'epoca, anche di forme di vita agricola, accanto al persistere di tecnologie tardoantiche nell'ámbito dell'industria vetraria (resti di un'officina del VII/VIII secolo) (271).
Rientra sempre nel quadro della coeva politica bizantina - che attraverso l'ordinamento "tematico" altrove era andata nel frattempo modellando unità regionali militarmente organizzate, le quali tendevano quindi a garantire la propria difesa e sopravvivenza in maniera autonoma - pure la creazione nel VII secolo del castrum di Rivoalto, in prossimità delle foci del Brenta (272). Il fenomeno di urbanizzazione e di "incastellamento" delle isole lagunari venetiche è, di fatto, parallelo a quello riscontrabile nelle isole lungo la costa dalmata, ancora fra IV e V secolo riguardate solo come spazi di romitaggio per monaci anacoreti (273). Sembra risalire al VII secolo anche la fondazione della basilica di S. Maria in Murano (274). Nel 639 fu probabilmente a Jésolo (Equílium) che trovò rifugio il vescovo della città di Oderzo distrutta dai Langobardi di Rótari (come poi, ancora nel 669, da Grimoaldo), sebbene alcuni studiosi preferiscano identificare l'asilo del presule opitergino e degli altri fuggiaschi con Eracléa, fondata come città-fortezza nel 639 medesimo (275). Equílium - piccolo centro all'estremità nordorientale della laguna veneta presso le foci del Piave - sicuramente preesistette di almeno due secoli al trasferimento sul mare della sede episcopale, anche se i due fenomeni sono stati accreditati a lungo come contestuali, sulla base di una tradizione assai antica: ché l'evidenza archeologica consente oggi di attribuire al V/VI secolo - e non già al VII, come si era dapprima supposto - l'insediamento paleocristiano e la basilichetta sottostante alla cattedrale di S. Maria del 1060. È tuttavia certo che la rovina dei centri più prossimi sulla terraferma, in età langobarda, comportò anche per Equílium un incremento e una trasformazione considerevoli nel plesso demico in loco (276).
Ma è la fondazione di Civitas Nova Heracleana nel 639 (il medesimo anno in cui venne elevata la chiesa di S. Maria Assunta a Torcello sotto gli auspici imperiali), sempre per iniziativa dell'imperatore Eraclio suo eponimo, a rappresentare la manifestazione senza dubbio più significativa di questa politica bizantina ancora proiettata verso l'entroterra. Il riconoscimento dell'ubicazione e del disegno urbano di tale città sparita (consunta dal tempo già quando ne compare la prima menzione nelle Cronache veneziane fra XI e XIV secolo, e la cui sede vescovile fu poi abolita nel 1440) è un recupero erudito recente, dovuto all'aerofotografia; e rinvia a scavi ancora da venire (277). Cittanova si distingue peraltro da tutti gli altri insediamenti e castra lagunari per la grandiosità delle sue dimensioni e per l'unitarietà nella concezione del suo impianto urbanistico, che nel nucleo centrale, sull'isola maggiore, mostra di seguire una pianificazione modulare di tipo classico. Ma la città si edificò su palafitte, articolandosi sopra un insieme di isole, fra un incrocio di canali. La collocazione presso la sponda sinistra del Piave, mediana fra il delta del Po e l'Istria, fra Chioggia e Grado, è di per sé significativa, anche se la nuova città "imperiale" si sovrappose, forse, a un modesto insediamento romano preesistente (un vicus, di cui è rimasta qualche traccia nell'area). La città - circondata dalla laguna a ovest, a sud e a est - ebbe anche campagne di propria pertinenza coltivate a vigneti, selve, prati, pascoli. Ma ciò che qui più interessa è la sua particolarissima forma urbis "a Canal Grande", ansato e assai ampio (50/60 m), che certo prendeva atto di una via d'acqua naturale preesistente e serpeggiante fra i sedimenti della sponda lagunare: prefigurazione quindi - com'è stato osservato - della futura Venezia; ma nel contempo anche richiamo evidente alla Ravenna del V secolo di cui si è andati qui discorrendo, unico riscontro possibile a questa nuova idea di città "insulare", il cui progetto non aveva radici né in teorie ideali, né in modelli più antichi, ma era il frutto di un adattamento specifico all'ambiente non meno che alle esigenze della politica. Con Ravenna - e con Ravenna soltanto, ove una tale realtà aveva preso forma per la prima volta - Eracléa ebbe in comune l'idea della città anfibia, fulcro di potere proprio in quanto tale.
La valorizzazione di Grado, di Torcello, di Jésolo al tempo di Eraclio, la fondazione nei medesimi anni di Cittanova Eracliana sono tutti segni dell'incardinarsi del potere politico-militare sulla laguna veneta. Con il tempo, peraltro, venne meno progressivamente l'ottica "eterocentrica" che per secoli aveva continuato, in un modo o nell'altro, a far considerare gli insediamenti costieri dell'alto Adriatico subalterni rispetto alla terraferma, teste di ponte economiche e (o) politiche per il controllo dell'entroterra (già forse con i Greci e con gli Etruschi, poi con i Romani, e infine con i "nuovi Romani" di Bisanzio). Il nuovo orientamento fu il risultato - e, al tempo stesso, l'incentivo - d'una marginalità politica delle Venezie che si traduceva in crescente coscienza di autonomia da parte delle istituzioni politiche locali, coniugandosi con una cospicua vitalità economica. D'altro canto, anche gli interessi di conquista dei Langobardi si proiettavano allora verso sud - Ravenna, Roma -, lasciando da parte i territori veneti.
Isolati dalla terraferma, fra VII e X secolo gli insediamenti lagunari andarono dunque acquistando una fisionomia sempre più indipendente, mentre nella dirigenza sia laica sia ecclesiastica i nobili locali subentravano ai rappresentanti bizantini del potere imperiale: pensiamo al dux di Eracléa Orso, eletto nel 726 da famiglie locali delle Venezie in opposizione all'iconoclasta Leone III, e il cui assassinio pochi anni dopo segnò anche il passaggio del governo ai tribuni militum (278). Qualche lustro più tardi (742/743) il dux Deusdedit - di stirpe eracleese - passò da Eracléa all'isola di Malamocco, situata proprio in faccia a Padova e alle foci del Brenta, sul lido fra la laguna e il mare. E in seguito (811/827) la sede ducale si sarebbe trasferita di qui nell'isola di Rivoalto/Rialto (nella medesima positura di Malamocco, ma meno esposta, all'interno della laguna); avrebbe tosto fatto seguito, nell'828, la traslazione della spoglie di s. Marco da Alessandria. Il potere approdava così nel nucleo protourbano della futura Venezia, anche se solo al tempo di Pietro Tribuno (Petrus dux), fra IX e X secolo, l'insediamento avrebbe conosciuto un vistoso sviluppo edilizio e monumentale, soprattutto avvalendosi di materiali tratti dall'antica Altino (come già a Cittanova Eracliana) (279). Si apriva quel cammino che avrebbe portato Venezia alle sue grandi fortune, oscurando via via, a livello sia politico sia economico, i numerosi centri lagunari che ancora nella seconda metà del X secolo costituivano una sorta di comunità di "popoli ", come testimonia un diploma del 967 (il populus Venetiarum formato dagli habitatores di Rialto, Olívolo, Amoriána, Malamocco, Albíola, Torcello, Amiána, Burano, Cittanova Eracliana, Jésolo, Cáorle, Bibiónes, Grado, Cavárzere, Lauretum) (280).
Le cosiddette "origini" di Venezia s'identificano insomma con un processo genetico complesso, che andò maturando su tempi assai lunghi (281). Sarà compito d'altri illustrare il concatenarsi degli anelli più significativi in questa genesi secolare, che esula dall'ámbito cronologico qui considerato. Si sono voluti peraltro additare - in dissolvenza - soltanto alcuni fra i nodi attraverso i quali, dalla "riconquista" bizantina all'età langobarda, si posero alcune premesse importanti a quella sorta di translatio imperii da Roma alla futura Venezia - passando per Ravenna e per Cittanova Eracliana -, che la Serenissima per un certo verso avrebbe in seguito rifiutato, fiera di proclamare autonomia e libertà originarie (è a partire dal X secolo che nasce il mito delle "origini selvagge" di Venezia su terre deserte e vergini, in funzione antigreca, antiromana, antibizantina). Per altro verso, tuttavia, a questa translatio imperii, col tempo, Venezia non avrebbe saputo neppure rinunciare: donde il collegamento leggendario con Troia - sempre in funzione antigreca e dunque antibizantina -, attraverso Padova (città di origine "troiana" non meno di Roma) e le migrazioni lagunari sotto la spinta di Attila (282).
Il confronto con l'impero di Roma era di fatto inevitabile, nella cultura di uno stato ormai cosciente della propria grandezza "mondiale", in quanto paradigma di una potenza di cui Bisanzio stessa si era a suo tempo impossessata, e che era dunque giusto rivendicare in nome di un'antica tradizione adriatica e latina.
1. Se ne vedano utili sintesi anche nei saggi raccolti nel presente volume.
2. Cf. Pierluigi Tozzi, Gli inizi della riflessione storiografica sull'Italia settentrionale nella Roma del II secolo a.C., "Athenaeum", fasc. spec. (Convegno in memoria di Plinio Fraccaro), 1976, pp. 28-50, con ulteriori fonti e bibl. ivi.
3. Cf. F.Gr.Hist., I, F, 90, p. 20 (tramite Stefano di Bisanzio): "Adria: città e, presso la medesima, il golfo adriatico e parimenti il fiume [il Tartaro o Fossa Philistina, per cui cf. Plinius, Naturalis Historia, 3, 121: ... Fossiones Philistinae, quod alii Tartarum vocant ...>, come afferma Ecateo".
4. Polybius, 2, 17, 16 (leggende e stranezze sulla popolazione veneta narrate dai tragodiográphoi, un termine che non è chiaro se qui designi i poeti tragici - come par confortato dai riferimenti di Plinius, Naturalis Historia, 37, 31-32, a Eschilo, Euripide, ecc. - oppure agli storici "tragici"); 2, 16, 13-15 (critica ai miti greci sulla regione padana e alle informazioni di Timeo); cf. inoltre Id., 2, 14, 6, e 16, 7-12 e 17, 4-5, ove l'autore si riferisce in particolare alle aree dei Veneti lungo il percorso più orientale del Po, ai luoghi attorno al porto di Adria e "all'angolo adriatico" (Adriatikós mychós), al Po che sbocca nel mare dividendosi nei due rami di Padusa e di Volano e attraverso la foce di Volano è navigabile all'interno per circa 2.000 stadi, ai Veneti che abitano la regione adriatica, assai simili ai Celti per costumi e modi di vita ma differenti da essi nella lingua. Da Strabo, 5, 1, 8, 214-215 C., sappiamo che Polibio parlava anche delle fonti del Timavo; sulla esperienza diretta di Polibio cf. Frank William Walbank, A Historical Commentary on Polybios, I, Oxford 1957, pp. 172-173 (ad 2, 14, 12); Id., Polybius, Berkeley 1972, p. 118 con n. 112; ulteriori fonti e bibl. in Lellia Cracco Ruggini, Storia totale di una piccola città: Vicenza romana, in AA.VV., Storia di Vicenza, I, Il territorio - La preistoria - L'età romana, Vicenza 1987, pp. 205-302 e spec. 206 ss.; Anna Maria Chieco Bianchi, I Veneti, in AA.VV., Italia omnium terrarum alumna, Milano 1988, pp. 1-98 e spec. 3.
5. Cf. Pseudo-Aristoteles, 836 a-b (De mirabilibus auscultationibus, 81); la tradizione sembra risalire soprattutto ad Antioco di Siracusa (V secolo a.C.): cf. Diodorus Siculus, 12, 71, 2.
6. Cf. Apollonius Rhodius, 4, vv. 504-506, 574-589 (oracolo emanato dall'albero di una delle imbarcazioni argonaute, costruito con una quercia di Dodona: Dodona, pertanto, fu città sacra dei Pelasgi - cf. Herodotus, 2, 52 e Strabo, 7, 7, 10, 327-328 C. - nonché, in seguito, centro d'irradiazione delle successive migrazioni pelasgiche), 593-605, 627-628 (ove i corsi dell'Erídano e del Rodano appaiono congiunti). Sugli Istri cf Plinius, Naturalis Historia, 3, 18, 22 (che riferisce il "padano" Cornelio Nepote, ma preferisce collegare il nome dell'Histria con il Danubio/Hister: Histriam cognominatam a flumine Histro in Hadriam effluente plerique falso dixere [...>); Iustinus, 32, 3. Una cartina delle rotte protostoriche e dei presunti itinerari degli Argonauti e dei Pelasgi si trova in Germana Scuccimarra, L'Adriatico dei Greci, in AA.VV., Storia di Ravenna, I, L'evo antico, Venezia 1990, pp. 79-102.
7. Cf. Dionysius Halycarnassensis, 1, 28 (che cita Ellaníco: F.Gr.Hist., I, F, 4, p. 108) e 1, 8; Pseudo-Aristoteles, 1oc. cit. (il tema di Ícaro sembra poi essere stato tipico dell'area veneto-friulana - Aquileia, Altino - e norico-pannonica, nella seconda metà del I secolo a.C.); Emilio Gabba, Dionigi e la "Storia di Roma arcaica", in AA.VV., Actes du IXe Congrès de l'Ass. G. Budé (Rome, 13-18 Avril 1973), Paris 1975, pp. 218-229: v. inoltre la bibl. cit. a n. 9.
8. Cf. Pompeo Trogo in Iustinus, 20, 1, 11; Strabo, 5, 1, 7, 214 C.; Zosimus, 5, 27, 1-2, a cura di François Paschoud, III, 1, Paris 1986, p. 40; Dionysius Halycarnassensis, 1, 28, 3 sopracit. (da Ellaníco). A migrazioni di genti illiriche potrebbe riferirsi anche la denominazione della Fossa Philistina nell'ámbito lagunare veneto-padano, se potesse dimostrarsi certa la sua relazione con i Filistei (uno dei "popoli del mare" che attaccarono l'Egitto nel 1127 a.C.), dei quali sembra sicura l'origine illirica: cf. Giuliano Bonfante, Who Were the Philistines?, "American Journal of Archaeology", 50, 1946, pp. 251-262; ma vi è chi - ancora in tempi recentissimi - ha suggerito un più tardivo collegamento fra la canalizzazione artificiale della Fossa Philistina (certamente preromana) e un preciso intervento di Filisto, ammiraglio e storiografo di Dionigi il Vecchio, al tempo dell'egemonia siracusana e delle sue ambizioni espansionistiche nell'Adriatico nella prima metà del IV secolo a.C.: cf. Lorenzo Braccesi, L'avventura di Cleonimo (a Venezia prima di Venezia), Padova 1990, pp. 47 ss., con ulteriore bibl. ivi; sul collegamento Filisto-Fossa Philistina, dopo Holm, Mommsen e Beloch cf. spec. Santo Mazzarino, Interpretazione della storia di Classe dal IV secolo a.C. all'età di F avius(Cassiodorio), in AA.VV., Atti del Congresso Internazionale di Studi sulle Antichità di Classe, Ravenna 1967, pp. 5-15; Id., Per l'interpretazione della storia di Ravenna da Filisto a Jordanes, in Id., Antico, tardoantico ed èra costantiniana, II, Bari 1980, pp. 300-312 e spec. 308-309; sul problema v. inoltre Dominique Briquel, Les Pélasges en Italie: Recherches sur l'histoire de la légende, Roma 1984, pp. 48 s. Differente è invece la tradizione riportata da Plinius, Naturalis Historia, 3, 120, secondo cui Spina sarebbe stata fondata dall'eroe troiano Dioméde, dunque più tardi, dopo la caduta di Troia.
9. Per tutto quanto detto sopra, cf. documentazione e ulteriori rinvii bibliografici spec. in Emanuele Ciaceri, L'antico culto di Gerione nel territorio di Padova e in Sicilia, "Archivio Storico per la Sicilia Orientale", 16-17, 1919-1920, pp. 70-83; Enrico Livrea, Apollonii Rhodii Argonauticon liber quartus, Firenze 1973, pp. 180 ss.; Olimpio Musso, Hekataios von Milet und der Mythus von Geryones, "Rheinisches Museum für Philologie", 114, 1971, pp. 83-85; Id., Ps. Arist. Mir. Ausc. 81, ibid., 119, 1976, p. 369; Lorenzo Braccesi, Grecità adriatica, Bologna 19772, pp. 18 ss., 30-55, 108-127; Paolo Fabbri, Il paesaggio ravennate nell'evo antico, in AA.VV., Storia di Ravenna, I, L'evo antico, Venezia 1990, pp. 7-30 (la città esistette almeno dal V secolo a.C.); Giovanni Uggeri, in questo stesso volume.
10. Sulla Fossa Philistina v. sopra, n. 8; Cassiodorus, Variae, 1, 45 (507 d.C.), in C.C.L., 96, p. 51, sulla scia di posizioni vitruviane (cf. Vitruvius, De architettura, 10, 1) e - forse mediatamente - aristoteliche (per cui vedi oltre, n. 25). Su Dedalo, leggendario inventore di autómata, cf. ad es. Aristoteles, Politica, 1, 4, 3, 1253 b; più in generale Carl Robert, s.v. "Daidalos", in R.E., IV (1901), coll. 1994-2007.
11. V. sopra, n. 7
12. Cf. Hyginus, Fabulae, 153.
13. Un filone di studi in questo senso è stato avviato dagli intelligenti contributi di Giusto Traina, Le Valli Grandi Veronesi in età romana. Contributo archeologico alla lettura del territorio, Pisa 1983, spec. pp. 91-95; Id., Antico e moderno nella storia delle bonifiche italiane, "Studi Storici", 26, 1985, pp. 431-436; Id., Paesaggio e 'decadenza'. La palude nella trasformazione del mondo antico, in AA.VV., Società romana e impero tardoantico, III, Le merci, gli insediamenti, Roma-Bari 1986, pp. 711-730 (testo) e 905-917 (note); Id., Aspettando i barbari. Le origini tardoantiche della guerriglia di frontiera, "Romano-barbarica", 9, 1986-1987, pp. 247-280; Id., Muratori e la 'barbarie' palustre. Fondamenti e fortuna di un topos, "L'ambiente storico", 8-9, 1987, pp. 13-25; Id., Paludi e bonifiche del mondo antico. Saggio di archeologia geografica, Roma 1988; Id., L'immagine imperiale delle 'paludi' Pontine, in AA.VV., Incontro con l'archeologia (Atti del Convegno, Cori, 13-14 aprile 1985), Sabaudia 1989, pp. 39-44; Id., 'Continuità e visibilità'. Premesse per una discussione sul paesaggio antico, "Archeologia Medievale", 16, 1989, pp. 683-693; Id., Ambiente e paesaggi di Roma antica, Roma 1990.
14. Cf. Cassiodorus, Variae, 12, 24 (537/538 d.C.), in C.C.L., 96, pp. 491-492, su cui v. oltre, testo corrispondente alle nn. 223-225.
15. Cf. Aelius Aristides, Orationes, 16, 258, ove l'autore si adegua a prescrizioni retoriche che ricompaiono anche in Menandro di Laodicea nel III secolo d.C., secondo cui il retore, nelle lodi di una città, deve saper enumerare tutti i pregi di questa e del suo territorio: cf. G. Traina, Paludi e bonifiche, pp. 93-101.
16. Cf. G.Traina, Paesaggio e 'decadenza'; Id., Aspettando i barbari; Id., Paludi e bonifiche, pp. 129-132. Sul sistema difensivo delle paludi artificiali create attorno alle città assediate da ingegneri idraulici, cf. ad es. Vitruvius, De architettura, 10, 16, 3-7 (in riferimento ai Rodii assediati invano da Demetrio Poliorcete nel 305/304 a.C.); v. pure oltre, n. 26 (per Camarína) e testo corrispondente alle nn. 240-246 (per l'età gotica in Italia).
17. Cf. Plinius, Naturalis Historia, 14, 8 (vite di Cécubo nelle paludi pontine); 14, 110 (vindemiae in palustribus nel territorio patavino); 21, 73 (api-cultura "fluviale"); Columella, De re rustica, 3, 13, 8 (vigneti nel territorio paludoso di Ravenna); Geoponica, 2, 47, 9 (vino detto hélios - da tà hélé = "acquitrini" -, appunto perché ricavato da vigneti palustri); G. Traina, Paludi e bonifiche, pp. 101-108; v. pure Id., Le Valli Grandi Veronesi, pp. 91-95.
18. Cf spec. Lynn White Jr., Technological Development in the Transition from Antiquity to the Middle Ages, in AA.VV., Tecnologia, economia e società nel mondo romano. Atti del Convegno di Como (27-29 sett. 1979), Como 1980, pp. 235-251. Più in generale cf. pure Rodolfo Mondolfo, La 'creatività' dello spirito, il lavoro e il progresso umano nella concezione degli antichi, in Id., La comprensione del soggetto umano nell'antichità classica, Firenze 1967, pp. 575-639 e spec. 629 ss.; Elio Pasoli, Scienza e tecnica nella considerazione prevalente del mondo antico. Vitruvio e l'architettura, in AA.VV., Scienza e tecnica nelle letterature classiche, VI giornate filologiche genovesi (23-24 febbr. 1978), Genova 1980, pp. 63-8o.
19. Cf spec. Seneca, Epistulae, 90, 11; Italo Lana, Scienza e tecnica a Roma da Augusto a Nerone (1971), in Id., Studi sul pensiero politico classico, Napoli 1973, pp. 385-387 = Id., Sapere, lavoro e potere in Roma antica, Napoli 1990, pp. 421-451; Id., Politica e scienza da Augusto ai Flavi, in Id., Sapere, lavoro e potere, pp. 131-168; Mario Pani, La polemica di Seneca contro le 'artes' (ep. 90). Un caso di sconcerto, in AA.VV., Xenia. Scritti in onore di Piero Treves, Roma 1985, pp. 141-150; per l'influenza dell'atteggiamento di Seneca sul pensiero cristiano del IV secolo, cf. Lellia Cracco Ruggini, Progresso tecnico e manodopera in età imperiale romana, in AA.VV., Tecnologia, economia e società, pp. 45-66 e spec. 51-52 con n. 21; Ead., Scienza, pseudoscienza e domanda tecnologica nelle culture tardoantiche (in preparazione per la "Rivista Storica Italiana"). In partic. per Ambrogio cf. Ambrosius, Exameron, 5, 26-27, ove il presule di Milano deplora l'avidità che spinge gli uomini perfino a "lastricare il mare" o a vantare su di esso diritti di proprietà per la pesca, gli allevamenti di ostriche e i vivai di pesce, a trasformare penisole in isole artificiali sezionando la terra emersa (forse con echi di Plinius, Naturalis Historia, 36, 1-3, ma con originalità rispetto al proprio modello-chiave greco, le Omelie sull'Esamerone di Basilio di Cesarea, composte una decina d'anni prima - 379 d.C. -: e dunque forse pensando a realtà lagunari e altoadriatiche).
20. Cf. Tacitus, Annales, 1, 79; G. Traina, Antico e moderno; Paolo Fedeli, La natura violata. Ecologia e mondo romano, Palermo 1990, pp. 81 ss.
21. Cf. Svetonius, Claudius, 20, 4 e 32, 2; Plinius, Naturalis Historia, 33, 63 e 36, 124; Tacitus, Annales, 12, 57; Cesare Letta, L'aborto di Agrippina o della fantasia epigrafica (I libretti di mal'aria, 406), Pisa 1986, pp. 1-6. Quella dell'emissario artificiale del lago Fúcino fu la più lunga galleria prima del traforo del Sempione (5.640 m). Augusto e Agrippa si erano macchiati di sacrilegio ristrutturando il comprensorio del lago Averno e sconvolgendone i culti: Strabo, 5, 4, 5, 244-245 C., sembra giustificare l'operazione accennando al mistero e alla probabile pericolosità dei culti stessi; forse giustificatoria è anche, nel libro VI dell'Eneide virgiliana, la descrizione del nuovo paesaggio infero voluto da Augusto (cf. G. Traina, Paludi e bonifiche, pp. 120-124): si tenga presente a questo proposito il paragone che farà Cassiodoro in età gotica (Variae, 12, 22, in C.C.L., 96, pp. 488-490, del 537/538) fra le aree lagunari veneto-istriane e quelle dell'Averno in Campania (Avernus ibi non unus est [...>: v. oltre, n. 232).
22. Cf. Herodotus, I, 75 (Creso); 1, 189-190 (Ciro); 2, 111-112 (Sesóstri); 7, 22-24 e 35-37 (Serse); Gian Arturo Ferrari, Macchina e artificio, in AA.VV., Il sapere degli antichi, Torino 1985, pp. 163-179. Ancora nell'età dei Severi Filostrato (Vita Apollonii, 3, 27 e 5, 12) mostra il suo eroe Apollonio - filosofo neopitagorico - in atteggiamento cortese ma deliberatamente privo d'interesse di fronte ai mirabolanti "automi" meccanici esibiti alla corte del re "barbaro" Phraótes, in India.
23. 113 ss.
24. Vv. 1123-1163.
25. Cf. Aristoteles, Politica, 1267 b - 1268 a 8 (su Ippòdamo); G. A. Ferrari, Macchina e artificio. Sull'arte (tḗchnē) che esegue ciò che la natura non sa realizzare cf. Aristoteles, Physikḗs acroáseos, 2, 8, 199 a.
26. Per Camarina (Camerina) cf. Servius, In Vergilii Aeneida commentarii, 3, v. 701, a cura di Georg Thilo, I, Leipzig 1878 = riprod. anast. Hildesheim 1961, p. 456; G. Traina, Paesaggio e 'decadenza', pp. 905-906, n. 5; Id., Paludi e bonifiche, pp. 93-101. Per Cnido, cf. Herodotus, 1, 174: agli abitanti di Cnido, che intendevano scavare un canale attraverso la loro penisola, l'oracolo di Delfi rispose che se Zeus avesse voluto che Cnido fosse un'isola, tale l'avrebbe fatta.
27. Cf. Tertullianus, De anima, 30, 3, in Corpus scriptorum ecclesiasticorum Latinorum, 20, 1, Vindobonae 1890, p. 350, su cui cf Claude Lepelley, Peuplement et richesses de l'Afrique Romaine tardive, in AA.VV., Hommes et richesses dans l'Empire byzantin, I, IVe-VIIe siècle, Paris 1990, pp. 17-30 e spec. 17; Id., 'Ubique res publica'. Tertullien, témoin méconnu de l'essor des cités africaines à l'époque sévérienne, in AA.VV., L'Afrique dans l'Occident Romain (Ier siècle av.J.-C. - IVe siècle ap.J.-C.). Actes du Colloque organisé par l'École Française de Rome (3-5 Déc. 1987), Roma 1990, pp. 403-421 e spec. 416 ss. Sulle valenze politiche conservatrici del pensiero antitecnicistico senechiano cf. i contributi di I. Lana citati alla n. 19; sul disprezzo per il lavoro pratico e per il progresso tecnico visto in relazione con un'etica individuale in una età che, dopo la fine della Repubblica, ancora non aveva sviluppato una nuova etica politica al servizio del principe, cf. Dieter Nòrr, Zur sozialen und rechtlichen Bewertung der freien Arbeit in Rom, "Zeitschrift der Savigny-Stiftung", 82, 1965, pp. 67-105 e spec. 85. Sulla vocazione del proprietario romano a coltivare il più possibile (sia pure con minima spesa), cf. L. Cracco Ruggini, Progresso tecnico, spec. pp. 6o ss.
28. Cf. G. Traina, Antico e moderno; Id., Paesaggio e 'decadenza', pp. 711 ss.
29. Cf. Plutarchus, Theseos, 1, 1; G. Traina, Paludi e bonifiche, pp. 129-132 (La palude come frontiera del mondo). Più in generale Florence Dupont, La vita quotidiana nella Roma repubblicana, Roma-Bari 1990 (dall'ediz. Paris 1989), pp. 94 ss. (sull'"altrove" selvaggio). V. inoltre Plutarchus, De defectu oraculorum, 18 (419) e Id., De facie [...> in orbe lunae, 26 (941), ove l'autore parla delle isole collocate all'estremo nord presso la Britannia, i cui abitanti erano ritenuti sacri e inviolabili dai Britanni; isole dal clima dolcissimo ma soggette a fenomeni naturali portentosi, e in una delle quali si diceva fosse confinato Crono per volontà di Zeus, custodito da Briaréo e servito da altre divinità: una sorta, dunque, di isole dei Beati al confine dell'ecumene.
30. Cf. Ambrosius, Exameron, 1, 8, 28; sull'idea già greca di una terra primordiale fangosa cf. Otto Gilbert, Die meteorologischen Theorien des griechischen Altertums, Leipzig 1907, p. 141. Cf. inoltre Ambrosius, Exameron, 3, 37, ove egli parla dell'olio cotto con assenzio con cui i contadini cospargevano il corpo per difendersi dalle zanzare; Id., De virginibus, 3, 14, sul miracoloso cessare del gracidare altissimo delle rane nelle paludes, durante la predicazione di un santo sacerdote, evangelizzatore delle popolazioni agricole; Id., De virginitate, 34 (foreste nella pianura); Id., Enarratio in Psalmum XXXVI, 12 (cinghiali che irrompono dai boschi nei campi coltivati, danneggiandoli); Lellia Ruggini, Economia e società nell' 'Italia annonaria'. Rapporti fra agricoltura e commercio dal IV al VI secolo d.C., Milano 1961, pp. 30-31 (ove si fa pure riferimento a tracce archeologiche d'insediamenti agricoli abbastanza cospicui anche in aree parzialmente occupate da boschi e acquitrini, quali ad es. Verdesiacum, fra Albairate e Cisliano sulla sponda sinistra del Ticino). Sul paradiso-giardino, cf. Ambrosius, De paradiso, 3, 4; Proba, Centones Virgiliani, De deliciis Paradisi, in P.L., 19, col. 806; Coelius Sedulius, Carmen Paschale, 5, vv. 221 ss., in P.L., 19, col. 729; Marius Victorinus, Commentariolum in Genesim, 1, in P.L., 61, coll. 943-944. Più in generale su di una tendenziale, "nuova geografia cristiana", che soprattutto a partire da Paolo Orosio accetta anche aspetti e fenomeni rovinosi della natura quali manifestazioni della volontà di Dio e della sua collera, non facendo più distinzioni fra terre privilegiate dalla presenza del lógos e rozzi territori barbari, cf. Eugenio Corsini, Introduzione alle 'Storie' di Orosio, Torino 1968, pp. 73-82.
31. Cf ad es. Strabo, 3, 2, 15, 151 C.; 3, 3, 8, 155 C.; Adrian Nicholas Sherwhin White, Racial Prejudice in Imperial Rame, Cambridge 1967, pp. 1-13.
32. Cf. Artemidorus, Oneirocritick, 2, 28 e 68.
33. Cf. Heliodorus, Aethiopicorum libri, 1, 5-6; per una proposta di datazione dell'opera (assai discussa) verso la fine del regno di Aureliano o poco dopo (273 d.C. ss.) cf. Lellia Cracco Ruggini, Leggenda e realtà degli Etiopi nella cultura tardoimperiale, in AA.VV., Atti del IV Congresso Internazionale di Studi Etiopici (Roma, Accademia Nazionale dei Lincei, 10-15 apr. 1972), Roma 1974, pp. 141-193 e spec. 161-185. Per l'accostamento fra il delta padano e nilotico cf. spec. Strabo, 5, 1, 7, 213-214 C. (per cui vedi oltre, § 6) e Plinius, Naturalis Historia, 3, 121.
34. Cf. ad es. Caesar, De bello Gallico, 6, 5, 7 (briganti silvestri e paludi); per un'epoca successiva Iuvenalis, 1, 3, 36. Tacitus, Annales, 1, 68 (a proposito di Arminio); Id., Germania, 2 e 15 e 12; Id., Agricola, 30-31 (ove Calgáco denuncia l'abominevole condizione dei Britanni asserviti a Roma e costretti a coltivare ordinatamente i campi, aprendo strade tra le foreste e le paludi). Anche Lucrezio (5, v. 1241) aveva parlato a sua volta di bellum silvestre di popoli primitivi; ma ancora nei primi lustri del VI secolo lo storico bizantino Zosimo, riferendosi a eventi del 387 (la marcia delle truppe di Valentiniano II e di Massimo dalle Gallie contro i Sármati transdanubiani, attraverso l'Italia del nord), avrebbe parlato di "quei luoghi paludosi che creano scoraggiamento in un esercito che teme di trovare l'opposizione nemica in zone tanto disagevoli": cf. Zosimus, 4, 42, 7, a cura di François Paschoud, II, 2, Paris 1979, pp. 310-311. Su molti di questi aspetti cf. G. Traina, Paesaggio e 'decadenza', p. 717; Id., Aspettando i barbari, p. 255; Id., Paludi e bonifiche, pp. 42-47.
35. Cf. Plinius, Naturalis Historia, 3, 119-121; sui due rami padani di Volano e Padusa, v. Polybius, 2, 16, 12 cit. sopra, n. 4. Sia la Padusa sia l'alveo padano di Adria erano rami ormai decaduti e senescenti in età classica. Su Adria, antico approdo paleoveneto trasformatosi in seguito in emporio ellenico e poi in insediamento coloniario siracusano, cf. L. Braccesi, Grecità adriatica, pp. 211 ss.
36. Cf. Plinius, Naturalis Historia, 3, 119; S. Mazzarino, Per l'interpretazione della storia di Ravenna.
37. Cf. Livius, 10, 2, 4-15; Franco Sartori, Padova nello stato romano dal sec. III a.C. all'età dioclezianea, in AA.VV., Padova antica, da comunità paleoveneta a città romano-cristiana, Sarmeola di Rubano (Padova)-Trieste 1981, pp. 92-189 e spec. 101-103; Luciano Bosio - Guido Rosada, Le presenze insediative nell'arco dell'alto Adriatico dall'epoca romana alla nascita di Venezia. Dati e problemi topografici, in AA.VV., Da Aquileia a Venezia. Una mediazione tra l'Europa e l'Oriente dal Il secolo a.C. al VI secolo d.C., Milano 1980, pp. 509-567; Luciano Bosio, Note per una propedeutica allo studio storico della laguna veneta in età romana, "Atti dell'Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti", Cl. di Scienze Morali, Lettere ed Arti, 142, 1983-1984, pp. 95-126 e spec. 99-103; Id., Le origini di Venezia (con contributi di Stefania Pesavento e Francesca Ghedini), "Archeo Dossier", Novara 1985, spec. pp. 5 ss. (L'antica laguna); Giovanni Uggeri, La navigazione interna della Cisalpina in relazione all'economia e alla società aquileiese, in AA.VV., Vita sociale, artistica e commerciale di Aquileia romana (A.A., 29), II, Udine 1987, pp. 305-354 e spec. 310 s.; L. Braccesi, L'avventura di Cleonimo.
38. Sulle campagne magnogreche di Cleónimo, cf. Diodorus Siculus, 20, 104-105 (forse derivando da Dúride: cf. da ultimo Sebastiana N. Consolo Langher, La vicenda storiografica e letteraria di Duride di Samo. Poetica e teoresi storica, in AA.VV., 'Hestíasis'. Studi di tarda antichità offerti a Salvatore Calderone, II, Messina 1988, Studi Tardoantichi 1-2 [1986>, pp. 347-386). Diodoro non parla della spedizione di Cleónimo nell'alto Adriatico, ma fornisce un dato rivelatore informando circa la conquista della piazzaforte di Corcíra, scalo strategico alla cerniera fra Ionio e Adriatico (la notizia trova conferma anche nello storico voconzio Pompeo Trogo sempre nell'età di Augusto: cf. Pompeius Trogus, Historiae Philippicae, Prologus libri 15); sino a quel momento, di fatto, Cleónimo si era servito di forze mercenarie pagate dai Tarentini e non aveva quindi disposto di risorse autonome né in uomini né in navi.
39. Diodoro parla invece, più genericamente, di una sconfitta subíta da Cleónimo nel Salento - nel corso della sua seconda campagna militare italiota - da parte di non specificati "barbari", che lo avrebbero costretto a ripiegare sulle navi.
40. Cf. da ultimo Attilio Mastrocinque, Santuari e divinità dei Paleoveneti, Padova 1987, pp. 71 ss.
41. Cf. Strabo, 5, 1, 7, 213 C. (seguo l'attenta analisi delle fonti e i precisi riscontri topografici di L. Bosio, negli scritti citati sopra, n. 37).
42. Cf. Tabula Peutingeriana, Segm. III, 4-5 e IV, 1, con commento in L. Bosio, Note per una propedeutica, pp. 119-123. È appunto nella Tabula Peutingeriana (Segm. III, 5) che compare per la prima volta il nome del Medúacus/Brenta nella forma di Flumen Brintensia, forse recuperando un idronimo Brinta d'origine prelatina, cancellatosi in età romana: cf. Giovan Battista Pellegrini, I nomi locali del Trentino orientale, Firenze 1955, pp. 30 s. Sulla Tabula Peutingeriana - itinerarium pictum d'uso pratico, che conobbe varie rielaborazioni e aggiornamenti, ma che sembra risalire a un originale occidentale degli inizi del III secolo d.C. (età severiana), poi rifatto forse in Oriente tra la fine del IV e gli inizi del V secolo d.C. - cf. ediz. a cura di Konrad Miller, Die Peutingersche Tafel, Stuttgart 1962 (1a ediz. Ravensburg 1887). L'esistenza di un insediamento paleoveneto riferibile al III e IV periodo atestino (VI-II secolo a.C.) nel sito di Altino è oggi comprovata dall'evidenza archeologica: cf. ad es. L. Bosio, Le origini di Venezia, p. 7.
43. Cf spec. Wladimiro Dorigo, Venezia Origini. Fondamenti, ipotesi, metodi, I-III, Milano 1983; v. pure Id., Problemi e metodi per un'archeologia delle origini di Venezia, in AA.VV., Le origini di Venezia. Problemi esperienze proposte (Venezia, 28-29 febbr. e 1-2 marzo 1980), Padova 1981, pp. 125-131; v. pure oltre, testo corrispondente alla n. 118.
44. Cf. fonti e considerazioni in Lellia Cracco Ruggini, Eforo nello Pseudo-Aristotele, 'Oec.' II?, "Athenaeum", n. ser., 44, 1966, pp. 199-236, e 45, 1967, pp. 3-87, spec. 40-41; v. pure Nino Luraghi, Polieno come fonte storica di Dionisio il Vecchio, "Prometheus", 14, 1988, pp. 164-180.
45. Cf. L. Braccesi, L'avventura di Cleonimo, spec. pp. 51-53.
46. Cf. Livius, 5, 33. Sui rapporti dell'area veneta con Etruschi e Celti attraverso la documentazione archeologica cf. spec. AA.VV., Gli Etruschi a nord del Po. Catalogo della Mostra (Mantova, sett. 1986 - genn. 1987), I (1986) e II (1987).
47. Cf. Livius, I, I. Sul Pagus Troianus cf. Maria Silvia Bassignano, Il municipio patavino, in AA.VV., Padova antica, da comunità paleoveneta a città romano-cristiana, Sarmeola di Rubano (Padova) - Trieste 1981, pp. 191-227 e spec. 203-205. Sulla leggenda dei Veneti di Paflagonia salvatisi con Anténore fuggendo da Troia e dediti all'allevamento dei cavalli secondo le proprie tradizioni antiche, cf. Strabo, 5, 1, 5, 212 C.
48. Livio ne tace, ma ne parla Vergilius, Aeneis, 1, vv. 242-249; quattro secoli più tardi il grammatico Servio, nel commentare i versi virgiliani, affermò che Anténore era sbarcato nella Venetia e non "nell'insenatura illirica"; Servio (In Vergilii Aeneida commentarii, 7, v. 715 e 9, v. 503, a cura di G. Thilo, II, pp. 187 e 354) parla anche degli aiuti militari inviati a Enea dai Veneti contro i popoli che lo combattevano nel Lazio (v. oltre, n. 69); cf. in generale Lorenzo Braccesi, La leggenda di Antenore da Troia a Padova, Padova 1984; da ultimo A.M. Chieco Bianchi, I Veneti.
49. Cf Ilias, 2, vv. 851-852.
50. Sui Veneti gentiles Romanorum cf. Scholia Veronensia in Vergilii Aeneida commentarii, 1, v. 248, a cura di G. Thilo, III, 2, p. 417; Cf. Livius, 10, 2, 7-15; Mela, 2, 4, 60; F. Sartori, Padova nello stato romano, pp. 100-103; L. Braccesi, L'avventura di Cleonimo, p. 75.
51. Cf. Caesar, De bello Gallico, 1, 33, 2 (Heduos fratres consanguineosque saepenumero a senatu appellatos); Cicero, Epistulae ad Atticum, 1, 19, 2 (60 a.C.) e Epistulae adfamiliares, 7, 10, 4 (54 a.C.), ove sempre gli Edui vengono denominati fratres nostri.
52. Cf. Santo Mazzarino, Il concetto storico-geografico dell'unità veneta, in AA.VV., Storia della cultura veneta, I, Dalle origini al Trecento, Vicenza 1976, pp. 1-28 e spec. 12 ("i Galli furono chiamati Veneti a causa delle loro vesti", di colore venetus, ossia azzurro); cf. pure Polybius, 2, 17, 5, là ove - riflettendo una situazione tarda - afferma che i Veneti "per costume e modo di vita" erano "poco diversi dai Celti" (v. sopra, n. 4). Sui Veneti nelle Gallie (Armórica), cf. Jerzy Kolendo, I Veneti dell'Europa centrale e orientale. Sedi e realtà etnica, "Atti dell'Istituto Veneto di Scienze Lettere ed Arti", Cl. di Scienze Morali, Lettere ed Arti, 143, 1984-1985, pp. 415-435 + tavv. I-IV (con riferimenti al medesimo etnonimo anche presso il litorale orientale del Baltico e nella parte centrale dell'Europa orientale); Gabriele Rossi-Osmida, Italia, Veneto, Polonia: appunti in margine alla mostra padovana, in AA.VV., I tesori dell'antica Polonia. Dai Veneti ai re di Cracovia, Modena 1985, pp. 25-28; Witold Hensel, I Veneti, i Wenedi ed i loro legami con le popolazioni dell'Italia settentrionale e della Polonia, ibid., pp. 29-31; Girolamo Zampieri, L'origine dei Veneti, ibid., pp. 33-36.
53. Un riflesso mitopoietico della propaganda dionisiana e di effettive alleanze e aiuti mercenari a Dionigi di Siracusa da parte di bande galliche sembra riconoscersi nella leggenda riferita da Timeo di Tauromenio (280 a.C.), che aveva presentato i Galli come stirpe autoctona di Sicilia (in quanto discendenti dall'eponimo Gálato, nato dall'unione di Polifemo con la ninfa marina Galatéa): cf. F.Gr.Hist., 566, F, 69, con ibid., III b, pp. 569-570 (Kommentar) e 335 (Noten); Karl Friedrich Stroheker, Dionysios I. Gestalt und Geschichte des Tyrannen von Syrakus, Wiesbaden 1958, p. 126; L. Braccesi, Grecità adriatica, p. 202. Sempre in Sicilia, proprio attorno alla metà del IV secolo a.C., uno storico di Sikeliká come Álcimo ebbe a occuparsi di Roma presentandone una genealogia etrusco-troiana attraverso le nozze di Enea con Tyrrhenia, da cui sarebbe nato Romolo: cf. F.Gr.Hist., 560, F, 4, con ibid., III b, pp. 517-52I (Kommentar); Lellia Cracco Ruggini - Giorgio Cracco, L'eredità di Roma, in AA.VV., Storia d'Italia, V, I documenti, Torino 1973, pp. 5-45 e spec. 34 con nn. 3-4.
54. Cf. Ammianus Marcellinus, 15, 9, 2-7 ([...> ambigentes super origine prima Gallorum, scriptores veteres notitiam relinquere negotii semiplenam. sed postea Timagenes, et diligentia Graecus et lingua, haec quae diu sunt ignorata collegit ex multiplicibus libris [...>. aiunt quidam paucos post excidium Troiae fugitantes Graecos ubique dispersos loca haec occupasse tunc vacua [...>). La notizia dello storico augusteo Timágene, riferita da Ammiano Marcellino verso la fine del IV secolo d.C., costituisce senza dubbio il modello remoto di un'analoga leggenda medievale circa l'origine troiana dei Franchi, che si legge nella Cronaca merovingia del cosiddetto Fredegario (cf. Pseudo-Fredegarius, Chronicon, 2, 4-9, in M.G.H., Scriptores Rerum Merovingicarum, II, 1988, pp. 45-47). Su tutto ciò e sulla diffusione - soprattutto nel I secolo a.C. - della tematica relativa a insediamenti in Occidente di eroi troiani esuli dalla patria distrutta, cf. Bruno Luiselli, Il mito dell'origine troiana dei Galli, dei Franchi e degli Scandinavi, "Romanobarbarica", 3, 1978, pp. 89-121; sull'excursus gallico di Ammiano Marcellino e Timágene, cf. Marta Sordi, Ellenocentrismo e filobarbarismo nell' 'excursus' gallico di Timagene, in AA.VV., Conoscenze etniche e rapporti di convivenza nell'antichità, Milano 1979 (Contributi dell'Istituto di Storia Antica dell'Università Cattolica), pp. 34-56; Ead., Timagene di Alessandria: uno storico ellenocentrico e filobarbaro, in AA.VV., Aufstieg und Niedergang der römischen Welt, II, 13, 1, Berlin-New York 1982, pp. 775-797 (l'Autrice interpreta il passo ammianeo come attestazione di una discendenza dei Galli dai Greci reduci da Troia, ciò che lascia ádito a forti dubbi).
55. Cf. A.M. Chieco Bianchi, I Veneti. Per i Veneti di Paflagonia alleati dei Greci contro Troia v. sopra, n. 47. Sui Veneti come Troiani in Catone (fr. 21, apud Plinius, Naturalis Historia, 3, 130), cf. P. Tozzi, Gli inizi della riflessione storiografica, p. 35.
56. Cf. Plutarchus, Marcellus, 3, 6-7; Cassius Dio, Excerpta de sententiis, 128 B = fr. 50, 113; Orosius, 4, 13, 3 (per il 228 a.C.); Livius, 22, 57, 2-6 (per il 216 a.C.); Plutarchus, Quaestiones Romane, 83 (284 B) (per il 113 a.C.). Secondo Plinius, Naturalis Historia, 28, 12, cerimonie di seppellimento nel Foro Boario di Graecum Graecamque [...> aut aliarum gentium cum quibus tum res essent erano ancora considerate efficaci ed eseguibili al tempo suo (I secolo d.C.). Su tutto ciò cf. spec. Augusto Fraschetti, Le sepolture rituali del Foro Boario, in AA.VV., Le délit religieux dans la cité antique. Table ronde, Rome 6-7 Avril 1978, Roma 1981 (Collection de l'École Française de Rome, 48), pp. 51-115 (il quale formula la suggestiva ipotesi che in rapporto alla duplice e contemporanea minaccia gallica e greca - per cui cf. Livius, 7, 26, 15 - contro il Lazio nel 349 a.C. venisse introdotto a Roma il seppellimento rituale di Gallus et Galla, Graecus et Graeca).
57. Cf. spec. Emilio Gabba, Sulla valorizzazione politica della leggenda delle origini troiane di Roma fra III e II secolo a.C., in AA.VV., I canali della propaganda nel mondo antico, Milano 1976, pp. 84-101.
58. Nell'età di Augusto lo storico voconzio Pompeo Trogo poteva vantare che la barbaries dei Galli fosse da secoli deposita ac mansuefacta grazie al contatto con i coloni massalioti, sì da far pensare che "non la Grecia fosse emigrata in Gallia, ma la Gallia si fosse fatta terra greca" (cf. Iustinus, 43, 4, I-2, trasunto delle Historiae Philippicae di Pompeo Trogo, a loro volta largamente ispirate a Timágene); Lellia Cracco Ruggini, I barbari in Italia nei secoli dell'impero, in AA.VV., Magistra Barbaritas. I barbari in Italia, Milano 1984, pp. 3-51 e spec. 4-6. Non è casuale che, nel I secolo d.C., Plinio il Vecchio ancora discorresse di sacrifici rituali di Greci e "altri nemici", senza tuttavia far più parola specificamente dei Galli (v. sopra, n. 56). Sulle alleanze "storiche" tra Veneti e Romani v. oltre, testo corrispondente alle nn. 64-71.
59. Cf. L. Cracco Ruggini, Storia totale di una piccola città, p. 207.
60. V. sopra, n. 52.
61. Cf. F. Sartori, Padova nello stato romano, pp. 100 ss.
62. V. sopra, testo corrispondente alla n. 46.
63. Cf. Giulia Fogolari - Elodia Bianchin Citton - Armando De Guio - Maria Angela Ruta Serafini, La fine dell'età del bronzo e la civiltà paleoveneta, in AA.VV., Storia di Vicenza, I, Il territorio - La preistoria - L'età romana, Vicenza 1987, pp. 95-130 + tavv. 25-102; AA.VV., Celti ed Etruschi nell'Italia centro-settentrionale dal V secolo a.C. alla romanizzazione. Atti del Colloquio internazionale (Bologna, 12-14 apr. 1985), Bologna 1987, passim; A.M. Chieco Bianchi, I Veneti.
64. Cf. Polybius, 2, 18, 3; cf. pure Plutarchus, De fortuna Romanorum, 12, 325 f. Anche Livius, 10, 2, 9, sebbene ad altro proposito, parla di uno stato di guerra ininterrotto fra gli abitanti di Padova e i Galli circonvicini.
65. Cf. F.W. Walbank, A Historical Commentary on Polybios, I, p. 185; Filippo Cassola, La politica romana nell'Alto Adriatico, in AA.VV., Aquileia e l'Alto Adriatico, II, Aquileia e l'Istria (A.A., 2), Udine 1972, pp. 43-62 e spec. 48; Luciano Bosio - Giovan Battista Pellegrini - Dante Nardo, Il Veneto preromano e romano, in AA.VV., Storia della cultura veneta, I, Dalle origini al Trecento, Vicenza 1976, pp. 29-101 e spec. 63-64 (L. Bosio); F. Sartori, Padova nello stato romano, p. 101 con n. 9; con particolare attenzione al settore veneto-aquileiese, cf. ora Gino Bandelli, Ricerche sulla colonizzazione romana della Gallia Cisalpina, Roma 1988.
66. Cf. Polybius, 2, 23, 2 e 2, 24, 7.
67. Cf. ibid., 2, 23, 2 sopracit.
68. V. sopra, § 4.
69. Cf. Servius, In Vergilii Aeneida commentarii, 7, v. 715, e 9, v. 503 (v. sopra, n. 48). Sulla fama - più saltuaria, e funzionale a precise esigenze di propaganda politica di Anténore traditore, già presente nella tradizione greca (come del resto quella di Enea traditore, scampato grazie a patteggiamenti con i Greci) cf. Rita Scuderi, Il tradimento di Antenore, in AA.VV., I canali della propaganda nel mondo antico, Milano 1976, pp. 28-49.
70. Cf. Zonaras, 8, 20, in Corpus scriptorum historiae Byzantinae, 48, a cura di Moritz Pinder, Bonn 1844, pp. 171-175 (lo storico bizantino - pur scrivendo nel secolo XII - si rifaceva a Cassio Dione); Gino Bandelli, La guerra istrica del 221 a.C. e la spedizione alpina del 220 a.C., "Athenaeum", n. ser., 69, 1981, pp. 3-28.
71. Cf. Strabo, 5, I, 9, 216 C.; Silius Italicus, 8, vv. 602-604, e 12, vv. 212-266 (versi peraltro inquinati da deformazioni anacronistiche). Sembra provato che Silio Italico - personaggio politico e poeta nella seconda metà del I secolo d.C. - fosse originario di Padova o, quanto meno, del Norditalia: cf. F. Sartori, Padova nello stato romano, p. 105 (l'Autore ritiene che mercenari veneti combattessero a Canne a fianco dei Romani). L'esistenza di qualsivoglia foedus o trattato di formale alleanza fra Veneti e Romani è stata tenacemente negata - per questa occasione e anche per altre nel prosieguo - da Roberto Cessi, Da Roma a Bisanzio, in AA.VV., Storia di Venezia, I, Dalla preistoria alla storia, Venezia 1957, pp. 179-401 e spec. 184 ss. e 205.
72. Cf. Livius, 32, 30, 11 e 39, 3, 1-3.
73. Cf. Michael Crawford, Coinage and Money Under the Roman Republican Italy and Mediterranean Economy, London 1985, pp. 79-83 e 239-240; Paolo Visonà, La circolazione monetaria, in AA.VV., Storia di Vicenza, I, Il territorio - La preistoria - L'età romana, Vicenza 1987, pp. 189-204 e spec. 192 ss.
74. Cf. Livius, 39, 22, 6-7 e 55, 1, 6; Franco Sartori, Galli Transalpini transgressi in Venetiam, "Aquileia Nostra", 31, 1960, coll. 3-39 (con ulteriore bibl. ivi); Id., Verona romana. Storia politica, economica, amministrativa, in AA.VV., Verona e il suo territorio, I, Verona 1960, pp. 159-259 e spec. 165; Filippo Cassola, Insediamenti preromani nel Friuli nelle fonti letterarie, in AA.VV., Il territorio di Aquileia nell'antichità (A.A., 15), I, Udine 1979, pp. 83-112; Bruna Forlati Tamaro, Da una colonia romana a una città, in AA.VV., Da Aquileia a Venezia. Una mediazione tra l'Europa e l'Oriente dal II secolo a.C. al VI secolo d.C., Milano 1980, pp. 13-95 e spec. 23-24; Alberto Grilli, La migrazione dei Galli in Livio, in AA.VV., Studi in onore di Ferrante Rittatore Vonwiller, II, Como 1980, pp. 183-192.
75. Cf. Livius, 39, 45, 3 e 56, 3.
76. Cf. L. Bosio - G.B. Pellegrini - D. Nardo, Il Veneto preromano, p. 65 con n. 129.
77. Cf. Arnaldo Momigliano, Saggezza straniera. L'Ellenismo e le altre culture, Torino 1980 (tr. it. dall'ediz. Cambridge 1975), p. 64; L. Cracco Ruggini, Storia totale di una piccola città, p. 211 con n. 30.
78. Così W. Dorigo, Venezia Origini, I, p. 21.
79. Cf. Livius, 41, 27, 3-4 (con datazione al 174 a.C., da correggere sulla base dei Fasti Consolari, per cui cf. I.I., XIII, 1, pp. 458-459); William V. Harris, The Era of Patavium, "Zeitschrift für Papyrologie und Epigraphik", 27, 1977, pp. 283-293; F. Sartori, Padova nello stato romano, pp. 107 ss.; Luciano Bosio, Padova in età romana: organizzazione urbanistica e territorio, in AA.VV., Padova antica da comunità paleoveneta a città romano-cristiana, Sarmeola di Rubano (Padova) - Trieste 1981, pp. 229-248 e spec. 131 ss.
80. Cf. C.I.L., V, 2192 = I.L.S., 5944 = I.L.L.R., 476, con add.; C.I.L., V, 2491 = I.L.S., 5944 a.
81. Cf. C.I.L., V, 2490 = I.L.S., 5945 = I.L.L.R., 477; più in generale William V. Harris, Was Roman Law Imposed on Italian Allies?, "Historia", 21, 1972, pp. 639-645; Gino Bandelli, Momenti e forme della politica romana nella Traspadana orientale, "Atti e Memorie della Società Istriana di Archeologia e Storia Patria", n. ser., 33, 1985, pp. 5-29 e spec. 24 ss.
82. Cf. Livius, 43, 1-5; Cato, Origines, riferito da Servius, In Vergilii Aeneida commentarii, 10, v. 13, a cura di G. Thilo, II, pp. 383-384; Polybius, 3, 54, 2.
83. Cf. Plutarchus, Quaestiones Romanae, 83, ove è ricordata la celebrazione nel 113 (per l'ultima volta) del sacrificio rituale di una coppia di Galli e di una coppia di Greci per scongiurare il pericolo "celtico" imminente, come nei momenti di più angoscioso "terrore gallico" (i Cimbri vennero infatti ritenuti, in un primo tempo, nuove bande di Celti invasori); L. Cracco Ruggini, I barbari in Italia, p. 8; v. inoltre sopra, n. 56.
84. Cf. Livius, Periochae, 68; Plutarchus, Marius, 23, 3-5; Florus, 1, 38, 13 (3, 3, 13): in Venetia, quo tractu Italia fere mollissima est. ipsa soli caelique clementia robur elanguit (e aggiunge l'effetto dell'alimentazione con pane, carne cotta e vino). Sulla leggenda delle origini cimbriche dei Veronesi nei Tredici Comuni e dei Vicentini germanofoni nell'Altopiano di Asiago (un'ipotesi che risale al secolo XIV, al cronista Ferreto de' Ferreti), cf. da ultimo L. Cracco Ruggini, Storia totale di una piccola città, p. 214 con n. 43.
85. Inferno, 28, vv. 73-75 (i commentatori danteschi non sembrano peraltro nutrire dubbi sul fatto che Dante alluda qui all'intera pianura padana, da Vercelli in Piemonte al castello di Marcabò nel territorio di Ravenna). Sullo scontro ai Campi Raudii, cf. Plutarchus, Marius, 24-27; Polyaenus, 8, 10, 3; Eutropius, 5, 2. Sul problema della localizzazione di Vercellae in relazione alla campagna cimbrica di Mario cf. spec. Jacopo Zennari, I Vercelli dei Celti nella Valle Padana e l'invasione cimbrica della Venezia, "Annali della Biblioteca Governativa e Libreria di Cremona", 4/3, 1951, pp. 7-78 = ediz. definitiva, Cremona 1956, con inventario ivi di tutti i "Vercelli" d'Italia e rimandi alle varie fonti antiche.
86. Su questa importanza e particolare disposizione dei valichi, delle vie fluviali e delle antiche piste terrestri nella Venetia, cf. spec. Guido Rosada, Funzioni e funzionalità della 'Venetia' romana: terra, mare, fiumi come risorse per un'egemonia espansionistica, in AA.VV., Misurare la terra: centuriazione e coloni nel mondo romano. Il caso veneto, Modena [1984>, pp. 22-37.
87. Cf. Appianus, Bellum Civile, 1, 29, 130-131, con commento di Emilio Gabba, ediz. del libro I, Firenze 19672, pp. 102-104; Cicero, Pro Balbo, 21, 48.
88. Cf. F. Sartori, Verona romana, pp. 169-176, 221; Id., Padova nello stato romano, p. 112; L. Bosio, in L. Bosio - G.B. Pellegrini - D. Nardo, Il Veneto preromano, pp. 70-71; Id., Padova in età romana, pp. 244 ss.; Id., Capire la terra: la centuriazione romana nel Veneto, in AA.VV., Misurare la terra: centuriazione e coloni nel mondo romano. Il caso veneto, Modena [1984>, pp. 15-21; più in generale, Emilio Gabba, Per un'interpretazione storica della centuriazione romana, in AA.VV., Misurare la terra. Centuriazione e coloni nel mondo romano (Mostra di Modena, 11 dic. 1983 - 12 febbr. 1984), Modena [1984>, pp. 20-27; Id., I Romani nell'Insubria: trasformazione, adeguamento e sopravvivenza delle strutture socioeconomiche galliche, in AA.VV., Secondo Convegno Archeologico Regionale: 'La Lombardia tra protostoria e romanità' (Como, 13-15 apr. 1984), Como 1886, pp. 31-41; Giorgio Luraschi, Nuove riflessioni sugli aspetti giuridici della romanizzazione in Transpadana, ibid., pp. 43-65; e v. già Id., Foedus, ius Latii, civitas. Aspetti costituzionali della romanizzazione della Transpadana, Padova 1979; Id., La romanizzazione della Transpadana: questioni di metodo, in AA.VV., Studi in onore di Ferrante Rittatore Vonwiller, II, Como 1980, pp. 207-217 = "Studia et Documenta Historiae et Iuris", 47, 1987, pp. 337-346; Id., Problemi giuridici della romanizzazione delle Alpi: origine della 'adtributio', in AA.VV., Die Römer in den Alpen. I Romani nelle Alpi (Convegno Storico di Salisburgo, 13-15 nov. 1986), Bozen 1989, pp. 31-53 (testo ted.) e 249-269 (testo it.) (l'Autore tende a scalare e ad abbassare nel tempo, per tappe successive anche assai dopo l'89 a.C., il formarsi nell'Italia settentrionale delle strutture politiche, costituzionali e militari improntate al modello romano e l'affermarsi dei vari istituti giuridici che le presuppongono: deduzione formale di colonie, adtributio, ecc.).
89. Cf. spec. G. Luraschi, contributi citt. alla n. 88; ottime sintesi delle questioni più controverse, con fonti e bibl., in F. Sartori, Padova nello stato romano, pp. 112-122; Gino Bandelli, Il governo romano nella Transpadana orientale (90-42 a.C.), in AA.VV., Aquileia nella 'Venetia et Histria' (A.A., 28), Udine 1986, pp. 43-64.
90. Cf. C.I.L., V, 2501 = I.L.S., 2243. Sulla provincia della Gallia Citerior (= Gallia Cisalpina) come già esistente nel 75 a.C. cf. Sallustius, Historiae, 2, 98.
91. Cf. C.I.L., I2, 600 (Tabula Atestina); C.I.L., I2, 592 (Lex Rubria); C.I.L., V, 2864 = I.L.S., 5406 (iscrizione di Giunio Sabino); oltre alla bibl. sopracit. cf. Raymond Chevallier, La romanisation de la Celtique du Pô. Essai d'histoire provinciale, Roma 1983, pp. 110-183; Hartmut Galsterer, Urbanisation und Municipalisation Italiens im 2. und 1. Jh. v. Chr., in AA.VV., Hellenismus in Mittelitalien. Kolloquium in Göttingen von 5. bis 9. Juni 1974, I, Göttingen 1976, pp. 327-340; Umberto Laffi, La Lex Rubria de Gallia Cisalpina, "Athenaeum", n. ser., 64, 1986, pp. 5-44.
92. Cf. Cicero, Epistulae ad familiares, 16, 12, 4 (al fido segretario Tirone).
93. Cf. Servius, In Vergilii Bucolica commentarii, 6, v. 64, a cura di Georg Thilo, III, 1, Leipzig 1881 = Hildesheim 1961, p. 77; E. Gabba, I Romani nell'Insubria. Sulla centuriazione intesa non soltanto come grandioso fenomeno di trasformazione del paesaggio, ma anche come fatto culturale che modifica lo stesso modo di pensare e di essere d'una società, cf. L. Bosio, Capire la terra.
94. Cf. François-Pierre-Guillaume Guizot, Cours d'histoire moderne, Bruxelles 1939; Federico Chabod, Storia dell'idea di Europa, Bari 1961, pp. 167 ss.; L. Cracco Ruggini, in L. Cracco Ruggini-G. Cracco, L'eredità di Roma, p. 26; più in generale anche Emilio Gabba, Cesare e Augusto nella storiografia italiana dell'Ottocento, in AA.VV., Caesar und Augustus. Römische Geschichte und Zeitgeschichte in der deutschen und italienischen Altertumswissenschaft während des 19. und 20. Jahrhunderts, I, Como 1989, pp. 49-70.
95. Cf. Cicero, Epistulae ad familiares, 11, 19 (Decimo Bruto a Cicerone nel 43 a.C., con particolare riferimento ai Vicentini); v. pure Id., Philippicae, 3, 5, 13 e Orator, 34, sulla Transpadana flos ac robur Italiae, firmamentum imperii populique Romani; L. Cracco Ruggini, Storia totale di una piccola città, pp. 222-223.
96. Cf. Plinsus, Naturalis Historia, 3, 126-130 e 6, 218; L. Cracco Ruggini, Storia totale di una piccola città, pp. 206 s. L'espressione pliniana in mediterraneo corrisponde a quella greca en mesogáia, usata già dai primi storici greci (Ecatéo, Erodoto) per designare realtà etniche non costiere.
97. Cf. Polybius, 2, 17, 4-7, ove pare che l'autore fosse in grado di dare un'idea più compiuta soltanto delle aree attorno alle foci padane, al porto di Adria e all'"angolo adriatico", con accenni assai più cursorî e vaghi alle zone della pianura interna, forse in assenza di esperienze autoptiche; P. Tozzi, Gli inizi della riflessione storiografica, pp. 38 ss.; Livius, 5, 33 sopracit. (v. testo corrispondente alla n. 46) ove il patavino Livio tiene a mostrare come Padova stessa gravitasse in quest'area, con i suoi villaggi "marittimi" e la sua spiccata vocazione di città "portuale". Sulla Venetia maritima (forse estesa alla fascia dell'entroterra sino ad Abano) e sulla Venetia inferior (includente Aquileia), nelle fonti del IV-V secolo cf. Servius, In Vergilii Bucolica commentarii, 6, v. 64, a cura di G. Thilo, III, 1, p. 77; Notitia Dignitatum Occidentis, 40, 3; Santo Mazzarino, Note di storia giuridica in territorio cenomano e problemi di storia culturale veneta, "Bullettino dell'Istituto di Diritto Romano 'V. Scialoja'", ser. III, 12, 1970, pp. 35-57 e spec. 55; Id., Per una storia delle 'Venezie' da Catullo al Basso Impero (1964, 1970), in Id., Antico, tardoantico ed èra costantiniana, II, Bari 1980, pp. 114-157; Id., 'Ius Italicum' e storiografia moderna (1971), ibid., pp. 188-213 e spec. 209-210; Id., Il concetto storico-geografico dell'unità veneta, pp. 6-7.
98. Cf. Polybius, 2, 16, 12; per un'epoca successiva all'inizio dell'impero, cf. Vergilius, Aeneis, 11, vv. 457 s.; Caius Valgius Rufus (console nel 12 a.C.) apud Servium, In Vergilii Aeneida commentarii, 11, v. 457, a cura di G. Thilo, II, p. 534; Plinius, Naturalis Historia, 3, 119; Martialis, Epigrammata, 3, v. 67; Silius Italigus, Punica, 8, v. 603; G. Uggeri, La navigazione interna della Cisalpina, p. 340. L'iscrizione funeraria della liberta Aufidia Venusta, rinvenuta presso il Po di Volano (cf. C.I.L., V, 2402), con la sua apostrofe ai viatores et velatores di passaggio, sottolinea la frequentazione di questo percorso sia per acqua sia su di un parallelo e coordinato cammino terrestre, che verosimilmente serviva anche per l'alaggio, ossia il traino (animale oppure a forza d'uomo) delle imbarcazioni mediante funi, da terra.
99. Cf. S. Mazzarino, contributi citt. alla n. 97, che si è contrapposto a Rudi Thomsen, The Italic Regions from Augustus to the Lombard Invasion, København 1947, riprod. anast. Roma 1966, sostenendo che soltanto nel tardo impero le Venezie si estesero dall'Oglio all'Adda. Sulle difficoltà e ambiguità che s'incontrano in una definizione delle Venezie, cf. pure Attilio Degrassi, Recensione a Storia di Venezia (1957), "Gnomon", 30, 1958, pp. 405-408 = Id., Scritti vari di antichità, IV, Trieste 1971, pp. 283-285.
100. Cf. spec. C.I.L., XI, 831 = I.L.S., 1218, iscrizione modenese in onore di Lucius Nonius Verus, che fu corrector Venetiarum et Histriae in età costantiniana, fra il 318 e il 324 (l'espressione Venetiae et Histria sembra escludere che l'uso del plurale sia imputabile all'inclusione dell'Histria nella Venetia, più rilevante quest'ultima e quindi destinata a indicare - per sineddoche - entrambe le aree); C.I.L., X, 1700 = I.L.S., 1231 (titolo puteolano in onore di M. Maecius Memmius Furius Baburius Caecilianus Placidus, a sua volta corrector Venetiarum et Histriae, forse prima del 340); Servius, In Vergilii Georgica commentarii, 1, v. 262, a cura di Georg Thilo, III, 1, Leipzig 1887, p. 191 ([...> pleraque pars Venetiarum, fluminibus abundans [...>; v. pure oltre, n. 170); Anonymus Ravennas, 4, 29, a cura di Joseph Schnetz, Itineraria Romana, II, Leipzig 1940, p. 65 (provincia Venetiarum); Paulus Diaconus, Historia Langobardorum, 2, 14, in M.G.H., Scriptores Rerum Langobardicarum et Italicarum saec. VI-IX, 1878, p. 81 (Venetia enim non solum in paucis insulis, quas nunc Venetias dicimus […>. Pergamus [= Bergamo> civitas esse legitur Venetiarum); S. Mazzarino, Il concetto storico-geografico dell'unità veneta; Anna Nicoletta Rigoni, La 'Venetia' nella 'Cosmographia' dell'Anonimo Ravennate, "Archeologia Veneta", 5, 1982, pp. 207-235. Non condivido l'opinione - troppo riduttiva - ribadita da Giovan Battista Pellegrini anche in questa stessa sede, secondo cui sarebbe stata "la dispersione, il mancato accentramento originario delle isole [lagunari venete>, da poco abitate permanentemente, a favorire la generalizzazione del plurale", senza bisogno di richiamarsi (come invece S. Mazzarino) alle plurime Venezie continentali e marittime dell'età più antica: il valore caratterizzante degli insediamenti insulari-lagunari non sembra, di fatto, avere preso corpo se non nel V/VI secolo.
101. Cf. Giovanni Uggeri, La romanizzazione del basso ferrarese. Itinerari e insediamento, in AA.VV., La civiltà comacchiese e pomposiana dalle origini preistoriche al tardo Medioevo. Atti del Convegno Nazionale di Studi Storici (Comacchio, 17-19 maggio 1984), Bologna 1986, pp. 147-181; S. Mazzarino (contributi citt. alla n. 97) ha sostenuto, contro R. Thomsen (The Italic Regions) che Adria fosse inclusa nella VIII regio (Aemilia) ancora al tempo di Plinio il Vecchio, per il fatto che questi non la enumera fra i centri veneti. Su opere romane di bonifica in aree più interne e "continentali", ad esempio nel Parmense, cf. Strabo, 5, 1, 11, 217 C.
102. Cf. Svetonius, Augustus, 20, 3; Valerio Neri, Verso Ravenna capitale: Roma, Ravenna e le residenze imperiali tardo-antiche, in AA.VV., Storia di Ravenna, I, L'evo antico, Venezia 1990, pp. 535-584 e spec. 546; Maria Bollini, La fondazione di Classe e la comunità classiaria, ibid. pp. 297-320 e spec. 306 ss. (ove si portano argomenti per rivalutare la testimonianza di Cassio Dione - per lo più rigettata come eccessiva dagli studiosi - circa la capienza di 250 navi del porto di Ravenna: poté trattarsi, di fatto, di imbarcazioni di varia stazza).
103. Cf. Stella Patitucci Uggeri, Il 'castrum Cumiacli': evidenze archeologiche e problemi storico-topografici, in AA.VV., La civiltà comacchiese e pomposiana dalle origini preistoriche al tardo Medioevo. Atti del Convegno Nazionale di Studi Storici (Comacchio, 17-19 maggio 1984), Bologna 1986, pp. 265-286. Ulteriori riferimenti in Antonio Samaritani, La 'Nesos Komanicheia' del sec. VI è la diocesi di Comacchio?, "Anacleta Pomposiana. Studi Vari", 15, 1990, pp. 1-14. Sul popolamento extraurbano della Cispadana (regio VIII) e in particolare del Polésine - appoderamento intensivo, specie ad opera di veterani e di classiari; distribuzione degli edifici rustici e delle villae padronali (peraltro mai sontuose, almeno fino al tardo impero); popolamento sparso lungo i dossi e le dune costiere, latifondi imperiali con figlinae; sepolcreti; demografia fluviale e geografia antropica del delta - cf. l'ottimo inquadramento delle emergenze monumentali e dei problemi in Daniela Corlaita Scagliarini, La villa romana e le ville della regione VIII, in AA.VV., La villa romana di Cassan. Documenti archeologici per la storia del popolamento rustico. Catalogo della Mostra (Ferrara, Palazzo Schifanoia, marzo-dicembre 1978), Bologna 1978, pp. 3-31.
104. Cf. Giovan Battista Pellegrini, Osservazioni sulla toponomastica del Delta Padano, in AA.VV., La civiltà comacchiese e pomposiana dalle origini preistoriche al tardo medioevo. Atti del Convegno Nazionale di Studi Storici (Comacchio, 17-19 maggio 1984), Bologna 1986, pp. 49-89 (spec. sulla caratterizzazione idronomastica della Venezia "marittima"; v. pure Id., contributo pubblicato in questa stessa sede); Daniela Pupillo, Aspetti sociali del popolamento dell'area deltizia in età romana, ibid., pp. 245-262.
105. Cf. Giancarlo Susini, Alfabetizzazione e culture antiche nel Delta: profilo fenomenologico, ibid., pp. 103-112; D. Corlaita Scagliarini, La villa romana, pp. 13 ss.
106. Cf. Giancarlo Susini, Ravenna, una frontiera, "Felix Ravenna", 103-104, 1972, pp. 3-8; Maria Bollini, Militari e veterani nell'antico Delta Padano, in AA.VV., La civiltà comacchiese e pomposiana dalle origini preistoriche al terzo Medioevo. Atti del Convegno Nazionale di Studi Storici (Comacchio, 17-19 maggio 1984), Bologna 1986, pp. 227-244; v. pure Ead., Antichità classiarie, Ravenna [1968>, pp. 115 ss., 126 ss., 133 ss. (su Classe come base militare distinta dalla città, entità topografica autonoma e comunità con caratteristiche sociologiche simili a quelle dei castra limitanei); Daniela Corlaita Scagliarini, L'insediamento agrario in Emilia Romagna nell'età romana, in AA.VV., Insediamenti rurali in Emilia, Romagna, Marche, Cinisello Balsamo (Milano) 1989, pp. 11-36 e spec. 17 ss; Paola Giacomini, Anagrafe dei cittadini ravennati, in AA.VV., Storia di Ravenna, I, L'evo antico, Venezia 1990, pp. 137-222; Ead., Anagrafe dei classiari, ibid., pp. 321-362.
107. Cf. D. Pupillo, Aspetti sociali; D. Scagliarini Corlaita, L'insediamento agrario, p. 32.
108. Cf. Plinius, Naturalis Historia, 3, 16, 119-121; G. Uggeri, La navigazione interna della Cisalpina, spec. pp. 337 ss.
109. Cf. Tacitus, Annales, 1, 58 (il nome della sposa di Arminio è però dato da Strabo, 7, 1, 4, 292 C.).
110. Cf. Tacitus, Annales, 2, 63 (ove si parla di una sorte analoga, nella medesima epoca, per il principe marcomanno Catuálda, a sua volta cacciato dalla patria da un esercito di Ermundúri e accolto a Forum Iulii/Fréjus nella Gallia Narbonense); L. Cracco Ruggini, I barbari in Italia, spec. pp. 12-13.
111. Cf. Cassius Dio, 71 (72), 11, 4-5; v. pure Scriptores Historiae Augustae, Marcus Antoninus, 22, 2 e 24, 3; L. Cracco Ruggini, I barbari in Italia, spec. pp. 15-16.
112. V. sopra, § 5.
113. Su Aquileia, che "posta a fronte di tutte le regioni illiriche forniva alla gente di mare le merci che arrivavano dall'interno via terra o lungo il corso dei fiumi e mandava verso l'interno i prodotti giunti dal mare", cf. Herodianus, 8, 2, 3; Eustathius, Commentarii ad Dionysium Periegetem, 378, in Geographi Graeci Minores, a cura di Karl Müller, II, Paris 1882, pp. 286-287 (XII secolo); v. pure Strabo, 5, 1, 8, 214 C., qui cit. alla n. 125; L. Ruggini, Economia e società, pp. 112-114.
114. Cf. Francesca Ghedini, in questa stessa sede.
115. Per ulteriori particolari e testimonianze in merito cf. spec. L. Bosio, L'antica laguna; Id., Il territorio: la viabilità e il paesaggio agrario, in AA.VV., Il Veneto nell'età romana, I, Verona 1987, pp. 59-102; Id., in questa stessa sede, ove l'Autore giustamente puntualizza come lo scalo portuale di Concordia - la quale era collegata al mare dal fiume navigabile Leméne, antico flumen Reatinum - vada collocato vicino a Cáorle, ove sono stati rinvenuti resti romani nonché un'iscrizione menzionante un classiarius della liburna Clupeus (cf. C.I.L., V, 1956, oggi a Portogruaro; M. Bollini, Antichità classiarie, p. 56), e non a Falconéra, come si legge nella R.E.; e si formula l'ipotesi di un attracco marittimo di Altino nella vicina zona di Treporti, ove s'incontra oggi il significativo toponimo di Portosecco. Sulle emergenze archeologiche e urbanistiche di Adria, confermanti vitalità economica e continuità d'insediamento fino all'età tardiva, cf. Maurizia De Min, Adria, in AA.VV., Il Veneto nell'età romana, II, Verona 1987, pp. 255-268. Per Grado cf. Sergio Tavano, Aquileia e Grado. Storia - Arte - Cultura, Trieste 1986, pp. 264 ss.; v. pure oltre, testo corrispondente alla n. 190.
116. Cf. F. Ghedini, in questo volume; v. pure Stefania Pesavento, L'emporio aquileiese, "Archeo", Novara 1985, pp. 14-17; Gemma Sena Chiesa, Testimonianze archeologiche della romanità in Lombardia, in AA.VV., Die Römer in den Alpen. I Romani nelle Alpi (Convegno Storico di Salisburgo, 13-15 nov. 1986), Bozen 1989, pp. 109-124 (testo ted.) e 325-361 (testo it.). Da fonti semitiche si apprende che la Siria, in età imperiale, importava tessuti dall'" Italia" (Cisalpina?): cf. Filippo Cassola, Aquileia e l'Oriente mediterraneo, in AA.VV., Aquileia e l'Oriente mediterraneo (A.A., 12), I, Udine 1977, pp. 67-98 e spec. 81. Sulla presenza di culti orientali ad Aquileia cf. Marie Christine Budischovsky, Les cultes orientaux à Aquilée et leur diffusion en Istrie et en Venetie, ibid., pp. 99-123.
117. Cf. Bianca Maria Scarfì, Stato della ricerca archeologica in ambito lagunare e prospettive future, in AA.VV., Le origini di Venezia. Problemi esperienze proposte (Venezia, 28-29 febbr. e 1-2 marzo 1980), Padova 1981, pp. 107-116 (testimonianze di età paleoveneta - III e IV periodo atestino, VI-II secolo a.C. - e poi importanti resti romani fino al V secolo d.C., ad Altino).
118. Cf. Velleius Paterculus, 2, 76, 2 (Asinio Pollione); Martialis, 4, 25, vv. 1-5 (aemula Baianis Altini litora villis / et Phaethontei conscia silva rogi, / quaeque Antenoreo Dryadum pulcherrima Fauno / nupsit et Euganeos Sola puella lacus, / et tu Laedaeo felix Aquileia rimavo, /[...>). Sulle fonti itinerarie del III-IV secolo cf. Itinerarium Antonini, in Otto Cuntz, Itineraria Romana, I, Leipzig 1929, p. 126; Tabula Peutingeriana, Segm. III, 4-5 e IV, 1; Annalina e Mario Levi, Itineraria Picta. Contributo allo studio della 'Tabula Peutingeriana', Roma 1967, p. 171; Giovanni Uggeri, La terminologia portuale e la documentazione dell' 'Iltinerarium Antonino', "Studi Italiani di Filologia Classica", 40, 1968, pp. 225-254. Stupisce il rumore suscitato - quasi si trattasse della clamorosa "scoperta" di una Venezia romana, ovvero, come ritiene Wladimiro Dorigo (per cui v. sopra, n. 43) della prova irrefutabile che dove sorge ora Venezia vi furono, in età romana, agri centuriati e fattorie su terra emersa - dal rinvenimento di resti romani in un'isoletta vicina a Torcello (Sito 84), a séguito di scavi condotti da Ernesto Canal. Se ne hanno per ora solo imprecise quanto clamorose informazioni giornalistiche: cf. ad es. Alberto Papuzzi, Venezia, le vere origini. Quei Romani nella laguna, "La Stampa", 125, 68, 4 aprile 1991, p. 18; Alvise Zorzi - Gian Antonio Stella - Wladimiro Dorigo, Le origini romane di Venezia, giallo archeologico, "Il Corriere della Sera", 116, 80, 4 aprile 1991, p. 10: Roberto Bianchin, Nella laguna di Venezia alla ricerca dei tesori delle 4 città sommerse, "La Repubblica", 16, 72, 4 aprile 1991, p. 22; Clara Valenzano, Cesare in laguna, "Il Venerdì", suppl. a "La Repubblica", 19 aprile 1991, pp. 36-47; Giovanni Maria Pace, Ma l'isola nasconde troppi misteri ..., ibid., p. 42.
119. Cf. Vitruvius, De architectura, 1, 4, 11-12; L. Bosio, Note per una propedeutica, pp. 104-106.
120. Cf. L. Bosio, Note per una propedeutica, loc. cit.; v. pure sopra, testo corrispondente alla n. 43. Ancora nella tradizione trecentesca l'area ravennate sarà detta locus qui vocabatur caput aquarum: cf. P. Fabbri, Il paesaggio ravennate, p. 14 con n. 10.
121. Cf. Vitruvius, De architectura, 2, 9, 10; L. Bosio, Note per un propedeutica, p. 111.
122. Cf. Digestum, 17, 1, 16 (Ulpiano): [...> Aurelius Quietus hospiti suo medico mandasse diceretur, ut in hortis eius quos Ravennae habebat, in quos omnibus annis secedere solebat, sphaeristerium et hypocausta et quaedam ipsius valetuduni apta sua impensa faceret; Santo Mazzarino, Un testo sulla salubrità di Ravenna (A proposito di recenti discussioni), in Id., Antico, tardoantico ed èra costantiniana, II, Bari 1980, pp. 295-299. Conferme archeologiche in Valeria Righini, Materiali e tecniche da costruzione in età preromana e romana, in AA.VV., Storia di Ravenna, I, L'evo antico, Venezia 1990, pp. 257-296; Mario Denti, I Romani a nord del Po. Archeologia e cultura in età repubblicana e augustea, Milano 1991, pp. 54-129.
123. Cf. Strabo, 5, 1, 5, 212 C.
124. Cf. ibid., 5, 1, 11, 217 C.
125. Cf. ibid., 5, 1, 8, 214 C.; v. pure sopra, n. 113.
126. Cf. ibid., 5, 1, 7, 213-214 C.
127. V. pure sopra, § 3 (a proposito dei peculiari insediamenti nel delta nilotico, secondo la descrizione delle Etiopiche di Eliodoro).
128. Viam Anniam longa incuri[a> / neglectam influentibus / palustrib(us) aquis eververatam, ricorda un'iscrizione a suo nome: cf. C.I.L., V, 7992 = I.L.S., 5860; ibid., 7992 a; B.M. Scarfì, Stato della ricerca archeologica, p. 109; Gherardo Ortalli, Qualche considerazione in margine alla carta fotointerpretativa e archeologico-ambientale della laguna di Torcello, "Rivista di Archeologia", 5, 1981, pp. 93-97. Ben sette miliarii del IV secolo si addensano sul medesimo tratto dell'Annia fra Concordia e Aquileia, certo non per caso: cf. Luisa Bertacchi, Presenze archeologiche nell'area meridionale del territorio aquileiese, in AA.VV., Il territorio di Aquileia nell'antichità (A.A., 15), I, Udine 1979, pp. 259-289 e spec. 260-262, nrr. 1-5, 8, 11; Lellia Cracco Ruggini, Aquileia e 'Concordia'. Il duplice volto di una società urbana nel IV secolo d.C., in AA.VV., Vita sociale, artistica e commerciale di Aquileia romana (A.A., 29), I, Udine 1987, pp. 57-95. L'assedio di Massimino ad Aquileia si rivelò vano anche perché la città era ben rifornita dal mare: cf. Herodianus, 8, 6, 3.
129. Per gli aspetti evenemenziali del III secolo che qui interessano - in quanto determinanti un ribaltamento delle spinte militari dal nord verso il sud delle Alpi e una riconversione da fattore favorevole in sfavorevole della penetrabilità dei valichi alpini - cf. spec. Émilienne Demougeot, La formation de l'Europe et les invasione barbares, I, Dès origines germaniques à l'avènement de Dioclétien, Paris 1969, pp. 447 e 511 ss.; Lawrence Okamura, Alamannia devicta: Roman-German Conflicts from Caracalla to the First Tetrarchy (A.D. 213-305), I-II, University of Michigan Ph.D. Dissertation 1984, University Microfilms International, Ann Arbor Michigan, 1988 (spec. vol. I); L. Cracco Ruggini, I barbari in Italia, con bibl. ivi.
130. Cf. Lellia Cracco Ruggini, Milano nella circolazione monetaria del tardo impero: esigenze politiche e risposte economiche, in AA.VV., La zecca di Milano. Atti del Convegno Internazionale di Studio (Milano, 9-14 maggio 1983), Milano 1984, pp. 13-58 e spec. 16-18, con n. 11 e documentazione ivi, cui si aggiungano Celestino Cavedoni, Scavi di Guastalla, "Bullettino dell'Instituto di Corrispondenza Archeologica", 1863, p. 204; Bernardo Bagolini - Piero Leonardi, Risultati delle ricerche 1967-68 sul Dos Zelor presso Castello di Fiemme nel Trentina, "Studi Trentini di Scienze Storiche", 48, 1969, pp. 307-311 e spec. 309-310 con figg. 9-10; Maila Chiaravalle, Ottobiano (Pavia). Ripostiglio di Antoniniani del III secolo d.C., "Bollettino di Numismatica", 6-7, 1986, pp. 296-299. In generale cf. Emanuela Ercolani Cocchi, La moneta come rinvenimento archeologico: una chiave di lettura storica del territorio (seguíto da traduzione inglese), "Alma Mater Studiorum", 3, 1, 1990, pp. 219-240.
131. Sul distacco del concetto di Roma da quello di capitale, a partire dal III secolo d.C., cf. Herodianus, 1, 6, 5 (e cf. ibid., 7, 6, 1, sull'idea che però la città dev'essere grande e popolosa per poter fungere a immagine di Roma: a proposito del trasferimento di Gordiano I da Thysdrus a Cartagine); Mamertinus, Panegyrici X (II), 14, 3 e XI (III), 11, 2; V. Neri, Verso Ravenna capitale, spec. pp. 549-554. Su Roma, non più sede ufficiale dell'imperatore a partire dall'età tetrarchica, cf. pure Massimiliano Pavan, Le capitali dell'impero: Roma, Ravenna, Costantinopoli, in AA.VV., L'impero romano-cristiano. Problemi politici, religiosi, culturali, Roma 1991, pp. 47-60.
132. Cf. - anche per quanto segue spec. documentazione e considerazioni in Lellia Cracco Ruggini, Roma, Aquileia e la circolazione monetaria del IV secolo, in AA.VV., Aquileia e Roma (A.A., 30), Udine 1987, pp. 201-223; V. inoltre Hélène Uvelin, L'atelier de Milan sous Claude II. La première émission de monnaies d'or, "Quaderni Ticinesi di Numismatica e Antichità Classiche", 15, 1986, pp. 195-209.
133. Cf. Ausonius, Ordo nobilium urbium, 7; L. Cracco Ruggini, 'Ticinum'; Ead., Milano da 'metropoli' degli Insubri a capitale d'impero: una vicenda di mille anni, in AA.VV., Milano capitale dell'impero romano, 286-402 d.C. (Catalogo della Mostra, Milano, Palazzo Reale, 24 gennaio - 22 aprile 1990), Milano 1990, pp. 17-23, con bibl. essenziale ivi.
134. Cf. L. Cracco Ruggini, Aquileia e 'Concordia'.
135. Dopo la sconfitta di Massenzio - che fece ancora di Roma la propria residenza stabile (dal Panegirista di Costantino nel 313 paragonata a una sorta di prigionia effeminata e imbelle: cf. Panegyricus IX [XII>, 14, 4) -, Costantino fu nell'Urbe per l'appunto nel 312 (dopo la vittoria al Ponte Milvio), poi nel 315 per i decennalia e nel 326 per i vicennalia; suo figlio Costanzo II visitò brevemente la città nel 357; Teodosio I fu certamente a Roma nel 389, mentre è dubbia una sua seconda visita nel 394, dopo la vittoria su Eugenio al Frigido (cf. François Paschoud, Cinq études sur Zosime, Paris 1975, pp. 100-124, cap. 4, La fin du règne de Théodose dans l' 'Histoire Nouvelle' de Zosime e la source païenne d'Eunape, § 1, Le problème du voyage à Rome de Théodose en 394). L'adventus a Roma di Onorio risale al 404. Su tutto ciò Cf. V. Neri, Verso Ravenna capitale, pp. 559-570.
136. Sul rapporto fra lo sforzo bellico e la regionalizzazione delle emissioni monetali cf. Michel Christol, Efforts de guerre et ateliers de périphérie au IIIe s. ap. J.-C; in AA.VV., Armées et fiscalité dans le monde antique. Colloque CNRS 936 (Paris 1976), Paris 1977, pp. 235-275 e spec. 261 s.
137. Cf. Hieronymus, Epistula 1, spec. 3, a cura di J. Labourt, I, Paris 1949, pp. 2-9 e spec. 3; C.I.L., V, 6726 = Luigi Bruzza, Iscrizioni antiche vercellesi raccolte e illustrate, Roma 1874, riprod. anast. S. Giovanni in Persiceto (Bo) 1973, nr. 101, pp. 178-182; Inscriptiones Graecae, XIV, Berlin 1890, nr. 2279 = L. Bruzza, Iscrizioni antiche vercellesi, nr. 116, pp. 262-266; C.I.L., V, 7000 (= I.L.S., 2629), 7001, 7012 (numerus Dalmatarum Divitensium a Torino, in età probabilmente tetrarchica); ulteriore documentazione e considerazioni in Lellia Cracco Ruggini, La cristianizzazione nelle città dell'Italia settentrionale (IV-VI secolo), in AA.VV., Die Stadt in Oberitalien und in den nordwestlichen Provinzen des römischen Reiches. Deutsch-Italienisches Kolloquium im italienischen Kulturinstitut Köln (18.-20. Mai 1989), Mainz a. Rh. 1991, pp. 235-249 e spec. 237-238 con nn. 7-8; Ead., Torino romana e cristiana, in AA.VV., Storia illustrata di Torino, I, Milano 1992, pp. 21-40.
138. Cf. Lellia Cracco Ruggini, Uomini senza terra e terra senza uomini nell'Italia antica, "Quaderni di sociologia rurale", 3, 1963, pp. 20-42; Ead., I barbari in Italia, spec. pp. 24-38; Ead., Torino romana e cristiana. In generale cf. Guido Clemente, La 'Notitia Dignitatum', Cagliari 1968.
139. Cf. Lellia Ruggini, Ebrei e Orientali nell'Italia Settentrionale fra il IV e il VI secolo d.C., "Studia et Documenta Historiae et Iuris", 25, 1959, pp. 186-309 e spec. 258-260 con n. 216; Ead., Aquileia e 'Concordia', spec. pp. 76-78; Dietrich Hoefmann, Die spätrömischen Soldatengrabinschriften von 'Concordia', "Museum Helveticum", 20, 1963, pp. 22-37 (con silloge di tutte le iscrizioni e loro accurata revisione; l'Autore mette peraltro in relazione le presenze militari concordiesi con la campagna di Teodosio contro Eugenio e Arbogaste nel 394: un'ipotesi che non spiega molte fra le caratteristiche e le circostanze qui segnalate nel testo); Giovanni Lettich, Le iscrizioni sepolcrali tardoantiche di Concordia, Trieste 1983, pp. 15-119.
140. Cf. documentazione in L. Cracco Ruggini, Storia totale di una piccola città, pp. 281-282.
141. Cf. Notitia Dignitatum Occidentis, 9, 24-29 (ove, all'interno del Vicariato Annonario, è ricordata anche una fabbrica di spade a Lucca, nella Tuscia Annonaria); ibid., 11, 49-50 (in Italia, altri gynaécia a Roma, a Canosa e Venosa in Apulia) e 63, 67 (báphia anche a Taranto in Calabria e a Siracusa in Sicilia).
142. Cf. ibid., 11, 27-29; Codex Iustinianus, 10, 23, 1, del 383 d.C.; Arnold Hugues Martin Jones, The Later Roman Empire 284-602, I, Oxford 1964, pp. 428-429.
143. Cf. Notitia Dignitatum Occidentis, 42, 6-7; R. Thomsen, The Italic Regions, pp. 217 ss. Per le vicende amministrative di Ravenna nel IV secolo v. oltre, testo corrispondente alle nn. 179-184.
144. Cf. Notitia Dignitatum Occidentis, 47, 7 e 42, 9; Giorgio Luraschi, Il 'praefectus classis cum curis civitatis' nel quadro politico e amministrativo del Basso Impero, "Rivista archeologica dell'antica provincia e diocesi di Como", 159, 1977, pp. 15-184; Lellia Cracco Ruggini, La città imperiale, in AA.VV., Storia di Roma, IV, Caratteri e morfologie, Torino 1989, pp. 201-266 e spec. 237-239.
145. Per l'estensione territoriale della Venetia v. sopra, n. 99. Dopo i correctores di rango senatorio al tempo di Massimiano e di Costantino, la Venetia et Histria ebbe governatori di estrazione equestre fino alla morte di Giuliano o poco dopo, forse - ma è questione intricata e oscura - con significato in qualche modo punitivo per una condotta equivoca delle Venezie nelle varie lotte dinastiche di quegli anni.
146. Cf. Notitia Dignitatum Occidentis, 5, 127 e 24, 4-5 (la vignetta - ibid., 2-3 - raffigura, ai piedi dei bastioni alpini, una città fortificata con mura e torri, presumibilmente Aquileia); Attilio Degrassi, Il confine nord-orientale dell'Italia romana, Berna 1954, pp. 150-151; Jaro Èaèel, Claustra Alpium Iuliarum, I, Fontes, Ljubljana 1971; Luciano Bosio, Le fortificazioni tardoantiche del territorio di Aquileia, in AA.VV., Il territorio di Aquileia nell'Antichità (A.A., 15), II, Udine 1979, pp. 515-536 (con chiarissima cartina a p. 522); Peter Petru, Ricerche recenti sulle fortificazioni delle Alpi Orientali, in AA.VV., Aquileia e l'arco alpino orientale (A.A., 9), Udine 1976, pp. 229-236. Sulla classis Venetum nella Venetia Inferior - menzionata da Notitia Dignitatum Occidentis, 42, 4 - cf. M. Bollini, Antichità classarie, p. 56.
147. Cf. Guido Clemente, Le carriere dei governatori della diocesi italiciana dal III al V secolo, "Latomus", 28, 1969, pp. 615-644; Charles Pietri, Une aristocratie provinciale et la mission chrétienne: l'exemple de la 'Venetia', in AA.VV., Aquileia nel IV secolo (A.A., 22), I, Udine 1982, pp. 89-137.
148. Cf. Epistula 59, a cura di Pio M. Gassó-Columba M. Battle, Montserrat 1956, p. 158 = v. pure Id., Epistula 24, p. 74; Gian Carlo Menis, Le giurisdizioni metropolitiche di Aquileia e di Milano nell'antichità, in AA.VV., Aquileia e Milano (A.A., 4), Udine 1973, pp. 271-294.
149. Sui legami antichi e particolarmente stretti della Chiesa di Milano con quella di Alessandria, cf. spec. Ambrosius, Epistula 6, 6 extra Coll., in Corpus scriptorum ecclesiasticorum Latinorum, 82, 3, Vindobonae 1982, p. 190 (all'imperatore Graziano, dopo il concilio di Aquileia del 381): nam etsi Alexandrinae ecclesiae semper dispositionem ordinemque tenuerimus et iuxta morem consuetudinemque maiorum eius communionem indissolubili societate servemus [...>. Una modulata e antichissima - seppur discontinua influenza della Chiesa alessandrina in Aquileia è stata sostenuta da Guglielmo Biasutti, Aquileia e la Chiesa di Alessandria, in AA.VV., Aquileia e l'Oriente mediterraneo (A.A., 12), I, Udine 1977, pp. 215-229.
150. Cf. riscontri in Angelo Paredi, Influssi orientali sulla liturgia milanese antica, "Scuola Cattolica", 1940, pp. 574-579; Enrico Cattaneo, Elementi ebraici nella liturgia milanese, in AA.VV., Studi in onore di Aristide Calderini e Roberto Paribeni, II, Milano 1956, pp. 539-547; Leo Levi, La Haggadà e la sua musica, in AA.VV., La Haggadà di Pesach, a cura di R. Bofil, 1962, pp. LI-LXII e spec. LIII-LIV; Guglielmo Biasutti, Otto righe di Rufino, Udine 1970, pp. 37-43; Joseph Lemarié, La liturgie d'Aquilée au temps de Chromace et d'Ambroise, in AA.VV., Aquileia e Milano (A.A., 4), Udine 1973, pp. 249-270; Gian Carlo Menis, Il complesso episcopale teodoriano di Aquileia e il suo battistero, Udine 1986, pp. 39 ss.; Id., Il battistero teodoriano di Aquileia (finalmente ritrovato), in AA.VV., Studi in memoria di Giuseppe Bovini, Ravenna 1989, pp. 363-369; Maria Pia Billanovich, San Prosdocimo 'metropolitanus multarum civitatum'. Acquisizioni e problemi delle ricerche storiche, "Archivio Veneto", 120, 1989, pp. 133-147. Per le affinità tra l'edificio cultuale di Monastero ad Aquileia (sul cui carattere giudaico o meno ancora oggi si discute) e l'architettura sinagogale ad es. a Kefār Nahûm (II-III secolo), Beth Séarím (III/IV secolo) e Beth Alpha (VI secolo) in Galilea, nonché a Sardi (III secolo, con iscrizioni pavimentali musive d'interi gruppi familiari, come ad Aquileia), cf. Renato Polacco, L'antica sinagoga ebraica di Aquileia, "Atti dell'Accademia di Scienze, Lettere e Arti di Udine", ser. VIII, 1, 1973, pp. 5-29; Clive Foss, Turkish Sardis, Cambridge (Ma.) 1976, spec. pp. 42 e 191-195; sulle basiliche cruciformi ambrosiane, cf. spec. Enrico Villa, Basilica apostolorum. Valutazione di alcuni organismi architettonici nel primo millennio, in AA.VV., Studi in onore di A. Calderini e R. Paribeni, III, Milano 1956, pp. 709-730; Sandro Piussi, Le basiliche cruciformi dell'arco adriatico, in AA.VV., Aquileia e Ravenna (A.A, 13), Udine 1978, pp. 437-488. Per considerazioni globali su tutti questi elementi - in apparenza eterogenei ma di fatto convergenti - cf. ulteriore bibl. e nuovi riferimenti testuali (specialmente sul culto delle reliquie) in Lellia Cracco Ruggini, Note sugli Ebrei in Italia dal IV al XVI secolo, "Rivista Storica Italiana", 76, 1964, pp. 926-936; Ead., Ambrogio e le opposizioni anticattoliche fra il 383 e il 390, "Augustinianum", 14, 1974, pp. 409-449 e spec. 446-447 con n. 114; Ead., Il vescovo Cromazio e gli Ebrei di Aquileia, in AA.VV., Aquileia e l'Oriente mediterraneo (A.A., 12), Udine 1977, pp. 353-381 e spec. 366 ss.; Ead., La cristianizzazione, spec. pp. 147 ss. Sulla presenza di reliquie apostoliche provenienti dall'Oriente, nella seconda metà del IV secolo, in numerosi centri norditalici fra cui Milano, Lodi, Piacenza, Brescia, Concordia, Como, Novara, Aquileia, Padova, Verona, Genova, forse anche Pavia, cf. Jean-Charles Picard, Le souvenir des évêques. Sépultures, listes épiscopales et culte des évêques en Italie du Nord des origines au Xe siècle, Roma 1988, pp. 271-288 (L'inhumation auprès des apàtres); Barbara Agosti, Una lapide encomiastica. Pavia 'secunda Roma', "Bollettino della Società Pavese di Storia Patria", 90, 1990, pp. 3-11 e spec. 5-6.
151. Cf. tutta la documentazione raccolta in L. Ruggini, Ebrei e Orientali.
152. Cf. F. Ghedini e G. Cantino Wataghin, in questo volume.
153. Cf. documentazione in L. Cracco Ruggini, Milano nella circolazione monetaria; Ead, 'Ticinum', spec. pp. 278-280; Ead., Roma, Aquileia e la circolazione monetaria del IV secolo; Ead., Storia totale di una piccola città, pp. 282-283; v. pure Giovanni Gorini, Le monete di Aquileia nella Dalmazia e nell'Illirico, in AA.VV., Aquileia, la Dalmazia e l'Illirico (A.A., 26), II, Udine 1985, pp. 525-544.
154. Cf. Ammianus Marcellinus, 15, 8, 18.
155. Cf. Palladius Helenopolitanus, Dialogus Historicus, 2-3, in P.G., 47, coll. 8-15; lettera di Onorio ad Arcadio in P.G., 52, coll. 539-543; Giuseppe Cuscito, Cromazio di Aquileia (388-408) e l'età sua. Bilancio bibliografico-critico dopo l'edizione dei 'Sermones' e dei 'Tractatus in Mathaeum', "Aquileia Nostra", 50, 1979, coll. 497-572 e spec. 514-515; Mara Bonfioli, Soggiorni imperiali a Milano ed Aquileia da Diocleziano a Valentiniano III, in AA.VV., Aquileia e Milano (A.A., 4), Udine 1973, pp. 125-149. Ancora nel 431 Teodoreto di Ciro e altri vescovi orientali, scontenti per le deliberazioni del concilio di Efeso, scrissero ai vescovi di Milano e di Aquileia (ma altresì di Ravenna, la cui statura politica era, nel frattempo, andata lievitando): cf. Theodoretus, Epistula 112, in P.G., 83, col. 1312.
156. Cf. Expositio totius mundi, a cura di Jean Rougé, 56, in Sources Chrétiennes, 124, Paris 1966, p. 196.
157. Cf. Panegyricus IX (XII), 3-4, del 312, a Costantino; Aurelius Victor, 40, 8-9; Lactantius, De mortibus persecutorum, 27, 5-6; Zosimus, 2, 10, 1, ediz. a cura di François Paschoud, I, Paris 1971, pp. 81-82.
158. Cf. Panegyricus IX (XII), 7; Nazarius, Panegyricus X (IV), 22 e 25, del 321, a Costantino.
159. Cf. Hieronymus, Chronicon, a cura di Rudolf Helm, in Die griechischen Christlichen Schriftsteller, Eusebius, VII, Berlin 1956, p. 325; Aurelius Victor, 41, 22; Epitome de Caesaribus, 41, 21; Eutropius, 10, 9, 2; Rufinus, Historia Ecclesiastica, 10, 16, a cura di Eduard Schwartz-Theodor Mommsen, in Die griechischen Christlichen Schriftsteller, Eusebius, II/2, Leipzig 1908, p. 982; Zosimus, 2, 41, a cura di F. Paschoud, I, p. 113; Zonaras, 13, 5, in Corpus scriptorum historiae Byzantinae, 49, a cura di Theodor Büttner-Wobst, Bonn 1897, pp. 188-189.
160. Cf. Ammianus Marcellinus, 21, 11-12.
161. Cf. Ambrosius, Epistula 74, 22 = extra Coll. 1a, in Corpus scriptorum ecclesiasticorum Latinorum, 82, 3, pp. 68 e 173 (a Teodosio, alla fine del 388); Pacatus, Panegyricus XII (II), 45, del 389; Orosius, 7, 35, 2-4; Zosimus, 4, 44-46, a cura di F. Paschoud, II, 2, pp. 312-315.
162. Cf. Ambrosius, Epistula 59, 2-3, in P.L., 16, col. 1182 = 49, 2-3, in Corpus scriptorum ecclesiasticorum Latinorum, 82, 2, a Severo di Napoli, nel 393.
163. Cf. Santo Mazzarino, Stilicone. La crisi imperiale dopo Teodosio, Roma 1942, rist. Milano 1990; V. Neri, Verso Ravenna capitale; per la cronologia seguo Maria Cesa, Alarico in Italia: Pollenza e Verona, "Historia", 39, 1990, pp. 361-364.
164. Cf. L. Cracco Ruggini, La città imperiale, pp. 222-225 e 246-255. Sui monumenti aquileiesi nella fattispecie, cf . S. Tavano, Aquileia e Grado.
165. Grazie al suo carattere di guarnigione - sviluppatosi soprattutto nel IV secolo (cf. L. Cracco Ruggini, La cristianizzazione, pp. 237 ss.) - Vercelli rivestì a quest'epoca una notevole importanza come nodo di transito (militare specialmente), e fu anche unica sede di diocesi, da poco prima del 350 fino al 371/397; pertanto, essa fu scelta come sede d'esilio per il già prefetto al pretorio d'Italia Flavio Tauro - che si era schierato dalla parte di Costanzo II -, per volontà di Giuliano (361 d.C.): cf. Ammianus Marcellinus, 22, 3, 4; The Prosopography of the Later Roman Empire, I, a cura di Arnold H.M. Jones-John R. Martindale-John Morris, Cambridge 1971, s.v. "Flavius Taurus", 3, pp. 879-880.
166. V. sopra, testo corrispondente alla n. 118. Sull'assommarsi di vie di terra e di vie d'acqua nella viabilità antica, cf. le osservazioni di Alberto Grilli, Problemi di antica viabilità lombarda, in AA.VV., Die Römer in den Alpen. I Romani nelle Alpi (Convegno Storico di Salisburgo, 13-15 nov. 1986), Bozen 1989, pp. 147-153 (testo ted.) e 381-386 (testo it.).
167. Cf. Edictum 35, a cura di Marta Giacchero, I, Genova 1974, pp. 220-229; L. Ruggini, Economia e società, pp. 344-346 con n. 104 (dati più precisi quivi e loro analisi).
168. Cf. Emanuela Ercolani Cocchi, Il 'tesoretto' monetale di Salto del Lupo, in AA.VV., La civiltà comacchiese e pomposiana dalle origini preistoriche al tardo Medioevo. Atti del Convegno Nazionale di Studi Storici (Comacchio, 17-19 maggio 1984), Bologna 1986, pp. 211-226.
169. Cf. Claudianus, Carmina, 28, vv. 494-499; per Vitruvio v. sopra, testo corrispondente alle nn. 119-122.
170. Cf. Servius, In Vergilii Georgica commentarii, 1, v. 262, a cura di G. Thilo, III, I, p. 191: lintres fluviales naviculas. sane non sine ratione lintrium meminit, quia pleraque pars Venetiarum, fluminibus abundans, lintribus exercet omne commercium, ut Ravenna, Altinum, ubi et venatio et aucupia et agrorum cultura lintribus exercetur. alii lintres, in quibus uva portatur, accipiunt (sui vigneti palustri nel Ravennate, già menzionati con curiosità da Strabone, v. sopra, testo corrispondente alle nn. 17 e 123-127). Antonio Carile, La formazione del ducato veneziano, in Antonio Carile - Giorgio Fedalto, Le origini di Venezia, Bologna 1978, pp. 11-237 e spec. 164, ha giustamente sottolineato come la casualità e la discorsività del passo serviano rivelino la familiarità dell'autore e dei suoi lettori con una realtà siffatta (trascurata e taciuta per lo più, ma ben nota).
171. Cf. I.L.S., 8977 (III secolo d.C., ove è menzione di Quintus Antistius Adventus Postumius Aquilinus, che fu tra l'altro legatus Augusti ad praetenturam Italiae et Alpium: si trattò dunque di una sorta di fascia militarizzata difensiva); sulle fauces Alpium cf. S. Mazzarino, Il concetto storico-geografico dell'unità veneta, spec. p. 11, su Livio, a proposito dei Cimbri e dei Teutoni; ma cf. già Catone poco prima del 149 a.C., fr. 85, in Historicorum Romanorum Reliquiae, a cura di Hermann Peter, I, Stuttgart 19142, riprod. anast. 1967, p. 81 (Alpes [...> muri vices tuebantur Italiam).
172. Cf. S. Mazzarino, Stilicone; V. Neri, Verso Ravenna capitale.
173. Cf. Ambrosius, De excessu fratris, 1, 31 (378 d.C.), in Corpus scriptorum ecclesiasticorum Latinorum, 73, Wien 1955, pp. 226-227 ([...> quam doleres in Alpium vallo summam nostrae salutis consistere lignorumque concaedibus construi muium pudoris!); Id., Expositio Evangelii secundum Lucam, 10, 10 (390 d.C. circa), in Corpus scriptorum ecclesiasticorum Latinorum, 32, 3, Wien 1897, pp. 458-459; Hieronymus, Commentarium in Sophoniam, 1, v. 2, 3, in C.C.L., 76 A, p. 65; Id., Epistula 66, 14 (397 d.C.), a cura di J. Labourt, III, Paris 1953, p. 180. Sul trasferimento della sede imperiale a Ravenna, cf. da ultimo (ma senza grandi novità) M. Pavan, Le capitali dell'impero, pp. 47-60.
174. Cf. Appianus, Hannibal, 2, 8; Lucanus, Pharsalia, 2, vv. 396 ss.; Santo Mazzarino, Il pensiero storico classico, II, 1, Bari 1966, pp. 212 ss.; L. Cracco Ruggini - G. Cracco, L'eredità di Roma, p. 31 con n. 4.
175. Cf. Claudianus, De sexto consulatu Honorii, vv. 265 ss. e 286 ss. (404 d.C.); Rutilius Namatianus, De reditu suo, 2, vv. 11 ss. e spec. 33-38 (417 d.C. circa). La datazione del viaggio nel 417/418 è stata confermata da un nuovo frammento del De reditu ritrovato da Mirella Ferrari, Spigolature bobbiensi, "Italia Medioevale e Umanistica", 16, 1973, pp. 1-4. Per l'equipollenza di Latium con Italia in Rutilio, cf. Isidorus, Etymologiae, 14, 4, 18, a cura di Wallace M. Lindsay, Oxford s.d. [1910?>, s. pp. (dicitur et Latium ipsa Italia); sul concetto di Italia, che va contraendosi a sud della "linea gotica" a partire dal V secolo d.C., cf. spec. L. Cracco Ruggini, L'eredità di Roma, pp. 36 ss.
176. Cf. ad es. C.I.L., V, 7781 = I.L.S., 735 (iscrizione metrica di Albenga in onore del generale Costanzo, poi imperatore nel 421, dopo le nozze con Galla Placidia); L. Cracco Ruggini, 'Ticinum', pp. 284 ss. Sull'idea di confine militare e politico preminente rispetto a quella di confine naturale, e sull'imperatore come baluardo più sicuro del Reno, già nei Panegyrici Latini, cf. Domenico Lassandro, Il 'limes' renano nei Panegyrici Latini, in AA.VV., Il confine nel mondo classico, Milano 1987 (Contributi dell'Istituto di Storia Antica dell'Università Cattolica, 13), pp. 295-300.
177. Cf. documentazione in V. Neri, Verso Ravenna capitale, pp. 543 e 574 con nn. 58-70.
178. Cf. L. Cracco Ruggini, Milano nella circolazione monetaria; Giovanni Gorini, La monetazione, in AA.VV., Da Aquileia a Venezia. Una mediazione tra l'Europa e l'Oriente dal II secolo a.C. al VI secolo d.C., Milano 1980, pp. 695-649; Franco Panvini Rosati, La circolazione della moneta della zecca di Ravenna in Italia, "Felix Ravenna", ser. IV, 1-2, 1987, pp. 17-23; Emanuela Ercolani Cocchi, La moneta come fonte per la storia del territorio ravennate, in AA.VV., Storia di Ravenna, I, L'evo antico, Venezia 1990, pp. 363-374.
179. Cf. Codex Theodosianus, 11, 1, 6 che Otto Seeck, Regesten der Kaiser und Päpste für die Jahre 311 bis 476 n. Chr., Stuttgart 1919, pp. 195 e 433 data al 346 d.C., ma che André Chastagnol, La préfecture urbaine à Rome sous le Bas-Empire, Paris 1960, p. 322 con n. 1, preferisce ricollocare nel 354, come nella tradizione manoscritta.
180. Cf. C.I.L., VI, 1715 = I.L.S., 1274: in generale L. Ruggini, Economia e società, pp. 1-4, n. 1, con fonti e bibl. ivi; V. Neri, Verso Ravenna capitale, pp. 540 ss. (ove l'Autore sembra peraltro identificare i due Vicariati - Annonario e Suburbicario - con due Diocesi, mentre la Diocesi Italiciana era circoscrizione amministrativa che li comprendeva entrambi).
181. Cf. Ambrosius, Epistula 39, 3, in Corpus scriptorum ecclesiasticorum Latinorum, 82, 3, pp. 67-68; L. Ruggini, Economia e società, pp. 60-61; Ead., La città nel mondo antico: realtà e idea, in AA.VV., 'Romanitas-Christianitas'. Untersuchungen zur Geschichte und Literatur der römischen Kaiserzeit Johannes Straub zum 70. Geburtstag [...> Gewidmet, Berlin-New York 1982, pp. 61-82 e spec. 65-66; per alcuni riferimenti di carattere archeologico v. pure Maria Bollini, 'Semirutarum urbium cadavera', "Rivista Storica dell'Antichità", 1, 1971, pp. 163-176.
182. Cf. Laterculus Polemii Silvii, in M.G.H., Auctores Antiquissimi, IX, 2 (Chronica Minora, I), 1892, p. 535; sulla rivolta di Gildone e le difficoltà di approvvigionamento connesse, cf. fonti in L. Ruggini, Economia e società, pp. 166-170; Hans Peter Kohns, Versorgungskrisen und Hungerrevolten im spätantiken Rom, Bonn 1961, pp. 207-210.
183. Cf. Roberta Budriesi, Il cristianesimo a Ravenna, Milano 1989, pp. 145-169 e spec. 148; v. pure Ead., Le origini del cristianesimo a Ravenna, Ravenna 1970.
184. Cf. Notitia Dignitatum Occidentis, 1, 56 e 2, 14; per l'età romano-bizantina (565/570 d.C.) cf. la documentazione papirologica in Jan-Olof Tjäder, Die nichtliterarischen Papyri Italiens aus der Zeit 445-700, Lund 1954-1955, Pap. 2, I, pp. 178-183 e III, tavv. 4-5.
185. Cf. Zosimus, 5, 27, 1-2, a cura di F. Paschoud, III, 1, p. 40 e comm. a p. 204, n. 58 (v. pure sopra, n. 8).
186. Cf. per tutti V. Neri, Verso Ravenna capitale, spec. pp. 538-539, con ulteriore bibl. ivi. Sull'innocenza di Romolo (o, quanto meno, sulla uccisione di Remo da parte della turba dei seguaci di Romolo) cf. pure Livius, 1, 7; Ovidius, Fasti, 4, vv. 841 ss.; Servius, In Vergilii Aeneida commentarii, 6, v. 779, a cura di G. Thilo, II, p. 110 (a Romuli militibus Remus occisus est. fabulosum enim est quod a fratre propter muros dicitur interemptus); v. pure ibid., 1, v. 292, a cura di G. Thilo, I, pp. 107-108 (confronto fra la diarchia Romolo-Remo e quella di Augusto-Agrippa).
187. Cf. Prudentius, Peristephanon, 2, vv. 411, a cura di Maurice Lavarenne, IV, Paris 1951 (Roma urbs Romula) e 425-426 (l'impero romano detto per metonímia regnum Remi); Lellia Cracco Ruggini, Arcaismo e conservatorismo, innovazione e rinnovamento (IV-V secolo), in AA.VV., Le trasformazioni della cultura nella tarda antichità. Atti del Conv. tenuto a Catania (27 sett. - 2 ott. 1982), I, Roma 1985, pp. 131-156 e spec. 150-151. V. inoltre Origo gentis Romanae, 23, apud Sextus Aurelius Victor, De Caesaribus, a cura di Franz Pichelmayr-Roland Grundel, Leipzig 1970, p. 22 (ove la figura di Remo è collocata in secondo piano rispetto a quella di Romolo). Su Romolo "assassino" cf. pure Augustinus, De civitate dei, 2, 14; 3, 6 e 12 e 14, in C.C.L., 47, pp. 46, 68, 74, 77; 15, 5, in C.C.L., 48, pp. 457 s.
188. Su Teodoro, cf. The Prosopography of the Later Roman Empire, I, s.v. "Flavius Mallius Theodorus", 27, pp. 900-902; John Matthews, Western Aristocracies and Imperial Court (364-425), Oxford 1975, pp. 74 e 211 ss.; Ch. Pietri, Une aristocratie provinciale, pp. 101-102; cf. inoltre Symmachus, Epistula 6, 52 ai figli Nicomachi (397 d.C.), ove l'oratore esorta il genero Flaviano Iuniore ad adoperarsi affinché un'ambasceria di senatori sollecitasse l'adventus a Roma del princeps, che sembrava invece propendere per il provinciale desiderium; Arnaldo Marcone, Commento storico al libro VI dell'Epistolario di Q. Aurelio Simmaco, Pisa 1983, pp. 204 (tr. it.), 129-132 (comm.); Claudianus, De sexto consulatu Honorii, vv. 360 ss. (ove Roma personificata lamenta le preferenze in precedenza accordate ai Ligures - cioè a Milano -, sebbene solo essa fosse degna di avere l'imperatore in quanto sua legittima parens); Roger S. Bagnall - Alan Cameron - Seth R. Schwartz - Klaas A. Worp, Consuls of the Later Roman Empire, Atlanta, Georgia 1987, pp. 397-398 e 403-404; Paola Rivolta Tiberga, Due uomini, due capitali: Simmaco e Teodoro, Roma e Milano, "Atti dell'Accademia delle Scienze di Torino", Classe di Scienze Morali, Storiche e Filologiche, 122, 1988, pp. 95-114; V. Neri, Verso Ravenna capitale, pp. 535 ss. (l'Autore è tuttavia in errore là ove - p. 540 - identifica il consolato di Onorio del 398 con il quinto e non con il quarto).
189. Cf. L. Cracco Ruggini, La cristianizzazione, spec. p. 236 con n. 4 (fu solo nell'avanzato VII secolo, dopo che l'imperatore bizantino e filo-monotelita Costante II, in ostilità al papato, ebbe concesso a Ravenna l'autocefalia rispetto a Roma - 666 d.C. - che si formò la leggenda delle origini apostoliche di Ravenna); Robert A. Markus, Ravenna and Rome, 544-604, "Byzantion", 51, 1981, pp. 566-578 = Id., From Augustine to Gregory the Great. History and Christianity in Late Antiquity, London 1983 (Variorum Reprints, XIV).
190. Cf. Fernando Rebecchi, Sull'origine dell'insediamento in Grado e sul suo porto tardo-antico, in AA.VV., Grado nella storia e nell'arte (A.A., 17), I, Udine 1980, pp. 41, 56, ove si raccolgono argomenti di carattere archeologico contro l'opinione corrente secondo cui Grado già in età imperiale romana sarebbe stata una struttura anteportuale importante, un fiorente scalo-satellite del grande porto di Aquileia (v. Giovanni Brusin, Aquileia e Grado, Padova 1964, p. 234); l'Autore propende piuttosto a ipotizzare che Grado si sia sviluppata da un piccolo insediamento insulare più antico soprattutto dopo il III secolo, consolidandosi poi come castrum fra il IV e il V; v. pure sopra, testo corrispondente alla n. 115 e oltre, testo corrispondente alle nn. 264-268.
191. Cf. L. Bosio, Le fortificazioni tardoantiche del territorio di Aquileia; L. Cracco Ruggini, Aquileia e 'Concordia', p. 95.
192. Cf. Cassiodorus, Variae, 12, 26 (535-536 d.C.), in C.C.L., 96, pp. 494-495 (magazzini militari di vettovaglie ad Aquileia, Concordia e Cividale). Sulla grande alluvione del 589 nel Norditalia (aquae diluvium, dice Paolo Diacono), seguita tosto ovunque dalla pestilenza e che avrebbe segnato uno stato di secolare semi-abbandono anche per Modena e Brescello, cf. Paulus Diaconus, Historia Langobardorum, 3, 23-24, in M.G.H., pp. 104-105; Id., Vita Gregorii, 10-11, in P.L., 75, coll. 45-46; Liber Pontificalis, 65 (Vita Pelagii II Papae), a cura di Louis Duchesne, I, Paris 1886-1957, p. 309 (e cf. ibid., 3, pp. 92-93); Gregorius, Dialogi, 3, 19, in Sources Chrétiennes, 260, Paris 1979, pp. 346-350; Id., ibid., 4, 37, 7, in Sources Chrétiennes, 265, Paris 1980, pp. 128-130; Id., Homiliae in Evangelia, 2, 38, 16 e 2, 19, 7, in P.L., 76, coll. 1292-1293 e 1158-1159: Iohannes Diaconus, Vita Gregorii, 1, 34, in P.L., 75, coll. 77 ss.; Gregorius Turonensis, Historia Francorum, 10, 1, in M.G.H., Scriptores Rerum Merovingicarum, I, 1, 1884, p. 477; L. Ruggini, Economia e società, pp. 481-482.
193. Per Padova e Vicenza cf. L. Cracco Ruggini, Storia totale di una piccola città, pp. 300-301. Sulla navigazione padana nel V-VI secolo cf. Cassiodorus, Variae, 4, 45 (507/51I d.C.), in C.C.L., 96, p. 172 (cinque giorni di navigazione da Ticinum a Ravenna); Strabo, 5, 1, 11, 217 C., aveva dato tempi ben più lunghi per l'età sua: due giorni e due notti di navigazione da Piacenza a Ravenna. La navigazione fluviale da Ticinum a Ravenna, nell'età gotica, doveva essere peraltro disagiata: cf. Ennodius, Vita Epiphanii, 184, a cura di Maria Cesa, Como 1988, pp. 74-75 (Padus [...> navigatio, periculum, [...> sine tecto mansio, in ripis fluminis incerti paene sine terra portus […>); sicché talora veniva preferito il più lungo itinerario terrestre lungo la Via Aemilia (cf. Ennodius, Vita Epiphanii, 191, a cura di M. Cesa, p. 76; secondo Procopius, De bello Gothico, 2, 7, occorrevano otto giorni di cammino "di uomo aitante" per giungere da Milano a Ravenna). Giacinto Romano, Pavia nella storia della navigazione fluviale, "Bollettino della Società Pavese di Storia Patria", 11, 1911, pp. 311-328, già ebbe a rilevare il progressivo miglioramento dei servizi fluviali padani: nel X secolo, al tempo di Liutprando, in soli tre giorni si poteva arrivare da Venezia a Pavia; e attorno all'anno 800 i rifornimenti di sale da Comacchio erano abituali per i Pavesi, il cui monastero di S. Pietro in Ciel d'Oro addirittura possedeva a Comacchio saline in proprio; v. pure Laura Boffo, Per la storia della antica navigazione fluviale padana. Un 'collegium nautarum' o 'naviculariorum' a 'Ticinum' in età imperiale, "Rendiconti dell'Accademia Nazionale dei Lincei", Classe di Scienze Morali, Storiche e Filologiche, ser. VIII, 32, 1977, pp. 623-632.
194. Cf. Sidonius Apollinaris, Epistulae, 1, 5, 3-5, a Heronius (così anche in The Prosopography of the Later Roman Empire, II, a cura di John R. Martindale, Cambridge-London-New-York-New Rochelle-Melbourne-Sidney 1980, s.v., p. 552; Herenius invece nell'ediz. a cura di André Loyen, II, Paris 1970, pp. 14-15): Ticini cursoriam (sic navigio nomen) escendi [...>. ulvosum Lambrum, caerulum Adduam, velocem Athesim, pigrum Mincium, qui Ligusticis Euganeisque montibus oriebantur, paulum per ostia adversa subvectus in suis etiam gurgitibus inspexi [...>. hic avium resonans dulce concentus, quibus nunc in concavis harundinibus, nunc quoque in iuncis pungentibus, nunc et in scirpis enodibus nidorum strues imposita nutabat; quae cuncta virgulta tumutuatim super amnicos margines soli bibuli suco fata fruticaverant. atque obiter Cremonam praevectus adveni, cuius est olim Tityro Mantuano largum suspirata proximitas. Brixillum dein oppidum, dum succedenti Aemiliano nautae decedit Venetus remex, tantum ut exiremus intravimus, Ravennam paulo post cursu dexteriore subeuntes [...>. Su Ostiglia sede di dromonarii "militarizzati" (i dromones erano battelli triremi), che funzionavano in collegamento e a completamento del cursus publicus terrestre servito da veredarii, cf. Cassiodorus, Variae, 2, 31 (507/511 d.C.), in C.C.L., 96, p. 79; L. Cracco Ruggini, 'Ticinum', pp. 287-288 con n. 63; v. pure Massimiliano Pavan, La 'Vendici' di Cassiodoro, in AA.VV., La 'Venetia' dall'antichità all'alto Medioevo, Roma 1988, pp. 63-74 e spec. 67. Sulla rotta fluviale Hostilia-Ravenna, in un'area protetta dal dosso di un ramo fossile del Po, cf. D. Corlaita Scagliarini, La villa romana, pp. 17-18 (a proposito della villa di Cassana, all'incrocio fra la Via Aemilia altinate - da Bologna verso Ateste e Aquileia - e questa rotta fluviale).
195. Sull'efficacia della linea politica portata avanti dall'aristocrazia senatoria di Roma nel V secolo, sino alle soglie dell'età teodericiana, cf. André Chastagnol, Le sénat romain sous le règne d'Odoacre. Recherches sur l'épigraphie du Colisée au Ve siècle, Bonn 1966, passim; Giuseppe Zecchini, La politica degli Anicii nel V secolo, in AA.VV., Atti del Congresso Internazionale di Studi Boeziani (Pavia, 5-8 ott. 1980), Roma 1981, pp. 123-138; Lellia Cracco Ruggini, Nobiltà romana e potere nell'età di Boezio, ibid., pp. 73-96, con fonti e bibl. ivi.
196. Cf. Iohannes Antiochenus, fr. 202, in Fragmenta historicorum Graecorum, a cura di Karl Müller, IV, Paris 1851, p. 616; Paulus Diaconus, Historia Romana, 15, 1, in M.G.H., Auctores Antiquissimi, II, 1879, pp. 207-208; Chronica Gallica a. DXI, in M.G.H., Auctores Antiquissimi, IX, 2 (Chronica Minora I), 1892, p. 664; Ernest Stein, Histoire du Bas-Empire, I (De l'état romain a l'état byzantin, 284-476), ediz. fr. aggiornata a cura di Jean-Rémy Palanque, Paris-Bruxelles 1959, pp. 372 e 595 con n. 43.
197. Cf. Iohannes Antiochenus, fr. 203, in Fragmenta historicorum Graecorum, IV, p. 616; Consularia Italica, ad a. 461, in M.G.H., Auctores Antiquissimi, IX, 2 (Chronica Minora I), 1892, p. 305; E. Stein, Histoire du Bas-Empire, I, pp. 380 e 559 con n. 84.
198. Cf. Ennodius, Vita Epiphanii, 51-75, a cura di M. Cesa, pp. 51-55 (testo lat.), 88-93 (tr. it.), 148-162 (comm.); fonti parallele in E. Stein, Histoire du Bas-Empire, I, pp. 394 e 603, con n. 170.
199. Cf. Maximus Taurinensis, Sermo 3, 2-3, in C.C.L., 23, pp. 10-11, ove il presule di Augusta Taurinorum rimprovera duramente i fedeli per la loro massiccia diserzione alle cerimonie nella festività di Pietro e di Paolo.
200. Cf. in generale L. Cracco Ruggini, 'Ticinum', p. 289.
201. Cf. Iordanes, Getica, 56, in M.G.H., Auctores Antiquissimi, V, 1, 1882, p. 131; Paulus Diaconus, Historia Romana, 15, 12, in M.G.H., p. 212.
202. Cf. Ennodius, Vita Epiphanii, 81-92, a cura di M. Cesa, pp. 59-60, 94-97, 169-173; Paulus Diaconus, Historia Romana, 15, 5, in M.G.H., p. 209.
203. Cf. Anonymus Valesianus, 11, 56; Ennodius, Panegyricus dictus Theodorico, in M.G.H., Auctores Antiquissimi, VII, 1985, p. 209; per Procopio e Giordane, v. oltre, § 9. Per Pavia cf. Ennodius, Vita Epiphanii, 111-117, a cura di M. Cesa, pp. 62-63, 101-102, 184-186.
204. Cf. Ennodius, Vita Epiphanii, 136 ss., a cura di M. Cesa, pp. 66 ss., 105 ss., 194 ss.; L. Cracco Ruggini, 'Ticinum', pp. 297-298.
205. Cf. Sidonius Apollinaris, Epistulae, 1, 10, 2, a cura di André Loyen, II, p. 33, all'amico Campaniano.
206. Cf. Ennodius, CCXXXV (Epistula 5, 113), in M.G.H., Auctores Antiquissimi, VII, 1885, p. 183.
207. V. pure sopra, n. 194.
208. Cf. Sidonius Apollinaris, Epistulae, 1, 8, 2-3, a cura di A. Loyen, II, pp. 27-28: Morari me Romae congratularis; id tamen quasi facete et fatigationum salibus admixtis: ais enim gaudere te quod aliquando necessarius tuus videam solem, quem utique perraro bibitor Araricus inspexerim. nebulas enim mihi meorum Lugdunensium exprobras et diem queris nobis matutina caligine obstructum vix meridiano fervore reserari. et tu istaec mihi Caesenatis furni potius quam oppidi verna deblateras? de cuius natalis tibi soli vel iucunditate vel commodo quid etiam ipse sentires dum migras iudicavisti; ita tamen quod te Ravennae felicius exsulantem auribus Padano culice perfossis municipalium ranarum loquax turba circumsilit. in qua palude indesinenter rerum omnium lege perversa muri cadunt, aquae stant, turres fluunt, naves sedent, aegri deambulant, medici iacent, algent balnea, domicilia conflagrant, sitiunt vivi, natant sepulti, vigilant fures, dormiunt potestates, faenerantur clerici, Syri psallunt, negotiatores militant, monachi negotiantur, student pilae senes, aleae iuvenes, armis eunuchi, litteris foederati. tu vide qualis sit civitas ubi tibi lar familiaris incolitur, quae facilius territorium potuit habere quam terram. quocirca memento innoxiis Transalpinis esse parcendum, quibus caeli sui dote contentis non grandis gloria datur si deteriorum collatione clarescant. Vale.
209. Cf. per essi sopra, testo corrispondente alle nn. 165-166.
210. L'affermazione di Sidonio appare in patente contrasto con l'eccezionale salubrità del clima di Ravenna riaffermata da Vitruvio, Strabone, Publio Giovenzio Celso, Claudiano (per cui v. sopra, testo corrispondente alle nn. 119-127 e 169). Sidonio ironizza sugli aegri che deambulant per la città, mentre i medici preferiscono stare a letto; più tardi (seconda metà circa del VII secolo) la Passio Sancti Apollinaris farà riferimento a un vicus presso Ravenna ov'erano confinati i lebbrosi e ove il santo vescovo si sarebbe trattenuto per sette giorni inter christianos: cf. R. Budriesi, Il cristianesimo a Ravenna, p. 157. Apollinare fu, con ogni verisimiglianza, protovescovo ravennate attorno alla metà del III secolo d.C., anche se nell'avanzato VII secolo si creò la leggenda di una sua nomina apostolica, dopo che il filo-monotelita Costante II, nel 666, ebbe concesso alla città l'autocefalia rispetto a Roma, in ostilità al papato: v. sopra n. 189.
211. V. sopra, testo corrispondente alle nn. 119-127.
212. Cf. Sidonius Apollinaris, Epistulae, 7, 17, vv. 15-20, a cura di André Loyen, III, Paris 1970, p. 77 (477 d.C.). Sulla trasformazione di Ravenna da città provinciale a capitale, cf. Friedrich Wilhelm Deichmann, Ravenna, Hauptstadt des Abendlandes, I, Wiesbaden 1969, pp. 479 ss.
213. V. sopra, testo corrispondente alla n. 194. Vale la pena di riportare qui per intero il passo riguardante Ravenna (non sempre di facile interpretazione): [...> Ravennam paulo post cursu dexteriore subeuntes: quo loci veterem civitatem novumque portum media via Caesaris ambigas utrum conectat an separet. insuper oppidum duplex pars interluit Padi, cetera pars alluit; qui ab alveo principali molium publicarum discerptus obiectu et per easdem derivatis tramitibus exhaustus sic dividua fluenta partitur ut praebeant moenibus circumfusa praesidium, infusa commercium. hic cum peropportuna cuncta mercatui, tum praecipue quod esui competeret, deferebatur; nisi quod, cum sese hinc salsum portis pelagus impingeret, hinc cloacali pulte fossarum discursu lintrium ventilata ipse lentati languidus lapsus umoris nauticis cuspidibus foraminato fundi glutino sordidaretur. in medio undarum sitiebamus, quia nusquam vel aquaeductuum liquor integer vel cisterna defaecabilis vel fons inriguus vel puteus inlimis.
214. V. sopra, testo corrispondente alle nn. 123-127 (Strabone già stupiva per questa città tutta costruita su palafitte, attraversata da corsi d'acqua sormontati da ponti e percorsi da barche: un'immagine senza dubbio precorritrice di quella di Venezia).
215. Gli antichi non ignorarono affatto il problema dell'inquinamento, specie in relazione alle acque: già se ne preoccupava Plinio il Vecchio, difendendo la natura dalle accuse che l'uomo le muoveva ingiustamente, attribuendo ad esse colpe sue proprie (cf. Plinius, Naturalis Historia, 18, 3; Antonio Mazzarino, Un testo antico sull'inquinamento, "Helikon", 9-10, 1969-1970, pp. 643-645); e se ne preoccupò ad es. Teodosio I nel 391, in una costituzione emanata a Vicenza e contenente disposizioni a tutela delle acque fluviali delle Venezie, che potevano venire inquinate dai cospicui contingenti militari e dai loro cavalli accampati lungo le rive: cf. Codex Theodosianus, 7, 1, 13, al magister utriusque militiae Richomer; L. Cracco Ruggini, Storia totale di una piccola città, p. 280.
216. V. sopra, testo corrispondente alla n. 170.
217. Cf. Iordanes, Getica, 2-3; 29; 82; 117 (Ablavius), in M.G.H., Auctores Antiquissimi, V, 1, 1882, pp. 54, 61, 78, 88; Cassiodorus, Variae, 10, 22, 2 (535 d.C.), in G.C.L., 96, pp. 404-405, ove gli historica monumenta di Ablabio sono menzionati come opera storica bizantina (Ablabi vestri), in un messaggio di Teodato a Giustiniano. Non è pertanto esatta l'annotazione di Theodor Mommsen (M.G.H. cit., pp. XXXVIII-XXXIX), secondo cui di questo storico menzionato da Cassiodoro si ignorerebbe persino la pars imperii di appartenenza. Su questo Ablabius, il parvenu prefetto al pretorio di Costantino nel 329-337, autore di epigrammi, cf. Eunapius, Vitae Sophistarum, 6, 2; Id., ibid., 6, 3, 13-4, 1, a cura di Giuseppe Giangrande, Roma 1956, pp. 18-20 e 23; Zosimus, 2, 40, 3, a cura di F. Paschoud, I, 113; ulteriori fonti letterarie, epigrafiche e papirologiche sul personaggio in The Prosopography of the Later Roman Empire, I, s.v. "Fl. Ablabius", 4, pp. 3-4; Lellia Cracco Ruggini, Simboli di battaglia ideologica nel tardo ellenismo (Roma, Atene, Costantinopoli; Numa, Empedocle, Cristo), in AA.VV., Studi Storici in onore di Ottorino Bertolini, I, Pisa 1972, pp. 177-300 e spec. n. 60; Ead., Nobiltà romana e potere, pp. 77-78. Su Ablabius autore di una Storia Gotica (basata su materiali e leggende dei Goti, cui attinsero Cassiodoro-Giordane) e forse identificabile con il prefetto al pretorio costantinopolitano di cui sopra, cf. The Prosopography of The Later Roman Empire, I, s.v. "Ablabius", 3, p. 2. Dai Getica (83 e 88, in M.G.H., pp. 78 e 80) provengono anche due frammenti della Storia in sette libri di Simmaco suocero di Severino Boezio: cf. Historicorum Romanorum Reliquiae, a cura di Hermann Peter, II, Stuttgart 19142, riprod. anast. 1967, pp. 156-158; Bruno Luiselli, Note sulla perduta Historia Romana di Q. Aurelio Memmio Simmaco, "Studi Urbinati", 49, 1975 (Atti del Convegno 'Gli storiografi latini tramandati in frammenti' , Urbino 9-11 maggio 1974), pp. 529-535. Su Cassiodoro e Giordane a Costantinopoli cf. pure Arnaldo Momigliano, Cassiodorus and the Italian Culture of His Time (1955), in Id., Secondo Contributo alla storia degli studi classici, Roma 1960, pp. 192-229 e spec. 207-208; Id., s.v. "Cassiodoro", in Dizionario Biografico degli Italiani, XXI, Roma 1978, pp. 494-504.
218. Cf. Iordanes, 29, in M.G.H., pp. 96-97: [...> per Sirmium dextroque latere quasi viris vacuam intravit Italiam nulloque penitus obsistente ad pontem applicavit Candidiani, qui tertio miliario ab urbe aberat regia Ravennate. quae urbs inter paludes et pelago interque Padi fluenta unius tantum patet accessu, cuius dudum possessores, ut tradunt maiores, 'ainetói', id est laudabiles, dicebantur. haec in sino regni Romani super mare Ionio constituta ut in modum insulae influentium aquarum redundatione concluditur. habet ab oriente mare, ad quam qui recto cursu de Corcyra atque Hellade partibus navigatur, dextrum latus primum Epiros, dehinc Dalmatiam Liburniam Histriamque et sic Venetias radens palmula navigat. ab occidente vero habet paludes, per quas uno angustissimo introitu ut porta relicta est. a septentrionale quoque plaga ramus illi ex Pado est, qui Fossa vocitatur Asconis. a meridie item ipse Padus, quem Italiae soli fluviorum regem dicunt, cognomento Eridanus, ab Augusto imperatore latissima fossa demissus, qui septima sui alvei parte per mediam influit civitatem, ad ostia sua amoenissimum portum praebens, classem ducentarum quinquaginta navium Dione referente tutissima dudum credebatur recipere statione. qui nunc, ut Favius ait, quod aliquando portus fuerit, spatiosissimus ortus ostendit arboribus plenus, verum de quibus non pendeant vela, sed poma. trino si quidem urbs ipsa vocabulo gloriatur trigeminaque positione exultat, id est prima Ravenna, ultima Classis, media Caesarea inter urbem et mare, plena mollitiae harenaque minuta vectationibus apta.
219. V. sopra, testo corrispondente alle nn. 123-127.
220. Per Ablabio v. sopra, n. 217; sul frammento di Cassio Dione e una possibile identificazione di Favius con Flavius (Magnus Aurelius Cassiodorus Senator) cf. invece Santo Mazzarino, La tradizione di Iordanes sul porto romano di Ravenna, "Annali della Facoltà di Magistero dell'Università di Palermo", 1, 1968, pp. 3-10.
221. Cf. Paulus Diaconus, Historia Langobardorum, 2, 14, in M.G.H., p. 81 (nel contesto della descrizione delle Venezie al tempo della conquista langobarda con Alboino): "[...> il nome poi di Eneti, o Veneti alla latina, con l'aggiunta di una lettera, significa in greco 'lodevoli'".
222. V. sopra, testo corrispondente alla n. 175. Per un analogo riferimento anche in Cassiodorus, Variae, 12, 24, in C.C.L., 96, pp. 491-492 (contemporaneo a Giordane), v. oltre, testo corrispondente alla n. 237.
223. Pensiamo già a Sidonio Apollinare e alle sue frecciate contro gli eunuchi che si danno alle armi, nella lettera a Candidiano (v. n. 208).
224. V. sopra, § 3.
225. Cf. Procopius, De bello Gothico, 2, 10, per il 538. Lo scarso peso della guerra sul piano militare fra l'Isonzo e Ravenna è stato sottolineato da Antonio Cabile, Il 'bellum Gothicum' dall'Isonzo a Ravenna, in AA.VV., Aquileia e Ravenna (A.A., 13), Udine 1978, pp. 147-192.
226. V. sopra, testo corrispondente alle nn. 170 e 213-216.
227. V. sopra, testo corrispondente alla n. 131; sulla sopravvivenza del concetto nelle laudes civitatum medievali, cf. Giorgio Cracco, in Lellia Cracco Ruggini - Giorgio Cracco, Changing Fortunes of the Italian City from Late Antiquity to Early Middle Ages, "Rivista di Filologia e di istruzione classica", 105, 1977, pp. 448-475 e spec. 461 ss.
228. Cf in C.I.L., XI, 10 = I.L.S., 826 (iscrizione perduta, ma trascritta da un autore del IX secolo): Rex Theodericus favente d(e)o / et bello gloriosus et otio, / fabricis suis amoena coniungens, / sterili palude siccata, hos hortos / suavi pomorum fecunditate ditavit. È possibile che si trattasse dell'area in corso di interramento nell'ex porto di Classe, che anche Giordane (Getica, 22) dirà ormai coltivato a pometi (v. sopra, testo corrispondente alle nn. 218-221). Su analoghe imprese di bonifica, incrementate da Teoderico anche nelle paludi di Decennovio (Decennonium/Decennovium) presso Terracina, cf. C.I.L., X, 6850-6851 = I.L.S., 827; Cassiodorus, Variae, 2, 32, in C.C.L., 96, pp. 79-80 (507/511 d.C.), al senato di Roma; e v. pure Procopius, De bello Gothico, 1, 2; per la bonifica di certe terre dalle parti di Spoleto, sempre regnando Teoderico, Cf. Cassiodorus, Variae, 2, 21, in C.C.L., 96, pp. 71-72 (507/511 d.C.); L. Ruggini, Economia e società, pp. 263-264 con n. 162.
229. V. sopra, testo corrispondente alle nn. 123-127 (Strabone) e 33 (Eliodoro, sulla vita urbana "alla rovescia" nel delta nilotico).
230. Cf. Cassiodorus, Variae, 12, 26, in C.C.L., 96, pp. 494-495; L. Ruggini, Economia e società, pp. 287-288 e 336. Sulla carestia in tutta la Transpadana - Liguria - e nelle Venetiae, provocata da avversità meteorologiche, già preannunciatasi nel 534 e imperversante poi nel 535-536, cf. ibid., pp. 473-474, con fonti ivi (a giustificazione della precisa datazione di Cassiodorus, Variae, 12, 26 al 535/536, anziché, più genericamente, al 533/537 come in C.C.L.).
231. Cf. Cassiodorus, Variae, 12, 7, in C.C.L., 96, p. 472, al canonicarius Venetiarum, nel 536/537; v. pure, ibid., 12, 28, pp. 496-499, del 535/538, ove lo stato concede un dimezzamento dei tributi alla Liguria (ossia alla Transpadana dalle Alpi occidentali all'Adda) e alla Aemilia, nonché distribuzioni di cereali a prezzo calmierato relativamente moderato: cf. L. Ruggini, Economia e società, p. 274.
232. Cf. Cassiodorus, Variae, 12, 22, in C.C.L., 96, pp. 488-490; L. Ruggini, Economia e società, pp. 287-288 e 341 ss.
233. Per Marziale v. sopra, testo corrispondente alla n. 118. Sulla presenza non sporadica di pietra d'Istria nelle costruzioni ravennati tardive e circa l'influenza di Ravenna sull'arte cristiana in Istria dopo la guerra gotica (seconda metà del VI secolo), cf. Gisella Cantino Wataghin, in questa stessa sede.
234. Sulla "sacrilega" ristrutturazione del territorio attorno al lago Averno per opera di Augusto e di Agrippa, di cui parla Strabone, v. sopra, n. 21.
235. Cf. L. Ruggini, Economia e società, pp. 344 ss.
236. Per Istrienses provinciae nel senso di Venetiae (= Venetia et Histria) cf. Gregorius, Registrum Epistolarum, 1, 16 a, all'imperatore bizantino Maurizio (per cui v. oltre, n. 249); v. pure ibid., 9, 153 e 155 (599 d.C.), in C.C.L., 140 A, pp. 708-709 e 710-711 (ove Càorle - insula Cáprea o Capritana, sulla laguna tra la foce del Piave e quella del Tagliamento presso lo scalo portuale di Concordia [per cui v. sopra, n. 115> - è detta in Histria provincia); L. Cracco Ruggini, Storia totale di una piccola città, p. 289 e n. 328. Sul fiorire di micro-diocesi lungo la costa istriana e dalmata, contestualmente ad accresciute esigenze di difesa militare in quest'area divenuta ormai di frontiera, cf. tabella in Pasquale Testini - Gisella Cantino Wataghin - Lucrezia Pani Ermini, La cattedrale in Italia, in AA.VV., Actes du XIe Congrès International d'Archéologie Chrétienne (Lyon, Vienne, Grenoble, Genève et Aoste, 21-28 Septembre 1986), Roma 1989, pp. 5-26 e spec. 22-23; Daniela Rando, Le istituzioni ecclesiastiche veneziane nei secoli VI-XII. Il dinamismo di una Chiesa di frontiera, Trento 1990, spec. pp. 35-36, ove l'Autrice si richiama a un analogo fenomeno lungo la costa calabra a séguito della seconda colonizzazione bizantina (880 d.C.), per cui cf. Pietro De Leo, Per la storia delle parrocchie calabresi nel basso Medioevo (secc. XIII-XV), in AA.VV., Atti del VI Convegno di Storia della Chiesa in Italia (Firenze, 21-25 sett. 1981), Roma 1984, pp. 1133-1171 e spec. 1149.
237. Cf. Cassiodorus, Variae, 12, 24, in C.C.L., 96, pp. 491-492 (537/538), la cui interpretazione cambia tuttavia a seconda della punteggiatura che le si attribuisce (Venetiae praedicabiles quondam, plenae nobilibus: così io; oppure, Venetiae praedicabiles, quondam plenae nobilibus). Non sembra però dia molto senso, nel contesto, una trenodia della passata grandezza delle Venezie collocata in un messaggio inteso a lodarne la floridezza e lo splendore attuali, onde incoraggiare lo sforzo contributivo dei possidenti; mentre trova un parallelo sia in Giordane sia in Paolo Diacono la proiezione nella tradizione antica dell'appellativo Veneli = laudabiles (v. sopra, testo corrispondente alle nn. 218-221).
238. V. sopra, testo corrispondente alla n. 121.
239. Cf. Cassiodorus, Variae, 12, 23, in C.C.L., 96, pp. 490-491 (electis opus est militibus, com fuerit necessitatis impulsus. atque ideo experientiam tuam [...> ad Histriam provinciam iubemus excurrere [da Ravenna, si presume>, ut in tot solidos vini, olei vel tritici species [..> debeas procurare [...> tam a negotiatoribus quam a possessoribus [...>). Il problema dell'accezione esatta di Histria si pone pertanto qui, come già in Varia 12, 22 e nella seguente Varia 12, 24.
240. Cf. ibid., 12, 24, in C.C.L., 96, pp. 491-492; L. Ruggini, Economia e società, pp. 344-349.
241. Cf. Andreae Danduli Chronica per extensum descripta, a cura di Ester Pastorello, in R.I.S.2, XII, 1, 1938-1958, pp. 69, 3-70, 20; da ultimo A. Carile, La fondazione del ducato veneziano, pp. 156-159, 174, 177, con ulteriore, ampia bibl. ivi; Id., La presenza bizantina nell'alto Adriatico fra VII e IX secolo, "Abruzzo", 21, 1983, p. 8 con n. 8. Alquanto semplificante appare la lettura dell'epistola data da Frederic C. Lane, Storia di Venezia, Torino 1978, pp. 6-7, che vi scorge soltanto la descrizione di una società, per il momento ancor misera, di battellieri, pescatori e produttori di sale.
242. V. sopra, testo corrispondente alle nn. 222-225. Sulle future, alterne fortune di una politica veneziana di monopolio nel commercio del sale, cf. Jean-Claude Hocquet, Le sel et la fortune de Venise, I-II, Lille 1978 [1979> (Thèse d'État).
243. Vale la pena di riportare per intero - anche a scopo di riscontro testuale all'interpretazione qui proposta - il testo di Variae, 12, 24 sopracit.: Data pridem iussione censuimus ut Histria vini, olei vel tritici species, quarum praesenti anno copia indulta perfruitur, ad Ravennatem feliciter dirigeret mansionem. sed vos, qui numerosa navigia in eius confinio possidetis, pari devotionis gratia providete, ut quod illa parata est tradere, vos studeatis sub celeritate portare. similis erit quippe utrisque gratia perfectionis, quando unum ex his dissociatum impleri non permittit effectum. estote ergo promptissimi ad vicina, qui saepe spatia transmittitis infinita. per hospitia quodammodo vestra discurritis, qui per patriam navigatis. accedit etiam commodis vestris, quod vobis aliud iter aperitur perpetua securitate tranquillum. nam cum ventis saevientibus mare fuerit clausum, via vobis panditur per amoenissima fluviorum. carinae vestrae flatus asperos non pavescunt; terram cum summa felicitate contingunt et perire nesciunt, quae frequenter impingunt. putantur eminus quasi per prata ferri, cum eorum contingit alveum non videri. tractae funibus ambulant, quae stare rudentibus consuerunt, et condicione mutata pedibus iuvant homines naves suas: vectrices sine labores trahunt, et pro pavore velorum utuntur passu prosperiore nautarum. iuvat referre quemadmodum habitationes vestras sitas esse perspeximus. Venetiae praedicabiles quondam, plenae nobilibus, ab austro Ravennan Padumque contingunt, ab oriente iucunditate Ionii litoris perfruuntur: ubi alternus aestus egrediens modo claudit, modo aperit faciem reciproca inundatione camporum. hic vobis aquatilium avium more domus est. nam qui nunc terrestris, modo cernitur insularis, ut illic magis aestimes esse Cycladas, ubi subito locorum facies respicis immutatas. earum quippe similitudine per aequora longe patentia domicilia videntur sparsa, quae non natura protulit, sed hominum cura fundavit. viminibus enim flexibilibus illigatis terrena illic solidatas aggregatur et marino fluctui tam fragilis munitio non dubitatur opponi, scilicet quando vadosum litus moles eicere nescit undarum et sine viribus fertur quod altitudinis auxilio non iuvatur. habitatoribus igitur una copia est, ut solis piscibus expleantur. paupertas ibi cum divitibus sub aequalitate convivit. unus cibus omnes reficit, habitatio similis universa concludit, nesciunt de penatibus invidere et sub hac mensura degentes evadunt vitium, cui mundum esse constat obnoxium. in salinis autem exercendis tota contentio est: pro aratris, pro falcibus cylindros volvitis: inde vobis fructus omnis enascitur, quando in ipsis et quae non facitis possidetis. moneta illic quodammodo percutitur victualis. arti vestrae omnis fluctus addictus est. potest aurum aliquis minus quaerere, nemo est qui salem non desideret invenire, merito, quando isti debet omnis cibus quod potest esse gratissimus. proinde naves, quas more animalium vestris parietibus illigatis, diligenti cura reficite, ut, cum vos vir experientissimus Laurentius, qui ad procurandas species directus est, commonere temptaverit, festinetis excurrere, quatenus expensas necessarias nulla difficultate tardetis, qui pro qualitate aeris compendium vobis eligere potestis itineris.
244. Cf. la documentazione - forse un poco ipervalorizzata dall'Autore - in Antonio Niero, Culto dei Santi da Grado a Venezia, in AA.VV., Studi Jesolani (A.A., 27), Udine 1985, pp. 163-186.
245. Così A. Carile, La formazione del ducato veneziano, p. 179. Non è assolutamente perspicuo se sia esistito o meno un legame di continuità fra questi tribuni - personale militarizzato sotto il dominio goto - e i tribuni che nell'età bizantina, fra VI e IX secolo, nelle località abitate della laguna e nell'esarcato ravennate costituirono una classe dominante di proprietari fondiari (con riferimento evidente a una costituzione cittadina di tipo militare): su di essi cf. ad es. Gian Piero Bognetti, Natura, politica e religione nelle origini di Venezia, in AA.VV., Le origini di Venezia, Firenze 1964, pp. 1-33 e spec. 26-27; Carlo Guido Mor, Aspetti della vita costituzionale veneziana fino alla fine del X secolo, ibid., pp. 121-140 e spec. 123 ss.
246. Sui filoni culturali greco-ellenistici e romani a monte di valutazioni siffatte v. sopra, § 3 e inizio del § 4. Sulla cultura di Cassiodoro, cf. da ultimo Robin Macpherson, Rome in Involution. Cassiodorus Variae in Their Literary and Historical Setting, Poznań 1989, spec. pp. 151-203. Sugli sforzi ininterrotti di sistemazione e di consolidamento dell'impianto lagunare di Venezia nel Medioevo, con realizzazioni che misero a partito ars e ratio anche in epoche ritenute tecnicamente "immobili", cf. da ultimo Elisabeth Pavan-Crouzet, La città e la sua laguna: su qualche cantiere veneziano della fine del Medioevo, in AA.VV., Ars e ratio. Dalla torre di Babele al ponte di Rialto, Palermo 1990, pp. 33-54.
247. Cf. G. Cantino Wataghin, in questo volume.
248. V. sopra, testo corrispondente alle nn. 223-225; cf. inoltre Paulus Diaconus, Historia Langobardorum, 2, 1; 5; 7-10; 14, in M.G.H., pp. 72 e 75-81; Procopius, De bello Gothico, 4, 26; Marius Aventicensis, Chronicon, in M.G.H., Auctores Antiquissimi, IX, 1 (Chronica Minora II), 1892, p. 238; Carlo Guido Mor, Bizantini e Langobardi sul limite della Laguna, in AA.VV., Grado nella storia e nell'arte (A.A., 17), I, Udine 1980, pp. 231-264; Mario Brozzi, Le origini, in AA.VV., Longobardi, Milano 1980, pp. 11-16; Id., Autoctoni tra Adige e Isonzo nel VI-VII secolo secondo le fonti archeologiche, in AA.VV., Romani e Germani nell'arco alpino (secoli VI-VIII), Bologna 1986, pp. 277-356; Id., Romani e Longobardi nella 'Venetia' orientale, in AA.VV., La 'Venetia' dall'antichità all'alto Medioevo, Roma 1988, pp. 121-125.
249. Cf. Gregorius, Registrum Epistolarum, 1, 16 a, in M.G.H., Epistolarum, II, 1, 1893, pp. 17-21, lettera a Maurizio dei vescovi che appoggiavano il patriarca di Aquileia nello scisma dei Tre Capitoli, iniziato al tempo di Giustiniano (su di esso Cf. Giuseppe Cuscito, La fede calcedonese e i concili di Grado (579) e di Marano (591), in AA.VV., Grado nella storia e nell'arte (A.A., 17), I, Udine 1980, pp. 207-230; Id., in questa stessa sede, con fonti e bibl. ivi); Paulus Diaconus, Historia Langobardorum, 3, 26, in M.G.H., pp. 105-107 (con alcune confusioni). Il concilio di Marano vide ritrarsi definitivamente dall'adesione allo scisma tricapitolino Grado, Trieste, Parenzo e forse anche Cissa nella Venetia et Histria, oltre a Emona e Céleia al di là delle Alpi; ribadirono invece allora il proprio sostegno allo schieramento tricapitolino Aquileia, Altino, Concordia, Sabióna (Brixen-/Bressanone), Trento, Verona, Vicenza, Treviso, Feltre, Ásolo, Belluno, Pola. Ne sarebbe conseguito, nel 606/607, lo sdoppiamento del patriarcato aquileiese fra i due pretendenti al medesimo titolo, ossia il vescovo tuttora scismatico di Aquileia - residente sulla terraferma langobarda (ducato del Friúli) - e quello di Grado sulla fascia lagunare bizantina, rientrato invece nella comunione con Roma: cf. Giuseppe Cuscito, Le origini degli episcopati lagunari tra archeologia e cronachistica, in AA.VV., Aquileia e l'arco adriatico (A.A., 36), Udine 1990, pp. 157-174. Circa l'epoca della creazione della diocesi vicentina cf. L. Cracco Ruggini, Storia totale di una piccola città, pp. 286 ss. e 302, con ulteriore bibl. ivi.
250. Oltre alla cit. epistola dei presuli veneti in Gregorius, Registrum Epistolarum, 1, 16 a, cf. la lettera indirizzata poco dopo da Maurizio a papa Gregorio, ibid., 1, 16 b, pp. 21-23. Sulla lettera dei vescovi veneti, ritenuta frutto del concilio di Marano, cf. André Guillou, La presenza bizantina nell'arco adriatico, in AA.VV., Aquileia nella 'Venetia et Histria' (A.A., 28), Udine 1986, pp. 407-421.
251. Cf. Anonymus Ravennas, 4, 29; A.N. Rigoni, La 'Venetia' nella 'Cosmographia', con accurata analisi di tutti i passi.
252. V. sopra, testo corrispondente alla n. 236; l'Histria (o Ystria, o Liburnia) viene menzionata come provincia o patria in senso autonomo pure in Anonymus Ravennas, 4, 22 e 31 e 37; V. inoltre ibid., 4, 30 e 36.
253. Cf. ibid., 4, 30-31.
254. A. N. Rigoni, La 'Venezia' nella 'Cosmographia', p. 215. Per Paolo Diacono v. sopra, n. 100.
255. Cf. Anonymus Ravennas, 4, 31 e 5, 14.
256. Cf. ibid., 4, 36.
257. Cf. Notitia Dignitatum Occidentis, 42, 3, che include in essa Aquileia.
258. Cf. Paulus Diaconus, Historia Langobardorum, 2, 14, in M.G.H., p. 81 (v. sopra, n. 221).
259. Cf. Anonymus Ravennas, 5, 25: in patria vero Venetiae sunt aliquante insule quae hominibus habitantur.
260. Cf. L. Bosio, Le origini di Venezia, pp. 44-46; Anna Nicoletta Rigoni, Il Castelar di Rovèr a Possagno: una fortificazione medievale tra i colli asolani (Treviso), "Atti dei Civici Musei di Storia e Arte di Trieste", Quad. 13, 2, 1983-1984, pp. 61-75; Anna Nicoletta Rigoni - Guido Rosada, Emergenze archeologiche e ricostruzione storico-ambientale nella fascia pedemontana tra Brenta, Piave e Livenza dalla protostoria all'incastellamento medievale. Appunti di lavoro, in AA.VV., La 'Venetia' dall'antichità all'alto Medioevo, Roma 1988, pp. 243-269 e spec. 268.
261. Lellia Cracco Ruggini, La Sicilia tra Roma e Bisanzio, in AA.VV., Storia della Sicilia, III, Napoli 1980, pp. 1-96 e spec. 34, 36, 38 ss.; V. pure Massimiliano Pavan - Girolamo Arnaldi, in questa stessa sede.
262. V. sopra, testo corrispondente alla n. 250.
263. V. sopra, n. 249.
264. V. sopra, testo corrispondente alla n. 190.
265. Cf. F. Rebecchi, Sull'origine dell'insediamento in Grado.
266. Cf. Lellia Cracco Ruggini, Giustiniano e la società italica, in AA.VV., Il mondo del diritto nell'epoca giustinianea. Atti del Convegno Internazionale (Ravenna 30 settembre - 1 ottobre 1983), Ravenna 1985, pp. 173-207 e spec. 199-202.
267. Cf. Sergio Tavano, Le cattedre di Grado e le culture artistiche del Mediterraneo orientale, in AA.VV., Aquileia e l'Oriente mediterraneo (A.A., 12), I, Udine 1977, pp. 445-489; A. Carile, La formazione del ducato veneziano, p. 199 con n. 95.
268. V. sopra, n. 249.
269. Cf. Agostino Pertusi, L'iscrizione torcellana dei tempi di Eraclio, "Bollettino dell'Istituto di Storia della Società e dello Stato Veneziano", 4, 1962, pp. 9-38 = Id., in AA.VV., Mélanges Georg Ostrogorsky, II, "Zbornik Radova Vizantološkog Instituta", 8, 2, 1964, pp. 317-339; Lech Leciejewicz - Eleonora Tabaczyńska - Stanislaw Tabaczyński, Torcello. Scavi 1961-62, Roma 1977, spec. pp. 2 e 8 con n. 15 (e ulterori bibl. ivi); AA.VV., Le origini di Venezia. Problemi esperienze proposte (Venezia, 28-29 febbr. e 1-2 marzo 1980), Padova 1981, passim (spec. i contributi di L. Leiciejewicz, S. Tabaczyński); Antonio Carile, La presenza bizantina nell'alto Adriatico fra VII e IX secolo, in AA.VV., Studi Jesolani (A.A., 27), Udine 1985, pp. 107-129. Sulla cattedrale di S. Maria Assunta (fondata nel VII secolo, ricostruita poi nel IX-XI) e i suoi mosaici, v. pure Maurizia Vecchi, Torcello. Ricerche e contributi, Roma 1979. L'insediamento torcellano è ancora ricordato come "un grande emporio" fra i castra lagunari veneti da Costantino Porfirogenito, nel cuore del X secolo (De administrando imperio, 27-28, a cura di Gyula Moravsik - Romilly J. H. Jenkins, Budapest 1949, p. 118); cf. Mario De Biasi, La laguna veneta in Costantino Porfirogenito, "Archivio Veneto", 122, 1991, pp. 131-135.
270. Dunque in coincidenza con una fase di grandi calamità naturali, che culminarono con il seppellimento di Concordia per lo straripare del Tagliamento (per cui v. sopra, n. 192).
271. Cf. E. Tabaczyńska, in AA.VV., Tortello. Scavi, pp. 89-163; Ead., Le origini della tradizione vetraria veneziana, in AA.VV., Le origini di Venezia. Problemi esperienze proposte (Venezia, 28-29 febbr. e 1-2 marzo 1980), Padova 1981, pp. 119-122.
272. Cf. ad es. L. Bosio, Le origini, pp. 55-56.
273. A. Carile, La presenza bizantina, p. 109. Sui romitaggi del IV-V secolo nelle isole dalmate, cf. ad es. Hieronymus, Epistula 60, 10, a cura di J. Labourt, III, pp. 97-98 (elogio funebre di Nepoziano, indirizzato a Eliodoro nel 396), ove si dice che Nepoziano - nipote del vescovo di Altino Eliodoro - era stato incerto se praticare 1'anacorési in un'isola della Dalmazia (insularum Dalmatiae [...> solitudines) oppure fra gli asceti d'Egitto; Id., Epistula 118, 5, a cura di J. Labourt, VI, Paris 1958, p. 95, ove Girolamo, verso il 407, elogia le elargizioni di un certo Giuliano agli eremiti delle isole dalmate; Palladius, Historia Lausiaca, 61, a cura di Cuthbert Butler, Cambridge 1898, riprod. anast. Hildesheim 1967, II, p. 156, sull'oro e argento dati da Melania al monaco dalmata Paolo (certo per distribuirlo fra i suoi confratelli).
274. Cf. E. Tabaczyńska, Le origini della tradizione vetraria, p. 121.
275. V. sopra, testo corrispondente alla n. 249.
276. Cf. Giuseppe Cuscito, La basilica paleocristiana di Jesolo, Padova 1983; Id., La basilica paleocristiana di Jesolo, in AA.VV., Studi Jesolani (A.A., 27), Udine 1985, pp. 187-210. Sulla devozione mariana nella laguna - certo per influenza bizantina - v. pure Giorgio Fedalto, Jesolo nella storia cristiana tra Roma e Bisanzio. Rilettura di un passo del 'Chronicon Gradense', ibid., pp. 91-105, del quale sembrano peraltro discutibili le argomentazioni avanzate in favore di una anticipazione al V/VI secolo del vescovado di Jésolo, in parallelo con una retrodatazione anche di quelli di Tortello, Malamocco, Olívolo, Cittanova Eracliana e Cáorle, sulla scorta di quanto afferma il Chronicon Gradense, riferendosi alla sinodo di Grado del 579 (a cura di Giovanni Monticolo, Cronache Veneziane antichissime, Roma 1890, pp. 43-44; v. in proposito da ultimo D. Rando, Le istituzioni ecclesiastiche, pp. 22 ss.). Senza dubbio sul territorio di Jésolo sono stati rinvenuti numerosi reperti archeologici e iscrizioni risalenti all'età altoimperiale romana, ma nulla prova che non si tratti di materiali di riporto e pezzi di spoglio provenienti da altri centri, in particolare dall'antico municipio altinate e da Aquileia; cf. Michele Tombolani, Rinvenimenti archeologici di età romana nel territorio di Jesolo, in AA.VV., Studi Jesolani (A.A., 27), Udine 1985, pp. 73-90.
277. Cf. Pierluigi Tozzi, La scoperta di una città scomparsa: Eraclea Veneta, "Athenaeum", n. ser., 62, 1984, pp. 252-259; Pierluigi Tozzi - Maurizio Harari, Heraclea veneta. Immagine di una città sepolta, Parma 1984; Idd., Trasformazioni del paesaggio e riscoperta di Eraclea, in AA.VV., La 'Venetia' dall'antichità all'alto Medioevo, Roma 1988, pp. 215-221.
278. Si rimanda qui a M. Pavan, Venetia marittima.
279. Cf. Gherardo Ortalli, Il problema storico delle origini di Venezia, in AA.VV., Le origini di Venezia. Problemi esperienze proposte (Venezia, 28-29 febbr. e 1-2 marzo 1980), Padova 1981, pp. 85-89.
280. Cf. Documenti relativi alla storia di Venezia anteriore al Mille, a cura di Roberto Cessi, II, Padova 1942, pp. 81-82; G. Cracco, Changing Fortunes, p. 472 con n. 1. La menzione dei vari populi ricorre peraltro già nel Pactum Lotharii dell'840: cf. Documenti relativi alla storia di Venezia, I, pp. 101-102.
281. Sulla riduttività del concetto di "origini" per Venezia cf. G. Ortalli, Il problema storico.
282. Sul mito storico delle origini "selvagge" cf. ibid., p. 87. Sulle origini troiane di Venezia in Andrea Dandolo nel secolo XIV, cf. Silvana Ozoeze Collodo, Attila e le origini di Venezia nella cultura veneta tardomedioevale, "Atti dell'Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti", Classe di Scienze Morali, Lettere ed Arti, 131, 1972-1973, pp. 531-568; sul confronto tra Venezia e Roma (non sempre positivo per quest'ultima) nella cultura veneziana del Quattro e Cinquecento (Bernardo Giustinian, Paolo Paruta), cf. Lellia Cracco Ruggini, La fine dell'impero e le trasmigrazioni dei popoli, in AA.VV., La Storia. I grandi problemi dal Medioevo all'Età Contemporanea, II, Popoli e strutture politiche, Torino 1986, pp. 1-52 e spec. 5 e 26; v. inoltre Lorenzo Braccesi, Precisazioni sulla leggenda troiana, in AA.VV., La 'Venetia' dall'antichità all'alto Medioevo, Roma 1988, pp. 75-78 (sulla polemica antipatavina - e dunque antiromana - del cronista veneziano Marco nel XIII secolo). Sulla contrapposizione Venezia-Bisanzio, cf. da ultimo Donald M. Nicol, Venezia e Bisanzio, Milano 1990.