ACQUERELLO (fr. aquarelle; sp. aquarela; ted. Aquarell; ingl. water-colour)
Tecnica. - È un metodo di pittura che adopera pigmenti colorati temperati con gomma, e, come l'affresco, richiede grande prontezza e sicurezza di esecuzione; ed è tanto più pregevole, quanto più sono intatte le gocciature di colore e meno cariche le tinte. La scelta del materiale ha grande importanza per rendere meno labili i prodotti di questa tecnica. La carta deve essere fabbricata con stracci di puro filo; e non deve essere rimasta all'umido, perché la colla dell'impasto potrebbe fermentare, decomporsi e generare muffe; e la colla deve essere stata mescolata alla pasta durante la fabbricazione, e non spalmata alla superficie, perché coi varî lavaggi sparirebbe e lascerebbe scoperta la materia spugnosa del foglio, macchiandolo. La carta può essere ruvida o liscia a seconda del grado di finitezza che l'artista vuol raggiungere, ma non troppo impermeabile, altrimenti il pennello scivola e i ritocchi non aderiscono: inoltre non deve essere sbiancata col cloro od altri agenti chimici, perché quelle sostanze alterano o distruggono i colori. Assicuratisi che la carta abbia le qualità richieste, si monta il foglio su un apposito telaio prima di dipingerlo, perché la superficie inzuppata dall'acqua non si raggrinzi ed impedisca la libera pennellata. I colori devono essere stabili alla luce, come i gialli e rossi di cadmio, i cobalti azzurri, verdi e viola, l'oltremare, i verdi di cromo, le ocre, le terre, il nero d'avorio; il giallo indiano, pericoloso se usato ad olio per le sue proprietà alcaline, può essere adoperato senza tema nell'acquerello, mentre finora non si è scoperta una tinta perfettamente stabile che sostituisca la garanza. Ogni colore richiede poi una dose differente di gomma; e per rendere più maneggevoli le tinte si usa anche aggiungere miele, glicerina e zucchero. Ma tutti questi ingredienti, attirando l'umidità, producono muffe; sicché è meglio usare per agglutinante solo la vera gomma arabica, o quella del Senegal, che per certi colori si adoperano allo stato naturale, per altri sottoposte ad alta temperatura. Per i cromati, specialmente per il verde smeraldo, si ricorre invece alla destrina, perché siano insolubili per quel tanto che è necessario a poter sovrapporre una pennellata senza asportare la tinta preesistente.
Per facilitare la pratica dell'acquerello, soprattutto nei dipinti di notevoli dimensioni, si cerca di ritardare il rapido essiccamento delle tinte, mettendo nell'acqua una piccolissima dose di glicerina, oppure una soluzione di gomma dragante o di cloruro di calcio. Queste sostanze, però, avendo grande affinità con l'acqua, fanno rinvenire i colori sotto l'azione dell'umidità atmosferica. L'umido penetra nella carta e la fa ammuffire, facilitando la fermentazione della gomma; mentre l'eccesso di calore e l'azione del sole fanno seccare eccessivamente la gomma, che si fende e polverizza, insieme col colore; inoltre molte tinte, per effetto della luce, sbiadiscono rapidamente. Si mette al riparo da questi pericoli un acquerello, fissandolo; ma lo si condanna anche all'ingiallimento, causato appunto dai varî fissativi in uso. Una originale fantasia del Vibert, più che un metodo pratico per dipingere, è l'acquerello ottenuto con colori speciali, che si diluiscono con acqua e glicerina, oppure con cera, resa mischiabile con la glicerina mediante ammoniaca, e fissata poi a 120-150 gradi di calore. Si può anche verniciare l'acquerello con le solite vernici per le pitture a olio o con una vernice a base di cera e glicerina, fatta penetrare col calore. Quando il dipinto è fissato, si toglie la glicerina con più lavaggi.
Molto consigliabile è l'acquerello a base di sarcolla, gomma-resina usata da medici e da pittori, di cui parla anche Plinio (Nat. hist., XIII, 20). Essa, affatto caduta in disuso ai giorni nostri, ha la proprietà di sciogliersi così nell'acqua come nell'alcool; bisogna però decolorarla ed estrarne la sarcollina, la sola parte utile alla pittura, e che, usata per temperare i colori, conferisce loro grande ricchezza e intensità di tono, e permette anche velature su pitture a guazzo, rendendo le sovrapposizioni più facili. I colori così preparati si conservano in piccole fiale coperte con acqua ed alcool, perché non secchino e fermentino; al momento di adoperarli si diluiscono con acqua ed alcool o anche con alcool puro, il che consente grande celerità di esecuzione. Questa pittura a base di sarcolla prende bene anche su superficie grasse; si può usare per decorazioni, ma non si può fissare con vernici o fissativi alcoolici, che ne scioglierebbero i colori.
La fragilità dell'acquerello rende necessarie molte cure; non dovendo esso mai restare esposto ai raggi diretti del sole, che lo farebbero sbiadire, e dovendo invece essere riparato dall'umido che lo ammuffisce e lo macchia. Quando lo si deve mettere sotto vetro, lo si protegga dietro con un cartone reso impermeabile da una vernice di gomma, lacca e spirito, oppure di gomma elastica e benzolo. Anche la colla che serve alla montatura non deve essere putrescibile per evitare le muffe. Per togliere il sudicio superficiale di un acquerello, si usa mollica di pane raffermo, rullata leggermente con le dita sul dipinto, mentre l'uso della gomma elastica può essere dannoso per la carta. Per togliere poi le macchie più gravi, che non venissero rimosse da questo mezzo più semplice, si ricopre l'acquerello con un foglio di carta resistente, nel quale sarà ritagliato un foro corrispondente alla macchie; quindi con un bioccolo d'ovatta intinto in alcool si levano gli offuscamenti di fumo e di polvere; con la benzina ben rettificata si tolgono invece le chiazze d'olio o di untume. Inoltre le muffe si rimuovono coi vapori di solfuro di carbonio, che non ha azione sui colori. Gli acquerelli nei quali fu usato il bianco di piombo, completamente annerito dagli agenti atmosferici, vengono rigenerati sottoponendoli ai vapori di acqua ossigenata. La carta spelata da attriti o sfregamenti che hanno asportato il colore, deve essere spianata mediante un brunitoio e un po' di polvere di sandracca, e va leggermente gommata, prima di eseguire il restauro pittorico, punteggiando delicatamente là dove manchi il colore; perché la pennellata libera, invadendo le tinte circostanti, altererebbe l'autenticità del dipinto.
Storia. - Fino dall'antichità si fece uso di colori temperati con gomme o diluiti con acqua, e le pitture così eseguite si chiamarono guazzi o miniature. Ma il vero e proprio acquerello, di pratica piuttosto recente, consiste nell'uso di colori diluiti con semplice acqua e distesi in velature fluidissime, anche ripetute, e nel giovarsi, pel bianco, del bianco stesso della carta; e non va confuso con quei procedimenti, a base di tinte dense, schiarite con l'aggiunta di bianco. La differenza consiste dunque nell'esecuzione, non nella composizione chimica dei colori adoperati.
Prima del'700 tinte acquose furono usate soltanto per ombreggiare schizzi e disegni, cosicché il Baldinucci, nel suo Vocabolario dell'arte del disegno, definì l'acquerello "una sorte di colore che serve per colorir disegni; e si fa mettendo due gocciole di inchiostro in tant'acqua, quanta starebbe in un guscio di noce, e più a proporzione; famosi anche altri acquerelli neri e coloriti, nel modo detto". Questo acquerello fu dunque nella pratica degli antichi maestri; tra gli altri lo usò specialmente Alberto Dürer per colorire i suoi disegni a penna o per eseguire i suoi rapidi schizzi di viaggio. Più l'usarono, nel'600, i pittori olandesi; e Adriaen van Ostade eseguì veri e proprî acquerelli, mentre anche i paesisti ne producevano, ma accidentalmente.
Toccava agli Inglesi di riprendere, alla metà del'700, i tentativi degli Olandesi, e di fare dell'acquerello un modo ben definito e fortunato di pittura. L'iniziativa nacque nel campo dei pittori di architetture e di vedute, per impulso di Samuel Scott, ma per opera dei fratelli Sandby, Thomas e Paul; dei quali, specialmente il secondo, cartografo militare, tipografo, vedutista e paesista, divulgò la maniera di colorire con tinte fluide disegni all'inchiostro di Cina. Si andò così formando ben presto un gruppo di artisti che, per riprodurre vedute di città o di villaggi, di pittoresche abbazie o di romantici castelli, di paese o di mare, usarono esclusivamente l'acquerello, dando origine ad una tradizione ormai più che secolare, spesso tramandandosi di padre in figlio la pratica del mestiere. Di questi iniziatori ricorderemo soltanto Thomas Hearne e Michael Angel Rooker, pittori di vedute e di rovine; i fratelli Malton, Thomas e James, pittori di architetture; ed Edward Dayes, paesista e figurista, che influì anche su Turner; non quanto però John Robert Cozens, figlio di Alexander, pure acquerellista tra i primissimi almeno per tempo, che nel 1776 viaggiò e lavorò in Italia insieme con Ralph Payne Knight, e dette maggior leggerezza e trasparenza alla nuova pratica, usando contornare con la sola matita o con lieve tratteggio del pennello. Intanto si servivano dell'acquerello anche artisti che prediligevano generalmente una tecnica diversa, dal Gainsbourough, che l'usò su carte colorate ottenendo resultati mirabili, a paesisti come Thomas Barker, e perfino a decoratori monumentali quale Thomas Stothard.
Ma impulso e fama maggiori vennero alla nuova pratica da Thomas Girtin e da J. M. W. Turner. Quegli, studioso del Canaletto e del Guardi, può esser considerato il vero padre dell'acquerello moderno, poiché pel primo l'eseguì su carta ruvida, leggermente assorbente, a larghe stesure di colore, ma anche a rapidi tocchi messi giù con un grosso pennello, ottenendo magnifici effetti di luminosità. Turner non solo perfezionò la tecnica dell'acquerello, sostituendo ai colori minerali quelli vegetali, e ottenendo così maggior leggerezza, fluidità e luminosità; ma mostrò quali fossero le possibilità dell'acquerello, il quale specialmente negli ultimi tempi divenne per lui unico mezzo di espressione pittorica, adoperato, quasi alla maniera dei frescanti, in toni decisi e crudi che si armonizzavano e fondevano a distanza.
L'acquerello, per quanto escluso dalle esposizioni della Accademia Reale, trovò gran numero di adepti, pel gran favore del pubblico, specialmente allettato dalle celebri raccolte di vedute a colori dei luoghi anche più remoti della Gran Bretagna, o di quelli classici d'Italia e di Grecia; tanto che nel 1804 poté esser fondata la Water-colour Society la quale, a malgrado del sorgere di effimere società rivali, poté nel 1823 avere in Pall-Mall una propria galleria per esposizioni di soli acquerelli, oggi continuata dalla R. Society of Painters in Water-colour; questa però fino dal 1831 ebbe un rivale nel R. Institute of Painters in Water-colour che ha pure una galleria in Piccadilly. Tra i fondatori della vecchia associazione furono Georges Barret il giovine, William Havell, che nel 1816 si recò in Cina, e John Varley; cui presto si aggiunsero Louis Grancia, nativo di Calais, che predilesse le tonalità cupe, e John Sell Cotmann, che preferi quelle brune e terrose: i quali tutti, pur continuando la pratica tradizionale, l'adoperarono, oltre che per paesi compositi e vedute accomodate, anche per paesaggi reali senza architetture e quasi senza figure. Intanto adoperava questa tecnica, nei suoi paesi, il cremonese Agostino Aglio, vissuto quasi sempre in Inghilterra.
Per questa via continuarono con pieno successo David Cox e Peter de Wint, di origine olandese, che fu il primo ad adoperare i colori nei toni naturali, A. V. Copley Fielding e Georges Fennel Robson, che tuttavia indulgevano ancora al gusto vedutistico e rovinistico, al contrario di quello che fece il Constable, uno dei pionieri della moderna pittura di paesaggio. E la bella tradizione, ormai nazionale, fu mantenuta fino alla metà dell'Ottocento da rovinisti e vedutisti quali Samuel Prout, da vedutisti e paesisti come W. Clarkson Stanfield, generalmente, però, troppo precisi e minuziosi esecutori; e meglio ancora da James Holland, che lavorò come molti a Venezia, John F. Lewis che fu anche in Egitto, William J. Müller, e molti altri, più larghi e pittorici di fattura.
Intanto Richard P. Bonington aveva aumentato le possibilità dell'acquerello, adoperandolo, oltre che nei paesaggi e nelle vedute, anche nelle scene di genere e nelle storiche, seguito largamente in Francia e in patria da George Cattermole e da tutti o quasi i Preraffaelliti, capeggiati da Dante Gabriele Rossetti e da William Holman Hunt; mentre Frederic Walker e George J. Pinwell adoperavano l'acquerello per soggetti di genere, di sapore sentimentale; e John Ruskin l'usava, invece, per le sue impressioni viaggio.
Circa il terzo quarto del secolo, mentre sparivano i più puri rappresentanti della tradizione nazionale, cominciavano i dubbî sulla resistenza dell'acquerello all'azione della luce e del tempo; dubbi che tanto allontanavano alcuni da questa pratica, quanto persuadevano altri a novità tecniche non tutte felici. Continuarono la tradizione Thomas Collier, Ernest Waterlow ed E. M. Wimperis, mentre i novatori tentavano di gareggiare con la pittura a olio, accogliendo modi e maniere del continente. E la tradizione si mantiene pur oggi, per merito delle due grandi corporazioni londinesi, i cui soci da vent'anni almeno mandano alle esposizioni di Venezia i loro acquerelli: da William Walcott e da Robert W. Allan, operanti anche in Italia, a Clara Montalba, divenuta veneziana; da Georges Clausen e da James Paterson a Herbert Hughes-Stanton e a William Wood; fino a Robert Anning Bell, che adopera l'acquerello coi modi della pittura ad olio anche per grandi ritratti. Tra i virtuosi vanno rammentati ancora Arthur Hopkins, Joseph Southall, Franck Dicksee, che sanno unire una leggerezza vaporosa d'insieme alla minuzia del particolare; e ancora, tra i più moderni, Russel Flint, Charles Harrington, Hely Smith e F. L. Emmanuel, con alcune artiste quali Eleanor Hughes, Beatrice Smith e Meredith William, la quale, in grandi acquerelli di tecnica audacissima, tratta gustosamente scene settecentesche.
In Italia, ove gli acquerellisti inglesi avevano lavorato e lavoravano dalla Venezia alla Sicilia, l'acquerello fu cominciato a trattare solo verso la metà dell'Ottocento; prima, e quasi contemporaneamente, a Napoli ed a Milano; più tardi a Roma.
A Napoli può considerarsi iniziatore Giacinto Gigante, il maggiore nella celebre "Scuola di Posillipo", che trattò l'acquerello con fattura energica e franca, preferendogli però abitualmente la mezza tempera: un acquerello su carta tinta, lumeggiata di bianco nelle luci. E lui, ma più lo spagnolo Mariano Fortuny che fu a Napoli nel 1874, imitarono in questa pratica Domenico Morelli, Francesco Paolo Michetti, Vincenzo Montefusco ed Edoardo Dalbono, che però usava rilevare i suoi acquerelli col guazzo; mentre Ciro Denza, marinista, otteneva notevoli successi in Inghilterra e in America; e Giuseppe De Nittis presto, e con grande fortuna, emigrava a Parigi e a Londra.
A Milano può dirsi iniziatore della nuova pratica Alessandro Durini, pittore storico, insieme con Domenico Induno, Eleuterio Pagliano e Sebastiano de Albertis; cui seguirono Luigi Scrosati, rinomato per i suoi dipinti di fiori, e Mosè Bianchi, Tranquillo Cremona, Daniele Ranzoni, Eugenio Gignous, Luigi Conconi, trattando tanto il paese che la scenetta di genere o di costume con tale vivacità, freschezza e brio di fattura, che i loro acquerelli erano ricercatissimi in Inghilterra. Attorno al 1880 la "Famiglia artistica" divenne un centro di acquerellisti, che si affollavano a decine dinnanzi al modello per trarne ritratti anche al vero; novità questa, nel campo di quella pratica, che fu generalmente continuata, tra gli altri, da Filippo Carcano, Pompeo Mariani, Giuseppe Mentessi, e specialmente da Paolo Sala. Proprio questi, reduce nel 1910 da Londra, ove si era reso conto di quanto fossero caduti in discredito gli acquerellisti italiani per la fattura poco accurata e meno onesta, promosse col Carcano la fondazione dell'Associazione degli acquerellisti lombardi, che subito nel 1911 indiceva una prima mostra nazionale, l'anno dopo ne faceva una sociale all'esposizione di Venezia, e nel 1923 organizzava la prima mostra internazionale, già rammentata.
A Roma l'acquerello fu, se non importato, certo reso di moda da Mariano Fortuny, giuntovi ventenne nel 1858, ed i cui acquarelli marocchini dovevano nel'70 destare l'entusiasmo dei parigini e l'ammirazione di Théophile Gautier per tale solidità e intensità di toni da gareggiare con la pittura ad olio.
La fattura portentosa, tutta luci e brillii, i soggetti piacevoli (moschettieri e damine del Settecento) raccolsero attorno al Fortuny una schiera di imitatori, italiani e stranieri, che i Romani battezzarono continari quasi dipingessero solo conti e marchesi. Ma i migliori risalirono ai paesisti inglesi all'acquarello, dei quali molti erano venuti a dipingere a Roma e nella Campagna: da Enrico Coleman, figlio d'un inglese, e da Onorato Carlandi che alternò la sua operosità tra la campagna romana e quella inglese, ad Umberto Coromaldi e a Giulio Aristide Sartorio; mentre Giuseppe Ferrari usava dell'acquerello in grandi ritratti di robusta fattura, e Augusto Corelli in figure e gruppi di genere. Ed oggi il "Gruppo della campagna romana" accoglie ottimi acquerellisti.
Nelle altre scuole regionali l'acquerello fu trattato sporadicamente, ma non di proposito. A Firenze lo usarono Francesco Vinea, fortunato seguace del Fortuny, Telemaco Signorini e più ancora Giovanni Fattori, che raggiunse anche con tale tecnica mirabile solidità e intensità di toni; ma più l'adoperò, maestrevolmente, Vincenzo Cabianca, veronese di nascita, ma vissuto sempre a Firenze e a Roma, in pezzi che possono gareggiare con la pittura ad olio per la forza del colorito, senza che però difettino la leggerezza e la trasparenza proprie dell'acquerello. Ma specialmente negli ultimi anni passati a Roma il Cabianca usò un suo particolar modo, ottenendo luci ed effetti di neve col raschiatoio: modo quanto mai lontano dalla pura pratica tradizionale e pericoloso per la conservazione dell'opera d'arte, essendo le parti raschiate facilmente attaccate dalla polvere.
Finalmente a Venezia e nel Veneto, ove Ippolito Caffi aveva adoperato l'acquerello per le sue vedute veneziane, lo trattarono, tra gli altri, Antonio e Silvio Rotta, Luigi Nono e Angelo Dall'Oca Bianca, e particolarmente Alessandro Zezzos, che ha lasciato gustosissimi ritratti muliebri condotti con sapiente disinvoltura; in Piemonte - ove già Giuseppe Pietro Bagetti aveva adoperato l'acquerello anche per la serie delle Vittorie di Napoleone ora a Versailles - l'usarono Francesco Gonin, Lorenzo Delleani e Vittorio Avondo, e nell'Emilia, tra gli altri, Luigi Serra. Oggi l'acquerello è tornato in favore. Nel 1923, a Milano gli espositori della sezione italiana erano più di centocinquanta; e tra questi, oltre alcuni dei già rammentati: Giorgio Belloni, Emilio Borsa, Vincenzo Caprile, Giuseppe Carosi, Michele Cascella, Trajano Chitarin, Giuseppe De Sanctis, G. B. Filosa, Cesare Fratino, Giuseppe e Riccardo Galli, Vincenzo Irolli, Baldassarre Longoni, Giuseppe Miti Zanetti, Plinio Nomellini, Augusto Sezanne, Renzo Weiss. Da allora anche altri giovani artisti, quali Alberto Salietti e Raffaele De Grada, adoperano con fortuna l'acquerello per immediati ricordi di colore.
All'estero - In Francia l'acquerello fu usato fino dalla seconda metà del Settecento, e indipendentemente dalla scuola inglese; ma l'uso che ne fecero Watteau o Boucher, per esempio, fu limitato, e minore di quello del guazzo per rapidi schizzi in toni lattei e perlati. Più l'adoperò Fragonard, che ne mise di moda la pratica proprio quando la bella e sana tecnica pittorica andava scomparendo e l'acquerello appariva come il mezzo più fluido e più leggero, tutto trasparenze e velature, un'acqua appena tinta che non aveva corpo e svaporava subito: "una colazione di sole" come fu detto argutamente. Sull'esempio di Fragonard, presto si servivirono, con ottimo successo, dell'acquerello gli illustraiori della cronaca mondana: Nicolas Antoine Taunay, Jean-Michel Moreau le jeune' e Gabriel de Saint-Aubin, che però l'adoperò col guazzo. E l'uso divenne moda sotto l'Impero, anche per opera del celebre miniatore Jean-Baptiste Isabey; ma di vivace e brioso, l'acquerello si fece scolorito e fiacco; finché con la Restaurazione, il Bonington, già rammentato con gli Inglesi, ma vissuto lungamente in Francia, e il Géricault, che fu in Inghilterra, tornarono allo schietto e largo acquerello, popolarizzandolo.
D'allora, mentre non lo disdegnarono pittori di storie, quali Delaroche e De Camps, esso divenne pratica quasi preferita dagli illustratori della vita ufficiale ed elegante, quali Eugène Lami, Achille Devéria ed Eugène Isabey, tutti più o meno derivati dal Bonington; dai generisti capitanati dal Meissonier; da marinisti e paesisti quali Félix Ziem ed Henri Harpiguies; e finalmente dai vignettisti, sia mondani come Alfred e Tony Johannot, sia romantici e biblici quali Gustave Doré e James J. J. Tissot, che nel 1895 espose una serie di trecentocinquanta acquerelli della Vita di Cristo, studiati in un lungo soggiorno in Terra Santa.
Intanto, non con scopi di mestiere ma quasi solo di studio, usavano l'acquerello Delacroix e Corot: quegli per schizzare rapidamente le sue composizioni; questi per le sue ricerche di luce. E l'uso continuò con Jongkind, con Cézanne, con Gauguin, ed oggi con Paul Signac, capo dei post-impressionisti, e con Èmile Bernard che appunto all'acquerello affidano alcune delle loro impressioni.
Però, a malgrado che esista a Parigi una Société des aquarellistes français, fondata nel 1879 da J. G. Vibert, l'acquerello non ha oggi in Francia quella fortuna che ha in Inghilterra e anche in Italia.
Nel Belgio, ove sotto l'influsso inglese e l'esempio francese, l'acquerello fu usato da generisti e paesisti dell'Ottocento, di grandi nomi, dopo quello di Félicien Rops, si può far oggi soltanto il nome di Alfred Delaunois; e in Olanda, troppo legata alla pittura ad olio anche nelle piccole scene di genere, dopo i due Maris e Anton Mauve ed Isaac Israels, l'uso ne è decaduto.
Così, mentre la Svezia può vantare tra gli acquerellisti il celebre illustratore della vita familiare e quotidiana, Carl Larsson, la Germania, ove l'acquerello servì quasi soltanto ad abbozzi ed impressioni, si presentava nel 1926 a Venezia con una numerosa schiera di acquerellisti audacissimi; e l'Austria, che nell'Ottocento ha avuto abili vedutisti quali Jacob e Rudolf Alt, e più tardi un rinomatissimo virtuoso in Ludwig Passini, nel 1923 poteva organizzare a Milano una propria sezione, come pure faceva la Svizzera; mentre l'Ungheria, almeno da vent'anni, conta un buon numero di acquerellisti. E ne contano oggi anche la Polonia e la Russia che tra Settecento ed Ottocento ebbero quasi soltanto Alexander Orlowski, polacco di nascita ma russo di elezione, abile e piacevole illustratore della vita ufficiale ed elegante del tempo suo. In Russia, dal Maljavin al Gregoriev, dal Benois al Bakst, che adoperarono l'acquerello pei loro bozzetti di scene teatrali e di figurini, esso è anche oggi in grande voga.
Quasi solo la Spagna, che in Louis Paret y Alcazar ha avuto alla fine del Settecento un piacevole illustratore di scene popolari acquerellate sul gusto dei cronisti francesi, ed a metà dell'Ottocento Mariano Fortuny, non partecipa alla nuova fortuna dell'acquerello, anche se ne fanno uso insigni artisti quali José Benlliure.
In Cina l'acquerello su seta doveva essere assai progredito fin dal 250 a. C. Nel sec. I d. C. l'invenzione della carta permise alla pittura e al disegno di diffondersi maggiormente negli effetti di luce. Con l'introduzione del Buddhismo si incominciarono a copiare fedelmente i saggi di iconografia portati dal Pengiāb e dal Nepal; e nel sec. IX Wei Hsieh fu il primo pittore cinese che firmò una pittura buddhista. Còl sorgere dei monasteri aumentò il movimento intellettuale ed artistico, e i conventi divennero le grandi scuole d'arte. Oltre i soggetti sacri, si trattò anche il paesaggio e la pittura di animali. Sotto la dinastia dei T'ang si cominciarono a distinguere due scuole: quella del nord che mantenne l'indirizzo accademico, e quella meridionale, meno ligia alle formule classiche. Ad essa appartenne Wang-Wei (metà del sec. VII), che introdusse nei suoi paesaggi un mirabile senso atmosferico. Compose anche un trattato, in cui consiglia l'artista ad abbandonare le vecchie formule ed indica le gradazioni di tinte, per ottenere gli effetti di lontananza. Il suo influsso fu notevole sino al sec. XIII. Fiori ed animali furono i soggetti trattati con amorosa cura per tutto il sec. IX e X. Nei secoli XI, XII e XIII decadde la pittura religiosa. Si trattò con poesia il paesaggio; e fra tutti emerse Li Ch'êng, capo della scuola del nord. Hsü-Hsi mise in voga gli schizzi rapidi; e pian piano le varie scuole si specializzarono in una infinità di generi. In certe pitture del sec. XIV si sente l'influsso delle miniature persiane: la tecnica divenne trita e minuziosa; i colori stridenti e brillanti. Durante la dinastia dei Ming lo stile fu sano, senza slanci di novità. Alla fine del sec. XV cominciò la decadenza, perché nessuno tentò di variare i temi e le composizioni. Sotto la dinastia dei Ts'ing molteplici trattati di pittura insegnavano le formule pittoriche e paralizzavano la produzione e la fantasia dei pittori. Fin da quel tempo i Gesuiti tentarono di introdurre in Cina le tecniche europee, ma esse si dimostrarono incompatihili con le concezioni pittoriche della razza cinese. Nel 1830 anche Lan Kua cercò di applicare i procedimenti di disegno e pittura europea, ma il suo tentativo ottenne il solo scopo di far perdere l'originalità alla pittura cinese senza potervi aggiungere nessuna nuova qualità.
Quanto agli acquerelli giapponesi, le più antiche pitture che ci rimangono sono del principio del sec. XIII. Kose Kanaoka è il più insigne pittore del sec. IX e i suoi dipinti ricordano, come tecnica, le antiche tempere bizantine. Nel seL. XII Tsunetaka fondò la scuola imperiale di Tosa, che esiste tuttora, e si distingue per il colore brillante, spesso completamente a guazzo, per la grande minuzia di rappresentazione dei particolari e la finezza del contorno, ricordando le miniature persiane. Il pennello è aguzzo. I dipinti sono arricchiti con l'applicazione di foglie d'oro, che qualche volta coprono il fondo, facendo brillare maggiormente la vivacità dei colori. Le scuole di Kyōto si distinguono per il disegno preciso ed esatto. L'arte di Yedo, più recente, più libera e franca, raggiunge effetti altamente decorativi. Nel sec. XIV si piomba in piena barbarie e solo verso la fine del secolo comincia la rinascita. L'influenza della scuola di Tosa diminuisce per il prevalere del bianco e nero, movimento che prese grande impulso da Yosetsu, fondatore della scuola di Kanō, che risente l'influenza cinese.
Sesshū con questa tecnica acquistò grande celebrità e si specializzò nel rendere gli effetti lunari. Sotatsu inventò un procedimento pittorico, usando per acquarellare l'inchiostro misto a polvere d'oro. Mitsuoki, gloria di Tosa, ha linee pure trattate con pennello da miniaturista; sorsero poi Kōrin Itchō, Ōkyo, che fusero le tendenze della scuola di Tosa con quelle di Kano e furono promotori con Goshun dello stile moderno. Notevoli Sosen, l'animalista, Matahei e Moronobu, fondatore della scuola volgare; Harunobu, Shunshō, Eishi, Kiyonaga, Utamaro e ToyoKuni, il paesaggista Hiroshige. Hokusai (1760-1849) mescolava il guazzo all'acquerello nelle sue pitture colte dalla vita: purtroppo molte sue opere andarono perdute perché egli dipingeva soprattutto per l'incisione, su carta sottile che veniva incollata al legno e distrutta quindi dal ferro dell'incisore.
Bibl.: K. Robert, L'aquarelle, 4ª ed., Parigi 1890; G. Gérard, L'aquarelle pratique, Parigi 1907; J. G. Vibert, La science de la peinture, Parigi 1920; G. Previati, La tecnica della pittura, Torino 1905; Moreau Vauthier e U. Ojetti, La tecnica della pittura, Bergamo 1913; C. E. Hughes, Early English Water-Colour, Londra 1913; L. Brieger, Das Aquarell, Berlino 1923; L. Richmond e Littlejohn, The Technique of Water Colour Painting, Londra 1926. Per il resaturo (oltre le opere di Vibert e di Moreau Vauthier-Ojetti): Basch-Bordone: Handbuch der Konservierung und Restaurierung alter Gemälde, Monaco 1921; Th. R. Beaufotr, Pictures and how to clean them, Londra 1926.