ACROPOLI d'Atene
Nel suo significato particolare la parola Acropoli indica l'acropoli per eccellenza, cioè quella di Atene (v. pianta sotto atene). In contrapposizione ad essa si designava la parte bassa della città come ὑπόπολις (Poll., 9, 20), ma tale voce non è mai entrata nell'uso comune. In età storica (Tuc., II, 15, 3-6) si riteneva che l'Acropoli fosse stata in origine la vera e propria città, πόλις, e se ne additava una ragione nel fatto che in prossimità di essa, dalla parte di mezzogiorno, si trovavano i santuarî più antichi. In realtà nell'Acropoli, allora e più tardi, si vide riassunta simbolicamente tutta la maestà e la grandezza della città; per questo, e forse anche perché la parola πόλις meno di ἄστυ veniva usata per indicare l'intera città, tanto in iscrizioni quanto in testi letterarî viene adoperata πόλις per Acropoli. È difficile poter accogliere l'ipotesi che l'Acropoli avesse avuto in origine un suo nome proprio, Γλαικώπιον cioè la "roccia delle civette", è più logico riconoscere in questa denominazione una forma derivata dall'epiteto omerico della dea Athena, γλαυκῶπις, "dall'occhio ceruleo".
L'Acropoli può considerarsi l'esempio tipico di un'acropoli di civiltà micenea, con mura di difesa e palazzo del principe, trasformatasi nel corso del tempo in un'acropoli di civiltà greca, con santuario, templi e doni votivi. Di questa trasformazione rimane chiara testimonianza in due passi di Omero. Nell'Odissea (VII, 81) Athena, giungendo dall'isola di Feaci in Atene, entra nella salda casa di Eretteo; nell'Iliade (II, 549) invece è ricordato che Athena aveva allevato Eretteo, il figlio della Terra, collocandolo nel suo pingue tempio in Atene. Nel primo caso Eretteo è ancora il principe dominatore dell'Acropoli che offre alla dea l'ospitalità del suo palazzo, nel secondo invece Eretteo è il protetto di Athena, che diverrà compagno al suo culto nel tempio dell'Acropoli. Siccome il passo dell'Iliade ha nei versi seguenti un accenno alle feste Panatenaiche, di cui Pisistrato fu il riordinatore, si è fatta l'ipotesi che in esso abbia da vedersi una di quelle interpolazioni che poté introdurre nel testo omerico la recensione pisistratea. Così egualmente sotto influenza ateniese sembra stare l'episodio del VI libro (86 segg.) dell'Iliade, in cui Ettore incarica la madre di salire sull'acropoli di Ilio, di entrare nel tempio di Athena e di deporre sulle ginocchia della dea il peplo più bello. V'è certo qui un duplicato del dono del peplo nelle feste panatenaiche, e, come in Atene, il tempio della dea è immaginato sull'acropoli. Se in questo episodio il nome acropoli è ancora spezzato nei suoi elementi costitutivi ἐν πόλει ἄκρῃ, la parola unica, egualmente per l'acropoli di Ilio, appare nell'Odissea (VIII, 1494, 504). Questo costituirsi di un aspetto letterario, omerico, dell'acropoli troiana sul modello dell'Acropoli di Atene, apparsa esemplare per situazione e per culto, naturalmente non coinvolge il problema del suo aspetto reale, per quanto gli scavi sulla collina di Hissarlik abbiano per il sesto strato, quello della civiltà micenea, accertato, sì, l'esistenza di Ilio sulla collina, ma non rimesso in luce una vera e propria acropoli separata dalla restante città.
L'indagine archeologica ha permesso per l'Acropoli di risalire anche al di là del periodo miceneo e della tradizione omerica; ma è necessario premettere un accenno alla sua costituzione geologica e alla sua posizione naturale per rendersi conto di alcune cause che determinarono la sua sorte e la sua vita in età preistorica e storica, sorte e vita non dei soli uomini ma anche dei monumenti.
Costituzione geologica e posizione. - La collina dell'Acropoli è costituita da un calcare duro, compatto, grigio-bluastro, venato di rosa, calcare che costituisce tutto il fondo della pianura di Atene. Sulla superficie più bassa od erosa di essa si sono poi depositate le formazioni dell'età terziaria, prima un poros, calcare tenero, di color giallognolo dovuto a sedimentazione lenta di acqua dolce, poi una breccia, conglomerato irregolare di terra, scaglie e ciottoli impastati dalla violenza di acque diluviali. L'Acropoli e le altre colline che appartengono al suo breve sistema affiorano quindi isolate nel mezzo della pianura al di sopra di formazioni posteriori. Tale breve sistema che ha direzione NE.-SO., prende inizio alla collina detta modernamente Turcovuni, dove ha la maggiore altezza (339), continua nell'aguzza piramide del Licabetto (277), riprende, dopo un profondo salto, con l'Acropoli (156), discende ma si allarga, attraverso lo sperone isolato dell'Areopago, nelle colline del Museo o di Filopappo, della Pnice, delle Ninfe e si perde finalmente in leggiere ondulazioni prima di giungere al mare.
La pianura ateniese, che è nettamente delimitata a SE. dall'Imetto, a NE. dal Pentelico, a N. dal Parnete, ad E. dall'Egaleo, a S. dal mare, viene così ad essere divisa ma anche dominata da tale fila di colline. Questa inoltre, essendo più vicina all'Imetto che non agli altri monti, trovava in esso più facile appoggio di difesa, ed essendo più vicina al mare che non ai passi di accesso esistenti tra l'Imetto e il Pentelico (dalla Mesogia attica e da Maratona), tra il Pentelico e il Parnete, (dalla pianura di Tebe), tra il Parnete e l'Egaleo (dalla pianura di Eleusi), più rapidamente poteva far fronte ad un pericolo che la minacciasse dalla porta più aperta, quella del mare.
Per altro non tutte le colline del gruppo si prestavano egualmente ad una posizione di difesa e quindi alla costituzione di una città dominatrice. Il Turcovuni era troppo accessibile dalla parte di terra attraverso tutte le sue comode pendici, com'erano altresì dalla parte di mare il Museo, la Pnice, la collina delle Ninfe, per il loro lento digradare verso la pianura. Il cono troppo sfilato del Licabetto, se cadeva a picco verso SO., troppo facilmente si poteva scalare alle spalle attraverso la sella che lo riuniva al Turcovuni, e ad ogni modo il suo strettissimo cocuzzolo non era adatto per ricevere una fortezza. Solo l'Acropoli, massiccio isolato sulla pianura con rocce a picco su quasi tutti i suoi fianchi, e neanche facilmente raggiungibile dalla sella che la riuniva all'Areopago, costituiva una naturale posizione di difesa e di dominio e offriva anche al suo culmine un sufficiente pianoro per l'impianto di una fortezza murata. Tale infatti divenne in periodo miceneo. Il predominio sulla pianura attica doveva toccare di necessità ad una fortezza così felicemente collocata, e doveva restarle anche quando l'acropoli di un principe miceneo si trasformò in acropoli sacra di una città greca. Nel mitico sinecismo di Teseo si cela questa lenta opera storica di assorbimento da parte di Atene delle comunità circostanti dell'Attica, anche fuori dei monti e dei passi che chiudevano la sua pianura. L'accoglimento sull'Acropoli e nelle immediate sue vicinanze degli dèi appartenenti a queste comunità assorbite (Artemide di Braurone, Dioniso di Eleutere, Demetra di Eleusi, Dioscuri di Afidna), comprova questo predominio di Atene anche quando l'Acropoli era divenuta santuario: sui numi minori, che aduna intorno a sé, dominatrice rimane la dea Athena.
L'aspetto naturale ed originario dell'Acropoli appare ora modificato dalle mura, che ne hanno serrato e in parte nascosto le sue rocce, e dalla discesa dei detriti che ne hanno attenuato il salto su tutte le pendici, ma quando essa per la prima volta si offrì all'abitazione umana doveva presentarsi, non solo per la sua elevazione, ma anche per la caduta a picco o frastagliata dei suoi fianchi e per gli spacchi e per le grotte che si aprivano in essi, come una sede singolarmente attraente e munita. Ancor oggi, emergente dall'esteso abitato di Atene, il quale nel biancore delle case e nell'ombra delle strade rassomiglia ad un vasto mare inquieto che si franga contro i suoi fianchi, l'Acropoli (tav. LXX) sembra realmente una titanica nave che lo fenda sollevando come un'aguzza prora il suo sperone orientale. Forse la tradizione di un oscuro rito, forse la fantasiosa immaginazione degli Ateniesi volle che egualmente un carro a forma di nave fendesse nelle grandi Panatenee la marea del popolo per portare, appeso quale vela all'albero maestro, il sontuoso peplo destinato alla dea abitatrice dell'Acropoli.
Età preistorica. - Vita assai modesta l'Acropoli vide agli albori della civiltà umana. Se gli scavi condotti sul pianoro di essa, sia per il rimaneggiamento degli strati sia per la scarsa attenzione che allora si prestava a queste modeste reliquie, non hanno accertato l'esistenza di abitazioni di età preistorica, questa invece è risultata sicura negli incavi della roccia e nelle pendici. Naturalmente esse dovevano attendersi non dal lato settentrionale, rivolto verso i monti e fortemente battuto d'inverno dai venti, ma dal lato meridionale, il cui declivio solatio guarda verso il mare. È probabile che un rifugio o anche una comoda abitazione avessero offerto agli uomini primitivi alcune minori grotte del lato settentrionale ed una vastissima nell'angolo di NE.; ma le prime, se anche avevano conservato residui di vita umana, dovettero essere vuotate e ripulite quando in età storica furono adibite al culto delle Ninfe, di Pan, di Apollo, l'altra, se anche non prima, fu certo spazzata via, allorquando riversarono in essa parte dello scarico degli scavi fatti sul pianoro dell'Acropoli, giacché l'esame del suo riempimento, che fu portato sino alla roccia, rivelò che esso era tutto rimescolato e non conteneva né cocci né altri oggetti di età preistorica.
Non c'era da aspettarsi che l'Acropoli fosse stata abitata in età paleolitica, perché finora manca qualsiasi traccia di questa civiltà in Grecia e nel bacino dell'Egeo. Per altro un indice che l'uomo avesse là dimorato in età neolitica o, ancor meglio, in periodo eneolitico si aveva nella presenza di frammenti di coltelli di ossidiana raccolti sul declivio meridionale. A questo si era aggiunta la scoperta casuale sulla medesima pendice di una tomba ad inumazione di periodo eneolitico, che aveva restituito ceramica di impasto e freccioline di ossidiana.
Una ricerca appositamente istituita nelle vicinanze della tomba, per ritrovare altre tracce di questa vita preistorica, mise allo scoperto il fondo di una casa di periodo eneolitico. Essa si era venuta ad impiantare in un incavo naturale esistente tra due brevi dorsi di roccia: l'incavo, perché potesse offrire un piano orizzontale all'abitazione, era stato riempito di ciottoli e terra, a cui erano frammischiati cocci, frecce e coltelli di ossidiana, appartenenti al disfacimento di case precedenti. Sulla fronte a valle della piccola casa questo riempimento era stato trattenuto e chiuso da uno spesso murello a scarpata di argilla cruda di color giallo. Egualmente di argilla cruda si debbono immaginare le mura dell'elevato, ma esse, perché bruciate nell'incendio della casa, erano venute a costituire, cadendo, uno strato di argilla rossiccia al di sopra del pavimento. Nel mezzo della casa esisteva il focolare delimitato da pietre fitte. Il materiale trovato nel terreno appoggiato alla fronte della casa e sul piano della casa stessa non è differente da quello capitato nel riempimento di essa; soprattutto la presenza di qualche coccio decorato a fasce rosse seghettate e di freccioline di ossidiana ad alette e con peduncolo allungato conferma la sua appartenenza al periodo eneolitico.
Al medesimo periodo, per quanto forse ad una fase più antica, riporta il materiale trovato esplorando una grotticella e un riparo sotto roccia, che si aprono nel calcare egualmente dalla parte meridionale. La grotticella, avendo servito di rifugio anche in età moderna, non ha restituito materiale preistorico nel suo piano; invece dinnanzi ad una piccola finestra, che è a lato dell'ingresso e da cui evidentemente erano stati gettati residui del cibo e materiale inutilizzabile, si trovarono coltelli di ossidiana e frammenti di ceramica di rozzo impasto, insieme a qualche frammento di una ceramica di argilla depurata con ornati marroni, anch'essa caratteristica del periodo eneolitico. Il medesimo materiale si è trovato nello strato più profondo del riparo sotto roccia.
Periodo miceneo. - Non è possibile numerare i secoli che intercorsero tra questo primo periodo di civiltà preistorica e il periodo seguente, quello della civiltà del bronzo, in cui l'Acropoli divenne fortezza e si sostituì alla costruzione di argilla la costruzione in pietra. Come pietra fu adoperata quella che era a portata di mano, cioè lo stesso calcare dell'Acropoli. Analogie nel sistema di struttura e di difesa con le acropoli dell'Argolide fanno considerare questo come un periodo di civiltà micenea, ciò che è confermato da ritrovamenti di ceramica. Se ne può quindi approssimativamente collocare l'età tra il 1500 e il 1000 a. C.
Distruzioni e trasformazioni di secoli e di civiltà posteriori hanno certo ridotto di assai le testimonianze monumentali di questa civiltà micenea, ma gli scavi sistematici condotti sull'Acropoli ne hanno rimesso alla luce cospicui avanzi. Tra essi vanno menzionati il muro di cinta e il palazzo.
Nel muro di cinta (tav. LXX) è stato riconosciuto il famoso Πελασγικόν delle fonti antiche. La tradizione posteriore voleva che questo muro fosse stato costruito dai Pelasgi, i quali una volta avevano abitato sotto l'Acropoli (Paus., I, 28, 3) e sull'Imetto. La scienza moderna nega questo ricollegamento del muro ai Pelasgi, per quanto riesca difficile ammettere che il nome originario, Πελαργικόν, dovesse significare "muro delle cicogne", e che la sua trasformazione in Πελασγικόν abbia condotto ad inventare la presenza di Pelasgi in Atene secondo il racconto che Ecateo ne ha lasciato in Erodoto (VI, 137). L'uso della forma Pelargikon per Pelasgikon indica solo una pronuncia attica e uno scambio di suoni simile a quello che si trova in un altro nome di popolo la cui sorte è intrecciata con quella dei Pelasgi, dei Tyrsenoi-Tyrrenoi.
Insanabilmente discordi sono le notizie degli antichi sul luogo del Pelasgico. È certo per altro che da Tucidide (II, 17,1) a Luciano (Bis accus., 9, 12; Pisc., 42, 47) il Pelasgico, o almeno quella parte di esso che ancora si vedeva dalla parte di settentrione, stava sotto l'Acropoli. Questo è confermato da un'iscrizione della seconda metà del sec. V a. C. (Inscr. Graec. I, suppl., 27 b, p. 59 segg.) in cui è fatto divieto di asportare pietre dal Pelasgico o di cavarne terra, divieto incomprensibile se si trattasse solo della cima dell'Acropoli. Allo stesso divieto si riferisce un motto oracolare riportato in Tucidide (II, 17, 2) per cui era "meglio che il Pelasgico rimanesse deserto"; e allo stesso risultato, che non potesse il Pelasgico chiudere solo la cima dell'Acropoli, conduce la sua testimonianza che durante la guerra del Peloponneso la popolazione della campagna che si rifugiava in città fu accolta anche dentro il Pelasgico nonostante tale divieto.
Ipotesi che possono in parte ristabilire un accordo tra le testimonianze diverse sono che il Pelasgico non fosse un muro di difesa che corresse solo sul bordo alto dell'Acropoli, ma che in qualche suo tratto, cioè dalla parte di settentrione, discendesse sino a comprendere la pendice, oppure che oltre al giro di mura alto ve ne fosse un secondo sulle pendici. In favore della prima ipotesi sta il fatto che il muro pelasgico rimesso alla luce dagli scavi sull'orlo dell'Acropoli si è ritrovato con sicurezza solo a tratti nel lato occidentale e nel lato meridionale; manca invece in gran parte del lato settentrionale. È quindi possibile che il muro da questo lato scendesse più basso. In favore della seconda ipotesi potrebbe stare la notizia antica che poneva in rapporto col Pelasgico nove porte ('Εννέα πύλαι). Tuttavia qualora si pensi l'Acropoli, anziché accessibile, sbarrata completamente dal muro sul lato occidentale, la presenza delle nove porte potrebbe conciliarsi con l'ipotesi di una cinta unica, immaginandole distribuite più in profondità che in estensione sul lato settentrionale della cinta, quello che abbracciava anche la pendice.
Nelle parti conservate il Pelasgico giunge sino allo spessore di 6 metri: esso è costituito da un paramento esterno di grossi blocchi naturali di calcare dell'Acropoli, da un paramento interno di analoga struttura, ma messo insieme con blocchi di minori dimensioni, e da un riempimento interno fatto di pietre e terra. Ora in altezza è conservato solo sino a 4 m., ma certo il muro variava di elevazione a seconda del punto a cui doveva scendere per trovare il piano di posa sulla roccia, e sembra che in qualche tratto raggiungesse i 10 m.
Al medesimo sistema di costruzione con pietre brute, ma naturalmente più piccole, appartengono alcuni vani isolati e aggruppati, che sono stati rimessi alla luce in notevole numero lungo l'orlo settentrionale dell'Acropoli: qualcuno ve n'è sulla pendice meridionale. Le assai scarse dimensioni di questi vani rettangolari o quadrati, che talvolta non misurano più di m. 2 per lato, unite alla loro salda struttura, indurrebbero a riconoscervi, più che delle case, dei ripostigli o delle costruzioni di difesa. E si può quindi pensare che quelle dell'orlo settentrionale dell'Acropoli facessero parte, come annessi, del palazzo che trovavasi sul medesimo lato più ad oriente.
Del palazzo è stata rintracciata la via d'accesso, che saliva dalla pendice settentrionale tra due mura di costruzione analoga a quella del Pelasgico, per quanto fatta con blocchi minori; e così pure sono state ritrovate due basi in poros di colonne di legno, del tipo cretese-miceneo.
Un'ultima testimonianza della civiltà micenea sull'Acropoli può essere riconosciuta nell'altare di Zeus Polieus che ne occupava il punto più alto, a SE. del palazzo. Le cerimonie che ancora in età storica erano collegate a questo culto, particolarmente il processo all'ascia che era stata gettata via dall'uomo che sacrificava il toro sull'altare di Zeus nelle feste Diipolie, come se questa uccisione fosse nefanda e dovesse espiarsi, richiamano a quell'aspetto simbolico della testa taurina e della doppia ascia sotto cui era onorata la somma divinità maschile nella religione micenea.
Periodo pisistrateo. - Anche se si possono numerare, altri lunghi secoli dividono l'Acropoli di civiltà micenea da quella di civiltà greca. È probabile che essa abbia subìto analoga sorte a quella degli altri centri di civiltà micenea. La discesa di un nuovo popolo, del popolo greco, pose con l'incendio una fine violenta alla costruzione che meglio contraddistingueva questa civiltà, al palazzo del principe. E sulle sue rovine fu invece innalzato un tempio alla divinità del nuovo popolo, ad Athena. Se di questo primo tempio di Athena Polias non si possono additare gli avanzi, perché il luogo fu rimaneggiato in età classica per la costruzione dell'Eretteo, la persistenza in questo punto dell'Acropoli del culto originario rivela il sottile legame costituitosi tra il palazzo del principe e il tempio della dea, nel passaggio dalla civiltà micenea alla civiltà greca. Un altro legame è indicato dal posto che accanto adAthena viene a prendere Eretteo in questo più antico santuario. Il principe, che può essere stato al pari di Minosse di Creta persona reale, condivide come divinità il tempio con Athena. Più tardi, cioè al di là dell'orizzonte omerico, egli viene identificato, per il significato del suo nome, con Posidone. È probabile che da questa coesistenza, riuscita col tempo inesplicabile, sia sorto il mito della contesa di Athena con Posidone per il dominio dell'Acropoli, contesa che si risolse con un miracolo compiuto da ciascuna delle due divinità: sull'arida roccia dell'Acropoli Athena fece nascere improvviso l'olivo, Posidone con un colpo di tridente fece scaturire una polla di acqua salata. La vittoria rimase ad Athena per il suo benefico dono. Ma i segni della contesa erano stati conservati nel recinto del santuario.
E sono questi i secoli in cui, anche se in qualche caso l'origine può risalire al periodo miceneo, il mito greco arrossa la roccia dell'Acropoli di tragiche morti. Sulla pendice settentrionale, nell'Aglaurion, si additava il luogo in cui Aglauro, la figlia di Cecrope, si era gettata, come voleva una tradizione del mito, alla vista del serpentino Erittonio, il figliuolo della Terra e di Efesto, che Athena aveva affidato a lei e alle sorelle chiuso in una cassa. Dallo sperone dell'Acropoli, dove sorse poi il tempio di Athena Nike, si sarebbe precipitato Egeo quando vide tornare con vele nere la nave di Teseo dall'impresa del Minotauro: Teseo aveva dimenticato di mutarle in bianche, secondo il convenuto, qualora fosse riuscito vittorioso, ed Egeo, credendolo morto, si uccise. La fontana sulla pendice meridionale dell'Acropoli, intorno alla quale sorse poi il santuario di Asclepio, si voleva che fosse quella presso la quale Ares aveva ucciso Alirrozio, figlio di Posidone, che aveva disonorato sua figlia Alcippe. Tra il teatro e il santuario di Asclepio si additava la tomba di Calo, che era stato ucciso da Dedalo, suo zio e suo maestro.
Non deve essere andata distrutta, al pari del palazzo del principe, la cinta di mura: costituiva una tale salda difesa che non si sentì necessità di rinnovarla neanche posteriormente, e con ogni probabilità durò sino all'assedio persiano del 480 a. C.
Appunto a causa dell'incendio e della distruzione persiana, che tolsero di mezzo edifici vecchi e nuovi, è difficile dire quali costruzioni possano attribuirsi ai secoli che corrono tra la fine del periodo miceneo e l'età di Pisistrato. Ai secoli immediatamente dopo il mille possono riportarsi alcuni scarsi avanzi di mura di esatta costruzione poligonale in blocchi di calcare dell'Acropoli che sono sparsi sulla pendice meridionale, e un altro breve tratto che si trova sulla pendice occidentale e che forse era stato costruito come sostegno alla rampa di accesso dell'Acropoli. Un solo avvenimento storico è legato all'Acropoli in questo tempo, ed è verso il 630 a. C. il tentativo di Cilone di impadronirsene per divenire tiranno di Atene. Ma, sopraffatto, egli si rifugiò supplice presso il simulacro di Athena Polias. Non si sa a quale titolo in età storica gli fu innalzata proprio sull'Acropoli una statua onoraria.
Si discende alla prima metà del sec. VI a. C. e si entra nel campo della reale testimonianza archeologica con gli avanzi di alcune membrature architettoniche e di alcuni frontoni figurati (Eracle e l'Idra, Eracle e Tritone) che appartenevano a piccoli templi o a edicole sacre.
Più cospicui avanzi si hanno quando si giunge alla metà del secolo, cioè all'età di Pisistrato. Il principe saggio ed amante delle arti che resse le sorti di Atene per più di trent'anni (560-528 a. C.) fu colui il quale dette all'Acropoli il suo primo splendore architettonico. A S. del santuario di Athena Polias, nello spazio libero che Ura si distende tra l'Eretteo e il Partenone, egli costruì un tempio ad Athena. Dovettero apparire così grandiose le proporzioni date al tempio - aveva cioè la lunghezza di cento piedi (l'antico piede attico è 0,328) - che ad esso rimase appunto il nome di Hekatompedos neos o Hekatompedon. Se ne sono ritrovate le fondamenta in calcare dell'Acropoli. Era un tempio anfiprostilo di pianta allungata (34,70 × 13-45). Dietro gli stretti vestiboli di oriente e di occidente esso si divideva in tre parti, una orientale a tre navate, una centrale a due vani, una occidentale a vano unico; ripeteva forse così una disposizione per più culti quale trovavasi nel tempio di Athena Polias. L'elevato era in poros, come anche in poros erano le membrature architettoniche. Ipotetico è tutto ciò che si immagina sulla sua decorazione frontonale: è probabile che ad uno dei frontoni appartenesse, insieme ad altre andate perdute, una figura nota sotto il nome di Tifone, mostro tricorporeo con tronchi e teste umane e code serpentine (tav. LXXI).
A Pisistrato si deve forse riportare anche una ricostruzione od un abbellimento del tempio di Athena Polias, del quale, oltre ad avanzi architettonici, rimangono due frammentarî frontoni di cui uno rappresenta l'ingresso di Eracle nell'Olimpo dove s'attendono Zeus ed Era, l'altro un corteo o una cerimonia dinnanzi allo stesso santuario di Athena Polias.
Come opera di Pisistrato, per quanto altri tenda a farne discendere l'età ai Pisitratidi ed oltre, deve considerarsi la prima costruzione sontuosa di un ingresso a porte per l'Acropoli. Egli aprì questo Propylon sul lato occidentale dell'Acropoli e lo appoggiò al muro pelasgico: ne sono conservati avanzi tanto al di dentro quanto al di fuori dei Propilei di Mnesicle. Esso era costituito da un semplice vano rettangolare (13,50 × 11) che si apriva con un prospetto a due colonne tra pilastri, tanto sul lato orientale quanto sul lato occidentale. La sua direzione (SO.-NE.) indica che l'accesso tendeva verso la parte settentrionale dell'Acropoli là dove ora trovavasi, oltre al vecchio santuario di Athena Polias, anche il nuovo Hekatompedon di Pisistrato. Per l'elevato del Propylon oltre al poros appare l'uso del marmo adoperato per la testata dei pilastri. Dinanzi al Propylon si estendeva verso SO. un vasto spazio, forse trapezoidale, destinato a doni votivi. È probabile che a questa costruzione del Propylon sia contemporaneo il rivestimento in blocchi di calcare di forma poligonale dello sperone di roccia che si protende verso SO., e che si sia allora costituito come pyrgos, cioé come torre, questo annesso dell'Acropoli che era stato tagliato fuori di essa in periodo miceneo dal muro pelasgico e in cui si stabilì, con santuario proprio, nel principio del sec. V a. C. il culto di Athena Nike (Athena Vittoria).
Infine all'età di Pisistrato deve riportarsi una cisterna che trovasi nell'angolo NO. dell'Acropoli a grande profondità e che è in parte incavata nella roccia, in parte costruita con blocchi rettangolari di poros: essa raccoglieva le acque piovane che, dato il naturale pendio, si convogliavano verso quest'angolo, e ne versava fuori il superfluo. Anche in età posteriori, in età romana, medievale e moderna, con la costruzione di nuove cisterne o con il loro rinnovamento e con lo scavo di canali sulla roccia, sempre verso questo punto si fece defluire l'acqua dell'Acropoli.
Dell'attività costruttiva di Pisistrato rimane qualche traccia anche sulla pendice meridionale. A lui si debbono riportare alcune poche pietre, calcare e poros, che facevano parte della massicciata dell'orchestra circolare (la prima forma di costruzione stabile per spettacolo che ci sia stata lasciata dalla civiltà greca), e pochi tratti di murelli di calcare che potevano appartenere al recinto del teatro o costituire l'accesso all'orchestra. Questi avanzi sono tornati alla luce dietro l'orchestra e dietro la parodos occidentale del teatro più tardo. Là vicino si è scoperto anche un piccolo tratto delle fondamenta della cella del più antico tempio di Dioniso, la cui costruzione deve egualmente riportarsi a Pisistrato.
Ai figli di Pisistrato, che governarono Atene dalla morte del padre sino a che l'uno, Ipparco, nel 514 a. C. fu ucciso da Armodio e Aristogitone, l'altro, Ippia, nel 510 fu bandito dalla città, si debbono verso il 520 a. C. l'ampliamento e la nuova decorazione dell'Hekatompedon. Per quanto non tutto riesca chiaro intorno ai mutamenti apportati nella struttura e nella decorazione del vecchio edificio, furono i Pisistratidi a costruire intorno al tempio un peristilio e ad ornarne con statue i frontoni. Il tempio divenne così un periptero dorico (43,44 × 21,34) a sei colonne sulla fronte e dodici sui lati. Per le fondamenta e per lo stilobate fu adoperato un nuovo tipo di calcare, di color chiaro rosato, detto di Carà dal luogo della sua provenienza sull'Imetto, quello stesso che Pisistrato aveva adoperato per il tempio di Dioniso. Tutto l'elevato del tempio era in poros: delle colonne e dei capitelli sono stati ritrovati numerosi avanzi, così anche della trabeazione. Le metope in marmo non avevano decorazione. I frontoni erano l'orientale in marmo, l'occidentale in poros. Del frontone occidentale si conservano il gruppo centrale, un toro atterrato da due leoni (tav. LXXI), e due serpenti che occupavano gli angoli. Del frontone orientale, che presentava una Gigantomachia, sono conservati il gruppo centrale, cioè Athena in lotta contro Encelado (tav. LXXI), e i due Giganti distesi appartenenti ai gruppi angolari.
Non sappiamo se all'età dei Pisistratidi o ad una posteriore debba attribuirsi un arcaico altare in poros a volute, ritrovato sulla pendice occidentale dell'Acropoli e di cui si ignora la divinità a cui era dedicato.
Età di Clistene, di Temistocle, di Cimone. - I sessant'anni che corrono tra la cacciata di Ippia e la morte di Cimone (449 a. C.) rappresentano per la sorte monumentale dell'Acropoli un lungo periodo di sosta. Sono questi i decennî dell'instaurazione del governo democratico in Atene e delle guerre contro i Persiani. Non vi era la tranquillità della vita e dell'animo per costruire, vi furono invece la distruzione persiana e, per lungo tempo, il timore di un suo rinnovamento.
Tuttavia durante il breve periodo di Clistene, forse verso il 505 a. C., si pose mano, certo per ragione politica, alla costruzione di un nuovo grandioso tempio, in quel medesimo luogo su cui doveva sorgere poi il Partenone di Pericle. L'Hekatompedon, ingrandito ed abbellito dei Pisistratidi, doveva apparire alla nuova democrazia una testimonianza troppo importuna dei fasti della tirannide. Per la dea, ma ancor più per il popolo, bisognava costruire un tempio maggiore che attestasse della potenza del nuovo regime. E di esso si posero le fondamenta a S. dell'Hekatompedon, fondamenta in poros che, dato il salto della roccia, dovettero sull'orlo meridionale andare a cercarla, per poggiarsi, sino a circa dieci metri di profondità. Il basamento misurava 76,88 × 31,75, aveva cioè una lunghezza di m. 33 e una larghezza di m. 10 superiori a quelle dell'Hekatompedon rinnovato.
Sembra che la costruzione del nuovo tempio, a cui si dà convenzionalmente il nome di antico Partenone, sia continuata anche durante l'età di Milziade e di Temistocle, e che sullo stilobate fossero stati già innalzati il primo tamburo delle colonne in marmo del peristilio e in marmo il primo filare dei blocchi della cella, allorché nel 480 a. C. anche l'antico Partenone subì l'incendio e la distruzione con cui i Persiani ridussero l'Acropoli ad un cumulo di rovine.
Dopo tanto disastro, agli Ateniesi tornati padroni della città non rimase altro che sgombrare le rovine dell'Acropoli. Tutto era ormai sparito dell'Acropoli dei loro avi: atterrato era stato l'Hekatompedon, come era anche andato distrutto il tratto settentrionale del Pelasgico attraverso la cui breccia i Persiani avevano dato la scalata. La pietà verso le cose sacre li indusse, anziché a gettare via tanti rottami, a seppellirli. Da questa "colmata persiana", che gli scavi moderni hanno ritrovato soprattutto presso l'Eretteo e a SE. dell'antico Partenone, sono tornati alla luce monumenti che gli Ateniesi del periodo classico non conobbero, particolarmente, oltre ai molti avanzi dei frontoni del sec. VI a. C. già ricordati, quella numerosa serie di statue femminili che vanno sotto il nome di Korai dell'Acropoli e che erano state innalzate nel recinto del tempio di Athena Polias. I colori ancora smaglianti di queste figure di delicata arte ionica, esercitata in Atene forse da scultori originarî di Chio, provano che non da molto tempo dovevano essere state dedicate quando le raggiunse la furia persiana: la loro varia e mirabile espressione, così individuale nelle proporzioni del corpo e nel tipo del volto, nonostante lo schema quasi unico di atteggiamento e di vestito su cui sono state create, ha restituito un'immagine quanto mai attraente delle donne ateniesi del periodo dei Pisistratidi. Possono infatti attribuirsi agli ultimi decennî del sec. VI a. C.
Difficile è dire se dai Persiani sia stato per caso risparmiato uno dei simulacri della dea, opera dello scultore attico Endeo, che sull'Acropoli esisteva ancora in età storica (Paus., I, 26, 4) e che è stato ritrovato, o se esso sia uno dei primi nuovi monumenti innalzati al ritorno degli Ateniesi. Non è molto probabile che l'attività di Endeo, anche a giudicare dal suo chiaro stile ionizzante, si sia prolun. gata sin oltre il 480 a. C., mentre è certo (Paus., I, 27, 6) che statue arcaiche di Athena, annerite e mal ridotte dall'incendio persiano, erano state rialzate nel recinto di Pandroso, annesso al tempio di Athena Polias.
Egualmente si può rimanere in dubbio se dalla furia persiana si fosse salvata, anche malconcia, la quadriga in bronzo che gli Ateniesi avevano dedicato verso il 506 a. C. per la loro vittoria sui Beoti e sui Calcidesi, e che trovavasi sul pianoro dell'Acropoli ad oriente dei Propilei a mano sinistra (Herod., V, 77), o se essa fosse stata rinnovata dopo l'incendio persiano.
L'opera di Temistocle per l'Acropoli sembra essersi limitata ad un'affrettata costruzione di parte di quel muro settentrionale che oggi corre sull'orlo della roccia, certo per chiudere la falla aperta dall'invasione e dalla distruzione persiana. In questo muro, che va dall'altezza dell'Eretteo sino dove esiste un moderno Belvedere, trovarono impiego blocchi di poros e lastre di marmo dei monumenti distrutti dai Persiani, ma soprattutto, nelle vicinanze dell'Eretteo, tronchi di colonne non ancora lavorate e blocchi dello stilobate e dei gradini dell'antico Partenone.
In questo stesso periodo dovette essere riattato il tempio di Athena Polias, perché non è pensabile che l'Acropoli possa essere rimasta senza il suo più venerato santuario. È impensabile invece che sia stato rialzato l'Hekatompedon, una volta che le sue decorazioni frontonali e frammenti del suo colonnato andarono a finire nella colmata persiana.
All'età di Temistocle o solo a qualche anno più tardi debbono riportarsi i notevoli avanzi di una cinta in blocchi di calcare, poligonali e accuratamente connessi, che si trovano sulla pendice meridionale dell'Acropoli. Una pietra con iscrizione, incastrata in essa, fa sapere che era un recinto di fontana. È probabile che fosse la fontana intorno a cui poi si impiantò il santuario di Asclepio e che forse già allora si considerava sacra, oppure che fosse una fontana di utilità pubblica del cui bacino rettangolare costruito in blocchi poligonali di calcare dell'Acropoli si è trovata grande parte, vicino alla roccia, là dove anche in tempi romani fu stabilita una grande cisterna in mattoni per raccogliere l'abbondante acqua che trapela sotto il calcare dell'Acropoli.
Dallo stesso velo idrico era alimentata sotto l'angolo NO. dell'Acropoli la Clepsidra, la famosa cisterna che aveva ricevuto questo nome al posto dell'originario, Empedo, perché nella stagione secca dell'anno, diminuendo, pareva che sottraesse la sua acqua. Il suo impianto nella roccia e il rivestimento in pietra di due delle sue parti possono per altro risalire al periodo miceneo, giacché dovette essere la riserva d'acqua dell'Acropoli compresa dentro il Pelasgico per uso dei suoi abitatori.
Infine nell'età di Temistocle l'Acropoli deve aver accolto una nuova divinità. Le grotte sull'estremità più occidentale della parete settentrionale, che da più antichi tempi erano state dedicate al culto di Ninfe delle acque e della natura verdeggiante sotto il nome di Aglauridi (Aglauro, Erse, Pandroso), danno ospitalità anche a Pan, una divinità semicaprina di Arcadia, che una leggenda aveva ricollegato alle guerre persiane, anzi lo aveva fatto incitatore degli Ateniesi nella battaglia di Maratona (Herod., VI, 105).
Neanche a Cimone fu dato di lavorare all'abbellimento dell'Acropoli nei pochi anni, tra il 460 e il 455 a. C., che corsero tra la sua vittoria sull'Eurimedonte e il suo esilio, e in quegli altri pochissimi che corsero tra il suo richiamo in patria nel 452 e la sua morte. Tuttavia lasciò un'opera grandiosa che nella sua intenzione doveva certo preludere a questo abbellimento ulteriore. Con il bottino della vittoria sull'Eurimedonte egli circondò l'Acropoli sul lungo lato meridionale e sul breve lato orientale con un potentissimo muro che prese il posto del Pelasgico. Esso all'angolo di SO. si riattacca a quel breve tratto del Pelasgico occidentale a cui Pisistrato aveva appoggiato il suo Propylon e si ferma con l'estremo angolo di NE. nel punto dove è il moderno Belvedere e dove cominciava il breve tratto del muro di Temistocle. È difficile dire quali siano state le ragioni che arrestarono là la sua opera, cioè se essa fu troncata dalla sua morte o dalla mancanza di mezzi o se la natura assai scoscesa della roccia dalla parte settentrionale fece considerare non necessaria la sostituzione del muro di Temistocle.
Il muro meridionale ha una lunghezza di m. 297, quello orientale una lunghezza di m. 63. L'altezza e lo spessore naturalmente variano a seconda del punto in cui esso ha trovato la roccia per poggiarvisi e a seconda della colmata retrostante. Il suo tratto più alto e più forte è quello dell'angolo di SE., dove ancora oggi si possono riconoscere 29 strati di blocchi per un'altezza di m. 14. Il forte spigolo che in questo punto è costituito dall'incontro dei due muri dette più che mai all'Acropoli l'aguzzo aspetto di una prora. Lo spessore oscilla tra i m. 6,50 nelle parti inferiori e i m. 2,50 nelle parti superiori. Sul lato orientale in alto esso misura appena 1,50 e doveva così più organicamente collegarsi allo scarso spessore del muro di Temistocle.
Per la costruzione del muro furono adoperati anche blocchi di edifici anteriori alla distruzione persiana, tra gli altri dei blocchi dell'epistilio dell'Hekatompedon, ma per la maggior parte sono blocchi rettangolari di poros tagliati appositamente per esso. Il muro era liscio, senza torri, e non si sa se avesse un coronamento e di quale forma. Le vicende del tempo ne hanno in epoca medievale e moderna molto modificato l'aspetto che si può riconoscere intatto solo nell'angolo di SE. Durante il dominio bizantino, franco, veneziano, turco, furono a più riprese riempite delle brecce con piccole pietre e calce, e furono rappezzati collo stesso sistema dei lunghi tratti o questi furono sostenuti con degli stretti pilastri a scarpata per i quali furono riadoperati i medesimi blocchi caduti dal muro.
Ma un'opera di tal mole erratamente si considererebbe solo una costruzione di difesa. Sembra che anche altri fossero stati gli intenti di Cimone, quello di allargare sul lato meridionale la terrazza dell'Acropoli portandola oltre il Pelasgico e ancor più quello di preparare un saldo contrafforte per la pressione del terreno, qualora si fosse ripresa la costruzione dell'antico Partenone. Questa formidabile spinta che avrebbe apportato l'elevazione si era preveduta anche prima, poiché per frenarla si era già costruito tra il muro di Cimone e le fondamenta dell'antico Partenone un muro parallelo a queste ultime, appoggiandolo al Pelasgico.
Età di Pericle. - Non fu per altro concesso a Cimone di riprendere la costruzione del Partenone. La gloria di far sorgere, sulle rovine dell'Acropoli in calcare del periodo miceneo e di quella in poros del periodo pisistrateo, un'Acropoli in marmo doveva essere riservata a Pericle, al grande uomo di stato che governò Atene dalla morte di Cimone al 429 a. C., anno della sua morte. E l'impulso dato dall'opera sua valse ad assicurare nuove e sontuose costruzioni anche nell'età di Alcibiade ed oltre, fino alla soglia del sec. IV a. C.
Il primo edificio innalzato, fu il Partenone (tav. LXXII). Nella mente di Pericle esso doveva essere, nello stesso tempo, omaggio alla dea che aveva protetto la città nei difficili frangenti delle guerre persiane e simbolo della potenza ateniese che da questo pericolo era ascesa trionfante a stabilire la sua egemonia sulla Grecia. Per il nuovo Partenone furono adoperate le fondamenta dell'antico. Per altro la preoccupazione che il suo elevato, nonostante la presenza del muro di Cimone, desse un'eccessiva spinta al terrapieno verso mezzogiorno, indusse ad allargare le fondamenta verso settentrione, dalla parte cioè dove l'edificio avrebbe poggiato sulla roccia e a spostarlo fino sull'orlo di questa aggiunta, allontanandolo invece dall'orlo meridionale. Non la medesima preoccupazione ma la concezione di un piano diverso, più allungato, indusse ad un analogo spostamento del tempio fino sull'orlo occidentale del basamento.
I lavori iniziati nel 447 erano essenzialmente finiti nel 438 a. C. quando vi fu collocata la grande statua in oro ed avorio di Athena Parthenos, opera di Fidia. Architetto ideatore del tempio fu Ictino, soprintendente ai lavori Callicrate. Il Partenone, tutto in marmo pentelico, è un periptero dorico (69, 54 × 30, 87), con otto colonne sulle fronti e diciassette sui lati (alt. 10,43, diam. inf. 1,905). Uno stretto ambulacro (largh.2,57) divide il colonnato dal tempio (59,02 × 21,72). Quest'ultimo comprende, oltre ad un vestibolo anteriore ed uno posteriore, una grande cella (29,89 × 19, 19), che conteneva la statua dell'Athena Parthenos ed era divisa da colonnati interni in tre navate, e da una sala adiacente detta opisthodomos. Non da una sala del tempio riservata alle vergini ateniesi per il culto della dea, ma dall'epiteto del suo simulacro, Parthenos, è sorto il nome di Partenone, nome per altro che non si vede comparire prima del sec. IV a. C. Da principio infatti dovette essere genericamente chiamato "il tempio" o "il gran tempio" e, data la lunghezza della sua cella, che era quella di 100 piedi attici della misura eginetica adottata posteriormente (0,296), era stato applicato ad esso anche il nome di Hekatompedon. In realtà il nuovo Partenone di Pericle dovette considerarsi come il tempio che aveva preso il posto dell'Hekatompedon distrutto dai Persiani.
Ricchissima era la decorazione scultoria del Partenone. Ad altorilievo erano ornate le 92 metope della trabeazione, e i loro soggetti erano ad E. la Gigantomachia, ad O. l'Amazonomachia, a N. e a S. la Centauromachia, insieme con scene di miti ateniesi ed episodî della presa di Troia. Con statue di tutto tondo in marmo pario erano riempiti i due cavi frontonali: in quello orientale era rappresentata la nascita di Athena, in quello occidentale la contesa tra Athena e Posidone per il dominio dell'Acropoli. Un fregio continuo a bassorilievo correva esternamente in alto, sul muro della cella, ed in esso si svolgeva una processione solenne a similitudine di quella che ogni quattro anni, durante la celebrazione delle grandi Panatenee, saliva sull'Acropoli per offrire alla dea il peplo che era stato tessuto e ricamato dalle nobili fanciulle ateniesi. Infine dei colatoi a teste leonine stavano ai quattro estremi dei lati N. e S., una serie di antefisse a palmette costituiva l'ornamento delle tegole terminali lungo i due spioventi del tetto, e dei grandi acroterî traforati a palme e foglie di acanto sormontavano i fastigi del tempio. Nessuna fonte antica, tolte poche parole per i frontoni (Paus., I, 24, 5), ci descrive questa decorazione scultoria e ci dice il nome di chi l'ha creata; ma se Fidia, un genio riconosciuto sommo da tutta l'antichità, fu accanto a Pericle come suo ispiratore e se in queste sculture v'è il segno di un'arte a nessuna seconda, legittima è l'illazione che creatore ne sia stato Fidia, anche qualora si debba ammettere che egli abbia avuto dei coadiutori in suoi compagni e in suoi discepoli, particolarmente in Alcamene e in Agoracrito. Tanto più si può pensarlo in quanto era di Fidia la statua della dea per la quale si era preparata una così ornata casa. Compresa la base, l'Athena Parthenos (Paus., I, 24, 5 segg.) misurava in altezza circa 15 m. Solo di oro vi erano stati impiegati 40 o 50 talenti, cioè più di tre milioni di lire oro. La dea vestita di peplo dorico e armata di elmo e di egida, era in piedi, e poggiava la sinistra sullo scudo a terra, mentre dalla sua destra scendeva una Vittoria. Ornati a rilievo erano lo scudo (Amazonomachia), l'orlo dei sandali (Centauromachia), la base (nascita di Pandora): una Gigantomachia era dipinta nell'interno dello scudo. L'arte di Fidia aveva dovuto comporre nella penombra della cella col fulgore dell'oro, col candore dell'avorio, un'immagine di stupenda bellezza, d'imponente maestà.
La costruzione del Partenone, dopo secoli in cui l'Acropoli era stata soprattutto fortezza, diede ad essa definitivamente il carattere di santuario. E, terminati i grandiosi lavori, Pericle poté pensare a sbarrarne l'ingresso ad occidente con alcuni sontuosi Propilei (tav. LXXIII), opera di ornamento e non di difesa (Paus., I, 22, 4). Essi tolsero di mezzo il Propylon pisistrateo ma conservarono, come venerando avanzo, un tratto del Pelasgico a cui quello era appoggiato. Di più modificarono la direzione di accesso all'Acropoli: vennero infatti a collocarsi, in direzione quasi esatta O.-E., sulla linea centrale dell'Acropoli che stava tra il Partenone e il tempio di Athena Polias. Invece dalla parte occidentale l'accesso all'Acropoli dovette rimanere serpeggiante, quale era nel periodo pisistrateo; e come indicano degl'incavi nella roccia, la strada rasentava il lato occidentale del torrione di Athena Nike, si dirigeva obliquamente verso l'ala settentrionale dei Propilei e di là obliquamente tornava verso il loro corpo centrale. I Propilei furono costruiti in cinque anni (437-433 a. C.). Ne fu architetto Mnesicle. Sono in marmo pentelico e sembrano il raggiante diadema sulla fronte dell'Acropoli. La parte centrale (largh. 13, 12, prof. 25,04) ha sei colonne doriche (altezza 8.81) sulle due facciate di O. e di E. Lo spazio interno è diviso, da una parete a cinque porte (alt. della maggiore 7,37), in due vestiboli di cui l'occidentale più ampio, ha tre navate, separate da due file di tre colonne ioniche (alt. 10,29). Alla costruzione centrale si riattacca a N. un edificio formato di un'ampia sala (8,96 × 10,76) e da un vestibolo. È la così detta Pinacoteca (Paus., I, 22, 6), perché in essa erano raccolte alcune pitture. A S. vi era un semplice vestibolo a colonne. L'architetto dei Propilei dovette lottare per la sua costruzione non soltanto contro il dislivello della roccia, ma anche contro lo spazio che gli veniva limitato a S. dal santuario vicino, già esistente, di Athena Nike. Ma tale asimmetria del piano generale non viene neanche avvertita, tanta è stata l'abilità nella costruzione simmetrica dei prospetti, anch'essi a colonne doriche.
Ancor prima del Partenone e dei Propilei Pericle aveva dato anche un altro ornamento all'Acropoli. Sulla sua pendice, proprio all'angolo di SE., aveva costruito adiacente al teatro il suo famoso odeo (Paus., I, 20, 4). Esso era stato innalzato negli anni intorno al 445 a. C. Era un edificio rettangolare sormontato da un singolare tetto a padiglione, e si diceva fatto ad imitazione della tenda di Serse. Il legno era stato largamente adoperato nell'interno per il soffitto, per i sedili e forse anche per le colonne: esso proveniva dalle navi prese ai Persiani.
Non sappiamo se alle intenzioni di Pericle e ai suoi progetti debbano risalire altri edifici che sorsero sull'Acropoli dopo la sua morte: certo il Partenone e i Propilei furono un incitamento a rinnovare e a costruire anche in altri santuarî. La sorte volle per altro che queste nuove costruzioni fossero portate a compimento nell'età dì Alcibiade.
Già durante il lavoro dei Propilei doveva essere stato fatto il proponimento di elevare un tempio dentro il santuario di Athena Nike, dove il culto fino ad allora si era svolto intorno ad un altare. E per questa preventivata costruzione dovette resultare mozza l'ala meridionale dei Propilei. Perché divenisse degno basamento del tempio e facesse simmetria all'alto basamento che si era dovuto costruire per la Pinacoteca, fu rivestito il torrione di Athena Nike sui tre lati di N., di O. e di S. con un saldo muro a blocchi rettangolari di poros, che incluse nel suo interno il più antico rivestimento in calcare e, ricollegandosi al muro di Cimone, venne a comprendere questo sperone nell'insieme costruttivo di tutta l'Acropoli.
E sull'estremo orlo occidentale del torrione fu costruito il tempietto di Athena Nike (tav. LXXIV) (Paus., I, 22, 4). Questo gioiello di arte ionica, un vero scrigno in pentelico, sorse negli anni tra il 430 e il 420 a. C. Architetto ne fu Callicrate. È un tempio ionico (8,27 × 5,44), con quattro colonne sulle due fronti (alt. 4,06) e con unica cella (3,78 × 4, 19). Un fregio continuo correva sui quattro lati ed era decorato ad alto rilievo con lotte tra Greci ed Orientali alla presenza degli dèi: si è pensato alla battaglia di Platea (479 a. C.). La statua del culto era in legno: la dea teneva nella destra una melagrana, nella sinistra il suo elmo. Sembra che dopo che al simulacro della dea furono rubate le ali d'oro sia entrato in uso l'epiteto di Vittoria senz'ali o Nike Apteros.
Una balaustrata di marmo pentelico a rilievo recingeva il tempio di Athena Nike su tre lati e su una piccola parte della fronte. Essa fu innalzata forse negli ultimi anni del sec. V a. C., dopo i successi ottenuti da Alcibiade nell'Ellesponto, tra il 411 e il 407. La sua decorazione era tutto un inno di trionfo: dinanzi ad Athena seduta le Nikai portavano tori al sacrificio, alzavano trofei di vittorie terrestri o di vittorie navali.
Come nell'ingresso dell'Acropoli era stato contrapposto il delicato ordine ionico del tempietto di Athena Nike al saldo ordine dorico della fronte dei Propilei, un medesimo contrasto rispetto al Partenone fu posto nell'interno dell'Acropoli quando in stile ionico si ricostruì il tempio di Athena Polias (tav. LXXIV). Anche qui forse prima di passare alla costruzione si pensò a sistemare la terrazza del tempio. Nell'età di Pericle, quando si dovette ricollegare al muro di cinta dell'Acropoli il bastione su cui sorgeva la Pinacoteca dei Propilei, fu rielaborato, forse anche costruito di nuovo tutto il tratto più occidentale del muro settentrionale dell'Acropoli. Certo in questo tempo o pochi anni dopo ne fu apprestato il bel rivestimento interno in parallelepipedi di poros: questo rivestimento è legato per un lungo tratto dal fregio e dalla cornice del peristilio dell'Hekatompedon, che furono qui rimessi in opera come coronamento del muro. È quindi presumibile che, solo quando per la costruzione del nuovo tempio di Athena Polias dovette essere tolto di mezzo ogni avanzo dell'antico Hekatompedon, sia stato salvato questo materiale più fine e si sia cercato di dare ad esso, con accurata disposizione, sul muro dell'Acropoli lo stesso impiego che aveva sul colonnato del tempio. A tale congettura è d'appoggio anche il fatto che della medesima costruzione del paramento interno è una scaletta che si apre nel muro e che dà accesso alla pendice settentrionale dell'Acropoli. Quando la terrazza del tempio di Athena Polias fu così riordinata, essa fu certo stabilita in tale forma per porla in comunicazione col sottostante santuario di Aglauro, di cui per altro non rimane traccia.
La ricostruzione in marmo pentelico del tempio di Athena Polias incominciò forse nel 421 a. C. dopo la pace di Nicia, fu interrotta per il disastro di Sicilia dal 413 al 409, fu ripresa in quell'anno, come attestano documenti epigrafici sull'andamento dei lavori; e fu condotta a termine poco dopo.
Anche quando fu ricostruito, al tempio di Athena Polias rimase il nome di Antico Tempio. Solo più tardi, dal nome di Posidone Erechtheus, compagno della dea, deve essere sorto il nome di Eretteo ('Ερεχϑεῖον), che del resto nella testimonianza letteraria appare solo in periodo romano (Paus., I, 26, 5).
Nella ricostruzione del tempio di Athena Polias l'architetto Filocle dovette risolvere ardui problemi di dislivello e di spazio per chiudere i varî santuarî che ad esso appartenevano in un solo edificio; egli creò un tempio asimmetrico che è una geniale eccezione alla monotona simmetria periferica dell'architettura greca. Il corpo principale dell'edificio è un tempio ionico (20,03 × 11,21) con sei colonne sulla fronte orientale (alt. 6,80) come accesso alla cella di Athena Polias, ma con alta parete chiusa, a colonne incastrate, nella fronte occidentale. Ha di più nel lato settentrionale un ampio vestibolo (largh. 10,60, lungh. 6,75), con quattro colonne ioniche sulla fronte ed una su ciascun lato (alt. 6,50), che racchiudeva il segno del colpo di tridente di Posidone e dava accesso alla cella del dio. Nel lato meridionale, sul medesimo asse, v'è la cosiddetta loggetta delle Cariatidi, la cui trabeazione, anziché da colonne, è sostenuta da sei statue femminili (alt. 2,30): essa dava accesso alla tomba di Cecrope. Di finissimo lavoro è la decorazione dei capitelli e delle basi delle colonne (che continuava anche sui muri della cella), e così pure l'incorniciatura della porta e il soffitto del vestibolo settentrionale. Inoltre un singolare fregio in pietra nera di Eleusi, al quale erano attaccate figure in marmo ad altorilievo, recingeva tutto il tempio, compreso anche il portico settentrionale. Dagli scarsi frammenti conservati sembra che i soggetti si riferissero al mito di Erittonio, il protetto di Athena, e a cerimonie attiche.
Nella cella di Athena Polias era onorato il venerando ed antichissimo simulacro in legno della dea che si voleva fosse caduto dal cielo. Di esso non è possibile farsi più alcuna idea. Dinanzi al simulacro rimaneva costantemente accesa la lampada d'oro, opera di Callimaco, il fumo della quale veniva tirato fuori della cella attraverso una palma di bronzo che stava sopra la lampada e giungeva sino al soffitto (Paus., I, 26, 6 seg.). Inoltre erano conservati nella cella cimelî di arte antichissima, come un Ermete in legno che si voleva dedicato da Cecrope e un sedile pieghevole che si voleva opera di Dedalo, oppure trofei delle guerre persiane, come la corazza di Masistio e la spada di Mardonio (Paus., I, 27,1).
Adiacente al tempio, dalla parte di O., era il Pandroseion, recinto sacro a Pandroso, una delle Aglauridi. Esso conteneva il famoso olivo di Athena, quello che in una sola notte era rinato dopo la distruzione persiana, e presso l'olivo v'era l'altare di Zeus Herkeios.
Invece non è possibile indicare con certezza il luogo di abitazione della sacerdotessa di Athena e delle sue aiutanti, le 'Αῤῥηϕόροι, (Paus., I, 27, 3) e uno spazio riservato a queste ultime per il giuoco della palla. È probabile che tali edifici e recinti dovessero trovarsi a ridosso del muro settentrionale dell'Acropoli. Uno di essi è forse possibile identificarlo con un lungo vano rettangolare (27 × 12) che sta appunto tra il muro dell'Acropoli e la scaletta di accesso all'Aglaurion. Può essere stato costruito insieme o poco dopo: posteriore invece è un altro più piccolo edificio quadrato (circa m. 12) a due vani (vestibolo e cella), che è venuto a piantarsi nel sec. IV a. C. o anche in età ellenistica al disopra del suo angolo più orientale.
La costruzione dei Propilei, come regolò la sistemazione del santuario di Athena Nike, così regolò, certo negli ultimi decennî del secolo, anche quella di santuarî adiacenti dalla parte interna dell'Acropoli. Accanto all'angolo meridionale del vestibolo orientale dei Propilei stava il piccolo santuario di Athena Igiea (Paus., I, 23, 4). Addossata infatti alla colonna estrema di quest'angolo si è ritrovata in posto la base della statua dedicata dagli Ateniesi e che era opera dello scultore Pirro (Plin., XXXIV, 80; Inscr. Graec., I, 335). La leggenda voleva che la statua fosse stata dedicata da Pericle perché la dea, apparendogli in sonno, gli aveva indicato come doveva curare, per salvarlo, l'artiere più attivo e più volonteroso che era caduto dal fastigio del Partenone durante la costruzione (Plutarco, Per., 13): più probabile è che sia stato un dono votivo alla dea dopo la grande peste del 429 a. C.
Assai più ampio era il santuario di Artemide Brauronia (Paus., I, 23, 7), che occupava tutto l'angolo SO. dell'Acropoli tra il tratto del muro pelasgico, il muro di Cimone e i Propilei. A questo spazio trapezoidale si accedeva con una scaletta tagliata nella roccia dalla via sacra, quella che percorreva la processione panatenaica entrando sull'Acropoli dai Propilei. Nel recinto non vi sono tracce di un tempio, ma forse non era richiesto dal culto, che menziona solo un altare. Tuttavia a riparare l'immagine sacra poteva bastare uno dei due portici che circondavano il recinto sul lato orientale (29 × 6) e sul meridionale (37 × 8). È probabile anzi, che tutti e due contenessero un'immagine, giacché sono menzionati un simulacro più antico, che doveva essere seduto e di legno o di poros, ed uno più recente, in piedi e in marmo, che era opera di Prassitele. Di quest'ultimo si è creduto di riconoscere una copia nell'Artemide di Gabii (Louvre, Parigi). Siccome per altro i due portici sono ridotti a poco più della traccia di posa sulla roccia e di qualche filare di blocchi di poros, è difficile dire a quale età precisa possano risalire.
Non adiacente al Brauronion ma sulla via sacra presso il Partenone, e, secondo la descrizione di Pausania (I, 24, 3), nelle immediate vicinanze di una statua della Terra di cui appunto là si è ritrovata l'iscrizione incisa sulla roccia (Inscr. Graec., III,1, 166), deve collocarsi il piccolo santuario di Athena Ergane, cioè della protettrice del lavoro. Delle tavolette votive a rilievo di arte arcaica, delle iscrizioni del sec. V a. C. attestano l'esistenza del suo culto fino da quell'età, ma nulla può dirsi della forma del recinto, che poteva del resto non avere maggiore estensione di quello di Athena Igiea, ed è da escludere che vi fosse un tempio.
Ultimo tra gli edifici di questo secolo deve menzionarsi la Calcoteca, una costruzione che era destinata alla conservazione di armi e di trofei, forse anche di piccoli doni votivi, specialmente di bronzo. Prima la si identificava con un edificio, di cui si conservano le fondamenta in blocchi rettangolari di poros, nell'angolo di NO. dell'Acropoli al disopra della cisterna del periodo di Pisistrato: l'edificio (17 × 18,5) è formato da un vestibolo e da due camere retrostanti. Invece ora si ricerca la Calcoteca con maggiore probabilità in quella parte della terrazza dell'Acropoli che sta tra il santuario di Artemide Brauronia e la gradinata tagliata nella roccia che si stende dinanzi alla fronte occidentale del Partenone; si hanno le tracce di una grande sala (41 × 15) dinannzi alla quale correva un porticato (largh. 3,50).
La ricchezza dei templi e il numero dei santuarî non bastano a dare un'idea di quello che dovesse essere l'Acropoli alla fine del sec. V a. C., quando giunse al termine il periodo della sua splendida ricostruzione. Lungo la via sacra, nei vestiboli dei Propilei, dei templi, nel recinto dei santuarî, statue, pitture, iscrizioni avevano dato all'Acropoli una sontuosità di aspetto, una testimonianza di vita religiosa e civile che vincevano di gran lunga quelle che erano state distrutte dall'incendio persiano.
Per l'Acropoli avevano già subito cominciato a lavorare gli artisti che erano stati testimoni di tanta rovina. Di Crizio e di Nesiote v'era una statua in bronzo, dedicata da Epicarino, che forse rappresentava Epicarino stesso come vincitore della corsa armata (Paus., I, 23, 9; Inscr. Graec., I, 376).
Opera di Anficrate era una leonessa in bronzo che aveva la lingua mozza e in cui si voleva riconoscere l'immagine simbolica della flautista Leena, amica di Armodio e di Aristogitone, che dopo l'uccisione di Ipparco, pur essendo stata fatta torturare da Ippia sino alla morte, non aveva lasciato uscire dalla sua bocca alcuna rivelazione (Paus., I, 23,1; Plin., XXXIV, 72).
Poi era sopravvenuta la generazione più giovane, quella dei maestri che appartengono al periodo di transizione all'arte di Fidia. V'era così l'Afrodite di Calamide, cioè la famosa Sosandra dedicata da Callia durante il governo di Cimone (Paus., I, 23, 2; Inscr. Graec., I, 392, Suppl., p. 44). V'era una statua in bronzo di guerriero con l'elmo, opera di Cleita, figlio di Aristocle (Paus., I, 24, 3; VI, 20, 14). E in bronzo v'erano di Mirone il Perseo (Paus., I, 23, 7) e il gruppo di Athena e Marsia (Paus., I, 24,1; Plin., XXXIV, 57). Ma forse erano di lui anche il gruppo di Teseo e del Minotauro (Paus., I, 24,1) e quello di Eretteo e di Eumolpo (Paus., I, 27, 4; IX, 30,1). E sull'Acropoli un tempo era stata la sua vacca, bronzo di famosa naturalezza (Tzetz., Chiliad., VIII, 373).
Infine era sorto Fidia, e da lui, dai suoi compagni e da altri artisti contemporanei ma di altra origine e di altra scuola l'Acropoli ricevette il maggior numero delle sue statue.
Di Fidia, oltre alla Parthenos, v'erano altre due immagini di Athena: la Promachos e la Lemnia (Paus., I, 28, 2). Una tradizione voleva che la Promachos fosse stata innalzata col bottino di Maratona, un'altra invece che fosse stata creata con la porzione ateniese del comune bottino greco delle guerre persiane. Essa si trovava nella parte occidentale dell'Acropoli dietro i Propilei. Era di bronzo e misurava circa 7.50 in altezza. Era rappresentata combattente, e l'estremità della lancia e la punta del cimiero rutilanti al sole erano il primo saluto della patria al navigante che avesse girato il capo Sunio. La Lemnia, anch'essa in bronzo, avrebbe tratto il suo epiteto dall'essere dono votivo di coloni ateniesi inviati a Lemno nel 451-447 a. C., ma non si ha certezza su tale avvenimento. E di Fidia v'era sull'Acropoli anche l'Apollo Parnopios (Paus., I, 24, 8), statua in bronzo che si voleva fosse stata dedicata con tale epiteto perché il dio aveva tenuto lontano dal paese un'invasione di cavallette (πάρνοπες) che infestavano la terra. Dubbio è se fosse opera sua una civetta, animale sacro di Athena e simbolo della città (Hesych., γλαῦξ ἐν πόλει; Dion. Chrysost., XII, 6).
Del compagno di Fidia, Alcamene, erano, presso i Propilei, un Ermete Propylaios a forma di erma (Paus., I, 22, 8) di cui si è trovata una replica in Pergamo e, presso il torrione del santuario di Athena Nike, una tricorporea Ecate, nota sotto l'epiteto di Epipyrgidia (Paus., II, 30, 2). E v'era anche un gruppo di Procne e Iti (Paus., I, 24, 3), opera in marmo, che si è recuperata negli scavi dell'Acropoli.
Di Cresila, uno scultore originario di Creta, v'era il ritratto di Pericle Paus., I, 25,1; 28, 2; Plin., XXXIV, 74), che è stato riconosciuto in copia in un'erma del Museo Vaticano in Roma, e v'era una statua di Ermolico, figlio di Diitrefe (Inscr. Graec., I, 402; Paus., I, 23, 3 segg.), rappresentato come un ferito a cui vengono meno le forze.
A Licio, il figlio di Mirone, si dovevano le statue dei Dioscuri che stavano sui due pilastri di testata della fronte occidentale dei Propilei (Paus., I, 22, 4; Inscr. Graec., I, Suppl. n. 418 h, p. 183 s.) e una figura di fanciullo che teneva un bacino da acqua per lustrazioni (Paus., I, 23, 7).
Era opera di Strongilione una colossale figura del cavallo di Troia, dal quale si affacciavano Menesteo e i figli di Teseo, Acamante e Demofonte, eroi ateniesi, e Teucro figlio di Aiace, eroe di Salamina (Paus., I, 23, 8; Inscr. Graec., I, 406); si sono ritrovati dei blocchi della base con l'iscrizione dell'artista e del dedicante Cheredemo.
Allo scultore Dinomene si dovevano le statue di Io e di Callisto, eroine ambedue amate da Zeus e odiate da Era, l'una mutata in vacca, l'altra in orso (Paus., I, 25, 1).
Unica e famosa creazione di Stippace di Cipro era la statua dello Splanchnoptes, forse immagine di una persona addetta al culto, e che rappresentava un giovine in atto di arrostire delle viscere e di soffiare sul fuoco con le gote gonfie. In età posteriore si voleva riconoscervi l'operaio di Pericle, caduto dall'alto e sanato da Athena (Plin., XXII, 44).
Infine, per quanto si sia voluta mettere in dubbio l'attribuzione è da ricordare che presso l'ingresso dell'Acropoli si additava un rilievo rappresentante le Cariti o Grazie (Paus., I, 22, 8) di cui si voleva autore Socrate. Non è inverosimile che il grande filosofo avesse appreso in gioventù a lavorare di scultura nella bottega del padre Sofronisco, che era un marmorario.
Di altre statue e di altri gruppi si conosce solo il soggetto e talvolta il dedicante, mentre se ne ignora l'artista. Così dei primi anni dopo l'incendio dell'Acropoli, se non salvatosi dal periodo prepersiano, era il gruppo di Antemione, figlio di Difilo, in cui egli era rappresentato accanto al suo cavallo da corsa (Arist., Ath. Pol., VII, 4; Poll., VIII, 131). E i figliuoli di Temistocle avevano innalzato un'immagine in bronzo di Artemide Leucofriene la dea onorata nella città di Magnesia (Paus., I, 26, 4). Un palladio dorato era stato dedicato da Nicia, il generale ateniese delle guerre del Peloponneso (Plut., Nic., 3, 3). Una dedica di Pericle o almeno del suo tempo dobbiamo ritenere la statua del padre Santippo, che aveva combattuto contro i Persiani a Micale nel 479 a. C. (Paus., I, 25,1). Se ne è stata giustamente riconosciuta una replica nell'Anacreonte Borghese (Gliptoteca Ny-Carlsberg, Copenaghen), egualmente ai decennî intorno alla metà del sec. V a. C. deve riportarsi una statua del poeta che si trovava accanto a quella di Santippo e che lo rappresentava nell'ebbrezza del vino e del canto (I, 25,1). Pur dovendo essa appartenere al secolo V, d'incerta data è la statua del pancraziaste Ermolico, figlio di Eutino (I, 23, 10) che era morto in un combattimento tra gli Ateniesi e gli abitanti di Caristo verso il 472 a. C. (Herod., IX, 105). Nella seconda metà del secolo dovette essere innalzata la statua di Formione, lo stratega del tempo di Pericle (Paus., I, 23, 10). Invece una dedica della fine del secolo dovettero essere le statue di Tolmide, navarca ateniese durante la guerra del Peloponneso, e di suo figlio, l'indovino Teeneto (I, 27, 5).
Vi erano poi statue di cui non è possibile neanche indicare l'età, per quanto sia da presumere che appartengano a questo secolo. Erano particolarmente gruppi mitici: Frisso che sacrifica l'ariete, il piccolo Eracle che lotta contro i serpenti, Athena che nasce dalla testa di Zeus, Athena in gara con Posidone (Paus., I, 24, 3), Eracle che combatte con Cicno (I, 27, 6), Teseo che lotta contro il toro Maratonio (I, 27, 10). Forse al mito calidonio apparteneva una figura isolata di cinghiale (I, 27, 6). Invece immagini simboliche, scelte anche per la bellezza della loro forma naturale, dovevano essere alcune figure di animali, quali il toro dedicato dall'Areopago (I, 24, 2) e un ariete in bronzo (Hesych., s. v. ἀσέλγεια). E anche di esse ignoriamo la precisa età.
Finalmente si deve pensare che dopo la costruzione dei Propilei siano state raccolte nell'edificio della sua ala settentrionale che appunto per questo prese il nome di Pinacoteca, alcune pitture di Polignoto (I, 22, 6) che dovevano prima trovarsi in altre parti dell'acropoli. Esse erano tutte di soggetto omerico. Vi erano Ulisse con l'arco di Filottete e Diomede col Palladio; vi era l'uccisione di Egisto da parte di Oreste, e da parte di Pilade quella dei figli di Nauplio accorsi in suo aiuto: vi era il sacrificio di Polissena sulla tomba di Achille, v'era Achille a Sciro tra le figlie del re Licomede e v'era l'incontro di Ulisse e Nausicaa. Insieme alle pitture di Polignoto o poco più tardi deve essere stata collocata nella Pinacoteca un'immagine di Alcibiade e v'era nel quadro un'indicazione dei cavalli con cui egli aveva ottenuto la vittoria nella corsa a Nemea (Paus., I, 22, 7). È probabile che egli fosse rappresentato sulle ginocchia di Nemea personificata e che la pittura fosse opera di Aglaofonte, figlio di Aristofonte, fratello di Polignoto (Athen., XII, 534 d; Plut., Alcib., 16). Nel sec. IV a. C. venivano accolti nella Pinacoteca anche un Palestrita dipinto da Timeneto (Paus., I, 22, 7) e due personificazioni della sponda marina, Paralos e Hammonias, opera di Protogene (Plin., XXXV, 101).
Di fronte a tanto rinnovamento sontuoso degli edifici sul pianoro dell'Acropoli non potevano certo restare abbandonate le sue pendici, particolarmente quella meridionale. Così si vuole che tra il 421 e il 415 a. C. sia stato dedicato da Nicia, il generale della guerra del Peloponneso, un nuovo tempio a Dioniso (Paus., I, 20, 3; Plut., Nic., 3, 3), a S. di quello più antico. Ne rimangono solo le fondamenta di breccia (21,95 × 9,30). Era un tempio senza peristilio e con un vestibolo a colonne sulla fronte orientale (8, 10 × 10,50). La statua del culto, di oro ed avorio, era opera di Alcamene. Non si sa se fossero del vestibolo o della cella le pareti ornate con pitture tratte dal mito di Dioniso: Efesto ebbro condotto da Dioniso nell'Olimpo per liberare Era dai lacci invisibili del suo trono d'oro, Penteo e Licurgo puniti cla Dioniso, Arianna dormente abbandonata da Teseo e trovata da Dioniso.
Ad un privato, Telemaco, non altrimenti conosciuto, si deve nel 420 a. C. la fondazione del santuario di Asclepio e Igiea, che si trova ad occidente del teatro (Inscr. Graec., II, 3, 1649). Prima già esisteva un altare dedicato alle due divinità (II, 1350, 3) e può anche essere che questo culto avesse preso origine intorno ad una fonte salutare, forse quella di cui più sopra sono stati ricordati il recinto e l'iscrizione. Ma solo in questi ultimi decennî del secolo dovettero essere qui apprestate quelle costruzioni che erano necessarie per il culto di Asclepio, giacché esso non consisteva soltanto in riti religiosi, ma anche nel trattamento miracoloso dei malati che ricorrevano al dio. Certo si diede in Atene questo sviluppo al santuario di Asclepio per imitazione di quello sontuoso di Epidauro donde il culto era appunto venuto. Ma che al mordace spirito ateniese non sfuggisse quanto vi fosse di ciurmeria in questo culto, lo si legge nell'irriverente ma comica scena del Pluto di Aristofane, in cui la Ricchezza, che appare cieca agli uomini, viene appunto condotta nel santuario perché recuperi la vista. E cosi nel recinto di Asclepio si riconoscono un altare, un tempio e un portico. Dell'altare (3,5 × 6) e del tempio (6 × 10,50) si conservano solo le fondamenta per la maggior parte costituite da blocchi di poros. Il portico è addossato alla parete della roccia e dava accesso alla fonte salutare che ancor oggi sgorga in una piccola grotta a cupola. Nel portico doveva aver luogo l'incubazione dei malati: mentre dormivano appariva in immagine il dio e li guariva. La struttura del portico (breccia nelle fondamenta, poros per l'elevato, marmo dell'Imetto per il suo rivestimento) è quella comune per gli edifici del secolo IV a. C. e per il periodo ellenistico, e quindi esso non appartiene forse alla prima fondazione di Telemaco. Il portico (49,50 × 9,90) era ornato sulla fronte di diciassette colonne doriche ed era diviso in due navate da un colonnato interno più rado, forse ionico. Poteva avere un piano superiore. Ad ogni modo era chiuso con pareti nella sua estremità occidentale e là una scala conduceva su un ripiano della roccia in cui esiste ancora una fossa (diam. 2,70, profond. 2,20) foderata di blocchi poligonali di calcare dell'Acropoli, orlata di blocchi di breccia e circondata da quattro basi di colonne che dormivano sostenere una copertura. Non è improbabile che fosse destinata ai serpenti che tanta parte avevano nel culto di Asclepio e nella cura dei malati.
Siccome documenti epigrafici tardi riguardanti il santuario parlano di un tempio più antico, che fa presupporre quindi un tempio più recente, si è creduto di poter additare come parte del santuario ad occidente di questi edifici un altro portico (28 × 14) in poros e marmo dell'Imetto con colonne ioniche sulla fronte e un altro piccolo tempio (5,06 × 4,25). E poiché v'è anche qua una fonte, quella ricordata nel periodo di Temistocle, il santuario avrebbe avuto analoghi edifici nella parte orientale e nella parte occidentale. Difficile per altro è dire quali fossero i più antichi: il portico occidentale sembra il più recente, mentre più recente sembra il tempietto orientale.
Ad occidente del santuario di Asclepio esistono solo poche mura di recinzione. Qui doveva trovarsi il tempio di Themis dinanzi al quale era collocata la tomba di Ippolito, il figlio di Teseo (Paus., I, 22,1). Al di sopra della tomba di Ippolito, cioè più in alto sulla roccia, v'era un santuario di Afrodite, che si voleva fosse stato fondato da Fedra. Sembra tuttavia che debba distinguersi da un altro tempio di Afrodite, quello dell'Afrodite Pandemos, che si diceva fondato da Teseo, quando questi aveva riunito in una sola città gli Ateniesi di tutti i demi (I, 22, 3), e che doveva trovarsi egualmente in questa regione, ma più ad occidente, al disotto dell'ingresso dell'Acropoli. Al tempio di Afrodite Pandemos appartiene un fregio scoperto in queste vicinanze: vi sono scolpite delle colombe che sorreggono col becco una collana. Egualmente sulla pendice occidentale dell'Acropoli debbono cercarsi i santuarî della Terra Kourotrophos e di Demetra Chloe (I, 22, 3). Invece erano già fuori delle vere e proprie pendici dell'Acropoli l'Eleusinion (I, 14, 3) cioè il santuario di Demetra e Kore, che può ricercarsi verso l'angolo di SO., e l'Anakeion o santuario dei Dioscuri (I, 18, 2) che era in vicinanza dell'Aglaurion. Così egualmente al di sotto del versante settentrionale dell'Acropoli v'era il Prytaneion, il luogo che conteneva l'Estia, cioè il focolare sacro della città e dove si conservavano le antiche leggi di Solone (I, 18, 3).
Infine, forse negli ultimi anni del sec. V a. C. o ancor meglio nel principio del IV, certo sotto l'influenza della tragedia Ion di Euripide, che aveva collocato nelle grotte di Pan e delle Ninfe l'incontro di Apollo e Creusa e la nascita di Ion, capostipite degli Ionî e quindi degli Ateniesi, fu introdotto il culto di Apollo Pythios nella pendice settentrionale dell'Acropoli con l'epiteto di Apollo ὑπὸ Μακραῖς, cioè sotto "le lunghe rocce" oppure ὑπ' "Ακραις, o ὑποακραῖος, cioè sotto l'Acropoli. Fu allora destinata ad Apollo la grotta più occidentale, quella più alta e più larga, ampiamente visibile, mentre a Pan rimase quella più orientale più profonda, più bassa e dallo stretto ingresso, quella dove del resto era stato sin dal principio posto il suo culto. Dinanzi alla grotta di Apollo vi è traccia di un altare, e nella sua parete di fondo degli incavi della roccia erano destinati ad accogliere tabelle votive ed iscrizioni. Dalle iscrizioni conservate risulta che ad Apollo Hypoakraios rendevano particolare culto, del collegio degli arconti, i tesmoteti.
Età di Licurgo. - Con la fine del sec. V a. C. può dirsi compiuta l'opera di abbellimento dell'Acropoli iniziata da Pericle. Poco più di spazio libero rimaneva tanto sulla piattaforma quanto sulle pendici, e mai più Atene ritrovò nella politica, nell'arte, nella ricchezza dello stato e dei cittadini un insieme di condizioni così felici da poter dare all'Acropoli un nuovo periodo di splendore. Chi del resto avrebbe potuto mai gareggiare con la volontà creatrice di Pericle, con il genio inventore di Fidia? In realtà da questo momento comincia per l'Acropoli il periodo in cui essa vive del suo grande passato. Statisti ateniesi, principi stranieri, cittadini privati potranno donarle qualche nuovo edificio o qualche nuova statua, ma sostanzialmente l'Acropoli rimane quella che era stata creata da Pericle e da Fidia. Ed è singolare che l'opera di questi nuovi benefattori s'indirizza non più verso i templi ma verso le costruzioni che avevano rapporto col teatro: alla pietà verso gli dèi si sostituisce il godimento per gli uomini.
Ed appunto al teatro si rivolse quasi tutta l'attività costruttiva di Licurgo, alla cui provvida amministrazione finanziaria Atene dovette tra il 338 e il 326 a. C. un periodo di notevole splendore. Con altre analoghe costruzioni nella restante città (stadio, palestra) egli mostrò di essere l'accorto uomo di stato che sa che cosa si deve donare al popolo per giungere al suo cuore. E l'esempio fu ripreso in età romana da Erode Attico.
Poco si aggiunse all'Acropoli nei decennî che corrono dal principio del sec. IV a. C. agli anni di Licurgo. Lo scultore Leocare creò la statua di Zeus Polieus (Paus., I, 24, 4). Una notizia non controllabile (Callistrat.. Stat., 11) ricorda, come opera di Prassitele, la statua di bronzo di un giovane Diadumeno. Statue furono innalzate a Conone e a suo figlio Timoteo (Paus., I, 24, 3; Inscr. Graec., II, 3, 1360) come anche allo stratega Ificrate (I, 24, 7). A questi decennî, anziché risalire al sec. V, deve appartenere la statua di vivo realismo con cui lo scultore Demetrio di Atene aveva rappresentata la vecchia Lisimache che era stata sacerdotessa di Athena per sessantaquattro anni (Plin., XXXIV, 75): essa si trovava nell'Eretteo (Paus., I, 27, 4). Opera di Stennide e di Leocare erano le statue di un gran monumento famigliare di due privati, altrimenti ignoti, Pandete e Pasicle (Inscr. Graec., II, 3, 1395).
E cominciano i doni di principi stranieri: del bottino per la vittoria sul Granico (334 a. C.) Alessandro il Grande dedicava sull'Acropoli trecento armature persiane (Arr. Anab., I, 16, 7).
Licurgo dette al teatro (tav. LXXV) una grandezza e una magnificenza di costruzione che sostanzialmente si sono salvate attraverso i secoli. Quale estensione e quale aspetto abbia avuto il teatro tra quel primo periodo pisistrateo, in cui, come già fu ricordato, la sua parte costruita si limitava ad un'orchestra circolare e ad un muro di cinta, e il periodo di Licurgo non si può più dire. Realmente non conosciamo il teatro in cui furono rappresentate le tragedie di Eschilo, di Sofocle e d'Euripide e le commedie di Aristofane. Infatti documenti epigrafici e dati struttivi inducono a porre nell'età di Licurgo la costruzione del teatro quale esso si presenta ora, anche se deve riconoscersi che tale costruzione fu iniziata prima, forse verso la metà del sec. IV a. C. e che essa si valse anche di qualche parte già esistente nel sec. V.
Un potente muro di recinzione con fondamenta e fodera in blocchi rettangolari di breccia e con paramento esterno in poros sorreggeva la cavea del teatro soprattutto dalla parte occidentale dove essa confinava ed era imminente sul santuario di Asclepio. Sul lato occidentale la parte più bassa della cavea aveva dovuto rispettare il recinto dell'odeo di Pericle che si inseriva in essa ad angolo retto. La cavea si arrampica sulla pendice dell'Acropoli per circa 30 metri in altezza ed ha un'estensione massima che all'incirca misura in lunghezza 100 m. e in larghezza 90. Due corridoi (διαζόμτα) orizzontali dividono lo spazio destinato agli spettatori in tre sezioni, che alla loro volta sono divise in cunei (κερκίδες) da scalette verticali: 13 cunei nella sezione inferiore, 20 nelle sezioni superiori. I sedili erano in poros e si calcola che i loro 78 ordini potessero offrire posto a circa 15.000 spettatori. Attraverso il corridoio superiore passava una strada che faceva il giro dell'Acropoli (περίπατος).
Ai piedi della cavea, e divisa da essa da un canale coperto, si estendeva l'orchestra, cioè il piano destinato al coro. La sua forma è quella di un semicerchio allungato, ha un diametro di 19,61. Nel mezzo doveva esservi l'altare ϑυμέλη) di Dioniso.
Sullo stesso piano dell'orchestra faceva fronte allo spettatore la scena che era una costruzione stabile formata da una vasta sala (lungh. 46,50, largh. 6,40). Il prospetto della scena o προσκήνιον anche esso era una costruzione stabile a colonne doriche collocate dinanzi ad una parete di fondo, nella quale si aprivano tre porte. Ai lati del proscenio v'erano due brevi avancorpi egualmente ornati a colonne che fungevano da quinte (παρασκήνια). Tra essi e il muro di sostegno della cavea v'erano i corridoi di accesso all'orchestra e al teatro (πάροδοι). L'edificio della scena era diviso in due navate da una serie di pilastri ed aveva forse alle due estremità dietro i παρασκήνια delle scale d'accesso ad un piano superiore. Forse a qualche macchina scenica per questo piano serviva un'armatura in legno stabilita al centro della parete di fondo dell'edificio. La sala della scena serviva alla conservazione degli apparati scenici e all'adunata degli attori e del coro. Invece agli spettatori, soprattutto per riparo in caso di piogge improvvise, era riservato un lungo portico (63 × 9,5), addossato alla scena (Vitr., V, 9,1). Il materiale (breccia per le fondamenta e per l'interno, poros per il rivestimento, marmo dell'Imetto per la decorazione) indica che fu costruito insieme alla scena. Alla sua estremità occidentale il portico era venuto a piantarsi sull'orlo dello stilobate del tempio più antico di Dioniso facendo del tempio un suo annesso, forse con comunicazione interna.
Nel teatro erano state collocate le statue in bronzo dei tre grandi tragici e quella di Menandro (Paus., I, 21, 1 seg.), oltre a statue di poeti minori e di uomini politici ed oratori come Demostene e Licurgo.
Periodo ellenistico (323-86 a. C.). - È questo il periodo che va dalla morte di Alessandro all'occupazione dell'Acropoli per parte di Silla. Il recinto di Dioniso ricevette ora alcuni dei suoi più sontuosi e ricchi monumenti coregici, vale a dire monumenti che i cittadini vincitori nell'allestimento delle gare drammatiche innalzavano in questo recinto o sulla via dei Tripodi che dal recinto conduceva sino al Pritaneo, per collocarvi in onore del dio il tripode di bronzo che avevano ricevuto come premio della vittoria.
Dopo una vittoria del 319 a. C. fu innalzato il monumento coregico di Trasillo. Esso trovavasi al disopra del teatro. Nella roccia dell'Acropoli una grotticella naturale era stata riadattata a cella con apertura quadrangolare e dinanzi ad essa era stato disposto un piccolo portico dorico in marmo pentelico (lungh. 7,5, alt. 6,8). Al disopra di questo era collocato il tripode. Trasicle, il figlio di Trasillo, per due vittorie che ottenne come agonoteta nel 271 a. C., rialzò con un attico il monumento paterno e vi collocò al disopra, nel mezzo, tra due basamenti angolari per i tripodi, una statua seduta di Dioniso (ora al Museo Britannico, Londra).
Per una vittoria ottenuta nel 219 a. C., fu innalzato il monumento coregico di Nicia. Le sue fondamenta possono additarsi all'estremità orientale del portico detto di Eumene da cui fu appunto distrutto; il materiale del suo elevato è finito, quello di marmo pentelico nella parete della porta di Fl. Settimio Marcellino ai piedi dell'Acropoli, quello in calcare e in poros nei torrioni che la fiancheggiano. Il monumento doveva avere la forma di un tempio dorico (13 × 24) senza peristilio e con 6 colonne sulla fronte.
A questo medesimo periodo ellenistico debbono riportarsi le due alte colonne corinzie isolate (v'è traccia di una terza) che più su del monumento di Trasillo si elevano dinanzi al muro dell'Acropoli. I loro capitelli triangolari indicano che dovevano sostenere anch'esse dei tripodi coregici.
Ma lo stato non ha più né la volontà né la capacità di dare monumenti all'Acropoli. Sulla piattaforma di essa nessun edificio fu costruito in questo periodo. Di statue onorarie è menzionata una di Olimpiodoro, stratega valoroso nella lotta contro Demetrio Poliorcete (287 a. C.). Due donarî solo sono ricordati e sono di principi stranieri.
Uno degli Attali di Pergamo, forse Attalo II (159-138 a. C.), anziché Attalo I, dedicò un vasto insieme di piccole statue rappresentanti la Gigantomachia, l'Amazonomachia, la battaglia di Maratona e la sconfitta dei Galati (Paus., I, 25, 2). Dovevano essere state collocate presso il muro meridionale dell'Acropoli al disopra del teatro. Copie forse pergamene e contemporanee di figure isolate dei diversi gruppi sono conservate in varî musei d'Europa.
Là vicino, cioè anch'essa sul muro dell'Acropoli al disopra del teatro e in vista di tutta la città, trovavasi una grande egida di bronzo dorato, con testa di Gorgone al centro, che era stata dedicata da un Antioco di Siria (Paus., I, 21, 3; V, 12, 4), forse Antioco IV Epifane (175-164 a. C.).
Periodo romano (86 a. C. -180 d. C.). - La potenza vittoriosa di Roma che si andava affermando in Oriente aveva già dal sec. II a. C. attratto Atene nell'orbita della sua amicizia. Tuttavia gli Ateniesi nell'88 a. C. si lasciarono indurre a parteggiare per Mitridate contro Roma. Ed essendo la città divenuta il punto di appoggio della potenza di Mitridate in Grecia, Silla l'assediò e si impadronì dell'Acropoli nell'86 a. C. Anche se la parte bassa fu danneggiata dalle operazioni di guerra, i monumenti dell'Acropoli non ebbero a soffrirne grandemente. La maggiore distruzione l'apportò all'Acropoli il suo difensore Aristione, giacché egli incendiò l'odeo di Pericle per impedire che i Romani utilizzassero come materiale di assedio il molto legname della sua costruzione. Ben presto per altro l'odeo fu ricostruito dal principe di Cappadocia Ariobarzane II Filopatore (63-51 a. C.) che ne dette l'incarico agli architetti C. e M. Stallio e Menalippo (Vitr., V, 9,1; Inscr. Graec., III,1, 541).
Dopo la guerra mitridatica Atene sempre più decadde nella condizione di città amata e protetta per il suo passato. Romani illustri presero in questo la posizione che prima avevano avuto i principi ellenistici, ma durante l'età di Cesare questa benevolenza di Roma per Atene non fu rivolta a donarle nuovi monumenti. Invece Atene fu prodiga di statue onorarie a questi Romani benefattori. Tuttavia per l'Acropoli abbiamo notizia solo della dedica di due statue ad Antonio e Cleopatra (Cass. Dion., L, 15, 2), e si ha il dubbio che per esse fossero state adoperate, cambiandone l'iscrizione e la testa, due statue colossali di Eumene e di Attalo (Plut., Ant., 60, 2) che dovevano trovarsi presso il donario pergameno.
Le condizioni mutarono con l'età di Augusto e con lo stabilirsi dell'Impero. Roma, i suoi principi, i suoi uomini illustri furono innalzati alla gloria dell'Acropoli, talvolta dedicando loro nuovi monumenti, talvolta riadattando monumenti più antichi. Ma i primi non poterono modificare gran che l'aspetto dell'Acropoli.
Il più importante tra essi fu il tempio di Roma ed Augusto (Inscr. Graec., III,1, 63) che fu innalzato di fronte al Partenone. Fu scelto per esso la forma italica del tempio circolare (diam. 7, 48) e vi fu adoperato il marmo pentelico. Il peristilio era formato da 9 colonne ioniche. Si è in dubbio se dentro il colonnato vi fosse la cella o un semplice altare. Si suole attribuirlo all'età di Augusto, ma il carattere della costruzione lascia adito all'ipotesi che possa essere stato almeno rinnovato nell'eta di Adriano, al che non portano difficoltà né i caratteri né il contenuto dell'iscrizione dedicatoria.
Ad Agrippa, il grande generale di Augusto, fu innalzato un monumento (Inscr. Graec., III,1, 575) su alta base di marmo pentelico e marmo dell'Imetto (alt. 13,40) all'ingresso dell'Acropoli a lato della Pinacoteca sulla linea del torrione di Athena Nike. A giudicare dalle tracce di posa sembra che Agrippa fosse su una quadriga. È stata fatta l'ipotesi che il basamento sia più antico, appartenga cioè al monumento di un principe ellenistico: non è per altro sicuro. Invece è certo che, per onorare Germanico durante la sua dimora in Atene (18 d. C.), si mutò l'iscrizione di uno dei Dioscuri che sormontavano i pilastri dei Propilei, e che le basi del gruppo di Pasicle e di Pandete furono usate per un gruppo di Augusto, Tiberio, Druso, Germanico, a cui fu aggiunto dopo anche Traiano (Inscr. Graec., III, 447-450, 462). Non si sa se a tale scopo furono riadoperate anche alcune delle statue mutandone la testa. Nel 61 d. C., nell'epistilio orientale del Partenone, al disotto di scudi che si ritiene fossero stati dedicati da Alessandro, fu affisso con grandi lettere di bronzo un decreto in onore di Nerone.
Alla passione di Nerone per gli spettacoli, forse anche ad una sua munificenza, si dovette una trasformazione della scena del teatro di cui rimane indicazione in un'epigrafe (Inscr. Graec., III, 358). Durante il periodo ellenistico la scena aveva subito un piccolo mutamento, giacché sembra che fossero state ridotte e quindi portate più in dietro le fronti dei paraskenia e portato invece più innanzi il proscenio, ma la scena era rimasta sul medesimo piano dell'orchestra. Invece fu ora ricostruito più sontuosamente e con maggiore altezza l'edificio stabile della scena e fu sollevato al disopra dell'orchestra il palco destinato alla recitazione (λογεῖον). Si vuole che a tale ricostruzione romana si debbano, oltre alle ricche modanature architettoniche, delle grandi statue di Sileni e Papposileni che fungevano da telamoni. Ma lo stile neoclassico di queste sculture, come anche quello delle lastre a rilievo che decoravano la fronte del palco (tav. LXXVI) e che rappresentavano scene del mito di Dioniso (nascita di Dioniso, Icario e Dioniso, Teseo e Arianna, Dioniso nel suo trono ai piedi dell'Acropoli), fanno rimanere in dubbio se una seconda ricostruzione della scena romana con tale abbellimento non debba piuttosto riportarsi all'età di Adriano. Ad ogni modo non può essere disgiunta da questo rinnovamento della scena la collocazione, nella prima fila del teatro, di sontuosi troni in marmo destinati ai sacerdoti e ai magistrati che avevano diritto di proedria. Il più grande e il più decorato è quello centrale destinato al sacerdote di Dioniso. Si ritrova qua lo stesso stile neoclassico nei bassorilievi che lo ornano (Sileni fra tralci di vite, grifi e Arimaspi, Genî alati e galli).
Certo ad Adriano, che predilesse Atene e tre volte vi dimorò a lungo tra il 125 e il 133 a. C., gli Ateniesi grati resero straordinario onore nel teatro innalzandogli una statua in ogni cuneo (Inscr. Graec., III, 464, 466 segg.). E ne innalzarono una persino nella cella del Partenone. Ma se la munificenza di Adriano si palesò con sontuose costruzioni nel resto della città, dove perfino stabilì con un vasto quartiere una nuova Atene da contrapporsi a quella fondata da Teseo, non regalò nuovi edifici all'Acropoli. Anche qualora alla sua età appartenga il tempio di Roma ed Augusto, non fu dedica sua ma del popolo ateniese.
Per altro l'opera di rinnovamento e di abbellimento che egli aveva cominciato per la città fu continuata da un ricco cittadino ateniese, statista e filosofo, da Erode Attico, che aveva per moglie una romana, Annia Regilla. E questa volta l'opera raggiunse anche l'Acropoli.
Appunto in memoria della moglie morta, Erode Attico innalzò dopo il 161 d. C. sulla pendice meridionale dell'Acropoli verso il lato occidentale un magnifico odeo (Paus., VII, 20, 6), in simmetria a quello di Pericle rinnovato da Ariobarzane che stava verso il lato orientale (tav. LXXVII). La pendice non si era qui prestata come per il teatro ad una adagiata collocazione della cavea sulla roccia naturale. Per creare questa cavea alta e stretta fu adoperata nel riempimento la struttura romana dell'opera cementizia. I sedili invece furono fatti in marmo dell'Imetto. La cavea (diam. 76) era divisa in due sezioni da un corridoio orizzontale. Le venti file di gradini della sezione inferiore erano divise in 5 cunei, le 13 della sezione superiore in 10. Si calcola che vi fosse posto per 5000 spettatori. Un portico correva in alto intorno a tutta la cavea. L'orchestra (19 × 12) era coperta di lastre di marmo bianco e grigio dell'Imetto. Tre scalette davano accesso dall'orchestra al palco. E il palco faceva parte dell'edificio della scena che era in poros rivestito di marmo. La scena era a tre piani e si apriva nel fondo con tre porte fiancheggiate da nicchie. Un avancorpo sulla strada al di dietro della scena doveva costituire l'ingresso principale all'odeo e comprendere le sale per il deposito degli apparati scenici e per l'adunata degli attori. Una notizia antica parla di un meraviglioso soffitto di cedro (Philostr., Vit. soph., II,1, 5) ma è da escludere che esso coprisse l'intera costruzione. Il largo uso della volta e dell'arco nell'odeo di Erode Attico non soltanto rivela che l'architettura rettilinea greca ha ormai ceduto alla curvilinea architettura romana, ma pone un singolare segno della nuova civiltà sotto l'orizzonte dell'Acropoli dominato dalle classiche sagome angolari degli edifici di Pericle.
Contemporaneamente all'odeo o poco dopo fu costruito il portico detto di Eumene che si distende sulla pendice meridionale dell'Acropoli (163 × 17,65). L'errata interpretazione di un corrotto passo di Vitruvio (V, 9,1) ha fatto vedervi una costruzione del principe pergameno Eumene II. La struttura lo rivela chiaramente romano. Per sostenere la spinta che doveva venirgli dalla pendice retrostante era stato costruito un muro di fondo ad archi, in breccia e in poros. Questo era nascosto da un rivestimento in poros e in marmo dell'Imetto. Il portico era forse a due piani, ma non si conosce l'ordine che era stato in essi adoperato. Alla sua estremità occidentale il portico è in comunicazione con l'odeo, all'estremità orientale, dove per la sua costruzione si dovette togliere di mezzo il monumento di Nicia di cui solo rimane qualche avanzo delle fondamenta, si arresta poco prima di raggiungere la cinta del teatro. Certo il portico era destinato agli spettatori del vicino odeo, sulla cui costruzione è stato infatti allineato, ma doveva anche costituire un comodo passaggio coperto di comunicazione tra l'odeo e il teatro.
Decadenza e distruzione. - Gli edifici di Erode Attico furono l'ultimo dono della civiltà e dell'arte all'Acropoli. E questa conservava ancora per intero la ricchezza e lo splendore dei suoi monumenti allorquando durante gli anni che precedettero e seguirono la costruzione dell'odeo, cioè tra il 143 e il 170 d. C., Pausania ce ne lasciò un'ampia se non completa ed accurata descrizione nei capitoli XX-XXVIII del I libro ('Αττικὰ) della sua Περιήγησις τῆς ‛Ελλάδος, dove si valse delle opere, andate per noi perdute, di due predecessori suoi che vissero nel II sec. a. C., di Polemone d'Ilio che aveva scritto quattro libri intorno ai doni votivi innalzati sull'Acropoli, uno dei quali sembra che fosse dedicato alle pitture della Pinacoteca dei Propilei, e di Eliodoro di Atene che scrisse uno o più libri sui monumenti dell'Acropoli.
Poi si inizia la decadenza. Non sono infatti da considerare una bell'aggiunta all'Acropoli la parete a porta e i due torrioni laterali (alti circa m. 9) che Fl. Settimio Marcellino (Inscr. Graec., III, 826, 398) nella prima metà del sec. III d. C. innalzò ai piedi dei Propilei (tav. LXXVII). È questa la porta che, dall'archeologo francese che la dissotterrò, è chiamata porta Beulé ed è la porta nella quale andò a finire per la maggior parte il materiale del monumento di Nicia, distrutto pochi decennî prima nella costruzione del portico detto di Eumene. Contemporanea a questa costruzione deve essere la scalinata in marmo che fu disposta sulla pendice dell'Acropoli tra la porta e i Propilei e che per il suo allineamento ne presuppone l'esistenza. Questa scalinata, messa insieme con materiale di secondo impiego, non può infatti risalire all'età di Tiberio e di Claudio come prima si voleva, sulla base di iscrizioni che riguardano i custodi dell'Acropoli e i guardiani della sua porta, la quale per altro è quella dei Propilei. Anche se non possiamo considerarla una vera e propria opera di difesa, la porta di Marcellino indica che per l'Acropoli si chiude l'èra in cui era stata santuario e comincia quella in cui tornerà fortezza. Sono alle porte di Atene le incursioni barbariche e una prima orda di Eruli nel 267 d. C. s'impadronisce della città.
Così anche non si può considerare un abbellimento del teatro il nuovo palco che fece costruire, alla fine del III, forse anche al principio del sec. IV a. C., l'arconte Fedro (Inscr. Graec., III, 239), male adoperando nella fronte di esso i rilievi con i miti di Dioniso e i Sileni accovacciati del più antico palco di età romana. È probabile anche che solo in questa tarda epoca l'orchestra del teatro sia stata trasformata in conistra per giuochi gladiatorî con una recinzione in lastre di marmo rincalzate di opera cementizia. Si accorda allo spirito dei tempi il fatto che l'ultima menzione di un'opera dell'Acropoli riguardi un rifacimento del teatro: il volto di Atene si fissava ilare sullo spettacolo vicino mentre in lontananza si addensavano le nubi foriere della sua rovina.
Cominciano intanto le spoliazioni a favore di Costantinopoli, la nuova capitale dell'Impero. Sotto Teodosio II (408-459 d. C.) fu trasportata a Costantinopoli l'Atena Parthenos di Fidia, forse sotto Giustiniano (527-565 d. C.) vi fu trasportata l'Atena Promachos.
Cominciano anche le distruzioni come conseguenza del trionfo della nuova religione. Al volgere dal sec. V al VI d. C. fu distrutto il santuario di Asclepio, dove certo si esercitava un culto taumaturgico, quanto mai in contrapposizione con lo spirito cristiano. Sul suo recinto sorsero più tardi cappelle e poi una chiesa e un monastero. Vero è che l'anima popolare che ritrova sempre sé stessa attraverso i secoli, nella ricerca di un bene materiale che può solo venirle dalla divinità, ha riacceso il lume della fede cristiana nella stessa grotta di Asclepio dove sgorgava la sua acqua salutare.
Ma per fortuna la nuova religione non tutto distrusse: essa disereda i vecchi dèi ed occupa qualcuno dei monumenti maggiori. Al tempo di Giustiniano il Partenone fu trasformato in chiesa di S. Sofia, più tardi fu dedicato alla Madonna. E in una chiesa fu anche trasformato l'Eretteo. Non solo queste trasformazioni presuppongono che fossero andati distrutti tutti i doni votivi che i templi contenevano, ma il nuovo rito, che poneva l'altare ad oriente richiese anche manomissioni delle strutture perché l'ingresso potesse aprirsi ad occidente. Nell'interno del Partenone fu rimaneggiato il colonnato della cella e fu aperto un accesso nella parete che la divideva dall'opistodomo. Nell'Eretteo fu stabilita una cripta. Divenuta Atene così una provinciale città bizantina, sull'Acropoli fu innalzato il palazzo dell'episcopo, certo a spese del materiale antico che essa offriva.
Ai secoli dopo il mille debbono riportarsi le pitture (figure di santi e medaglioni) di cui fu ornato il Partenone e di cui rimangono tracce nella parete occidentale.
Fondatosi l'Impero latino nel 1204, Atene divenne dominio franco e più che mai l'Acropoli dovette assumere carattere di fortezza per la difesa della città. Da questo periodo debbono essere cominciati i rabberciamenti e i rinforzi del muro di cinta, particolarmente del muro di Cimone; già prima, in periodo bizantino, deve essere stato costruito sul lato settentrionale quel tratto di muro che dalla porta di Marcellino si riattacca al torrione della Pinacoteca. E durante il periodo franco il Partenone divenne chiesa di rito latino.
Forse durante il dominio dei de la Roche, che tennero il ducato di Atene fino al principio del sec. XIV, fu costruita sull'ala meridionale dei Propilei la cosiddetta Torre Franca. E divenuti duchi di Atene gli Acciaiuoli, che tennero il dominio della città tra la fine del sec. XIV e i primi decennî del XV, i Propilei, dove forse già prima si erano stabiliti i de la Roche, costituiscono il nucleo del castello ducale. Frattanto, nelle lotte che si combatterono in questi anni intorno all'Acropoli, per le incursioni turche, molto ebbero a soffrire gli edifici della pendice: il teatro fu completamente interrato. E un muro che appunto dagli Acciaiuoli fu costruito a N. dell'Acropoli per chiudere dentro di esso la piccola parte della città che era ancora abitata, partendo dall'angolo di E. e ritornando all'angolo di O., completò, adoperandone i materiali, la distruzione di alcuni edifici tra cui l'odeo di Pericle.
Ma mentre Atene andava distruggendosi, lo spirito dell'umanesimo faceva rinascere in Occidente l'ammirazione per la città dalla quale, secondo la parola di Dante (Purg., XV, 99), ogni scienza era "disfavillata nel mondo" e cominciava verso di essa come verso una terra sacra la peregrinazione dei dotti. I primi sono gli Italiani. Nel 1395 il notaro Nicola da Martoni di Carinola, nel ritorno da un viaggio in Terra Santa, si ferma per un giorno ad Atene, visita l'Acropoli e la parte meridionale della città e la descrive. Nel 1436 e nel 1447 si ferma per più giorni ad Atene Ciriaco d'Ancona e descrive e disegna. Della sua relazione sono giunti solo frammenti, ma si conserva quel che riguarda i Propilei e il Partenone. Un terzo italiano di cui si ignora il nome, forse un veneto di Padova o di Venezia, vide e descrisse Atene verso il 1466, ma non poté entrare nell'Acropoli che era ormai in mano dei Turchi.
Difatti i Turchi, impadronendosi nel 1458 dell'Acropoli, iniziarono un dominio che doveva durare per circa quattro secoli. Nel palazzo dei duchi si stabilì il comandante della città e nell'Eretteo egli pose il suo harem. Forse poco dopo il 1480 il Partenone fu mutato in moschea e nel suo angolo di SO. fu costruito con materiale antico un minareto.
Per due secoli continuò una lenta decadenza dei monumenti dell'Acropoli. Poi vi furono gli avvenimenti fatali che più di ogni altro apportarono la sua distruzione. Nel 1645 la caduta di un fulmine sui Propilei, che erano stati ridotti a magazzino per polveri, determinò per l'esplosione la rovina di tutta la sua parte superiore. Nel 1687 per resistere all'assalto dei Veneziani che minacciavano l'Acropoli i Turchi costruirono dinanzi ai Propilei un nuovo bastione e adoperarono per esso i materiali del tempio di Athena Nike. Nel medesimo anno, durante l'assedio che i Veneziani sotto il comando di Francesco Morosini posero all'Acropoli, un colpo di mortaio cadendo sul Partenone, che aveva avuto anch'esso la sorte di essere adibito a magazzino di polvere, ne fece schiantare per l'esplosione le due ali del colonnato e le mura della cella dalla parte di settentrione e di mezzogiorno. Impadronitosi dell'Acropoli, il Morosini tentò di portar via come trofeo alcuni dei marmi del Partenone, ma desistette dall'impresa quando le figure centrali del frontone occidentale, per il mal pensato sistema di tirarle giù con le corde, caddero e si frantumarono.
Dopo questa breve parentesi dell'occupazione veneziana, tornata Atene in dominio dei Turchi, sempre più ebbero a soffrire gli avanzi dell'Acropoli per l'uso che se ne fece come materiale da costruzione, particolarmente per rafforzare le opere di difesa.
Nel 1802-1803 Lord Elgin, ambasciatore d'Inghilterra a Costantinopoli, ottenuto dal Sultano il permesso di portare via qualche marmo e qualche iscrizione, fece raccogliere e smontare da un suo incaricato la maggior parte della decorazione scultoria del Partenone. E così passarono in Inghilterra e dopo qualche anno entrarono nel Museo Britannico di Londra quasi tutte le sculture dei frontoni, gran numero delle metope del lato settentrionale e meridionale, tutto il fregio, salvo qualche lastra dispersa e salvo le lastre del lato occidentale, che sono ancora in posto. A questo pingue e pacifico bottino si aggiunse gran parte del fregio del tempio di Athena Nike, e si aggiunsero anche una delle statue femminili della loggetta delle Cariatidi e il Dioniso del monumento di Trasillo. Questo disordinato smantellamento delle sculture del Partenone avrebbe impedito di poterne riconoscere la loro precisa posizione sul tempio se non si fossero conservati i disegni che un altro ambasciatore a Costantinopoli, il francese Marquis de Nointel, ne aveva fatto prendere dagli artisti che lo accompagnarono in un viaggio ad Atene negli ultimi mesi del 1674.
Le ultime distruzioni l'Acropoli ebbe a soffrirle nel decennio più combattivo del risorgimento greco tra il 1821, l'anno in cui gl'insorti greci se ne impadronirono per la prima volta, e il 1833, l'anno in cui, costituito il regno di Grecia, i Turchi ne uscirono per l'ultima volta.
Da allora è cominciata l'opera pietosa del patriottismo greco e della scienza internazionale intorno alle illustri rovine.
Nel 1835-1836 fu distrutto il bastione turco dinanzi ai Propilei e il tedesco L. Ross ricostruì il tempio di Athena Nike con i marmi che ne furono recuperati.
Nel 1852 fu dissepolta dal francese Ch. E. Beulé la porta di Marcellino. Dal 1857 al 1858 fu liberato da K.S. Pittakis l'odeo di Erode Attico. Dal 1862 al 1865, sotto la direzione del greco A.S. Rhusopulos, fu scavato il teatro. Nel 1875 fu distrutta la Torre Franca dei Propilei. Ma solo negli anni 1885-1890, dopo parziali e saltuarî saggi compiuti nei decennî precedenti, la piattaforma dell'Acropoli e le sue pendici, liberate ormai da ogni costruzione franca e turca, furono sottoposte ad un minuzioso, metodico ed accurato lavoro di esplorazione. Cominciato dal greco Stamatakis, esso fu continuato sotto la direzione del greco P. Cavvadias e con l'assistenza dei tedeschi G. Kawerau e W. Dörpfeld. Principale risultato di questo scavo fu il ritrovamento della colmata persiana che fornì, parziale ma preziosa, la conoscenza dell'Acropoli e dell'arte attica anteriore all'incendio del 480 a. C.
Dopo lo scavo, cominciò, sotto la direzione dell'architetto greco N.M. Balanos, il restauro dei monumenti. E nei primi decennî di questo secolo furono restaurati i Propilei e l'Eretteo. Presentemente si lavora a rialzare le colonne del lato settentrionale del Partenone.
Spogliata della ricchezza dei suoi doni votivi, semidistrutta nei suoi edifici maggiori, scarnita dallo scavo sino alla roccia, l'Acropoli non appare oggi che una disfatta e scheletrita immagine di quello che era ai suoi tempi gloriosi. Tanto più lo appare quando su di essa splende il purissimo cielo dell'Attica e quando le largiscono luce d'ogni intorno, con riflessi di violetto e di azzurro, i monti, le isole e il mare, cioè quando la labile bellezza creata dall'uomo è avvolta dall'eterna bellezza della natura. Ma ogni sua residua rovina non è solo documento di un'illustre storia; spesso e ancor più essa ci avverte, dal Partenone ai Propilei, dall'Eretteo al teatro, che qui il genio ateniese creò modelli per i secoli. E contemplandola, tanto maggiore ammirazione suscita questa sublime ascesa della civiltà e dell'arte quando si pensa che all'alba della preistoria la sacra roccia dell'Acropoli fu, come un qualsiasi luogo della terra, dimora materiale della più modesta vita umana.
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La bibliografia sino al 1910 è sistematicamente raccolta per monumenti in A. Mau e E. von Mercklin, Katalog d. Bibliothek d. K. deutsch. arch. Inst., Roma 1914, I, pp. 120-140.
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