Actors Studio
Laboratorio statunitense di arte drammatica, fondato a New York nel 1947. È il più noto centro di perfezionamento per attori degli Stati Uniti, e forse del mondo. Trae origine dall'esperienza del Group Theatre degli anni Trenta; ma le sue tecniche, il cosiddetto metodo, fanno riferimento, attraverso adattamenti dovuti al suo primo direttore artistico, Lee Strasberg, a quelle dell'avanguardia teatrale russa dell'inizio del Novecento. Esse hanno spesso prodotto negli allievi un tipo di recitazione caratteristico, fortemente emotivo, che dall'A. S. ha preso il nome, e che fu reso popolare negli anni Cinquanta soprattutto da attori come Marlon Brando, James Dean, Montgomery Clift, Rod Steiger e Paul Newman.
L'A. S. non è dunque una vera e propria scuola, ma appunto un laboratorio dove gli attori, mediante esercizi controllati e guidati da un supervisore, possono perfezionare le proprie capacità. Per essere ammessi occorre superare due successive prove di interpretazione, fortemente selettive, e in media vengono accettati, sulle migliaia di domande presentate, circa venti candidati ogni anno. I corsi sono gratuiti; una volta iscritti, lo si rimane per tutta la vita. I membri dello Studio sono attualmente circa novecento.
Il metodo su cui si basa l'A. S. deriva da quello del regista russo Konstantin S. Stanislavskij (1863-1938), uno dei fondatori del Moskovskij Chudožestvennyj Teatr (Teatro d'Arte di Mosca, 1898). Egli aveva iniziato una pionieristica attività di ricerca sul mestiere di attore, con l'obiettivo di dare maggiore verosimiglianza e creatività alla recitazione, e di evitare che con la ripetizione essa assumesse un carattere puramente meccanico. Ne era derivata l'elaborazione di un 'sistema', ovvero di un complesso di norme, i cui concetti di base erano mutuati da quelli formulati nel 1896 dallo psicologo francese T.-A. Ribot (1839-1916), e che venne delineandosi, nella sua prima versione, tra il 1906 e il 1909.
Secondo questa teoria, occorre abbandonare lo 'stato attorico' (aktërskoe samočuvstvie), ovvero l'atteggiamento tradizionale nel quale l'interprete, costretto a simulare sulla scena stati d'animo che non sono i suoi, deve ricorrere a trucchi e artifici esteriori, e passare allo 'stato creativo' (tvorceskoe samočuvstvie), in cui egli prova effettivamente ciò che si presume debba sentire il personaggio, come se lo 'rivivesse'. Dalla 'rappresentazione' (predstav-lenie), dunque, alla 'riviviscenza' (pereživanie). È necessario per questo spostare la propria attenzione dalla vita quotidiana a quella illusoria del palcoscenico, e far nascere dentro di sé il 'sentimento del vero' (čuvstvo pravdy), la fiducia nel 'se' (esli by), cioè nell'effettiva esistenza del mondo ipotetico dell'immaginazione. Per farlo, bisogna frazionare il processo di avvicinamento alla parte in vari 'compiti volitivi' (volevye zadači), esercizi psicologici consistenti nel ricorso alla 'memoria emotiva' (emocional′naja pamiat′), ovvero alla scelta e all'estrazione dal proprio vissuto di ricordi e sentimenti che andranno poi applicati, reinventandoli e adattandoli, al personaggio. La costruzione di quest'ultimo va poi completata mediante l'elaborazione di un suo vero e proprio diario fittizio: una sorta di sottotesto in cui l'attore deve colmare le lacune della storia scritta dal drammaturgo, riempiendole di avvenimenti, sentimenti, idee, fino al punto di potersi sostituire al testo stesso, improvvisando dialoghi plausibili e coerenti con la vicenda.
Questo insieme di regole avrebbe dovuto permettere di eliminare la distanza tra l'attore e il personaggio, dando agli spettatori l'impressione di assistere non più alla semplice imitazione del comportamento di una persona, bensì a un momento della vita reale; di risolvere inoltre il problema della ripetitività, dal momento che ogni entrata in scena doveva diventare un nuovo atto creativo, unico ed esemplare; e infine di rendere possibile anche a un attore privo di grande talento naturale di immedesimarsi nella parte e di renderla credibile agli occhi del pubblico.
La diffusione al di fuori della Russia di tali principi fu agevolata dalla lunga tournée che il Teatro d'Arte effettuò all'estero dall'agosto 1922 al settembre 1924; nell'ultima parte della tappa statunitense, inoltre, Stanislavskij scrisse su richiesta di un editore statunitense un'autobiografia, nella quale tra l'altro presentava per la prima volta al grande pubblico una descrizione, sia pure sommaria, del suo sistema. Oltre alla tournée e al libro, ebbero un ruolo importante anche quei membri della compagnia che decisero di non ritornare in Unione Sovietica. Decisiva fu in particolare l'iniziativa dell'attrice Maria Ouspenskaya (Marija Uspenskaja, 1876-1949), cui si unì un ex attore del Teatro d'Arte (dal 1905 al 1914), il regista polacco Richard Boleslawsky (Ryszard Bolesławski, 1889-1937), immigrato due anni prima: essi crearono a New York una scuola di recitazione, l'American Laboratory Theatre, in cui svolsero un'attiva opera di divulgazione delle teorie del loro maestro. Ne furono allievi nel 1924 l'aiuto regista Lee Strasberg (1901-1982), che aveva assistito agli spettacoli del Teatro d'Arte e ne era rimasto impressionato, e nel 1926 l'attrice Stella Adler (1902-1992). Nel 1924 Strasberg entrò a far parte della Theatre Guild (fondata nel 1918), la più importante organizzazione teatrale americana, presso la quale collaborò dal 1926 con la direttrice di scena Cheryl Crawford (1902-1986) e poi dal 1929 con l'aiuto regista Harold E. Clurman (1901-1980). Nel 1931 i tre decisero di creare, insieme ad altri colleghi della Guild, una compagnia indipendente, il Group Theatre, cui furono in seguito associati la Adler, Robert Lewis (1909-1997), Sanford Meisner (1905-1997) ed Elia Kazan, attori e poi registi, e Clifford Odets (1906-1963), attore e poi commediografo; molti dei suoi membri divennero successivamente famosi nel mondo del cinema, come attori (John Garfield, Frances Farmer, Lee J. Cobb, Franchot Tone) o come registi (oltre a Kazan, Sidney Lumet, Martin Ritt, Joshua Logan, Daniel Mann).
Il Group rappresentò per le sue caratteristiche un caso unico nella storia dello spettacolo degli Stati Uniti: condusse fin dall'inizio una coerente politica di programmazione delle rappresentazioni e di sostegno agli autori debuttanti; fu fondato su una visione organica del teatro come strumento di educazione civile e culturale del pubblico, e sui principi del lavoro collettivo e del rifiuto del divismo (gli attori si alternavano nelle varie parti, e quando era necessario accettavano riduzioni della paga); fu soprattutto la prima compagnia ad assumere esplicitamente come base della propria attività le teorie di Stanislavskij. Con quest'ultimo vi furono anche vari incontri: della Adler a Parigi nel 1934, di Strasberg a Mosca nello stesso anno, e infine di Clurman e della Crawford di nuovo a Mosca nel 1935. Tali contatti costrinsero tuttavia i dirigenti del Group a rendersi conto che si era andato creando un forte divario tra la loro impostazione e quella del maestro russo, che aveva ormai elaborato una seconda e ben diversa versione del suo sistema. Nel lavoro pratico svolto in teatro dopo il ritorno in patria, Stanislavskij aveva infatti finito per accorgersi che, nell'applicazione concreta, il suo sistema portava spesso a risultati paradossali, opposti a quelli inizialmente ricercati: il ricorso ai propri ricordi conduceva l'attore a immergersi nella sua vita interiore piuttosto che a interpretare un personaggio, e lo portava a uno stato di trance che lo isolava dal mondo esterno e dava al pubblico l'impressione di un atteggiamento calcolato e artificioso anziché creativo, di un'esperienza che della verità aveva solo l'apparenza. In alcuni casi, poi, l'evocazione dei fantasmi personali sfuggiva al controllo, provocando disturbi psicologici e una recitazione esagitata. Per risolvere queste contraddizioni, Stanislavskij fece ricorso alla teoria dei riflessi condizionati, formulata dal fisiologo russo I.P. Pavlov (1849-1936), con il quale iniziò a partire dal 1930 un'attiva collaborazione. Convinto ormai dello stretto legame esistente tra l'esperienza psichica (vista come contenuto) e le sue manifestazioni esteriori (la forma), abbandonò la tecnica della memoria emotiva per quella delle 'azioni fisiche' (fizičeskie dejstvija): l'interprete doveva innanzitutto agire come avrebbe fatto il personaggio, e le reazioni psicologiche desiderate (i sentimenti e le emozioni) ne sarebbero derivate di conseguenza, appunto per riflesso condizionato. Le discrepanze ormai evidenti convinsero Strasberg a usare da allora in poi per il suo lavoro il termine metodo anziché sistema; egli rimase comunque sempre piuttosto vago sulle differenze tra i due termini, e sull'effettivo rapporto esistente tra le proprie tecniche e le successive versioni di quelle di Stanislavskij. Il Group Theatre conobbe il suo momento più creativo tra il 1935 e il 1937, quando furono messi in scena con grande successo i principali drammi di Odets. Ma permanevano al suo interno profonde differenze di opinione sull'indirizzo artistico, politico e organizzativo (soprattutto tra Strasberg da una parte e Clurman, Lewis e la Adler dall'altra); non si riuscivano inoltre a risolvere i problemi materiali e finanziari: non fu mai possibile ottenere un teatro stabile, e i fondi, provenienti interamente da sottoscrittori privati, dovevano essere cercati di nuovo a ogni inizio di stagione. Strasberg e la Crawford lasciarono il gruppo nel 1937, e altri membri nel 1939; nel 1941 la compagnia si sciolse.
Nonostante il fallimento di questa esperienza, era stato però dimostrato che il sistema di Stanislavskij era applicabile al contesto americano; la stessa diaspora dei membri del Group (in altre compagnie o a Hollywood) contribuì a diffonderne le tematiche. Un'ulteriore spinta in questo senso fu data nel 1936 dalla pubblicazione negli Stati Uniti del primo vero saggio teorico di Stanislavskij sul lavoro dell'attore. Importante fu anche il ruolo di Michael Chekhov (Michail A. Čechov, 1891-1955), nipote del drammaturgo, che era stato tra il 1910 e il 1927 uno dei maggiori attori e registi del Teatro d'Arte. Dopo un primo soggiorno negli Stati Uniti nel 1935, vi si stabilì definitivamente quattro anni dopo, creando con il suo Chekhov Theatre Studio (1939-1942, prima a Ridgefield nel Connecticut e poi a New York) una scuola incentrata su una versione personale del 'sistema', detta mimesi psicologica, nella quale l'attore non si limitava più a immedesimarsi nel personaggio, ma ne era una vera e propria reincarnazione, una evocazione amnesica di sé stesso.Trasferitosi Chekhov a Hollywood nel 1944, non rimaneva più nessuna struttura permanente che diffondesse le dottrine di Stanislavskij. Nel 1947 la Crawford, Kazan e Lewis decisero quindi che era necessario crearne una, e fondarono (con il concorso della Adler) l'Actors Studio. Lewis assunse la direzione dei corsi avanzati e Kazan di quelli per principianti, mentre fin dalla fine dello stesso anno Strasberg fu chiamato a fornire una collaborazione saltuaria. I contrasti sorti negli anni Trenta si ripresentarono molto presto; dopo un anno Lewis abbandonò l'incarico di direttore (si sarebbe dimesso definitivamente dallo Studio nel 1951), e fu sostituito da due ex membri del Group, Meisner e Mann. Ma sia loro sia Kazan e la Crawford erano prevalentemente occupati in altre attività: occorreva qualcuno che si dedicasse esclusivamente a seguire la preparazione degli attori. Nel 1949 Strasberg divenne quindi insegnante unico, e nel 1951 direttore artistico, ovvero capo effettivo, mentre Kazan era nominato presidente (lo rimase fino al 1962) e la Crawford vicepresidente. Nonostante l'esplicito richiamo all'esperienza del Group Theatre, di essa venne in realtà conservato solo l'aspetto tecnico, mentre vennero abbandonati l'impegno politico e culturale, la funzione preminente dell'autore e (almeno nel primo quindicennio di vita) l'attività di produzione teatrale: tutta l'attenzione fu incentrata sulla personalità e il lavoro dell'attore. Riguardo alle tecniche, Strasberg non solo ripropose la prima versione del sistema di Stanislavskij, ma sotto l'influenza della psicoanalisi (che nei dieci anni precedenti si era notevolmente diffusa negli Stati Uniti), e per alcuni aspetti anche delle teorie di M. Chekhov, ne accentuò sensibilmente due elementi, l'immedesimazione nel personaggio (il magic if, derivato dall'esli by del regista russo) e la memoria emotiva (da lui chiamata affective memory), insistendo sulla necessità che, nella ricerca dei ricordi personali indispensabili per la costruzione della parte, si andasse sempre più in profondità dentro sé stessi, fino al subconscio.
Fu quest'ultimo l'aspetto più controverso dell'impostazione di Strasberg. Molti, tra cui alcuni suoi ex collaboratori, come la Adler, Lewis, Clurman e Meisner, condivisero l'autocritica di Stanislavskij degli anni Trenta, rilevando come spesso l'attore non riuscisse a controllare il meccanismo così messo in moto, e non si limitasse a rievocare un evento della sua vita, rivivendolo invece di nuovo, con effetti che potevano diventare dannosi nei soggetti emotivamente più fragili. Che il rischio fosse reale sembrano dimostrarlo casi come quello di Marilyn Monroe; senza parlare, sostenevano questi critici, dei numerosi giovani attori la cui psiche non aveva retto all'impatto con tali metodi. Anche nei casi migliori, inoltre, la recitazione tendeva ad assumere un carattere estremamente concitato, che forniva prove convincenti solo nei drammi decisamente realistici e nei personaggi marcatamente nevrotici. Infine, l'accento messo sull'utilizzazione del 'diario del personaggio' andava a scapito della funzione centrale del testo e quindi dell'autore; non è un caso che il 'metodo', nato per gli attori di teatro, abbia in realtà dato i risultati più probanti nel cinema.
L'A. S. riempiva comunque un vuoto reale e rispondeva in qualche misura a esigenze profondamente sentite: ebbe quindi uno straordinario successo e già nel 1950 i candidati all'ammissione avevano raggiunto i duemila all'anno. Il massimo del prestigio venne raggiunto negli anni Cinquanta con un gruppo di giovani allievi, attori quasi debuttanti le cui interpretazioni nei loro primi film importanti impressionarono il pubblico e la critica per l'assoluta novità sia dello stile di recitazione, intenso e sofferto, sia del carattere dei personaggi, tormentato e nevrotico. Essi divennero il simbolo stesso del 'metodo': in primo luogo Marlon Brando in A streetcar named desire (1951; Un tram che si chiama desiderio) e On the waterfront (1954; Fronte del porto) di Kazan, e in The wild one (1953; Il selvaggio) di Lazlo Benedek; e James Dean in East of Eden (1955; La valle dell'Eden) di Kazan, Rebel without a cause (1955; Gioventù bruciata) di Nicholas Ray, Giant (1956; Il gigante) di George Stevens. A essi si affiancarono Montgomery Clift in A place in the sun (1951; Un posto al sole) di Stevens, e From here to eternity (1953; Da qui all'eternità) di Fred Zinnemann; Rod Steiger in On the waterfront, in The big knife (1955; Il grande coltello) di Robert Aldrich, e in The harder they fall (1956; Il colosso di argilla) di Mark Robson; e subito dopo Paul Newman in Somebody up there likes me (1956; Lassù qualcuno mi ama) di Robert Wise, The left-handed gun (1958; Furia selvaggia) di Arthur Penn, Cat on a hot tin roof (1958; La gatta sul tetto che scotta) di Richard Brooks. Ma nel novero degli allievi dello Studio che iniziarono a lavorare in quel periodo vi sono molti altri nomi di rilievo: Jack Palance, Geraldine Page, Patricia Neal, Anne Bancroft, Jeffrey Hunter, Carrol Baker, Joanne Woodward, Eli Wallach, Walter Matthau, Cliff Robertson, Dennis Hopper, Eve Marie Saint, Ben Gazzara, Lee Remick, Steve McQueen, Martin Landau, Maureen Stapleton, Jack Nicholson. La fama raggiunta in quegli anni dall'A. S. fu tale che si iscrissero ai suoi corsi persino attori già affermati, il cui debutto risaliva all'inizio degli anni Quaranta, come Shelley Winters, Anthony Quinn, Karl Malden, Kim Hunter.
A partire dagli anni Sessanta il ruolo egemonico dello Studio fu ridimensionato dalla nascita di altri centri ispirati a diverse varianti delle teorie di Stanislavskij. Anche i suoi limiti apparvero sempre più evidenti (persino ad alcuni suoi ex allievi come Marlon Brando), in particolare dopo il fallimento dell'unico tentativo concreto da parte di Strasberg di applicare le sue teorie alla produzione teatrale, con alcuni spettacoli da lui diretti nel periodo 1962-1965 che furono un totale insuccesso. Non è un caso che negli anni Sessanta l'elenco degli allievi comprenda ben pochi nomi famosi: Robert Duvall, Ellen Burstyn, Jane Fonda, Gene Hackman. L'ultima generazione di attori importanti a essere stata formata dall'A. S. è stata quella che ha debuttato all'inizio degli anni Settanta, e che è sembrata riproporre uno stile di recitazione per alcuni aspetti simile a quello della prima. Tra i nomi di maggior rilievo: Robert De Niro, Al Pacino, Dustin Hoffman, Harvey Keitel, Christopher Walken, cui si sono aggiunti alla fine del decennio Meryl Streep e Robin Williams. Dopo la morte di Strasberg nel 1982, gli sono succeduti come direttori artistici Al Pacino ed Ellen Burstyn, sostituiti nel 1988 da Frank Corsaro e nel 1998 da Estelle Parsons. Il periodo di presidenza di Arthur Penn (1995-2000) ha visto una forte innovazione e diversificazione nelle attività dello Studio. Per la prima volta dagli anni Sessanta è stata ripresa la produzione di spettacoli, con la creazione di una struttura permanente, l'Actors Studio Free Theatre. Inoltre è stata avviata con un'università di New York, la New School for Social Research, una collaborazione per una serie di lezioni pubbliche tenute da membri dell'A. S.; esse si sono trasformate successivamente in programmi televisivi, condotti da James Lipton, dal titolo Inside the Actors Studio, che sono stati trasmessi con successo da numerose reti televisive in diversi Paesi, segnando un notevole rilancio della popolarità dell'A. S. presso il grande pubblico.Nonostante le numerose critiche cui sono stati sottoposti i suoi metodi, rimane in ogni caso indubitabile la forte influenza che lo Studio ha esercitato sul cinema statunitense: per averne rinnovato profondamente lo stile di recitazione, per aver dato dignità e coscienza di sé alla categoria degli attori, per aver formato tre generazioni di interpreti divenuti poi celebri. Secondo una ricerca del 1976, nei primi trent'anni della sua esistenza i suoi allievi hanno ricevuto 24 Oscar e 108 nominations; secondo un altro calcolo fatto nel 2001, hanno vinto oltre 150 edizioni dei tre massimi premi americani per il cinema, il teatro e la televisione (Oscar, Tony ed Emmy).
T.-A. Ribot, La psychologie des sentiments, Paris 1896.
K. Stanislavsky, My life in art, Boston 1924 (ed. russa rivista e accresciuta, Moja žizn′ v iskusstve, Moskva 1926; trad. it. Torino 1963).
R. Boleslawsky, Acting: the first six lessons, New York 1933.
K. Stanislavsky, An actor prepares, New York 1936 (ed. russa, Rabota aktëra nad soboj, Moskva 1938; trad. it. Il lavoro dell'attore, 2 voll., Bari 1955).
H. Clurman, The fervent years: the story of the Group theatre and the thirties, New York 1945.
M. Chekhov, To the actor. On the technique of acting, New York 1953.
R. Lewis, Method ‒ or madness?, New York 1958.
F.M. De Sanctis, Origini e influenze dell'Actors' Studio, in "Bianco e nero", marzo-aprile 1960.
Strasberg at the Actors Studio: tape-recorded sessions, ed. R.H. Hethmon, New York 1965.
E.D. Easty, On method acting, New York 1966.
M. Ciment, L'Actors' Studio, in Kazan par Kazan, éd. M. Ciment, Paris 1973.
D. Garfield, A player's place: the story of the Actors Studio, New York 1980.
C.H. Heller, Lee Strasberg, the imperfect genius of the Actors Studio, Garden City (NY) 1980.
F. Hirsch, A method to their madness: the history of the Actors Studio, New York 1984.
S.L. Hull, Strasberg's method as taught by Lorrie Hull, Woodbridge (CT) 1985.
M. Gordon, The Stanislavsky technique, New York 1987 (trad. it. Venezia 1992).
S. Meisner, D. Longwell, Sanford Meisner on acting, New York 1987.
L. Strasberg, A dream of passion: the development of the method, Boston 1987 (trad. it. Milano 1990).
S. Adler, The technique of acting, Toronto-New York 1988.
W. Smith, Real life drama: the Group Theatre and America, 1931-1940, New York 1990.
S. Frome, The Actors Studio: a history, Jefferson (NC) 2001.